l’Unità 8.6.11
Referendum. La Corte Costituzionale respinge il ricorso dell’Avvocatura di Stato
Decisione in un’ora Secondo i giudici il governo non ha abbandonato l’opzione nucleare
«Quesito chiaro e univoco»
La Consulta manda tutti al voto
Dopo neppure un’ora di camera di consiglio l’Alta Corte consegna l’atteso verdetto: sì al referendum sul nucleare. Sotto il palazzo esultano i comitati referendari. Il professor Pace: «Doveva essere solo una formalità».
di Claudia Fusani
Ha avuto ragione il neo eletto presidente Alfonso Quaranta: non si può fermare il referendum. E ieri mattina, alla sua prima camera di consiglio da presidente, la fumata bianca è arrivata dopo nemmeno due ore: il quesito referendario sul nucleare, così come è stato riformulato dalla Commissione centrale della Cassazione è ammesso alla consultazione popolare del 12 e 13 giugno.
Andiamo quindi a votare. Può sembrare retorico dover sottolineare questo concetto. Ma mai fa bene ripetere e pesare le parole come questa volta che lo scippo del voto è stato dietro l’angolo. Domenica e lunedì quindi andremo a votare per quattro quesiti: due relativi alla privatizzazione dei servizi idrici, uno sul nucleare e il quarto sul legittimo impedimento. Dovremo dire sì o no al progetto sulle centrali nucleari, anche se congelato dal governo per un anno; sì o no al progetto di privatizzare i servizi idrici (due quesiti); sì o no allo scudo giudiziario per il premier e i ministri.
La Corte Costituzionale ha ammesso il quesito sul nucleare perchè «con chiarezza e univocità mira alla cancellazione di quanto prevede in materia di energia nucleare la norma inserita nella legge derivata dalla conversione dal cosiddetto decreto omnibus». Il quesito riproposto dai promotori dopo l'approvazione della legge, ha si legge ancora nel dispositivo della sentenza «una matrice razionalmente unitaria e possiede i necesssari requisiti di chiarezza, omogeneità e univocità» richiesti dalla legge come unico presupposto per il via libera finale dopo i passaggi e le verifiche avvenute nel lungo cammino dell’ammissione di un quesito referendario. La Consulta spiega anche che «le disposizioni di cui si propone l'abrogazione risultano infatti unite dalla medesima finalità»: quella cioè di essere «strumentali a consentire, sia pure all'esito di ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare e tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore, di adottare una strategia energetica nazionale che non escluda espressamente l'utilizzazione di energia nucleare. E tutto ciò è in contraddizione con l'intento perseguito dall'originaria richiesta referendaria».
Il quesito esaminato, prosegue l'Alta corte, mira a realizzare una eliminazione della nuova disciplina «per non consentire l'inclusione dell' energia nucleare fra le forme di produzione energetica». Per questi motivi, conclude la sentenza, «la Corte dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare». Per dirla con parole più semplici, il governo con le sue leggi ha cercato solo di buttare un po’ di fumo negli occhi per prendere tempo e non ha affatto cancellato il piano energetico comprensivo di nucleare che invece i cittadini, in modo chiaro e univoco, vogliono cancellare proponendo il quesito. Mancano dieci minuti alle tredici quando esce la motivazione della Corte. Davanti al palazzo della Consulta fin dalla mattina sono riuniti i manifestanti e i comitati promotori. Bandiere gialle con scritto no al nucleare. Bandiere azzurre per dire che l’acqua è un bene di tutti, non è una merce e non può essere gestita con logiche di mercato. I tredici giudici stanno riuniti in camera di consiglio al secondo piano del palazzo, con una delle viste più belle di Roma, poco più di un’ora. Alle 9 e 30 avevano parlato prima i legali dell’avvocatura dello Stato che hanno insistito sul fatto che «il quesito era del tutto difforme rispetto a quello in base al quale sono state raccolte le sottoscrizioni necessarie allo svolgimento del referendum».
Poi hanno preso la parola i legali dei Comitati, il professor Alessandro Pace per Idv e Comitati, Gianluigi Pellegrino per il Pd che invece hanno insistito sulla assoluta coerenza e chiarezza del nuovo quesito. Hanno parlato un’ora in tutto. Le ragioni di ognuna delle parti erano già note agli alti giudici. La brevità della camera di consiglio ne è stata la prova.
Di Pietro, che con l’Idv, in perfetta solitudine e ignorato dai media l’anno scorso ha raccolto due milioni di firme, parla «lezione giuridica e di civiltà» da parte della Corte. «Ci auguriamo che il governo la smetta di frapporre bastoni tra le ruote del referendum sul nucleare. Lasciamo che siano i cittadini a decidere». Stella Bianchi, responsabile ambiente del Pd, accusa il governo di «averle provate tutte pur di sfuggire ai referendum. Ma ora il tempo dei trucchi è finito». Ora, appunto, si va a votare.
Repubblica 8.6.11
La forza dell’emozione
di Barbara Spinelli
Improvvisamente, come se per quasi vent´anni non avesse costruito il proprio potere sulla concitazione degli animi, Berlusconi invita alla calma, sul nucleare. È il perno della campagna contro i referendum: non si può decidere, «sull´onda dell´emozione» causata da Fukushima, con il necessario distacco. Lo spavento, ripetono i suoi ministri, «impedisce ogni discussione serena».
La parola chiave è serenità: serve a svilire alle radici il voto del 12-13 giugno. È serenamente che Berlusconi proclama, proprio mentre Germania e Svizzera annunciano la chiusura progressiva delle loro centrali: «Il nucleare è il futuro per tutto il mondo». È una delle sue tante contro-verità: la Germania cominciò a investire sulle energie alternative fin da Chernobyl, e il piano adottato il 6 giugno non si limita a programmare la chiusura di tutti gli impianti entro il 2022: la parte delle rinnovabili, di qui al 2020, passerà dal 17 per cento al 38, per raggiungere l´80 nel 2050. È emotività? Panico? Non sembra. È il calcolo razionale, freddo, di chi apprende dai disastri e non li nasconde né a sé né ai cittadini. È una presa di coscienza completamente assente nel governo italiano, aggrappato all´ipocrita nuovo dogma: «Non si può far politica con l´emozione».
Si può invece, e l´esempio tedesco mostra che si deve. La politica è una pasta il cui lievito è l´emozione che persevera, non c´è svolta storica che non sia stata originata e nutrita da passioni tenaci, trasformatrici. L´emozione può iniettare nel cuore fatalismo ma può anche rimettere in moto quello che è immobile, aprire gli occhi quando hanno voglia di chiudersi, e tanto più disturba tanto più scuote, sveglia. Le catastrofi (naturali o fabbricate) hanno quest´effetto spaesante. D´altronde lo sconquasso giapponese non è il primo. C´è stato quello di Three Mile Island nel 1979; poi di Chernobyl nell´86. Berlusconi salta tre decenni, e censura il punto critico che è stato Fukushima, quando afferma che tutto il pianeta prosegue tranquillo la sua navigazione nucleare.
La serenità presentata d´un tratto come via aurea non ha nulla a vedere con le virtù della calma politica: con la paziente rettifica di errori, con la saggezza dell´imperturbabilità. È un invito al torpore, alla non conoscenza dei fatti, alla non vigilanza su presente e futuro. Sembra una rottura di continuità nell´arte comunicativa del premier ma ne è il prolungamento. Ancora una volta gioca con passioni oscure: con la tendenza viziosa degli umani a procrastinare, a nutrire rancore verso chi fa domande scomode, a non farsi carico di difficili correzioni concernenti l´energia, gli stili di vita, la terra che lasceremo alle prossime generazioni. L´emozione accesa da Fukushima obbliga a guardare in faccia i rischi, a studiarli. Lo stesso obbligo è racchiuso nel referendum sulla gestione privata dell´acqua, e in quello sulla legge non eguale per tutti. Di Pietro ha ragione: mettere sui referendum il cappello di destra o sinistra è un insulto agli elettori, chiamati a compiere scelte che dureranno ben più di una legislatura. È sminuire la forza che può avere l´emozione, quando non finisce in passività e rinuncia.
Anche lo spavento - la più intensa forse tra le emozioni - ha questa ambivalenza. Può schiacciare ma anche sollevare, rendere visibile quel che viene tenuto invisibile. La responsabilità per il futuro, su cui ha lungamente meditato il filosofo Hans Jonas, è imperniata sulle virtù costruttive - proprio perché perturbanti - che può avere la paura. Di fronte al clima degradato e al rapporto perverso che si crea fra le crescenti capacità tecnologiche dell´uomo e il potere, lo spavento è sentinella benefica: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità non intendiamo la paura che dissuade dall´azione, ma quella che esorta a compierla».
Temere i pericoli significa pensare l´azione come anello di una catena di conseguenze: vicine e lontane, per il nucleare, l´acqua e anche la legge. Per paura ci nascondiamo, ma per paura si cerca anche la via d´uscita. Un affastellarsi di emozioni generò nel ´700 i Lumi, che sono essenzialmente riscoperta del pensiero critico, rifiuto della piatta calma dei dogmi. Per Kant, illuminismo e modernità nascono con un atto di inaudito coraggio: Sapere aude! osa sapere! La filosofia comincia con la meraviglia e il dubbio, secondo Aristotele, perché chi prova queste emozioni riconosce di non sapere e, invece di gettare la spugna, osa.
La modernità, non come epoca ma come atteggiamento, è questo continuo osare, dunque farsi coraggio nel mezzo d´una paura. È ancora Jonas a parlare: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità, altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, perché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici».
La paura non è l´unica emozione trasformatrice. La malinconia possiede analoga energia, e anche lo sdegno per l´ingiustizia, il dolore per chi perisce nella violenza. Claudio Magris ha descritto con parole vere l´indifferenza con cui releghiamo negli scantinati della coscienza i cadaveri finiti a migliaia nel mare di Sicilia (Corriere della sera, 4-6-11). Sono parole vere perché disvelano quel che si cela nella tanto incensata serenità: l´assuefazione, la stanca abitudine, «l´incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Tuttavia in quei gorghi bisogna discendere, quei morti non vanno solo onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta.
Berlusconi ironizza spesso sulla tristezza. Sostiene che le sinistre ne sono irrimediabilmente afflitte, e paralizzate. Non sa che Ercole, il più forte, è archetipo della malinconia. In uno dei suoi racconti (Disordine e dolore precoce) Thomas Mann si spinge oltre, scrivendo a proposito della giustizia: «Non è ardore giovanile e decisione energica e impetuosa: giustizia è malinconia».
Emozionarsi è salare la vita e la politica, toglier loro l´insipido. Evocando i naufraghi dimenticati, Magris si ribella e scrive: «Il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più. A differenza di Cristo, non possiamo soffrire per tutti». Non siamo Cristo, ma possiamo avere un orientamento che ricorda le sue virtù, le sue indignazioni, il suo pathos. Herman Melville dice: Gesù vive secondo i tempi del cielo, per noi impraticabili; noi siamo orologi mentre lui è cronometro, costantemente orientato sul grande meridiano di Greenwich. Ricordare il cronometro significa avere a cuore i morti con spavento, perché spaventandoci cercheremo vie nuove. Nella Bibbia come nel Corano il cuore è sede della mente che ragiona.
È vero, per agire dobbiamo evitare che i disastri ci travolgano. Ma non è detto che la soluzione sia ignorarli, non commuoversi più. Il 15 aprile scorso, a Gaza, un giornalista e cooperante italiano, Vittorio Arrigoni, è stato strangolato (da estremisti salafiti, è stato detto). L´omicidio fu condannato dall´Onu, da Napolitano, dal governo. Ma alle sue esequie, il 24 aprile a Bulciago, non c´era un solo rappresentante dello Stato, generalmente così zelante nei funerali. L´unica corona di fiori fu inviata dal Manifesto. Piangere l´assassinio di Arrigoni era politicamente scorretto, non sereno. Ma onorare i morti è passione nobile; come la paura, la malinconia e non per ultima la vergogna: l´emozione sociale e trasformatrice per eccellenza. Lo riscopriamo alla vigilia dei referendum, ma lo sappiamo da quando Zeus, nell'Agamennone di Eschilo, indica la strada d´equilibrio: «Patire, è capire».
AgenParl 7.6.11
Bonino: «Finalmente si vota!»
«La notizia è che finalmente si vota, che tutto è stato un sussulto e un accanimento del Governo che ha fatto una gran confusione. Alla fine in zona cesarini si è deciso che si vota. Il nucleare non serve a questo paese e altro si deve e si può fare per i bisogni energetici. Adesso il problema è avere il quorum, che è importante di per sè perchè significa riappropriarsi di uno strumento referendario che in tanti anni molti volevano distruggere». Lo ha dichiarato Emma Bonino (Radicali del Pd), vicepresidente del Senato, parlando del referendum del prossimo 12 e 13 giugno.
In video qui
http://www.agenparl.it/articoli/videos/primo-piano/20110607-referendum-bonino-radicali-finalmente-si-vota
l’Unità 8.6.11
Un rebus tutto di sinistra: ritrovare i legami perduti
Le ideologie moderate e conservatrici hanno portato gli individui in una
condizione di solitudine: una moderna forza democratica dovrebbe
riconoscere e costruire i nuovi legami politici e sociali
di Michele Ciliberto
Cultura politica. Nell’800 e nel’900 si parlava di masse e di classi. E oggi?
Quali sono i legami democratici che uniscono gli individui del 2000: l’Europa, l’ambiente, i nuovi lavori?
C’è molta euforia oggi nel campo del centro sinistra, ed è comprensibile
e positivo dopo tante dure sconfitte. A patto però di saperla gestire
perché il passaggio al quale è arrivato il nostro Paese è estremamente
delicato: l’intero sistema politico è entrato in profonda fibrillazione,
né è facile capire quali sviluppi avrà questa crisi e quali ne potranno
essere gli esiti. Quello che mi pare necessario, soprattutto oggi, è
avere uno sguardo lungo sia sul piano politico che sul piano della
cultura politica. E a questo proposito considero utile soffermarsi su un
punto che a me pare centrale e che per chiarezza chiamerò “il problema
dei legami”.
Se infatti il carattere proprio della “democrazia dispotica” è quello di
rompere i “legami” fra gli individui precipitandoli in una condizione
di reciproca solitudine, compito di una cultura democratica è quello di
ricostituirli ad ogni livello. Dei “legami” e di ciò che essi
significano insisto su questo punto occorre dunque fare il pilastro di
una democrazia moderna, contrastando frontalmente le ideologie moderate e
conservatrici. Ma i legami che bisogna costituire oggi devono essere
diversi da quelli del passato. Occorre anzitutto partire dagli
individui; e su questa base costruire legami che siano capaci di
mantenere vive ed operanti le differenze individuali e se necessario
anche il conflitto. I legami, infatti, possono essere declinati sia in
chiave democratica che in termini autoritari e anche dispotici. Un
esempio: l’idea di nazione può essere declinata in termini di “piccole
patrie”, chiuse in se stesse come monadi (e qui basta pensare alle
politiche della Lega), oppure e questo è il compito proprio di una nuova
cultura democratica interpretando in modi nuovi il rapporto fra nazione
e territorio, ponendo al centro un nuovo concetto di cittadinanza, in
grado di aprire la nazione a nuovi popoli, nella prospettiva di un nuovo
concetto anche dell’Europa.
Bisogna saperlo: la democrazia vive di differenze e anche di conflitto.
Senza conflitto non ci sono né libertà né democrazia, se è vero come è
vero, che la crisi della democrazia la sua patologia consiste proprio
nel quietismo, nella indifferenza, nella staticità. I “legami” di cui si
avverte oggi l’esigenza, e che occorre costituire, non sono quelli
otto-novecenteschi, tipici anche del movimento operaio: la “massa”, la
“classe”, insomma le vecchie identità sociali e collettive. Il conflitto
fra capitale e lavoro ha cambiato forma, globalizzandosi; si è esaurita
la vecchia ideologia del “progresso” che era stata una bandiera della
classe operaia; si sono consumate le tradizionali forme di
rappresentanza politica e sindacale; sono cambiati anche i rapporti con
il mondo, con la vita: gli “individui” non sono più disposti a
sciogliersi nella “massa”, nella “classe”, come nel XX secolo. Essi sono
estranei oggi a queste vecchie forme di legami: come dice in una bella
pagina Adam Zagajewski, «le epoche muoiono più delle persone, e non ne
resta nulla». Quelli che bisogna dunque costruire sono legami in grado
di coinvolgere la dimensione della generalità, ma in termini nuovi. Sono
i legami che possono sorgere dalla comune consapevolezza dei limiti
delle risorse naturali; dalla comune assunzione della centralità del
rapporto, oggi, fra nativi e immigrati, per il futuro dell’Europa e
tendenzialmente del mondo; dalla comune coscienza della necessità di
nuove forme di esperienza sociale e di lavoro; dalla comune persuasione
dell’esaurimento delle vecchie forme di rappresentanza politica e
soprattutto sindacale; da un comune impegno intorno al destino
dell’Europa, mentre sono venuti meno i vecchi modelli identitari e
antropologici ed è diventato indispensabile, specie per una forza
riformatrice, individuare nuove rotte ideali, culturali, politiche lungo
le quali incamminarsi. Sono legami che devono coinvolgere anche i
problemi del genere (della Gattung avrebbe detto il giovane Marx); del
rapporto individuale con la vita e con la morte; delle nuove frontiere e
metamorfosi del corpo dischiuse dalle moderne tecnologie; della
relazione con la natura.
È su questo terreno che è possibile stabilire campi di confronto anche
con le religioni, tutte le religioni, imperniati sul reciproco
riconoscimento dell’ “altro” e dei suoi valori, anche di quelli della
cultura laica. È sbagliato infatti identificare “storico” e “relativo”:
dalla storia salgono e si affermano legami che tendono anch’essi alla
universalità, e che come tali sono stati vissuti, e continuano ad essere
vissuti, da coloro che si battono per essi e vi si riconoscono. In una
parola, quello cui bisogna lavorare sono nuovi “legami democratici”. Un
punto però deve essere chiaro: pensare di costruire nuovi legami
ignorando il piano dei rapporti materiali sarebbe insensato: come
sapevano già i classici (a cominciare da Hegel) è il lavoro la struttura
costituiva dell’uomo, la condizione originaria sia della sua libertà
che in generale della democrazia. Oggi come ieri, il lavoro è il centro
archimedeo di ogni legame democratico.
l’Unità 8.6.11
Bersani, «la legge elettorale» per convincere Casini e Lega
Il leader del Pd convoca il cosiddetto «caminetto», in cui sono rappresentate le diverse anime del partito, per discutere di legge elettorale: in caso di un dibattito in Parlamento l’obiettivo è di parlare con «una voce sola».
di Simone Collini
Attacca il Carroccio («fa accattonaggio politico») ed è scettico sul voto: «Temo si arrivi al 2013»
Ma rilancia il modello ungherese seggi misti proporzionali e maggioritari, e doppio turno
L’intesa tra tutte le forze di opposizione, su una sorta di modello ungherese rivisto e corretto, era a un passo alla fine novembre, cioè nel momento di (apparente) maggiore debolezza di Berlusconi e alla vigilia del voto di fiducia di metà dicembre. Ma poi la «compravendita» in Parlamento denunciata dall’opposizione ha fatto finire la bozza di nuova legge elettorale in fondo al cassetto. Ora che la maggioranza è uscita malconcia dalle amministrative e che al referendum «si vince facile», per dirla con Bersani, viene ritirata fuori. Il leader del Pd ha convocato per domattina al Nazareno il cosiddetto «caminetto», l’organismo ristretto di cui fanno parte big e rappresentanti delle diverse anime interne, per discutere proprio di legge elettorale. Argomento solo apparentemente di non stretta attualità.
L’obiettivo, viene spiegato nell’entourage di Bersani, è farsi trovare pronti nel caso si apra in Parlamento un confronto su questo tema, presentarsi alle discussione «con una voce sola». Ma qualche deputato Pd racconta che ci sarebbe qualcosa di più. Ci sarebbero stati cioè non solo due veloci colloqui negli ultimi dieci giorni tra Bersani e Maroni, ma anche delle discussioni più approfondite con esponenti della Lega. E gli esponenti del Carroccio avrebbero fatto agli interlocutori democrats un ragionamento di questo tipo: siamo interessati a cambiare la legge elettorale, ma per ovvie ragioni non possiamo essere noi a prendere l’iniziativa.
Se venisse alla luce in Parlamento una maggioranza alternativa a quella di governo per superare il «porcellum», si potrebbe aprire la strada della crisi. E l’interesse mostrato dai leghisti a superare la loro stessa legge “porcata”, ora che l’asse col Pdl si è dimostrato perdente, consente di tornare al pre-14 dicembre da un punto di maggior forza.
Pur con tutto le scetticismo possibile («non credo si voterà prima del 2013, e le richieste della Lega mi sembrano solo accattonaggio politico»), agli altri dirigenti del Pd Bersani domani spiegherà che per trovare una convergenza più ampia possibile si può ripartire da una bozza a cui avevano lavorato Violante e Bressa insieme al finiano Bocchino e al centrista D’Alia. Una sorta di modello ungherese, che prevede il doppio turno e una quota di seggi (poco più della metà) assegnata in collegi uninominali e una quota assegnata col proporzionale ai partiti che avessero superato la soglia di sbarramento (attorno al 5%). Si tratta di un modello che consentirebbe a Bersani di incassare il consenso anche della minoranza e di aprire poi un dialogo con Terzo polo («i loro elettori non hanno percepito barriere») e anche con la Lega. Il mantenimento del bipolarismo infatti, tasto su cui insistono Veltroni e anche il leader dell’Idv Di Pietro e quello di Sel Vendola (al quale Bersani dice che «bisogna fare dei passi avanti nel rapporto tra la narrazione e l’esigibilità di un’intesa»), sarebbe garantito dalla scelta del candidato premier. Che però, opzione che va incontro alle richieste dell’Udc e può tentare anche il Carroccio, sarebbe scelto soltanto al secondo turno, dopo che è già stata definita la quota maggioritaria di deputati. Sarebbe la legge che cerca Bersani, quella che può «mettere in condizione i cittadini di scegliere i loro parlamentari e di votare per una maggioranza visibile, per un governo che on soffra di ribaltoni». E che col secondo turno, per dirla con D’Alema, favorirebbe «una fusione a caldo, mentre col turno unico la fusione è a freddo, da costruire prima».
Repubblica 8.6.11
Il leader pd: “Vendola..., la narrazione non basta. Il Papa straniero? Sono io"
Bersani prova a convincere i Lumbard e parla con Maroni di riforma elettorale
di Giovanna Casadio
ROMA - Non è un´apertura al buio. Se Bersani ha deciso di convocare un "caminetto" dei leader sulla riforma elettorale - domattina alle 9,30 nella sede del partito in largo del Nazareno - è perché un approccio con la Lega c´è stato. Un colloquio con il ministro Roberto Maroni. Nel Pd frenano sulla riuscita del dialogo; ancora di più i lumbàrd, alle prese con i difficili equilibrismi in maggioranza. Comunque sia, il segretario e il responsabile del Viminale si sono parlati sul tema decisivo della riforma del "porcellum", l´attuale legge criticata persino dal suo ideatore, l´altro ministro leghista Roberto Calderoli.
E il leader Pd ha deciso allora che è tempo di giocare d´anticipo e mettere sul tavolo per primi le carte. Ovvero un dossier-riforma che può risultare appetitoso per il Carroccio. Dieci articoli, cancellato il premio di maggioranza, ritorno ai collegi uninominali, doppio turno, recupero proporzionale. Luciano Violante - a cui spetta domani fare la relazione introduttiva - garantisce che «il bipolarismo non sarà messo in discussione». Però basta con «le coalizione coattive», come capita adesso, perché «il premio di maggioranza impone la coalizione». Spiega: «Sì quindi a un bipolarismo, ma senza avere le mani legate». Aggiunge: «In nessuna parte del mondo esiste che magari solo con il 25% hai il premio di maggioranza. Persino la "legge truffa" era meglio, dovevi avere il 50% più uno per avere il premio».
In realtà nel Pd il dibattito non mancherà di essere anche aspro. Paolo Gentiloni, leader (con Veltroni e Fioroni) della minoranza Modem, esclude modifiche che diano «la golden share al Terzo Polo, uscito ridimensionato dalle amministrative, con un modello proporzionale alla tedesca». Sia Violante, sia Gianclaudio Bressa dicono che la discussione nel partito è aperta, però se ci sarà un sostanziale via libera dei big la proposta passerà in direzione e poi alla discussione dei gruppi parlamentari per essere presentata in Parlamento. Di certo il primo obiettivo che il dossier elettorale si propone è quello di smuovere le acque nell´altro fronte, nella maggioranza. Bersani ammette di stare valutando «i margini per la riforma della legge elettorale», che farla con Berlusconi «è altamente improbabile e che difficilmente in questa legislatura ci sarà un altro governo. Alla presentazione del suo libro-intervista "Per una buona ragione" (Laterza), riparla anche dell´affidabilità di Vendola (con cui aveva avuto uno scontro): «Vendola è affidabile ma la narrazione non basta». E a Paolo Mieli che ritiene sia proprio Bersani il "papa straniero" a cui affidare la premiership del centrosinistra: «Ringrazio, sì in effetti io un minimo atipico mi ritengo».
Dopo la netta posizione di Bersani di ieri contro di lui Gesùcristo Vendola ha paura di finire nel nulla da cui proviene, vede sempre più allontanarsi il proprio obiettivo, e siccome gli importa solo di sé stesso pur di aggrapparsi all’ipotesi di una gara per la quale probabilmente ormai non potrà più correre, cambia tutte le proprie (pur già vaghe e generiche) “posizioni” precedenti. Nessuna identità, solo adorazione del vuoto di sé stesso.
Corriere della Sera 8.6.11
Vendola: noi e il Pd in un nuovo soggetto «Basta etichette stantie: anch’io voglio allargare all’Udc e so che il vecchio welfare non regge»
ROMA— Vendola, che insegnamento dovrebbe trarre il centrosinistra dal voto? «Alle Amministrative ha vinto una spinta anti-oligarchica, che si era già affacciata nello straordinario processo democratico delle primarie e ha restituito vitalità e anima alla proposta politica del centrosinistra. E ha perso il politicismo che domina soprattutto nei palazzi» . A che cosa si riferisce? «A quei ragionamenti astratti sulle formule magiche della vittoria: si vince al centro, il moderatismo è la chiave di volta, ecc. Ciascuno di noi dovrebbe cimentarsi con il futuro invece che con il passato. Lo dico con affetto ai leader del Pd: c’è qualcosa di stantio, c’è puzza di naftalina nell’uso disinvolto delle etichette ideologiche con cui reciprocamente ci chiamiamo... Radicale, riformista, moderato... Rompiamo con il retaggio delle nostre biografie e mettiamoci tutti quanti in mare aperto, a guardare la scena nuova della politica perché c’è una scena nuova della società» . Vendola, pare di capire che lei stia prefigurando la nascita di nuova sinistra tutta unita. «Io non ho ricette già pronte, però dico con umiltà ai miei compagni, a quelli del Pd, e a tutti gli alleati: prendiamo il coraggio di affrontare l’inadeguatezza della forma partito, andiamo in campo aperto. E questo vale per tutti, a cominciare dal mio movimento, Sel: al congresso fondativo abbiamo detto che il nostro obiettivo non era tanto far nascere un partito quanto riaprire una partita. Noi non dobbiamo recuperare lo spazio residuo che fu della sinistra radicale. Sarebbe come scrivere vecchi copioni: il nostro compito invece è quello di rimescolare le carte insieme a tanti altri e altre» . Ma crede veramente che Bersani e il Pd accetteranno la sua proposta? «Nel Pd si è aperta una discussione molto interessante. Bettini propone la creazione di un nuovo soggetto unitario. Latorre invita noi e il Pd a essere i cofondatori di un nuovo partito. Il presidente della Toscana Rossi ipotizza una lista unitaria di Sel, Idv e Pd. Sono tutti ragionamenti incoraggianti. Finalmente c’è un’altra idea della politica. Nel cantiere dell’alternativa non distribuiamo le magliette con i colori delle squadre, ma apriamo piuttosto le porte anche a tanti altri che non vengono dai partiti e che portano, competenze, esperienze di vita, ricchezza di cultura. E in quel cantiere, insieme agli altri, proviamo a farci le domande giuste e a darci le risposte giuste: non è forse questo il programma dell’alternativa?» . Insomma, secondo lei il Pd, Sel, i partiti del centrosinistra sono pronti sul serio a compiere questo passo. «Perché no? È accaduto che parte rilevante della cultura riformista italiana e del Pd, che aveva militato nella trincea dell’energia nucleare, abbia rapidamente ripiegato le proprie bandiere, è accaduta la stessa cosa sul tema dell’acqua di cui molti propugnavano la privatizzazione. E non voglio fare un discorso provocatorio: anche la sinistra radicale deve accorgersi, per esempio, che non si può tenere in piedi il vecchio welfare. Oggi siamo tutti quanti chiamati a metterci in gioco» . Intanto nei palazzi c’è chi prepara una riforma elettorale che possa piacere anche al terzo polo... «Non ho difficoltà a discutere le regole del gioco con tutti, però evitiamo di incartarci» . E le primarie? Bisogna accelerare, secondo lei? «Dovremmo concepirle come il catalizzatore di una formidabile mobilitazione delle idee, sapendo che chi le vince ha come compito primario (se posso usare questo bisticcio di parole) quello dell’allargamento della coalizione» . Ma potrebbe mai svolgere questo compito lei, il leader di Sel? «Io nella mia modesta esperienza ho governato facendo dell’ascolto della proposta dei centristi un mio dover essere quotidiano e oggi ho un rapporto molto buono con l’Udc nel Consiglio regionale della Puglia. Faccio un altro esempio: Pisapia che chiede a Tabacci di entrare in giunta. Mi pare emblematico del fatto che se si libera il campo da argomenti speciosi e pregiudiziali possiamo tutti impegnarci per lo stesso obiettivo» . Vendola, per caso vuole rubare il mestiere a D’Alema e allargare lei all’Udc? «Non mi permetto di rubare il mestiere. Dico solo che mi sento in gioco e spero che tutti quanti si sentano in gioco... alla pari» .
il Fatto 8.6.11
Accoglienza italica
Il purgatorio dei profughi
di Emanuele Piano
Mineo (Catania) Li vedi incamminarsi per la salita con i fagotti legati con lo spago. A gruppetti i migranti salgono su per la tortuosa collina fino al piccolo paesino di Mineo, anonimo centro nell'entroterra siciliano fra Catania e Gela. Ad aspettarli c'è la corriera che li porterà prima a Catania e poi chissà dove. Alla spicciolata fuggono dal cosiddetto Villaggio della Solidarietà che, nelle parole del ministro dell'Interno Roberto Maroni, dovrebbe essere “un modello a livello europeo per coloro che chiedono asilo”. Ma nell'ex residence per militari Usa mancano assistenza legale, telefoni, televisioni o radio per sapere cosa succede nel mondo esterno, una diaria e un presidio medico adeguato per persone vittime di tratta o di violenze. Tutte cose che altrove, negli altri centri per richiedenti asilo sparsi per l'Italia, rientrano nei protocolli di assistenza standard. “A Mineo quegli standard minimi non sono rispettati”, ci dice Giulia Laganà, dell'Alto Commissariato per i Rifugiati.
IL MODELLO MINEO è stato ribattezzato dagli operatori umanitari in loco “una prigione a cielo aperto” lontana almeno 10 chilometri dal primo centro abitato. Oltre 1800 richiedenti asilo di oltre 35 nazionalità aspettano che una Commissione territoriale lentissima decida del loro destino. O dentro o fuori. In mezzo un lasso di tempo che nessuno sa definire. Settimane, mesi che per alcuni sono diventati anche anni per una procedura che dovrebbe compiersi entro 90 giorni. E in molti cominciano a perdere la pazienza. Lunedì decine di migranti hanno bloccato la statale che corre a fianco del campo. Per quattro ore hanno fronteggiato le forze dell'ordine in assetto anti-sommossa per poi sfogare la propria rabbia all'interno della mensa del centro.
La situazione di limbo in cui vivono i migranti senza alcuna informazione da parte delle autorità potrebbe “portare a una rivolta da un momento all'altro”, riferiscono fonti presenti a Mineo. Anche perché la maggior parte degli ospiti sono persone che non avevano alcuna intenzione di venire in Europa.
l’Unità 8.6.11
L’appello di Napolitano
Grazie, Presidente. Accettiamo la sfida dei migranti
L’esempio toscano. I frutti della politica dell’accoglienza e dell’integrazione
di Enrico Rossi, Presidente della Toscana
Caro Presidente Napolitano,
grazie delle sue parole efficaci ed autorevoli sull’immigrazione e l’accoglienza. Esse ci invitano ad evitare assuefazione e indifferenza di fronte alla tragedia degli immigrati, che dalla riva sud del Mediterraneo cercano l'Europa ad ogni costo, fuggendo l'incubo della povertà e dei regimi autoritari. Tutti loro rischiano la vita sul mare. Molti la perdono. Si calcola che circa quindicimila siano le vittime di questa tragedia negli ultimi dieci anni. Da grande mare di pace il Mediterraneo si è trasformato in un cimitero. Nessuna di queste vittime può essere dimenticata. Ma se vogliamo davvero onorarle non dobbiamo rispondere solo con l'indignazione, ma con scelte politiche decise e coraggiose. Nella riva Sud del Mediterraneo la geografia politica sta cambiando e soffia un vento di libertà. Lo stesso presidente Obama ci invita ad accogliere la sfida, ad appoggiare le richieste di riforme che migliaia di giovani rivendicano nelle piazze, e a considerare una opportunità storica quanto sta accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente.
Non possiamo sottrarci alla sfida della costruzione di una politica per l'unità del Mediterraneo: lo esige il nostro futuro. Possiamo farlo sostenendo il dialogo fra culture, la costruzione di reti fra istituzioni e realtà delle due rive, costruendo progetti di cooperazione, aiutando i giovani di quei paesi nell'istruzione e nella formazione. Unire il Mediterraneo, creare sviluppo e lavoro è indispensabile anche per governare meglio i fenomeni migratori che, altrimenti, esploderanno. L’Italia e l’Europa devono abbandonare una politica egoista e investire nel Mediterraneo, anche facendo dell'accoglienza agli immigrati un grande strumento di questo progetto.
In Toscana abbiamo iniziato a prefigurare una politica mediterranea proprio accogliendo in modo diffuso prima i migranti tunisini poi i profughi provenienti da tanti altri paesi. Ne sono già arrivati più di un migliaio. Hanno trovato posto nelle città, nelle piccole località della Toscana, in strutture messe a disposizione da enti, associazioni di volontariato, parrocchie. Per loro i toscani hanno organizzato servizi e qualche volta anche occasioni di festa.
Accettando questa sfida, utilizzando le risorse di solidarietà del territorio, non solo abbiamo evitato che la trappola della paura si chiudesse sui nostri cittadini, ma abbiamo dimostrato il nostro impegno e il nostro interesse a costruire ponti con quei paesi, attraverso il mare che ci unisce.
Creare sviluppo e lavoro, accogliere con civiltà chi cerca rifugio da guerre e persecuzioni, dare speranza alle giovani generazioni significa unire il Mediterraneo e contribuire alla pace e allo sviluppo. In una parola al futuro del Mediterraneo. Quindi anche al nostro.
il Fatto 8.6.11
“Fatti poco chiari”: Curia commissariata
Dopo le denunce dei fedeli e un’inchiesta della GDF, Mogavero inviato a Trapani
di Giuseppe Lo Bianco
Trapani. Il linguaggio canonico lo definisce “visitatore apostolico”, in realtà è un vero e proprio commissario della Santa Sede. Si occuperà della Curia di Trapani, chiamato a far luce su “fatti poco chiari”, che in realtà sono sospetti di malversazioni, di spostamenti di denaro, di acrobazie di bilancio e persino di relazioni pericolose con personaggi ritenuti vicini a Cosa Nostra. Stanca delle lettere inviate dai fedeli al cardinale Tarcisio Bertone, che denunciano il malgoverno all’interno delle sacre mura trapanesi, alimentate dalle inchieste della Guardia di Finanza su due fondazioni controllate dal vescovo, la Santa Sede “commissaria” la curia vescovile retta da monsignor Francesco Miccichè, inviando a Trapani un “visitatore apostolico” del calibro di monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del Consiglio per gli affari giuridici della Cei.
L’ultima volta era successo nel 1985 nella diocesi di Nicosia, in provincia di Enna, e l’istruttoria si era conclusa con le dimissioni del vescovo dell’epoca, monsignor Giuseppe Di Salvo. “Le mie funzioni – ha dichiarato Mogavero, il cui decreto è stato firmato dal Papa – saranno di tipo istruttorio. Dovrò fare luce su una serie di fatti poco chiari nella diocesi trapanese e riferirne quindi alla Santa Sede”. Un ruolo ispettivo, e di fatto commissariale, nonostante al momento Miccichè rimanga al vertice della Curia, con pieni poteri. Gli ambienti vaticani mantengono il massimo riserbo sui “fatti poco chiari”, quel che è certo è che al decreto d’ispezione chiesto dal cardinale canadese Marc Oullet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, il Vaticano è approdato soltanto dopo un accurato lavoro di indagine istruttoria condotto da Monsignor Giuseppe Bertello, delegato del Nunzio Apostolico per i rapporti tra la Santa Sede e le diocesi. Un’attività svolta contemporaneamente a quella della Guardia di Finanza, che ha passato al setaccio la gestione finanziaria di due fondazioni della Curia: la Auxilium e la Antonio Campanile, fuse in un’unica fondazione nel 2007 con un’operazione che avrebbe creato un “buco” di oltre un milione di euro nei bilanci della Curia.
Il vescovo Miccichè, che nega di conoscere l’esistenza dell’indagine in corso, è il presidente delle due fondazioni, una delle quali, l’Auxilium, può contare su una convenzione con l’Asp di Trapani per un giro di rimborsi di oltre 5 milioni di euro all’anno. Le Fiamme Gialle avrebbero accertato, inoltre, che dal 2009 procuratore della fondazione è Teodoro Canepa, ex dipendente regionale e cognato del vescovo Miccichè, avendone sposato la sorella Domenica. Tra le anomalie emerse dalle indagini anche la presenza, come autista del vescovo, di Orazio Occhipinti, il cui padre e lo zio, presunti mafiosi, vennero assassinati a Dattilo negli anni ‘80. Proprio Occhipinti viene descritto in alcune lettere , spedite da alcuni fedeli al Cardinale Tarcisio Bertone, come il vero dominus della fondazione Auxilium, anche in virtù delle sue ingombranti parentele. E proprio quest’ultima circostanza viene smentita in una lettera imbarazzata che il vescovo Miccichè ha inviato al cardinale Bertone dopo avere appreso, chissà come, di essere stato citato nelle missive. “Occhipinti non ha nulla a che fare con la mafia”, si è difeso Miccichè, che però con la sua ultima nomina ecclesiale ha fornito ai suoi detrattori un argomento in più: pochi giorni fa ha nominato un nuovo arciprete ad Alcamo, da anni indicato dalle voci di paese (che non hanno mai trovato conferma) come il sacerdote che avrebbe officiato i funerali clandestini di Paolo Milazzo, assassinato da latitante in un conflitto a fuoco e fratello di Vincenzo, il boss del paese alleato di Totò Riina, e protagonista della stagione stragista dei primi anni ‘90.
il Riformista 8.6.11
A lavoro fino a 65 anni
Ma il fondo pensioni delle donne è a rischio
Il tesoretto da 4 miliardi prodotto dall’allungamento dell’età pensionabile delle italiane impiegate nel pubblico, doveva essere investito per politiche femminili. Ma i Radicali, avviando una battaglia bipartisan, denunciano che il Governo avrebbe già sottratto 250 milioni
di Angela Gennaro
qui
http://www.scribd.com/doc/57347168
LeiWeb 7.6.11
“Ridateci i soldi”. Emma Bonino ci scrive e noi di “A” ci stiamo
qui
http://blog.leiweb.it/marialatella/2011/06/07/ridateci-i-soldi-emma-bonino-ci-scrive-e-noi-di-a-ci-stiamo/
il Fatto 8.6.11
“Netanyahu e Barak, i piromani della pace”
L’attivista e scrittrice Manuela Dviri racconta la strategia incendiaria del duo diu governo a Gerusalemme
di Roberta Zunini
Manuela Dviri vive a Tel Aviv, una città bifronte dove sul lungomare impazza la movida e nel centro le strategie militari. Nella capitale amministrativa israeliana sorge il quartier generale della Difesa. Qui vengono prese decisioni che si traducono in comandi per l’esercito. Nella stessa città dove vive il ministro della Difesa, Ehud Barak, la scrittrice italo-israeliana porta avanti la sua battaglia per aiutare i bambini palestinesi che non possono essere curati in Cisgiordania, facendoli ricoverare in ospedali israleiani. Il suo progetto “saving children” va avanti anche grazie alle tante donazioni fatte in Italia. Dviri che ha perso un figlio 26enne durante la guerra libanese, è stato una delle attiviste per l’uscita di Israele dal Libano.
“CI DICEVANO che con il nostro impegno minacciavamo la sicurezza del nostro paese, ma non è stato così. Dopo il ritiro dal Libano la situazione non è peggiorata”. Ciò che sta mettendo in pericolo Israele invece è l’atteggiamento cinico del premier Netanyahu e del ministro della difesa Barak. “Come ha denunciato pubblicamente l’ex direttore del Mossad, il generale Meir Dagan, entrambi sono pericolosi, una coppia di piromani che attraverso il cinismo e la spregiudicatezza stanno portando Israele verso una strada senza uscita”. Secondo l’ex direttore dei servizi israeliani, Israele rischia di precipitare in una guerra con l’Iran per il carrierismo di Bibi e la visione militarecentricadiBarak.“Sono d’accordo con Dagan, che non è certo uno stinco di santo. Se proprio lui ha sentito la necessità di rivelare le sue paure a proposito delle prese di posizione della leadership israeliana, significa che è arrivato il momento di cambiare rotta”. Quali sono i principali ostacoli da rimuovere? “Di ostacoli ce ne sono molti ma il vero problema è l’indifferenza degli israeliani. La gente mediamente sta bene e preferisce pensare ad altro, per questo ha aderito al comportamento imbelle di Netanyahu che vuole mantenere il più a lungo possibile lo status quo. In ebraico c’è un proverbio che dice: ‘vuole mangiare il dolce e lasciarlo intero’. Ecco il premier agisce proprio così”.
A sentire la Dviri è arrivato il momento di rischiare perché comunque le cose non possono rimanere così “Persino i coloni in Cisgiordania si stanno rendendo conto che a partire da settembre, quando i palestinesi dichiareranno unilateralmente la nascita della Palestina, qualcosa inizierà a cambiare. L’altro giorno sono stata a un funerale in una colonia in Cisgiordania e alla mia domanda sul perché il cimitero fosse così piccolo, ho avuto questa risposta: perché quando ce ne andremo non vogliamo lasciare qui i nostri morti”. La villa nella giungla (come un’espressione, spesso usata da Barak, definisce Israele rispetto al Medio Oriente, ndr) sarà comunque spazzata dal vento della primavera araba.
l’Unità 8.6.11
Eric Hobsbawm 60 anni di studi in un volume che fa il punto su una teoria controversa e vitale
La profezia. Ci sono gli errori politici marxiani ma la visione di capitalismo e finanza è valida
Siamo seri, torniamo al dottor Karl Marx
Saggi di ieri e di oggi nell’ultimo volume dello storico britannico di origini ebraiche nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917. E una nuova tesi: il secolo breve finito nel 1989 torna ad allungarsi col ritorno di Marx dopo il 2008.
di Bruno Gravagnuolo
Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel libro che raccoglie alcuni saggi su Karl Marx e il marxismo dello storico, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile».
Inattesa fortuna. Già prima del 2008 le «azioni» del pensatore di Treviri si erano alzate
«Taking Marx seriusly», prendere Marx sul serio. Di nuovo. È ora di farlo. La tesi di Eric Hobsbawm, grande storico marxista, riassunta nell’ultima pagina del suo ultimo libro, è tutta qui: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Non è una tesi riduttiva e nemmeno scontata, benché Karl Marx un ruolo rilevante lo abbia sempre avuto nelle idee e nei conflitti del mondo. Anche nei periodi di peggior fortuna del suo pensiero, e prima che tornasse di moda... Non è riduttiva perché allude a un giudizio analitico di base che pervade tutto libro: mai come oggi la «chiave marxiana» apre le porte dell’economia globale e delle sue crisi deflagranti. Di là del fatto incontrovertibile che le soluzioni politiche prospettate da Marx si siano rilevate fallimentari. Abbiano generato effetti perversi, o diversi rispetto alle attese (neodispotismi asiatici, nazionalcomunismi, riformismi socialdemocratici).
E allora approfondiamo la tesi di base di Hobsbawm, il cui libro è fatto per metà di cose già pubblicate, come i saggi della Storia del Marxismo Einaudi, e per metà di cose più recenti, come nel caso dell’ultimo saggio, quello dedicato al ritorno clamoroso di Marx con lo tsunami finanziario del 2008 (Marx e il Movimento operaio, il secolo lungo). Il primo punto è il seguente: il lavoro dipendente è la stragrande maggioranza delle forze produttive, sia in Europa che su scala globale. Anche se nel vecchio continente la classe operaia è (ancora) pari a circa un terzo del totale. Il che liquida tante false retoriche sociologiche sul trionfo del lavoro autonomo. Non c’è impoverimento assoluto, ma crescita dentro una forbice, che vede le ineguaglianze crescere esponenzialmente (con redistribuzioni tra poveri). Secondo: il ceto medio si assottiglia e la ricchezza si concentra verso l’alto, in modo sempre più anonimo e incontrollato. La crisi del 2008, rileva Hobsbawm, è frutto di un’economia a debito privato sul quale si è costruito un gigantesco castello finanziario, poi franato. Al contempo i salari si sono abbassati per via della tecnologia, della precarietà e della concorrenza mondiale tra salariati, usati come immenso esercito di riserva da comprimere flessibilmente. Tutto questo nel quadro dello smantellamento delle protezioni di welfare, che generavano inflazione, e dell’ascesa di economie emergenti capaci di produrre a costi tali da metere in ginocchio il primo mondo. Che a un certo punto ha cominciato a delocalizzare gli investimenti.
Conclusione: ce ne è abbastanza per rendere attuale Marx. Che scommetteva esattamente su crolli ciclici del mercato, determinati da incrementi del macchinario (capitale fisso) e decrementi di quello «variabile»: salari. Sempre più incapaci di assorbire o di stimolare la produzione (a meno di non drogare il tutto con il credito al consumo, che ha prodotto lo tsunami negli Usa). Infine, aggiunge Hobsbawm, il saccheggio mercatista della natura con l’esaurimento delle fonti non rinnovabili, incrementa costi e rischi, spiantando economie di autosussistenza e generando migrazioni incontrollate. E quindi: complessità della crisi globale all’apice. E vittoria delle merce come forma dominante. Nella spettralità del consumo-immagine, e delle attese finanziarie, che a loro volta destabilizzano le econome degli stati sovrani, sempre più indebitati (nel pubblico e nel privato).
Fin qui in Hobsbawm la pars destruens. Che include critiche all’incapacità in Marx di concepire istituzionalmente la democrazia, per lo più intesa da lui solo come «maschera giuridica borghese» e non anche come forza propulsiva ideale e materiale (con i risultati totalitari che ben conosciamo). E la pars construens? Qui cominciano le difficoltà. Perché lo storico britannico non riesce a indicarla con precisione. Due le sue ricette: una nuova idea di stato-nazione, che a suo (giusto) avviso non declina affatto e che resta l’unica entità in grado di associare i cittadini alle politiche. Uno stato-nazione collaborativo con altri stati, dentro entità sovranazionali più vaste, che concorra a regolare diritti, salari, fisco e meccanismi finanziari. Seconda idea: una generale idea di società cooperativa che ripristini l’alleanza tra democrazia e mercato e stia in guardia contro l’anarchia selvaggia del capitalismo. Insomma, se ben capiamo, una proposta neokeynesiana bilanciata da regole transnazionali, per rilanciare l’accumulazione con politiche pubbliche volte ad accrescere i salari e redistribuire la ricchezza. Incluso il «valore d’uso» di una natura non depredata. Ma qui il discorso, con l’inversione del ciclo liberista post-2008, è solo agli inizi. E l’agenda sarebbe lunghissima: dall’invenzione di una finanza sociale e democratica, alla lotta contro gli sprechi del ceto politico. Fino a intravedere forme nuove di socialismo: economia civile, cooperativa e solidale. Con politiche industriali e di sdoganamento del ruolo dello stato (purché non sprechi e funzioni). Intanto però contentiamoci della proposta di uno dei massimi storici viventi: riprendiamo sul serio Marx.
l’Unità 8.6.11
Nel nuovo testo di Angelo d’Orsi la ricostruzione dell’«Italia delle idee»
Dalla fondazione dello Stato unitario fino alla Seconda Repubblica
Dai Savoia a Berlusconi 150 anni di pensiero politico
«L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia» di Angelo d’Orsi. Ricostruzione del pensiero politico che ha condizionato il dibattito pubblico nei centocinquant’anni che ci separano dall’Unità d’Italia.
di Nunzio Dell’Erba
Nella sua complessità il pensiero politico ha condizionato il dibattito pubblico nei centocinquant’anni che ci separano dall’Unità d’Italia. La sua storia è ora ricostruita da Angelo d’Orsi in un volume (L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia, Bruno Mondadori, pp. 419), che si snoda dalla formazione dello Stato unitario fino alla Seconda Repubblica.
La Destra storica, insediatasi al governo nel primo quindicennio postunitario, favorì il progetto dinastico dei Savoia, che suscitò un grave malcontento nel Mezzogiorno per l’estensione della legislazione «piemontese», l’iniquità fiscale e la coscrizione obbligatoria. Il nuovo Stato aggravò così la questione meridionale, che segnò un punctum dolens della cultura politica italiana nei lustri successivi. Su questo sfondo nacquero nuovi fermenti, che animarono la storia della cultura italiana, di cui l’autore segue il nesso con il dibattito politico, che raggiungerà il culmine durante il Primo conflitto mondiale. Il mito della nazione si trasformò in un delirio bellicista nel gruppo degli intellettuali futuristi e nazionalisti, che contribuirono a forgiare la destra «aggressiva e intollerante» riunitasi intorno ai Fasci di combattimento (marzo 1919).
Come movimento politico, il fascismo riprese motivi già presenti durante la Grande Guerra come il culto della giovinezza, della virilità e della violenza, contrastato da Antonio Gramsci, da Giacomo Matteotti e da Carlo Rosselli. In quest’ambito una valenza positiva assunse il pensiero di Gramsci, di cui l’autore mette in rilievo le sue posizioni sulla natura totalitaria del fascismo, senza trascurare quelle elaborate nei Quaderni del carcere come «profeta critico della globalizzazione». Concetti quali «egemonia», «rivoluzione passiva», «cesarismo», «intellettuali organici» furono ripresi da Palmiro Togliatti nella costruzione del «partito nuovo», che si presentò sulla scena politica postfascista come un luogo d’incontro delle forze progressiste per la creazione di un nuovo sistema democratico. L’autore segue così il progetto togliattiano per realizzare l’«egemonia» gramsciana nella cultura italiana, a cui assegnò il compito di costruire un tessuto sociale, in grado di consolidare un nuovo rapporto tra intellettuali, partito comunista e classe lavoratrice. L’«operazione Gramsci», attuata tramite la pubblicazione dei suoi saggi, stimolò il dibattito culturale dei primi anni Cinquanta con l’avvio del dialogo tra Togliatti e Norberto Bobbio o tra questi e Galvano della Volpe. Ma d’Orsi sottolinea anche il contributo di altre riviste come il Politecnico o Il Ponte, entrambe collocate nell’area di sinistra. Egli espone il pensiero di intellettuali di diversa formazione culturale e credo politico come Carlo Levi, Adriano Olivetti, Piero Calamandrei e Aldo Capitini, che elaborarono progetti culturali diversi nella costruzione di un sistema democratico, minacciato da vecchie e nuove forme di conservatorismo politico. Tentativi di restaurazione furono compiuti a più riprese, che andarono dalla «legge truffa» (1953) al «Piano Solo» (1964): progetti contrastati sul piano ideale da personaggi come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, entrambi vicini alla Chiesa dei poveri e aperti al dialogo tra laici e cattolici. Dagli anni Sessanta, caratterizzati da nuovi fermenti culturali che culminarono nella protesta studentesca e in una nuova lettura della questione femminile, l’autore pone l’accento sulla politica enunciata da Enrico Berlinguer con il compromesso storico fino all’ascesa politica di Bettino Craxi nel Psi, all’uccisione di Aldo Moro (maggio 1978) e al nuovo clima politico sorto nei primi anni Novanta con il tramonto del sistema politico tradizionale e la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi.
Sull’imprenditore milanese l’autore attribuisce il suo ingresso nella politica italiana a una commistione di cause, che andavano dalle inchieste giudiziarie ad una possibile revisione del sistema televisivo e ad una ventilata vittoria della sinistra. Il lessico calcistico e pubblicitario, già circolante nelle aziende Fininvest e Publitalia, accompagnò la nascita di Forza Italia, che con la guida del governo (1994) rivelò la mentalità aggressiva di Berlusconi nei confronti della magistratura. Le sue vittorie, alimentate dal potere televisivo, sono considerate pericolose per il sistema democratico, che deve contrapporre alle elezioni pilotate da un leader-padrone una libera competizione elettorale, non più asservita all’«unto del Signore» che vuol trasformare la politica in un dominio privato.
il Riformista 8.6.11
Giuseppe Di Vittorio
Il sovversivo che infastidiva i giolittiani e i fascisti
I documenti del Ministero degli Interni, riguardanti il “giovane militante della Capitanata”, ci restituiscono parte della vicenda biografica di uno dei grandi protagonisti della Cgil. Ma sono anche testimonianza dell’evoluzione e dei punti di continuità che ebbe lo Stato italiano, dagli Anni Dieci fino al ’43.
«Sembra remissivo con le autorità, ma è capace di tutto»
di Aldo Agosti
qui
http://www.scribd.com/doc/57347168
Corriere della Sera 8.6.11
Jorge Semprún, un maestro di Libertà
di Elisabetta Rosaspina
J orge Semprún se n’è andato. È morto ieri a 87 anni nella sua casa di rue de l’Université, a Parigi, senza riuscire a tornare un ultima volta a Madrid, come non aveva mai smesso di sperare. La Spagna perde un uomo «valiente» , un gran scrittore, uno sceneggiatore, un pensatore, un politico, un ex ministro, ma soprattutto una scheggia importante e incisiva della sua memoria storica. E della sua coscienza. Figlio del prefetto di Toledo, era nato a Madrid nel 1923, in una famiglia alto borghese, nipote di un primo ministro del re Alfonso XIII. Ma appena dodicenne, allo scoppio della guerra civile, aveva dovuto lasciarla assieme al padre, per rifugiarsi prima in Olanda e poi in Francia, dove il padre divenne ministro in esilio della Repubblica, dopo la conclusione del conflitto e la vittoria di Francisco Franco. Studente della Sorbona, a vent’anni era già con i maquis, nella resistenza francese; e, pochi mesi dopo, nelle mani dei nazisti che lo deportarono al campo di Buchenwald, nella Germania orientale, dove morirono diecimila spagnoli e dove lui rimase, per sedici mesi, il prigioniero numero 44.904, fino al 1945: da quella esperienza sono scaturite alcune delle pagine più impressionanti della sua narrativa, ma anche le parole più dure, i ricordi più umani, brutali e indelebili che possano accompagnare la vita di un uomo. «Ho più ricordi che se avessi mille anni» scriveva. Si prese il tempo di metterli scrupolosamente nero su bianco, per esempio nel romanzo autobiografico Vivrò con il suo nome, morirà con il mio, ambientato nel lager, senza economia di dettagli atroci sulle violenze commesse sui prigionieri e tra gli stessi compagni di sofferenza. È proprio lì che si era consolidata la sua militanza comunista e, probabilmente, la spietatezza con la quale sapeva raccontare le peggiori sensazioni dei prigionieri, i ricordi incancellabili: «L’odore della carne bruciata— spiegò una decina d’anni fa in un’intervista al quotidiano “ El País” —. Che fai con il ricordo dell’odore della carne bruciata? Per queste circostanze esiste precisamente la letteratura. Però come parli di questo? Lo paragoni? L’oscenità del paragone? Dici per esempio che odora come il pollo bruciato?» . Più di mezzo secolo dopo ancora si torturava: «Io ho dentro la mia testa, vivo, l’odore più importante di un campo di concentramento. E non posso spiegarlo. E questo odore se ne andrà con me come se n’è andato con altri» . Anni intensi, avventurosi, appassionati, successivi alla sua liberazione non hanno mai offuscato quei ricordi. Si sono semplicemente aggiunti, nitidi e fertili, come i titoli dei suoi libri allineati sugli scaffali. Nei primi anni 50, a Parigi, dove lavorava come traduttore, acquisì sempre maggior peso nei ranghi del partito comunista. Fino a quando proprio lui, di lingua madre spagnola, fu incaricato di seguire le attività clandestine di opposizione a Franco. Sotto la falsa identità di Federico Sanchez e altre generalità inventate, avrebbe compiuto missioni sotto copertura in Spagna e soprattutto a Madrid. Da cui mancava ormai da molto tempo. Aveva perduto i contatti con la cultura popolare della sua città natale, non ne conosceva abbastanza gli eroi e i miti, soprattutto quelli del Real Madrid. Così un giorno, rischiò di essere smascherato: nello storico Caffè Commercial, tuttora esistente, decise di inserirsi in un’animata discussione di calcio, dove sentiva citare in continuazione un tal Alfredo di Stefano. «E chi è?» domandò innocentemente agli altri avventori. Cadde un silenzio perplesso, come se nella Napoli degli anni 80, un napoletano si fosse azzardato a domandare chi fosse mai quel Maradona di cui si sente tanto parlare. Ricorderà quegli anni nell’Autobiografia di Federico Sanchez, pubblicata nel ’ 77. Nel ’ 63, tornato in Francia, riceve i primi riconoscimenti letterari, con il premio «Formentor» per Il grande viaggio e, l’anno dopo, la prima potente delusione politica, con l’espulsione dal partito comunista spagnolo per dissapori con un altro dirigente, Salvatore Carrillo, ancora adesso simbolo vivente del comunismo iberico. Agli anni ’ 80 appartengono le più grandi soddisfazioni letterarie, la sua carriera di sceneggiatore, assieme ad Alain Resnais e altri grandi del cinema francese e statunitense, la sua amicizia con Yves Montand e l’inizio di un nuovo impegno politico con la nomina a ministro della Cultura nel governo di Felipe González. Una tappa che racconterà nel libro Federico Sanchez se despide de ustedes (Federico Sanchez si congeda da voi) uscito nel 1991.
Corriere della Sera 8.6.11
«Umu» , cioè «giorno» . In assiro-babilonese
di Alessandra Farkas
NEW YORK — «È uno strumento di ricerca indispensabile per tutti gli studiosi appassionati della civiltà dell’antica Mesopotamia» . Così Gil Stein, direttore dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago, ha presentato il ventunesimo e ultimo volume del Chicago Assyrian Dictionary, primo e unico dizionario al mondo della lingua dell’antica Mesopotamia e dei dialetti assiri e babilonesi, che sarà accessibile online al prezzo di circa 2 mila dollari. Una raccolta di ben 28 mila vocaboli dell’idioma diffuso tra il 2500 a. C. e il 100 d. C.; parlato da Sargon il Grande, fondatore del primo impero, e usato da Hammurabi per redigere il primo codice di leggi della storia, intorno al 1700 a. C. Il progetto ha avuto inizio nel 1921, grazie a James Henry Breasted, storico padre dell’Oriental Institute, e si è concluso dopo ben 90 anni di un lavoro da certosini, che ha coinvolto diverse generazioni di storici. Anche se la lingua dell’antica Babilonia è morta da ormai duemila anni, gli studiosi l’hanno ricostruita grazie alle antiche iscrizioni in pietra decifrate negli ultimi due secoli dai monumenti collocati in Siria e Iraq. «Ogni parola, come "ardu"che significa "schiavo"è una porta di accesso alla cultura del popolo che la usava» , afferma Martha T. Roth, preside della facoltà di Scienze umanistiche, che ha lavorato al progetto sin dal 1979. Secondo i L «New York Times» , l’enciclopedia è destinata a far discutere. «Anche una lingua morta può accendere vivaci dibattiti» , afferma il quotidiano, notando come ben 17 pagine dell’opera siano dedicate a una singola parola: «umu» (giorno).
La Stampa 8.6.11
«Troverò chi si cela dietro il sorriso di Monna Lisa»
«Leonardo concepiva la pittura come scienza sia dei caratteri fisici sia di quelli interiori»
Un’avventura con tomografie, scansioni in 3D e test del Dna
di Gianni Parrini
Somiglianze e diversità Le ossa Le rilevazioni con il georadar e le successive ricerche hanno portato alla luce i resti nell’ossario e in altre sepolture
Gli scavi Si svolgono a Firenze nell’ex convento di Sant’Orsola dove si presume siano state seppellite le spoglie della Gioconda
Ci sono secoli di storia e montagne di libri a dividerci dal più grande mistero dell’arte: chi è la donna rappresentata da Leonardo nella Gioconda e cosa si cela dietro l’enigmatico sorriso? Intorno all’interrogativo si mescolano cronaca e magia, cabala e psicanalisi, fede ed esoterismo, accrescendo il mito di Monna Lisa e del suo geniale autore. Ora, però, questa fonte inesauribile di interrogativi e leggende potrebbe essere prosciugata dalle certezze offerte dall’high-tech.
Da settimane una serie di sofisticate strumentazioni sono all’opera per rintracciare i resti mortali di Lisa Gherardini, la signora che, secondo gli scritti cinquecenteschi di Vasari, fu ritratta da Leonardo in occasione della nascita del suo secondo figlio. Le ricerche si svolgono a Firenze, nell’ex convento di Sant’Orsola, dove si presume che le spoglie della Monna Lisa, moglie del setaiolo Francesco del Giocondo, siano state sepolte il 15 luglio 1542, come riportato in un documento ritrovato di recente dallo storico Giuseppe Pallanti. «Vi sono varie ipotesi sull’identità della donna, ma confidiamo che la testimonianza del Vasari sia attendibile spiega Silvano Vinceti, responsabile del progetto e presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali -. Le rilevazioni eseguite con il georadar e i successivi scavi hanno permesso di raccogliere i resti presenti nell’ossario e in altre sepolture. Occorre ricordare che nel convento, oltre alle monache, furono inumati alcuni laici benefattori della congregazione. Tuttavia, per capire se fra i resti trovati ci siano quelli di Lisa Gherardini bisognerà aspettare i test: solo questi potranno mettere la parola fine alle diverse ipotesi storico-documentali».
Terminate le operazioni di scavo, infatti, inizierà la seconda fase della ricerca, affidata a rivoluzionarie metodologie d’indagine scientifica, che rendono possibile una dettagliata lettura delle informazioni contenute negli scheletri, a un livello di attendibilità finora impensabile. Esami di biologia scheletrica, datazione al carbonio 14, tomografie computerizzate, scansioni tridimensionali dei resti ed estrazione del Dna dalle ossa e comparazione con quello dei discendenti: ci vorranno mesi, ma alla fine questi riscontri, confrontati con i dati documentali sulla Gherardini, dovrebbero permettere di scoprire i «caratteri biologici» della celebre dama, le sue malattie come le sue abitudini alimentari. E, fatto essenziale, consentiranno di ricostruirne l’aspetto. «Se recuperiamo il cranio, potremo ricreare il volto di Monna Lisa - spiega Vinceti -. Affideremo il compito a tre diverse team: uno pisano, uno francese e uno canadese. Ciascuno usa tecniche diverse di “facial recostruction”, ma tutte convergono sullo stesso obiettivo: partendo dalla morfologia del teschio e dalle scansioni in 3D, si ricostruiranno i tessuti, la muscolatura e le caratteristiche facciali. Così si avrà un’immagine fedele della Gherardini, con un margine d'errore molto basso: dall’1 al 6%».
Il volto così ricreato potrà essere confrontato con il ritratto della Gioconda e a quel punto molti dei misteri del capolavoro potrebbero essere fugati: «Probabilmente troveremo elementi di somiglianza ma anche di diversità - spiega Vinceti -. Dopotutto Leonardo concepiva la pittura come scienza dei caratteri fisici, ma anche di quelli interiori». C’è un particolare che offre una conferma indiretta di questo modus operandi: nelle «Vite» Vasari scrive che, mentre veniva ritratta da Leonardo, Monna Lisa era malinconica e per farla ridere furono fatti arrivare dei giullari. L’analisi ai raggi infrarossi, effettuata al Louvre nel 1954, ha evidenziato che nella prima versione la donna appariva effettivamente triste e corrucciata.
Possibile, dunque, che in quel sorriso enigmatico si nasconda una felicità di facciata? «Non saprei - prosegue Vinceti -. Certo è che il quadro rappresenta il testamento filosofico, spirituale ed esistenziale di Leonardo e va letto su più livelli. Probabilmente, il sorriso della Gioconda è simile a quello della sfinge o all’ironia socratica. Come se dicesse: “Mi guardate, ma non vedete ciò che nascondo”». In effetti, nel quadro sono presenti elementi simbolici che nella storia del pensiero umanistico-rinascimentale rivestono significati evidenti. «C’è il 72, numero chiave nella tradizione cabalistica, che compare sotto il ponte sullo sfondo - prosegue il presidente del comitato -. Oppure le lettere L e S, presenti negli occhi della Gioconda. Leonardo amava fare anagrammi e indovinelli. E sappiamo che, oltre a quelli della Gherardini, nel ritratto compaiono tratti fisici del Salaì (che fu allievo e probabilmente amante del pittore) e forse caratteri dell'autore stesso. Tutti questi elementi offrono lo spunto per una nuova interpretazione del capolavoro».
Repubblica 8.6.11
Ecco l'identità di Giorgione svelato il mistero del pittore
di Giorgio Cecchetti
Che il suo nome di battesimo fosse Giorgio, con le relative varianti venete "Zorzi" o "Zorzon" e che fosse nato a Castelfranco Veneto, tra le dolci colline trevigiane, erano informazioni già note, ma neppure gli storici più illustri che di lui si sono occupati, da Salvatore Settis a Lionello Puppi, erano riusciti ad andare al di là di ipotetiche seppur seducenti ricostruzioni. Che fosse morto in giovane età, nell´autunno del 1510 durante una delle epidemie di peste che nel corso di quel secolo flagellarono Venezia, era stato ricostruito sulla base di una lettera di Isabella d´Este Gonzaga, che da Mantova il 25 ottobre di quell´anno incaricava il suo agente in laguna di cercare una «pictura de una nocte» per il suo studiolo, dando per certa la morte del pittore. Questo e poco altro era stato possibile accertare, a partire dai pochi documenti rinvenuti, sulla vita di uno dei più famosi ed inquieti geni pittorici del Rinascimento veneto, Giorgione. Oggi, grazie alla scoperta nell´Archivio di Stato di Venezia della storica Renata Segre, la biografia di Giorgione diventa possibile: un documento datato 14 marzo 1511 e redatto per conto di una magistratura veneziana lo identifica come figlio ed unico erede di Giovanni Gasparini da Castelfranco, «Mentre una delle ipotesi storiografiche - racconta Renata Segre - lo dava come figlio naturale e quindi senza padre e Giorgio Vasari lo indicava come "di umilissima stirpe"». Il documento indica che era la vedova del padre di lui, Alessandra, a rivalersi sui beni dell´unico figlio da poco deceduto.
L´eredità del Giorgione, che il documento conferma essere morto di peste nell´isola del Lazzaretto nuovo («magistri Georgii pictoris retentis ad hospitale Nazareth Venetiis»), comunque, appare poco consistente. La lista comprende alcuni beni mobili, panche, letto e un "desco", "quatro camise", una veste femminile di raso, altri oggetti domestici e una stola foderata di pelliccia, il tutto per un valore di 89 ducati. Ben poca cosa se si pensa che allora un ritratto di Bellini costava 50 ducati e che lo stesso Giorgione chiedeva 130 ducati per aver affrescato la facciata del Fontego dei Tedeschi a Rialto. «Ma l´indicazione di quei pochi vestiti da uomo della lista potrebbero aiutarci a riconoscerne l´autoritratto in alcuni suoi dipinti» aggiunge l´esperta veneziana.
La scoperta di un documento inedito di questo rilievo - l´unico fino ad ora che ci fornisce particolari sulla vita del pittore veneto, «da sempre circondato da un alone di mistero tanto da aver alimentato il mito di un personaggio enigmatico e indecifrabile» scrive la storica Segre in un saggio sul numero di giugno della rivista di storia dell´arte londinese The Burlington Magazine non stupisce in un archivio importante come quello veneziano, che a poco meno di 200 anni dalla sua apertura al pubblico, ancora rappresenta un territorio di caccia e un punto obbligato di passaggio per studiosi delle più svariate discipline.
Tra queste carte Renata Segre, esperta di storia ebraica, ha individuato quasi per caso il documento su Giorgione. Setacciando in modo sistematico una serie archivistica poco frequentata, quella dei "giudici del proprio", antica magistratura che tra le sue competenze aveva quella di tutelare i diritti delle vedove in materie di restituzione delle doti, ha letto quella riga in cui si parla di "Giorgii de Castel Franco" associato alla qualifica di "pictor". Un Archivio di Stato, quello di Venezia, tra i più importanti d´Europa ma che, come tutte le istituzioni culturali italiane, si muove tra tagli di bilancio e riduzione dell´organico (il 25 per cento in meno). «Pur con le carenze di risorse - precisa il direttore Raffaele Santoro - stiamo facendo fronte ai compiti che ci spettano, quello della conservazione e della consultazione, e per questo ringrazio tutto il personale».
Repubblica 8.6.11
Inconscio. “Io sono l'amore"
"Il mio documentario viaggio nel razzismo per capire l´Italia di oggi"
Guadagnino: ma il vento sta cambiando
Il film parte dalla colonizzazione fascista dell´Etiopia: sei intellettuali confrontano passato e presente
Ha conquistato gli americani, ora approda a Bangkok. Il cinema non deve mai inseguire l´estetica televisiva
di Silvia Fumarola
ROMA. Gli americani, mai teneri, per parlare del suo film hanno scomodato Hitchcock e Visconti. Luca Guadagnino con Io sono l´amore, ritratto di famiglia altoborghese in un interno (terzo miglior incasso negli Stati Uniti per un film non in lingua inglese), ha fatto il giro del mondo: sarà presentato alla prima edizione del Moviemov Italian Film Festival che si apre oggi a Bangkok. Quarantenne palermitano cresciuto a Milano, Guadagnino è regista e produttore (realizza con RaiCinema il nuovo film che Edoardo Gabbriellini girerà ad agosto con Elio Germano, Valerio Mastandrea e Gianni Morandi) e documentario Inconscio italiano racconta le radici del razzismo. «Un viaggio dagli anni Trenta a oggi, la notte della Repubblica con l´Italia stretta nella morsa berlusconiana, mi sembrava di estrema attualità. Poi è soffiato il vento delle elezioni e ne sono felicissimo».
Come ha costruito il documentario?
«Grazie all´archivio dell´Istituto Luce: parto dalla guerra di Etiopia per raccontare la colonizzazione fascista. Storici, antropologi e filosofi come Angelo Del Boca, Lucia Ceci, Michela Fusaschi, Iain Chambers, Alberto Burgio spiegano come il passato abbia influito sulla mentalità degli italiani».
Ci sono tracce di fascismo in molti comportamenti.
«Trovo che il rapporto tra passato e presente sia interessante proprio alla luce dei risultati elettorali, l´Italia ha trovato la forza di liberarsi. Spero che la voglia di cambiamento non si fermi, che si raggiunga il quorum ai referendum: voterò sì».
Inconscio italiano fa pensare a un percorso psicanalitico.
«Il titolo me l´ha suggerito Ida Dominijanni, che fa parte del mio cast di intellettuali, e mi sembra che renda bene il senso del lavoro: capire come l´immaginario sia stato colonizzato nel profondo».
La televisione ha avuto un ruolo fondamentale.
«Dal punto di vista dei contenuti e dell´estetica. È quella che io chiamo "televisualità", una scelta inconsapevole che va verso la semplificazione. Una scena si può girare in mille modi ma tutto si è rimpicciolito, i film vengono fatti dal monitor: non fai più cinema. Forse la mia è una battaglia contro i mulini a vento, ma l´uso del primo piano mette in difficoltà il cinema».
Io sono l´amore ha conquistato gli americani: si è chiesto cosa li abbia colpiti?
«Credo che abbiano apprezzato l´immagine, non si piegava all´estetica televisiva, e poteva contare su attrici sensibili come Tilda Swinton e Alba Rohrwacher. Ha dato al pubblico un´idea di forma astratta del cinema italiano del passato. Tutti, da Coppola in giù, sono debitori di Fellini, Visconti, Bertolucci, Rosi».
Per lei cosa conta al cinema?
«L´alta qualità artigianale. In un film si deve vedere la mano del regista e la sua libertà artistica, li ho ritrovati nei film di Alice Rohrwacher, Michelangelo Frammartino, Stefano Savona e Matteo Garrone».
Repubblica 8.6.11
Il Ceis di Rimini, villaggio in cui nacque la pedagogia italiana
L’asilo svizzero a misura di bambino
di Goffredo Fofi
Nel 1938, a ventisei anni, l´insegnante socialista svizzera Margherita Zoebeli venne incaricata dal sindacato del suo paese di organizzare l´espatrio in Francia di dozzine di bambini, orfani e non solo, dalla Spagna dove i franchisti stavano definitivamente sconfiggendo la Repubblica. Nel 1945, a guerra appena finita, e aveva allora 33 anni, il sindacato la incaricò di una missione ancora più impegnativa: edificare a Rimini, che fu, anche se pochi oggi se ne ricordano, una delle città più bombardate d´Europa, una scuola con legname spedito direttamente dalla Svizzera e con pietre del posto, in accordo con gli operai e gli antifascisti riminesi. Nacque così il Ceis, il Centro educativo italo-svizzero: un villaggio studiato a misura di bambino, che con le sue attività – asilo d´infanzia, scuola elementare, scuola di recupero per bambini e adolescenti problematici – divenne nei suoi primi anni di vita uno dei centri propulsori della nuova pedagogia italiana.
Vi confluirono per imparare e per insegnare grandi studiosi e pedagogisti: da Jean Piaget a Célestin Freinet, da Bogdan Suchodolski a Lamberto Borghi, da Ernesto Codignola a Aldo Capitini, da Grazia Fresco a Angela Zucconi, da Francesco De Bartolomeis a Giuseppe Tamagnini (che fondò il Movimento di cooperazione educativa. Mce, che mobilitò centinaia di maestri elementari attorno alle pratiche e alle idee della scuola attiva a due passi da Rimini, a Fano), nonché architetti come Quaroni e De Carlo, fotografi come Werner Bischof e soprattutto insegnanti e monitori di colonie di vacanze che appresero lì i modi giusti di insegnare e, soprattutto, di stare con i bambini, di rispettare i bambini.
Tra i giovani che ebbero modo di partecipare a quella splendida esperienza, ricordo Fabrizia Ramondino, che animò a Napoli il lavoro con i bambini de´Arn, Associazione rinascita Napoli, e tra gli ultimi me stesso, testimone di una stagione irripetibile della pedagogia italiana, quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità, della collettività, del creato.
Oggi l´"asilo svizzero" continua il suo lavoro – non ha mai cessato di farlo – anche se la sua fondatrice è morta da tempo, nel 1996. Le grandi figure di una storia minoritaria – e cioè in Italia, non quella dominante dei comunisti e dei cattolici, stimolatrice e provocatrice di idee vive nei confronti delle loro dottrine – cominciano finalmente a venir studiate anche in Italia e soprattutto a esser conosciute da nuovi operatori e nuovi educatori.
Nel disagio della scuola pubblica, nella perdita di sostanza della pedagogia corrente (in particolare di quella di sinistra che ha dominato negli ultimi quarant´anni nel segno dell´ideologia dello sviluppo invece che della comunità) tornare a questi esempi è fondamentale, è una boccata d´aria pura nei miasmi di un presente fatto di compromessi di opportunismi di cedimenti, quando i nostri figli non vengono più educati dai loro genitori o dalla scuola bensì dal mercato, dalla pubblicità, da "agenzie" extrascolastiche e manipolatorie di corruzione e asservimento delle coscienze.
Proprio per questo è indispensabile mettere in conto la diversità dei tempi, e i loro diversi compiti. Così com´era accaduto dopo la prima guerra mondiale, quando per esempio un reduce come Freinet sperimentò e fondò la sua scuola, dentro la scuola pubblica, sulla base di una convinzione di futuro dettata dalla fiducia nella ricostruzione, accadde con le esperienze di Margherita Zoebeli, della Scuola-città di Firenze, del Mce e dei Cemea (e più tardi della scuola di Barbiana, con criteri più rigidi).
Ma oggi? E negli anni bui della guerra, delle guerre? Credo esistano doveri, e cioè un modo diverso di ragionare e di agire, nel campo dell´educazione, a seconda dell´epoca in cui si agisce. C´è stata e si spera possa esserci ancora una pedagogia del tempo di pace (Freinet, Zoebeli, Zucconi eccetera, ricordando la convinzione della Montessori che pace e democrazia non sono innate e le si conquista, che vanno insegnate...), c´è stata e c´è ancora, per fortuna non in Italia, una pedagogia del tempo di guerra (l´esempio più tragico e più lucido di tutti rimane quello di Korczack, che nel ghetto di Varsavia preparò i suoi bambini alla morte, ed entrò nella camera a gas insieme a loro), e infine una pedagogia del tempo di crisi, quando la fiducia nel futuro scarseggia, e i nemici dell´educazione e della libertà delle coscienze sono infiniti – raggruppabili, se vogliamo, nella parola "mercato". E´ di una pedagogia del tempo di crisi che oggi gli educatori italiani hanno bisogno, fuori e dentro la scuola, ed è di questo che dovrebbero discutere.
La Stampa 8.6.11
E Jung divorziò dalla scienza
Anche la teoria degli archetipi perse parte delle sue basi biologiche
Il lato oscuro del celebre maestro ha poco a che fare con le influenze
lamarckiane E’ legato alle derive parapsicologiche e spiritualistiche,
enfatizzate poi da molti dei suoi allievi
di Maurilio Orbecchi
La crisi La psicologia analitica junghiana si è allontanata dalla
scienza e la figura del «maestro» è stata presentata dai suoi seguaci
con caratteristiche filosoficoreligiose e trasformata in una specie di
icona e in un punto di riferimento per i culti New Age
Il più frequente rimprovero rivolto a Carl Gustav Jung è stato di
confondere e compendiare, nel suo concetto d'inconscio collettivo, due
elementi del tutto differenti: l'eredità dei meccanismi che forniscono i
prerequisiti di base delle idee e dei comportamenti insieme con i
ricordi di quanto era accaduto nel corso dei tempi alle varie
popolazioni umane.
La prima è una posizione coerente con la sintesi moderna
dell'evoluzionismo, la seconda è un residuo del lamarckismo più ingenuo:
la credenza nella trasmissione dei caratteri acquisiti, compresa la
memoria. Non sono osservazioni dettate da pregiudizio: le posizioni
evoluzionistiche di Jung soffrono davvero di alcune confusioni
lamarckiane, comuni in quei tempi, tanto che alcune si trovano nello
stesso Darwin.
La scarsa considerazione della sua psicologia da parte degli scienziati
non va quindi attribuita a questi errori. La psicologia freudiana, le
cui basi evoluzionistiche sono fondate sul ricordo delle esperienze
ancestrali, è molto più ingenuamente lamarckiana di quella junghiana.
Nonostante ciò, la psicoanalisi, pur scientificamente non accettata, non
è considerata con la stessa supponenza che la comunità scientifica
riserva allo junghismo. I motivi del rifiuto vanno invece ricercati
nelle posizioni parapsicologiche e spiritualistiche di Jung, alle quali
vanno aggiunte le polemiche dei suoi ultimi decenni contro la scienza,
un atteggiamento che l'ha reso uno dei principali precursori del
pensiero postmoderno.
Probabilmente, però, il fattore che più ha pesato per l'opposizione
scientifica nei suoi confronti è stata la creazione di una scuola e di
un' associazione che hanno sviluppato le parti più retrive del suo
pensiero con caratteristiche di isolamento tribale (tipiche delle scuole
private di psicoterapia) che ignorano le confutazioni scientifiche
delle ipotesi del loro maestro. Questo stato di cose ha portato a un
atteggiamento terapeutico che caratterizza la corrente culturale e
artistica chiamata «realismo magico», tanto che oggi si può affermare
che il realismo magico non definisce solo un genere letterario e
pittorico, ma anche un modo di esercitare la psicoterapia.
Per questo insieme di motivi la psicologia analitica junghiana si è
allontanata dalla scienza e la figura di Jung è stata presentata dai
suoi seguaci con caratteristiche filosofico-religiose e trasformata in
una specie di icona, un punto di riferimento per i culti New Age.
Certo, Jung credeva nella parapsicologia. Ma occorre ricordare che le
ricerche parapsicologiche appassionavano allora moltissimi studiosi, al
punto da essere quasi endemiche nel mondo della psicologia di quel
periodo. Paradossalmente, era stato proprio il clima positivistico a
rilanciare gli studi parapsicologi, perché gli scienziati volevano
ricondurre entro un orizzonte scientifico tutto quanto ritenevano
potesse esistere, inclusi i fantasmi. In quegli anni, perfino il grande
psicologo darwiniano William James arrivò a fondare una società
parapsicologica; lo stesso Freud sosteneva l'esistenza della telepatia e
l'eminente biologo Alfred Russel Wallace, co-scopritore con Darwin
della selezione naturale, credeva negli spiriti.
Erano anni precedenti alla diffusione del «debunking», termine che si
può tradurre con smascheramento scientifico di questi fenomeni, tanto
che, in quegli anni, prestigiose università istituivano cattedre di
parapsicologia, un termine coniato nel 1889 da Max Dessoir, professore
all'Università di Berlino. Fino agli Anni 50 del secolo scorso Joseph
Banks Rhine, della prestigiosa Duke University, pubblicava rigorosi
lavori scientifici che si riteneva dimostrassero l'esistenza della
telepatia. Jung, come tanti altri, era rimasto impressionato da questi
esperimenti e scrisse il suo lavoro sulla sincronicità, le coincidenze
significative che a suo avviso non sarebbero casuali (la credenza che
sta a fondamento delle religioni New Age), proprio sulla base dei
risultati pubblicati da Rhine. Con dispiacere osserviamo che, con
l'avanzare della sua età, le citazioni di William James scompaiono
mentre fioriscono quelle di Rhine.
In Jung gli spiritualismi hanno indubbiamente pesato in modo maggiore
rispetto ad altri autori. Il suo progressivo allontanamento dalla
scienza è evidente nel corso degli anni, al punto che perfino le stesse
teorie dell'inconscio collettivo e degli archetipi, nate con solide
fondamenta biologiche, furono trasformate in teorie spiritualiste. Dal
punto di vista scientifico il percorso di Jung e la sua psicologia,
ossia ciò che lui chiama la sua «individuazione», appaiono più come
un'involuzione che un'evoluzione.
Eppure, nulla toglie che, per l'effettivo valore teorico ed euristico di
tante sue descrizioni, nonché per l'attualità della sua psicologia
evoluzionistica, rifiutare interamente l'opera di Jung a causa dello
spiritualismo è davvero, come si usa dire in questi casi, buttare via il
bambino con l'acqua del bagno.
Maurilio Orbecchi, psicoterapeuta
«Chissà se si può raccontare un paese dai sogni di chi lo abita»
Repubblica 8.6.11
Luigi Onnis
Lo psicoterapeuta racconta come sono cambiate le inquietudini dei pazienti confessate sul lettino Nuove nevrosi e visioni ricorrenti ma anche la storia di una disciplina che attraversa quella del Paese
Viaggio tra desideri e incubi dell´Italia "perché di notte immaginiamo di cadere"
di Simonetta Fiori
"Disponiamo delle migliori scuole di formazione, grazie a una legge che all´estero ci invidiano: manca un servizio pubblico adeguato"
"Siamo passati dall´ansia al panico: ci stiamo ‘adeguando´ ai disturbi dell´americano medio. E questo riguarda tutta l´Europa occidentale"
Roma. Chissà se si può raccontare un paese dai sogni di chi lo abita. Non dai progetti esistenziali o le aspirazioni ideali, ma attraverso il processo onirico collettivo, quella misteriosa e imprevedibile incursione notturna nel terreno dei desideri e delle paure. Sono cambiati i sogni degli italiani in questi ultimi decenni? E come si sono trasformate le loro nevrosi? «Quel che posso dire sulla base della mia esperienza», dice Luigi Onnis, 65 anni, neuropsichiatra e psicoterapeuta famigliare con un´ampia rete di contatti e di pratica internazionale (presidente onorario della European Family Therapy Association), «è che sempre più frequentemente i sogni dei miei pazienti hanno a che fare con il rischio di precipitare in un abisso, scivolare rovinosamente senza trovare ancoraggi, o anche essere travolti da qualcosa che crolla e li sommerge». Ne affiora il sentimento d´angoscia come cifra emotiva dell´Italia di oggi, dove i disagi psichici più frequenti ci rendono così diversi dagli italiani di quaranta e cinquant´anni fa. «Però è doverosa una premessa», interviene Onnis, una lunga esperienza con Basaglia, Jervis e Terzian e autore di numerosi libri pubblicati in Italia e all´estero (il più recente, Lo specchio interno, sulla diffusione della psicoterapia in Europa, uscito da F. Angeli). «Questa intervista non sarebbe stata possibile senza Franco Basaglia. È grazie a lui se oggi interpretiamo il malessere psicologico non come prodotto d´una malattia biologica ma anche come il frutto d´una temperie storico-culturale, oltre che del contesto sociale e famigliare».
L´ha conosciuto a Gorizia?
«Sì, l´ho incontrato per la prima volta tra la fine degli anni Sessanta e l´inizio dei Settanta, quando io ero uno studente di Medicina e Basaglia stava realizzando la prima importante esperienza di trasformazione manicomiale. Ho assistito alle "assemblee" con pazienti segregati da decenni. Ricordo una donna che improvvisamente si alzò per fare una domanda: era la prima dopo 25 anni di mutismo».
Che cosa chiese?
«Una domanda sul vitto dell´ospedale, cosa molto banale. Ma era la prima volta che esprimeva un bisogno. Un´esperienza straordinaria».
La legge 180 raccoglieva speranze poi realizzate solo in parte.
«Diciamo meglio: la legge ha segnato una fondamentale svolta culturale rispetto alla quale non si torna indietro. Il manicomio è stato definitivamente superato: non è un´istituzione che cura ma che segrega. La riforma però è stata attuata solo a metà».
Era prevista la costruzione di strutture intermedie.
«Un processo che ha incontrato molte resistenze, per esempio da parte della cultura psichiatrica medica. Per restituire senso alla sofferenza psichica non basta prescrivere farmaci, ma è necessaria la diffusione di una cultura psicoterapeutica. Peraltro disponiamo delle migliori scuole di formazione, regolate da una legge che tutta Europa ci invidia. Ma quanti sono oggi i servizi pubblici di psicoterapia in Italia? Io ho il privilegio di dirigerne uno universitario all´interno del Policlinico Umberto I di Roma: un´eccezione, non la regola. Abbiamo abolito i metodi segregativi propri del manicomio, ma non un atteggiamento che distanzia il malato».
Qual è il disagio psichico più diffuso oggi?
«Un fenomeno crescente nell´ultimo decennio è l´attacco di panico: l´ansia travolgente, un senso di spaesamento angoscioso e di perdita di sé, che sconvolge il corpo con una sensazione di morte imminente».
L´ansia fa parte della vita...
«... del "mondo della vita" come dice Husserl. Ma il panico è una forma incontrollabile, che appare all´improvviso e senza apparenti ragioni. Viviamo nella società dell´incertezza, dominata da una precarietà che non è solo economica. Una società liquida, secondo Bauman, in cui è diffuso il sentimento della perdita di ancoraggi culturali, relazionali e affettivi. Anche la famiglia e la coppia, tradizionali nuclei di appartenenza, sono in rapida trasformazione. Oggi un italiano su cento soffre di attacchi di panico, una media piuttosto alta».
Più alta che altrove?
«No, in linea con le percentuali del mondo occidentale. Ma è questo il dato di novità, che investe tutte le nostre nevrosi: se prima c´era una distanza abissale con i disturbi dell´americano medio, oggi quella differenza è venuta meno. Un altro elemento interessante è la crescita della bulimia, ancora più diffusa dell´anoressia».
Non sono le due facce di un medesimo problema?
«Sì, esprimono entrambe la difficoltà di crescere, assumendo un corpo maturo e sessuato. Le adolescenti femmine sono più soggette ai disturbi alimentari perché più esposte all´ambivalenza dei messaggi. Che tipo di donna voglio diventare? Spesso la scelta è difficile e si tende a rimandarla in una sorta di "tempo sospeso". Quel che però va sottolineato è la diversa modalità del disturbo alimentare».
Le forme sono opposte.
«L´anoressica rifiuta apertamente il cibo, la bulimica finge di accoglierlo, per poi eliminarlo al chiuso della stanza da bagno. La prima rende manifesta la sua opposizione, la seconda si nasconde. Non è un caso che l´anoressia restrittiva sia comparsa negli anni Settanta, stagione di rifiuti radicali, mentre la bulimia si sia manifestata negli anni Novanta, quando quella spinta si è attenuata ed è più difficile ostentare il proprio "no". Oggi i bulimici sono tre volte più degli anoressici. Diciamo "no" di nascosto perché non ci sentiamo più autorizzati a farlo».
Ma ha qualche fondamento l´impressione di una maggiore tristezza degli italiani?
«La depressione ha un´incidenza crescente rispetto al decennio precedente, ma è un dato che riguarda tutta la popolazione occidentale: il 10 % ha avuto almeno un episodio depressivo. Proprio nel momento in cui internet ci mette in contatto col mondo, ci sentiamo tutti più soli. Le cause sono diverse, ma sottolineo qui un aspetto: ci siamo liberati dalle ideologie, e questo ha rappresentato per certi versi una liberazione da ortodossie rigide. Ma non le abbiamo sostituite con solidi valori di riferimento. La globalizzazione contiene enormi potenzialità, ma ora la viviamo con un senso di sradicamento».
Lei sostiene che il papa rinunciatario di Nanni Moretti è affetto da depressione anziché da panico. Perché?
«Esprime il sentimento di inadeguatezza di chi deve proporsi come massima guida, assumendosene la responsabilità anche nella trasmissione dei valori. Quel che mi ha colpito non è la rinuncia del pontefice, ma il bisogno profondo delle persone di avere questo simulacro, tanto che viene inseguito nelle forme fantasmatiche. Quando la guardia svizzera disegna sulle tende l´ombra del padre, la folla l´accoglie con applausi frenetici. È il bisogno angoscioso di un pastore che ci conduca».
Siamo dunque tutti più smarriti, tristi e anche più narcisi.
«I disturbi narcisistici della personalità rappresentano il quarto grande fenomeno di questo decennio. È la tendenza a concentrare la propria attenzione su se stessi, svuotando di valore e affettività il rapporto con gli altri».
Il narcisismo però non è una patologia recente.
«Sì, negli anni Ottanta uscì un libro molto famoso di Christopher Lasch, che lo considerava espressione di un reflusso dei movimenti di contestazione: dal "privato è politico" si passò a un ripiegamento sul privato e sull´individuo che resta solo alla ricerca di se stesso. Ricerca che si declina con il culto del corpo, la sessualità come prestazione, l´esorcismo contro gli spettri della vecchiaia e della morte. Fenomeni molto attuali, a cui oggi si aggiunge l´offrirsi teatrale allo sguardo dell´altro».
Esiste anche una forma pubblica del narcisismo?
«Già 25 anni fa Lasch parlava dello "spettacolo assurdo di una politica che soppianta la ricerca di soluzioni razionali con la teatralizzazione degli atteggiamenti". Una sorta di profezia».
Quello che lei ha disegnato è un popolo sull´orlo di una crisi di nervi, anzi nel pieno di una crisi di nervi.
«La crisi è un passaggio obbligato. Oggi la crisi prende le forme dell´incertezza, ma è proprio da questa imprevedibilità che possono emergere risorse rimaste nell´ombra. "Quando noi ammiriamo la bellezza della perla", diceva Karl Jaspers, "non dobbiamo dimenticare che è nata dalla malattia della conchiglia". Non dobbiamo dimenticarcene mai».
Corriere della Sera
«Imbroglio da 3 miliardi» Verdiglione, nuovi guai
Adepti e nomi noti. La rete e l’impero dello psicanalista
di Gian Luigi Paracchini
«G li industriali sono i nuovi poeti, i banchieri i nuovi letterati, gli assicuratori i nuovi intellettuali» . Semplice paradosso o ginepraio economico umanistico in cui perdersi senza rimedio? Nelle tesi ma pure nel destino di Armando Verdiglione, 66 anni, inventore della cifrematica, psicanalista, imprenditore e scienziato (come gli piace definirsi), c’è sempre stato un sentore di doppiezza. Psicoterapeuta d’avanguardia o versione furbastra d’un Rasputin-Cagliostro de’ noantri? Le sentenze con cui negli anni 80 era stato condannato al carcere per truffa, tentata estorsione, circonvenzione d’incapace sembravano aver fatto una certa chiarezza. Ma in realtà il professore che si è sempre ritenuto vittima d’una cospirazione globale, era riuscito a uscirne alla grande, ponendo le basi per un impero finanziario ancora più solido. Con modalità però discutibili, a quanto sembra dal blitz della Finanza. Nato in provincia di Reggio Calabria, partito giovanotto per Milano dove si laurea alla Cattolica in lettere-filosofia, Verdiglione trova presto nello studio dell’inconscio la vocazione della vita: scrive saggi, traduce, concentrandosi particolarmente (siamo alla fine degli anni 70) sulle teorie di Jacques Lacan, filosofo e psicanalista francese ai tempi considerato quasi eversivo dagli ortodossi del ramo. Sull’onda dell’entusiasmo per quel linguaggio non convenzionale, fonda il Movimento freudiano internazionale e la sua storica casa editrice Spirali per cui pubblicheranno nomi come Bernar-Henry Levy, André Glucksmann, Fernando Arrabal, Alain Robbe Grillet. Dotato d’un ego fuori ordinanza, d’un eloquio coinvolgente e misterioso che fa breccia nel pubblico femminile, Verdiglione diventa presto personaggio da copertina. E con un look inusuale per un pastore di inconsci: pelliccia, completi gessati, scarpe bicolori, sigarone stile gangster. Convegni dalle tematiche oscure in ricche location con una corte di adepti che sembrano una setta: riesce però a fare grande botti portando ospiti come Ionesco, Borges, Hrabal. Gente che quando nell’ 85 scatta l’inchiesta giudiziaria firmerà petizioni inorridite e solidalissime. Seguirà un lungo silenzio. Poi sempre insieme con la moglie nonché ex paziente ed ex allieva Cristina Frua De Angeli (famiglia borghese industriale lombarda) ricomincerà da capo, partendo dalla «sua» villa Borromeo di Senago trasformata in hotel, pubblicando libri, tenendo convegni. Cultura, affari da milioni di euro e un gruppo che si chiama «Secondo Rinascimento» . Ma che gli sta procurando un secondo, vistosissimo inciampo.