l’Unità 10.5.11
Bersani: «Ai seggi ci andranno i cittadini. Possiamo fare il miracolo». E l’opposizione manifesta
Lui non vota, noi Sì: e oggi tutti in piazza del Popolo
Il leader del Pd fiducioso: «Il quorum a un passo, ma c’è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». E ora via alla festa: 9 ore tra musica e personaggi dello spettacolo. Ma niente politici sul palco.
di Alessandra Rubenni
A quarantotto ore dal voto, piazza del Popolo è pronta per la grande, lunga festa di oggi. Una maratona trepidante condita da 9 ore di musica, attori e personaggi dello spettacolo su un palco giallo speranza, che magari porterà bene al quorum. Così si chiude a Roma, in contemporanea mille altre piazze nel resto d’Italia, la campagna pro-referendum, che ieri è stata «consacrata» pure dalle parole del Papa, suonate come uno spot anti-nucleare, per raccomandare agli Stati di scegliere «energie pulite», «senza pericoli per l’uomo». Una sorta di benedizione arrivata proprio mentre Silvio Berlusconi annunciava che lui no, non andrà a votare, e che «è un diritto dei cittadini non recarsi alle urne». Pierluigi Bersani, intanto, rilanciava l’appello che l’altro ieri aveva affidato a l’Unità, invitando ad andare in massa alle urne. Aveva annunciato di voler andare a votare alle 10 di mattina. «Anzi, se mi metto la sveglia, anche alle 9. Perché bisogna pure incoraggiare», dice il leader del Pd. Che non nasconde di essere stato indispettito dal suo idolo musicale, Vasco Rossi: «Sono rimasto molto sorpreso perché persino Vasco ha detto: tanto le centrali si fanno in Francia. Ma vedesse cosa è successo a Fukushima». Ma, soprattutto, sparge ottimismo. «Io sono fiducioso. La mia impressione dice Bersani è che noi siamo a un passo dal quorum, ma c'è uno sforzo da fare. Con il rush finale si può arrivare al miracolo». Perché, comunque, di questo si tratta. Di un traguardo che ha del miracoloso, tanto che «nei referendum, da 16 anni, il quorum non si raggiunge perché abbiamo una legge assurda, che propone uno sbarramento che non sarebbe neanche immaginabile per le politiche o le amministrative». Nel frattempo anche il Terzo polo ha sciolto le sue riserve. «Berlusconi non vota? Ce ne faremo una ragione... e forse è proprio il motivo per cui noi andiamo a votare», ha fatto sapere ieri pomeriggio Pier Ferdinando Casini, subito dopo il vertice con Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, una volta concordata la linea.
Tutti i partiti che sostengono i «sì», però, oggi resteranno sotto al palco di piazza del Popolo, in mezzo alla gente. La giornata di «Io voto!», dalle 14 alle 23.30, annunciano gli organizzatori, dovrà essere una «grande festa di partecipazione, per richiamare l'attenzione di tutti i cittadini sul voto per i referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento, per centrare l’obiettivo del quorum». E tutto andrà in diretta su www.iovoto.net, www.webdv. it e www.youdem.tv, su decine di blog e siti di informazione, da Current Tv e dal satellite Sky. Cui si aggiungerà, per la prima volta, la diretta su facebook, sulle pagine «Io voto» e «Battiquorum». Fra gli ospiti, Cristicchi, Finardi, Claudio Santamaria, Frankie Hi Nrg, Area, Nada, Andrea Rivera, Tetes De Bois, Odifretti, Teresa De Sio.
il Fatto 10.6.11
Il quorum della democrazia
di Bruno Tinti
Lungo viaggio in macchina. Alla radio si susseguono trasmissioni sul referendum. Telefonate e sms di cittadini. Molti dicono che non andranno a votare, che non ci capiscono niente. Alcuni spiegano di voler impedire il raggiungimento del quorum e se la prendono con il presidente della Repubblica che non avrebbe dovuto, secondo loro, annunciare la sua intenzione di recarsi al seggio (“io sono un elettore che fa sempre il proprio dovere”): in questo modo influenza gli elettori, dicono con toni alterati, non è al di sopra delle parti, non è imparziale. Io penso tristemente all’infimo livello di cultura politica raggiunto dal nostro Paese; e mi chiedo se l’istituto del suffragio universale per caso non debba essere rivisto. Cominciamo dal “dovere” di votare. Ovviamente le elezioni non sono una competizione sportiva, non servono per far godere il tifoso della squadra vincitrice e deprimere quello della sconfitta. Le elezioni servono per stabilire quale deve essere il modello di gestione del Paese. Un cittadino che utilizza le risorse nazionali non può sottrarsi al dovere di concorrere a stabilire come dovranno essere predisposte. E nemmeno può dichiararsi estraneo al confronto tra sistemi politici: la responsabilità di garantire libertà, cultura, prosperità gli appartiene per il solo fatto di essere cittadino. Tutto questo è, se possibile, ancora più vero nel caso di referendum. Scelte come energia nucleare, acqua pubblica, immunità dei vertici della classe dirigente, contengono in sé le radici di cambiamenti profondi per la nazione. E tanto più la decisione su questi cambiamenti è diretta e non mediata attraverso la delega alla classe politica, tanto più la responsabilità a determinarli in un senso o nell’altro è irrinunciabile. Ma, dicono, far mancare il quorum è una modalità di partecipazione: non voglio che questa o quella legge sia abrogata; non sono sicuro di raggiungere la necessaria maggioranza; utilizzo quindi un modo diverso per far prevalere la mia volontà politica. Solo che questa non è democrazia, è trucco da baro, sabotaggio, spregiudicatezza civica. E c’è di più. Non è un caso che la classe politica veda i referendum come il fumo negli occhi: ne percepisce, giustamente, la carica di delegittimazione nei suoi confronti, il contenuto di controllo diretto della gestione pubblica, l’inequivoca bocciatura se l’abrogazione ha successo. Adoperarsi per far mancare il quorum significa, al di là della questione contingente, rinunciare al corretto rapporto governanti-governati; significa perdere l’occasione di ribadire che i governanti sono al servizio dei governati e non il contrario. Alla fine questa storia del quorum mi ha fatto capire che votare non significa andare al seggio e mettere una croce su un pezzo di carta. Votare significa scelta consapevole. Ed è qui, ho pensato, che mi piacerebbe una rivoluzione. Mi piacerebbe che la concreta possibilità dell’elettore di adottare scelte consapevoli venisse verificata. Cosa è la Costituzione? E la Corte costituzionale? Chi fa le leggi? Chi governa e come viene scelto? Quali sono i compiti del presidente della Repubblica? Educazione civica di base. Se non c’è, ha senso consentire a un cittadino indifferente, disinformato ed egoista, di partecipare alla vita politica di un paese di cui, sostanzialmente, non gli importa nulla?
Repubblica 10.6.11
Al voto, nonostante tutto
di Ilvo Diamanti
È dal 1995 che i referendum non raggiungono il quorum: fino ad allora votare era considerato un dovere, si trattasse di elezioni politiche, amministrative, europee. Oppure, appunto, di referendum. D´altronde, le organizzazioni hanno perduto capacità di mobilitare. Mentre il radicamento sociale dei partiti è debole. E il voto non è più un´obbligazione, per i cittadini. Nei referendum, oggi, il non-voto tattico si somma a quello per disinteresse. Eppure, nonostante tutto ciò, questa volta il quorum è possibile. Nonostante il silenzio dei media, l´impotenza (e la resistenza) delle grandi organizzazioni e dei partiti. Nonostante il non-voto dichiarato degli uomini di governo. Perché dietro a questi referendum c´è un movimento poco visibile, frammentato. Ma diffuso. La cui voce echeggia in mille piccole manifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso la rete. Ha re-imposto parole in disuso, impopolari fino a ieri. Su tutte: il bene comune. Così tutti oggi sanno dei referendum. Anche se questo movimento molecolare sembra invisibile. Perché gli occhiali con cui guardiamo la società e la politica non riescono a vederlo.
The Economist 9.6.11
Silvio Berlusconi's record
The man who screwed an entire country
The Berlusconi era will haunt Italy for years to come
qui
http://www.economist.com/node/18805327
L’Economist
“L’UOMO CHE HA FOTTUTO UN INTERO PAESE”
Impietoso ritratto della fine del regno berlusconiano nello speciale sull’Italia del settimanale britannico. Ma dopo di lui il paese non cambierà: le sue qualità permettono di galleggiare evitando rivoluzioni
il Fatto 10.6.11
Un Paese fottuto da un uomo solo
L’Economist e il tramonto di B.
di Caterina Soffici
Londra Ogni volta che gliela ricordano, l’ex direttore Bill Emmott ridacchia sotto il pizzetto: “Con quella copertina sono diventato famoso nel vostro paese. Il giorno che ho lasciato l’Economist ho ricevuto tre offerte di collaborazione: erano tutte da giornali italiani”. E infatti quella copertina è rimasta nella storia: Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy, “inadatto a governare l’Italia”. Era il 2001. Sono passati dieci anni e nel numero in edicola oggi il settimanale inglese ci va giù ancora più pesante: “L’uomo che ha fregato un intero paese”. Sempre lui. Sempre Silvio nostro, che se allora querelò, questa volta potrebbe direttamente chiedere l’arresto dei responsabili del giornale. La copertina, un Rapporto Speciale sull’Italia di 14 pagine in occasione dei 150 anni dell’unificazione (“Per un nuovo Risorgimento”) e un editoriale di fuoco che non lasciano dubbi interpretativi: “L’era Berlusconi graverà sull’Italia per anni a venire”.
UN’ANALISI impietosa e lucida, come si dice in questi casi, che noi purtroppo conosciamo bene, ma che letta con l’occhio di un anglosassone è abbastanza impressionante e fa concludere: “Non vediamo alcun motivo per cambiare il verdetto del 2001”. E infatti Berlusconi è stato così incapace di governare che mentre tutti gli altri paesi crescevano, l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto una crescita bassissima: solo il Pil di Zimbabwe e Haiti dal 2001 è cresciuto meno di quello italiano.
L’Economist (del cui speciale, in edicola da oggi, riportiamo alcuni stralci in queste pagine) ricorda che B. è stato il più longevo presidente del Consiglio italiano dai tempi di Mussolini, ci descrive come un paese vecchio e corrotto, in mano alle corporazioni (ce n’è per avvocati, farmacisti, tassisti), dove un gruppo ristretto di forti privilegiati vive bene a scapito di molti senza tutele e disoccupati, dove una casta di politici e dirigenti tiene in mano le sorti di un paese (l’età media del primo ministro in Italia si aggira sui 62 anni, Berlusconi ne ha 74, Cesare Geronzi anche, Antoine Bernheim ha lasciato Generali a 85, e anche i boss mafiosi seguono l’andazzo: Bernardo Provenzano ne aveva 73 quando è stato arrestato), con un sistema bancario ingessato, un quarto dei giovani è disoccupato, con la percentuale di donne lavoratrici più bassa dei paesi occidentali, una università disastrata e in mano ai baroni, dove il familismo amorale è la regola, dove i giovani laureati scappano all’estero per sfuggire al sistema delle raccomandazioni e delle conoscenze.
QUANDO è andato al potere Berlusconi aveva promesso riforme liberali, ma fa notare l’Economist che le amministrazioni Pdl e Lega sono quelle che hanno meno liberalizzato i servizi. Malgrado tutti i suoi processi per corruzione e frode (senza contare la saga di Ruby e del Bunga Bunga), un terzo degli italiani continua a crederlo vittima dei giudici di sinistra e lui continua a spacciare la favola che non è mai stato condannato, anche se non è vero, perché molti processi si sono conclusi con condanne poi lasciate cadere per procedure barocche o andati in prescrizione, grazie a leggi che si è fatto su misura.
“Tra una battaglia giudiziaria e l’altra” scrive l’Economist, qualche riforma l’ha fatta, come la Biagi e quella dell’Università. Avrebbe potuto fare di più se avesse usato il suo potere e la sua popolarità per fare altro anziché difendere i suoi interessi personali” scrivono. Comunque, malgrado Berlusconi e tutti i danni che la sua politica ha causato, l’Italia si salva. “È un paese ricco, in pace e civilizzato che non sembra essere troppo in crisi” dice il report, ma non può più vivere di rendita. “Potrebbe andare avanti in questo modo, impolverandosi e invecchiando sempre più, ma restando a galla agevolmente”. E questa sembra la cosa più probabile. Ma il paese ha bisogno di un nuovo Risorgimento, come quello che portò all’unificazione 150 anni fa. Per recuperare il tempo perso ci vorranno anni di duri sacrifici. E, va da sé, un cambio di governo.
l’Unità 10.5.11
Riforma elettorale
Bersani compatta il Pd
«Maroni? Nessun asse»
Il segretario: non c’entra l’Ungheria o la Svezia, è una proposta italiana Doppio turno con correzione proporzionale, alt ai nuovi gruppi parlamentari Veltroni: così il bipolarismo è salvo. Di Pietro: giusto iniziare a parlarne
di Maria Zegarelli
Né ungherese, né turco, né svedese, «come è stato scritto in questi giorni», ma una soluzione squisitamente «italiana», la proposta di riforma della legge elettorale di cui ieri ha discusso il «caminetto» del Pd. Una proposta che ha trovato tutto il partito concorde, archiviando le divisioni tra proporzionalisti e fan del maggioritario, e che da questo momento in poi dovrebbe aprire il confronto con le altre opposizioni. Pier Luigi Bersani ci tiene a sottolineare che questa è la proposta italiana del Pd, una proposta «aperta» al dialogo con il resto della minoranza «perché quando si propone una legge elettorale si sa anche che non la si può votare da soli». Tanto made in Italy, il testo elaborato da Luciano Violante e Gianclaudio Bressa, da prevedere anche una sorta di norma «anti-Scilipoti» (ma anche antiFli, notano dal Pdl) ossia un divieto esplicito a creare nuovi gruppi parlamentari diversi da quelli che si sono presentati alle elezioni. Se un parlamentare cambia idea, libero di farlo, ma finisce nel gruppo misto. Ultimo sassolino dalla scarpa che il segretario Pd lascia scivolare via: «Lascio correre tutti i retroscena, ma c’è un limite alla decenza: sono tutti inventati i miei incontri con Maroni. Non l’ho mai visto, l’ho solo salutato alla Festa del 2 giugno». Insomma, «nessun aggancino con la Lega», perché «sarebbe curioso che diciamo che la legge attuale è una porcata e poi non presentiamo una proposta per cambiarla». Nessun patto con la Lega, ma è evidente che anche la legge elettorale può contribuire a spezzare l’asse tra il Cavaliere e il Senatur.
LA PROPOSTA
Si tratta di un sistema misto a doppio turno con correzione proporzionale, soglia di sbarramento, che mantiene l’assetto bipolare senza tagliare le gambe ai partitini che avrebbero comunque un diritto di tribuna (pari al 5%) attraverso una quota di compensazione da ridistribuire a livello nazionale con un calcolo sui resti del proporzionale. Per la Camera dei deputati l’assegnazione dei seggi avverrebbe attraverso i collegi uninominali (sistema maggioritario), una quota proporzionale (che dovrebbe essere del 35%) distribuita su base regionale e una quota nazionale di compensazione. Per il Senato, invece, si-
stema uninominale per l’elezione del maggior numero di senatori e lista regionale per il restante numero. Inoltre, nessuno dei due generi può essere rappresentato in lista in misura superiore al 60%. La riforma Pd prevede l’apparentamento al secondo turno: è in quel momento che i partiti decidono per quale candidato premier schierarsi, dopo l’assegnazione dei seggi in parlamento.
LE REAZIONI
«Assolutamente sì», commenta Walter Veltroni, subito il caminetto. È una proposta, spiega, «che salva il bipolarismo, cosa che mi stava più a cuore, e si apre la discussione alle altre forze politiche». Soddisfatto anche Ignazio Marino: «È condivisibile perché preserva il bipolarismo, entrato nel sentire comune del paese, e soprattutto perché restituisce la sovranità agli elettori, dando loro la possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti». Critico Arturo Parisi: il gruppo dirigente Pd che si è ritrovato sulla linea «sotto la guida di Violante», rischia di rompere con gli elettori che invece con le amministrative e le primarie hanno chiesto «unità della coalizione e di partecipazione diretta alle scelte». Antonio Di Pietro, Idv, è cauto: «Non critico e non sposo a scatola chiusa». Ma condivide «la necessità che se ne cominci a parlare e vado al confronto con il Pd e le altre forze di opposizione senza preconcetti, per verificarne la portata e le conseguenze sul piano della rappresentanza» e apprezza la norma sulla parità di genere. «Assolutamente d’accordo» Domenico Scilipoti: non ci vede nulla di personale in quell’obbligo di restare fedeli al simbolo con cui ci si presenta alle elezioni. Anche Fli si è formato «dopo le elezioni».
l’Unità 10.5.11
Tragedia immigrati
Un governo che ignora le «morti nere» nel canale di Sicilia
di Nicola Tranfaglia
Accostarsi, con gli strumenti della statistica, al mondo degli immigranti, che siano profughi che lasciano il loro Paese in fiamme o lavoratori costretti ad abbandonare la patria per sbarcare il lunario, provoca più di una sorpresa nell’Italia ancora dominata dal berlusconismo al potere. Non disponiamo di statistiche delle organizzazioni pubbliche ufficiali, a cominciare dall’Istat che sono ferme agli anni scorsi. E anche le organizzazioni umanitarie, dai Medici senza Frontiere alla Caritas e alle altre organizzazioni cattoliche, non sono in grado di fornire dati che si avvicino alla situazione attuale. Né la cifra ufficiale di 1814 posti in quelle prigioni, spesso medioevali, che rispondono ai nomi di centri di accoglienza e che sono caratterizzati in gran parte dall’insufficienza delle strutture igieniche, dalla mancanza di regolamenti interni adeguati, dalle violazioni costanti al diritto di asilo contemplato dalle più recenti convenzioni internazionali è in grado di farci capire né le dimensioni del fenomeno migratorio né le caratteristiche della politica fatta dallo Stato italiano nei confronti di chi vuole arrivare in Italia.
Ci fanno semmai capire quel che fa oggi la classe dirigente italiana rispetto al fenomeno migratorio. La mancanza di statistiche aggiornate e di strutture che pongano al centro l’accoglienza, piuttosto che il respingimento di quelli che vogliono lavorare in Italia consente semmai di cogliere l’aspetto culturale dell’Italia dominata dal populismo. Perché promuovere statistiche aggiornate se l’obiettivo principale del governo non è quella di integrare chi non fa ancora parte del nostro Paese ma ha interesse a lavorare in Italia? Ma piuttosto quella di separare i profughi in cerca di asilo da quelli che vogliono diventare operai o impiegati in Italia e consentirgli di acquisire, sia pure con le procedure previste da leggi democratiche, i requisiti necessari per diventare a tutti gli effetti cittadini italiani?
Abbiamo parlato per anni, a proposito degli incidenti sul lavoro che nel nostro Paese, rischiano di crescere piuttosto che diminuire, di «morti bianche». E di queste vittime, che vedono scomparire vicino ai porti nostri e di altri Paesi vicini nel Mediterraneo, centinaia o meglio migliaia di morti, visto che la contabilità in materia è assai sommaria, dobbiamo dire che si tratta di «morti nere» visto che riguardano persone di cui nulla sappiamo e di cui abbiamo difficoltà a ricordare persino i nomi e la provenienza nazionale? È un interrogativo che il Capo dello Stato si è fatto ma al quale la maggioranza attuale non ha creduto neppure di rispondere nei giorni scorsi. È un segno terribile dell’abisso in cui è precipitata l’Italia ufficiale dei nostri giorni.
l’Unità 10.5.11
Da settembre grazie a Gelmini 35mila persone senza più lavoro Tagli, riduzioni e accorpamenti. Per i precari restano gli annunci
Finisce la scuola. E non riapre più per 20mila prof e 15mila Ata
Bilanci amari e drammatici alla vigilia della fine dell’anno scolastico per prof e bidelli. Trentacinquemila di loro nel prossimo autunno sanno già ora che non avranno più lavoro. E la politica resta indifferente.
di F. L.
ROMA. L’ultima tranche del triennio orribile voluto da Tremonti-Gelmini si sta consumando. Domani finisce la scuola, temporaneamente, per i ragazzi. Ma, al contrario, non ci sono auguri da fare e ferie da organizzare per 20mila insegnanti e circa 15mila addetti di segreteria o bidelli. La contrazione di classi programmata in modo micidiale dal governo e dalle sue riforme (le uniche realmente fatte, con l’accetta) non lascia scampo agli incaricati annuali. Così come inizierà da lunedì l’affannosa corsa dei perdenti posto o soprannumerari (professori di ruolo a cui sparisce la cattedra nel loro istituto e che spesso, a cinquant’anni, per poter lavorare completano l’orario su due o a volte tre scuole non sempre vicine tra loro). È un fenomeno sociale grave, che riguarda moltissime famiglie. Ma, stranamente, è silenziato dai media e vissuto con suprema indifferenza dalla classe politica, con rarissime eccezioni. Certo, gli insegnanti non scendono in piazza come gli operai, non fronteggiano la polizia. Sarà anche colpa loro quindi se i poeti della retorica di sinistra non si accorgono e, dunque, non si esercitano in filippiche accorate.
I numeri sono pesanti. Per l’anno scolastico 2011-12 il Governo ha deciso di tagliare 20mila posti per il corpo docente e 15mila per l’organico Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari). La sforbiciata è prevista dal decreto 112 del 2008 convertito dalla legge 133/2008. Un «processo di razionalizzazione» del settore che in tre anni ha già interessato 130mila posti di lavoro.
Dall’anno scolastico 2008/09 gli insegnanti si sono visti tagliare 87.400 posti, pari all’11,9 per cento del totale. Una quota rilevante della riorganizzazione riguarda anche il personale Ata. Rispetto all’anno scolastico in corso, in questo caso, ci saranno 14.166 posti in meno. Circa 45mila in meno rispetto a tre anni fa. L’ultima riduzione degli organici «inciderà con tagli assolutamente insostenibili spiega la parlamentare del Pd Manuela Ghizzoni, firmataria di un’interrogazione in commissione Cultura alla Camera che danneggeranno fortemente la qualità della scuola». Da qui al prossimo autunno, solo nelle scuole elementari, ci saranno 9.200 cattedre in meno. La prima conseguenza? «Non sarà più possibile soddisfare le effettive richieste delle famiglie di tempo pieno e tempo lungo», spiega Ghizzoni. Lezioni più brevi e meno materie. Stando ai dati presentati dalla parlamentare, il piano del Governo sancirà la scomparsa dello «specialista per l’insegnamento della lingua», il maestro di inglese.
I docenti della scuola secondaria italiana avranno 1.300 posti in meno. Il taglio più significativo riguarda però le secondarie di secondo grado: dove mancheranno all’appello 9mila cattedre.
Il 5 maggio il Consiglio dei ministri ha approvato alcune norme contenute nel decreto Sviluppo tra cui un piano triennale di immissioni in ruolo. Numeri molto più bassi rispetto al fabbisogno. E non è affatto detto che Tremonti glielo faccia fare.
il Fatto 10.6.11
Malati di mente, uccisi dalla giustizia
In Senato il rapporto della Commissione sugli ospedali psichiatrici giudiziari
di Mario Reggio
Ospedali psichiatrici Giudiziari. Sei in Italia. In base al Codice Rocco dipendono dal ministero di Grazia e Giustizia. 1.400 uomini e cento donne. Un disastro. La parola d'ordine è “fine pena mai”. Un tempo si chiamavano maniconi criminali, ma per chi ha la disgrazia di varcare la soglia degli Opg tornare alla vita normale è un percorso ad ostacoli. Un esempio. Ieri la commissione d'inchiesta del Senato sul Sistema sanitario nazione, presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha chiamato a raccolta i dirigenti dei 6 Opg, tre direttori dei Dipartimenti di Igiene Mentale, i magistrati che decidono la pericolosità sociale dei detenuti, le associazioni dei ricoverati. In apertura il filmato shock, trenta minuti agghiaccianti sulle condizioni in cui vivono i malati senza speranza. Letti di contenzione, celle degne di paesi di Paesi lontani, malati che hanno perso la voglia di vivere. Emblematico l'intervento di Nunziante Rosania, direttrice dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. “Sono anni che denunciamo le condizioni disastrose in cui lavoriamo. Nel giro di tre anni siamo passati da 160 ricoverati a 382, mentre si è ridotto il personale con 62 persone in meno tra medici e guardie carcerarie. I sei psichiatri esterni, in base al contratto di lavoro che prevede 40 ore a settimana, possono dedicare 10 minuti in sette giorni ad ogni pazienti. Gran parte dei pazienti arrivano da noi – conclude – come veri e propri relitti umani. Di-metterli è altrettanto difficile perchè le famiglie e le strutture sul territorio non sono in grado di gestire i pazienti”.
Cosa fare allora? Giuseppe Dell'Acqua, allievo di Franco Basaglia, direttore del dipartimento di Igiene Mentale di Trieste non ha dubbi: “Vanno chiusi. Sono anacronistici. Sono 1.500 persone, se ogni Regione li prendesse in carico sarebbero 70 a testa. La pericolosità sociale è tutta da verificare. Se vengono abbandonati negli Opg non hanno speranze. Bastano due esempi. Un giovane ruba una bicicletta – racconta – viene arrestato, reagisce ai carabinieri. Il magistrato di sorveglianza lo spedisce nell'Opg perchè socialmente pericoloso. Dopo un mese si suicida. Il secondo. Un trentenne ricoverato in una struttura di recupero psichiatrico dà fuoco ai mobili della sua stanza. Stessa sorte. È socialmente pericoloso. Va in un Opg. La fine è la stessa. Nessuno si è preoccupato di capire e di prevenire. Così non si va da nessuna parte”.
La commissione ha presentato i risultati della situazione degli Opg, raccontando per la prima volta cosa è successo a 389 pazienti “dimissibili” tra il 1 marzo e il 31 maggio. In totale, 200 i pazienti prorogati: 85 per mancata presa in carico da parte dell'Asl, 20 per il rifiuto di lasciare la struttura e 52 trasferiti ad altri Opg. Sette i deceduti. Nel periodo di riferimento, quindi, sono stati dimessi soltanto 130 pazienti. “Ci proponiamo due obiettivi – ha dichiarato Ignazio Marino, presidente della Commissione – individuare un percorso condiviso con tutti gli operatori che porti alla chiusura di questi inferni dimenticati. Secondo, presentare il lavoro della commissione, che si articola su due punti: aver individuato tutti i pazienti non pericolosi e aver presentato la percentuale di quanti non sono stati accolti sul territorio, atto grave da parte delle Asl”.
il Fatto 10.6.11
Il Duce: vade retro Freud
di Nicola Tranfaglia
Un paese dominato da una dittatura ignorante, che fuori d’Italia non conosce neppure Freud, che diffida e respinge la nuova scienza psicanalitica che sta per conquistare gli Stati Uniti, che discrimina gli ebrei e chi sta a sinistra, che, insomma, è fuori del mondo civile occidentale. Questo emerge dai documenti degli anni Trenta che emergono dai nostri archivi se li si legge con attenzione.
È DI PARTICOLARE interesse in questa Italia, che sembra finalmente aver cominciato a svegliarsi (dopo diciassette anni di populismo autoritario) leggere un rapporto riservato che il ministero degli Esteri, guidato da Mussolini, invia al Questore di Roma e alla Direzione Generale di Polizia il 26 aprile 1935, a proposito dell’autorizzazione, richiesta dallo psicologo italiano Emilio Servadio, di aderire alla Società Psicoanalitica di Vienna e alla Società Psicoanalitica Internazionale. Il Rapporto – ora custodito nell’Archivio centrale dello Stato – mette in luce con chiarezza due problemi presenti in quel momento. Primo: l’avversione pregiudiziale dell’Italia fascista verso quello che viene chiamato, con termini italiani, il dottor Sigismondo Freud, per ragioni razziali, ma anche per le sue opinioni politiche vicine alla sinistra, i socialdemocratici e i comunisti. (Il documento accenna anche a un’amicizia di Freud per l’anarchico antifascista italiano Camillo Berneri, che sarà ucciso in Spagna dai comunisti nel 1937). Il secondo problema è la diffidenza della dittatura, ma anche della cultura ufficiale italiana (basta leggere La psicanalisi nella cultura italiana di Michel David da Bollati Boringhieri nel 1966 per rendersene conto), nei confronti della psicologia e della psicanalisi di cui, nel rapporto del ministero, emerge un accenno eloquente quando si dice all’inizio: “Mi risulta che si tratta di una scienza, seriamente combattuta da luminari nel campo delle malattie nervose, con a capo quella celebrità che risponde al nome del professore Werner Jauregg”.
E si aggiunge che “effettivamente la psicanalisi non ha messo finora piede nel sacrario dell’Università di Vienna. La psicoanalisi, come predicata dal suo creatore, dottor Sigismondo Freud, è considerata qui più sotto l’aspetto reclamistico e affaristico. Il Freud gode fama di buon medico e di non cattivo psichiatra, ma non anche di una celebrità”. Ma quali sono le ragioni che avanza il rapporto diplomatico per negare, come dirà nelle ultime righe, l’autorizzazione richiesta dal dottor Servadio di aderire alle due associazioni psicoanalitiche?
La prima ragione è indiretta, ma importante per i funzionari fascisti. Il rapporto ricorda che l’8 agosto 1930 la direzione della “Goethe Preiss-Stiftung” di Francoforte aveva assegnato al dott. Freud il premio di 10.000 marchi per i suoi meriti nel campo psicoanalitico. E riporta il fatto, politicamente significativo, che “il giornale di sinistra viennese Tag, nel suo numero del 9 agosto 1930, comunicava, con evidente compiacimento, che questa premiazione serviva a comprovare come il Freud godesse all’estero di un prestigio, che in patria gli veniva negato”. E si aggiunge ancora per chi non lo avesse capito “che la direzione di Francoforte de la “Goethe” era allora in mano di ebrei e di orientati a sinistra.”
Insomma, il documento mette insieme la connotazione “razziale”, presente nell’Italia fascista, molto prima delle leggi razziali del 1938, come cercavano invano di negare i maggiori esponenti del revisionismo storico in Italia fino agli ultimi anni, e quell’orientamento a sinistra che si attribuisce a Freud e altri medici che fanno parte della direzione della sua associazione psicoanalitica, a cominciare da sua figlia Anna Freud e dal dottor Paolo Feder come dal dottor Ervino Subak e dal figlio di Feder, Ernesto, tutti indiziati, secondo i funzionari, di rapporti stretti con il partito socialdemocratico austriaco e con le riviste che a quel partito facevano riferimento.
È QUESTA LA RAGIONE di fondo per negare l’autorizzazione al dottor Servadio di aderire a quelle associazioni e di condannare, per così dire, l’attività di Freud e dei suoi amici. Il ministero degli Esteri, come la direzione della polizia, nulla dicono sulle dispute scientifiche né sul valore della psicanalisi, ma gli orientamenti politici e razziali dei medici vicini a Freud sono sufficienti per vietare al medico italiano, per giunta di origine ebraica (si ricorda che “la madre del dr Servadio, senza voler con ciò toccare la sua onorabilità, sembra essere israelita”) di aderire alla scienza creata da Freud. In sintesi un documento esemplare del fascismo al potere nel quale l’accusa a Freud è di essere ebreo e di sinistra e perciò sgradito e inaccettabile per il fascismo e il dottor Servadio lo diventerebbe qualora aderisse alla Società psicanalitica viennese.
Repubblica 10.6.11
Schnitzler
Da Freud a Kubrick il fascino lungo un secolo di "Doppio sogno"
di Franco Marcoaldi
Domani con "Repubblica" la terza uscita della collana di classici indispensabili: l´autore austriaco è introdotto da Antonio Tabucchi
È la storia intima dell´uomo del ´900, la sua profonda solitudine e la scissione interiore
Da Sigmund Freud a Stanley Kubrick: non so quanti altri autori, oltre lo Schnitzler del racconto Doppio sogno, possono vantare influenze così vaste, a tali livelli di eccellenza. E poco importa se Freud, in precedenza così prodigo di elogi per la perspicacia psichica dello scrittore, tanto da farne la sua conturbante ombra letteraria, al momento della pubblicazione saluti l´evento limitandosi a un lapidario: «Ho riflettuto alquanto sul suo racconto». Quasi non volesse compromettersi di fronte a un testo che, più di ogni altro, incrocia le sue ricerche sul mondo onirico.
Quanto a Stanley Kubrick, nel suo Eyes Wide Shut, canto del cigno di una irripetibile carriera, il regista statunitense smonterà e rimonterà la novella, a ulteriore dimostrazione di come essa sia passibile di infinite metamorfosi, riuscendo a suscitare nel lettore odierno la stessa passione e lo stesso coinvolgimento di chi la lesse quando uscì.
Se questo accade è perché Schnitzler, con musicale geometria, ci conduce per mano nei gorghi più misteriosi della psiche umana.
E lo fa raccontandoci la storia intima dell´uomo novecentesco: la sua profonda solitudine, la scissione interiore tra i doveri familiari e il pericoloso abbandono al mondo dei sensi, il lento declino delle vecchie convenzioni, lo sgretolamento di una identità monolitica, ridotta ormai, secondo l´immagine di Robert Musil, a «delirio dei molti».
Figlio di un medico e medico a sua volta, Schnitzler, una volta intrapresa a tempo pieno l´attività letteraria, utilizzerà con estremo profitto le sue competenze cliniche. Sposandole a una diagnosi, tanto lieve quanto impietosa, del mondo asburgico che sta franando davanti ai suoi occhi.
L´amore per il teatro, in cui eccelle, nasce anche da questo: dalla consapevolezza che nel momento in cui la coscienza borghese si va dissolvendo nella corrente tumultuosa della modernità, solo il ricorso alla maschera – centrale anche in Doppio sogno – consente alla nuova precarietà, individuale e sociale, di sostenersi in qualche modo.
La prospettiva che offre Schnitzler, però, non è mai pacificata: il girotondo erotico lascia sempre dietro di sé un senso di inane assurdità, di sottile angoscia. A maggior ragione nel caso di Fridolin, il protagonista maschile di questo racconto, che cerca disperatamente di consumare la sua vendetta nei confronti della moglie e di sue certe, lontane fantasie adulterine. Senza riuscirci. Quell´impotenza maschile risulterà tanto più penosa, visto che la moglie, nel frattempo, ha liberato le più torbide immaginazioni – sessuali e non – standosene quietamente addormentata nel talamo nuziale.
Il rovesciamento dei ruoli (maschio-femmina) e dei piani (realtà-irrealtà) che Schnitzler ci propone, assume le sembianze di un doppio salto mortale. E il lettore si inoltra avidamente nella lettura, inquieto e affascinato, ben sapendo che quella storia prodigiosa altro non è che la sua.
Repubblica 10.6.11
Prendetela con filosofia
Se Montaigne diventa un maestro zen
di Antonio Gnoli
La biografia del grande pensatore francese scritta da Sarah Bakewell legge i suoi "Saggi" come un manuale per vivere meglio. E ha conquistato Inghilterra e Usa
Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità
Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore
Può apparire singolare che, proprio all´alba della modernità, la filosofia si presenti come una sorta di manuale di istruzioni per gente comune. Quel counseling filosofico – ovvero come si leniscono le pene dell´anima – oggi così diffuso tra i pensatori alla De Botton e negli aforismi di Osho, ha all´origine un responsabile di tutto rispetto: Michel de Montaigne. Mentre si annuncia per Bompiani una nuova edizione, curata da Fausta Garavini, dei suoi Saggi, esce una biografia piuttosto esaustiva, e iperpremiata, grazie alla quale il più disincantato filosofo cinquecentesco torna a far parlare di sé e a insegnarci "come vivere".
Già, perché è questo il suggerimento che si cela nella lettura che dei Saggi ci fornisce Sarah Bakewell. L´autrice inglese nel suo libro Montaigne, l´arte di vivere (in uscita per Fazi dopo essere stata un successo in Inghilterra e Stati Uniti) si interroga sui molteplici modi con cui Montaigne consiglia e istruisce il lettore. Si tratta spesso di regole conviviali, di avvertimenti, di vere e proprie attenzioni per l´altro e di cura del sé. Così almeno cominciarono a leggerlo i suoi contemporanei: come un "breviario" sulla felicità possibile. Quando i Saggi furono pubblicati, nel 1580, Montaigne aveva 47 anni. Le pagine del suo lavoro sembravano scaturire da un ininterrotto flusso di coscienza: tutto quello che attraversava la testa del filosofo divenne oggetto di narrazione. Ma, al tempo stesso, l´attrazione che egli provava per il mondo lo spinse a prestare attenzione alle cose. Con la stessa intensità si muoveva fra introspezione e realtà esterna. Niente ai suoi occhi era definitivo, stabile, inappellabile. Una prosa liquida e sfuggente avvolgeva i suoi racconti quotidiani. Nessun privilegio accordava allo sguardo dell´osservatore. Che poteva essere impreciso e altrettanto mutevole: «Non descrivo l´essere», annotò. «Descrivo il passaggio: non un passaggio da un´età a un´altra, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto». Non era questa la vita nella sua sfuggente esistenza? E come porvi rimedio, come migliorarne il carattere, come consolarla?
Montaigne, da buon scettico, non credeva, fino in fondo, alle virtù della parola, ma al tempo stesso intravide nella scrittura una possibile via di salvezza per l´uomo: un apprendistato che nasceva dall´essere testimoni di qualcosa che accade, che ci colpisce e ci turba. Il successo immediato dei Saggi fu dovuto in larga parte al tono basso e colloquiale con cui il filosofo parlava di sé. Raccontava la propria esperienza senza mettersi troppo al di sopra né al di sotto del lettore. Quel suo Diario, apparentemente caotico, senza un vero inizio né una conclusione, riportava le sensazioni più recondite, le emozioni più vive, le notazioni più strane. Ma tutto veniva calato in un´etica soffice e leggera. Priva di quel fanatismo di cui le virtù a volte amano servirsi.
Montaigne aveva letto i classici antichi, si era forgiato sul pensiero stoico e su quello scettico. Fece propria la massima di Epitteto: «Non devi cercare che gli avvenimenti vadano come vuoi, ma volere gli avvenimenti come avvengono: e vivrai sereno». Aveva compulsato Plutarco e, in particolare, le Vite parallele. Ne aveva ripercorso i pensieri, imitato lo stile, copiato intere frasi, quando il plagio non era un reato, ma un riconoscimento verso la tradizione e il passato. La sua Biblioteca, nel castello di famiglia, era il luogo dove più volentieri amava passare il proprio tempo. Attraverso il resoconto di alcuni viaggiatori scoprì il Nuovo Mondo. Fu attratto dalle ricostruzioni che delle Indie fornirono Francisco López de Gómara e Bartolomé de Las Casas. Si appassionò ai racconti sul Brasile di Jean de Léry. Fu grazie a questi autori che cominciò ad avvertire il fastidio per la pretesa superiorità degli europei: relativizzò il mondo in un mondo che cercava gli assoluti.
Il periodo in cui Montaigne visse fu attraversato dagli orrori delle guerre di religione. Segnato dagli scontri tra protestanti e cattolici. Erano anni di intrighi, di vendette di sangue, di rivolte e di repressioni. Per il mite e disincantato pensatore lo scenario si presentava tra i più cupi. Se poi al fanatismo si aggiungono le carestie e la peste, si ha la quasi certezza che qualcosa di apocalittico si era abbattuto su quelle terre. Eppure, il lettore dei Saggi avvertirà solo un´eco lontana di quegli atroci avvenimenti. Su tutto si impone la difesa e l´elogio della vita comune. Come se egli preferisca piegarsi e schivare quel vento impetuoso di tragedie che tirava sulla Francia del Cinquecento.
Montaigne era un uomo nobile e ricco. Intraprese e portò a compimento studi di Legge, fu Magistrato e poi sindaco di Bordeaux. La città che gli aveva dato i natali. Ma non amava gli incarichi, ancorché prestigiosi. La sola cosa che lo interessava davvero era raccontare se stesso. Quello che vide fu l´imperfezione umana, le vanità, il ridicolo di cui spesso l´uomo si ricopriva. E da scettico ne accettò le conseguenze. Si capisce, allora, perché dopo il successo iniziale Montaigne fu criticato, maledetto, osteggiato. Cartesio e Pascal furono ossessionati dai veleni del suo scetticismo. Port Royal spinse la Chiesa a mettere i Saggi all´Indice dei libri proibiti. E lì restarono per quasi due secoli. Diderot e Rousseau provarono a farne nuovamente un maestro. I romantici si lasciarono sedurre dall´amicizia che egli testimoniò per La Boétie. Nietzsche ne apprezzò lo stile. Il Novecento ha visto in lui l´interprete più radicale della modernità. Ma alla fine l´antieroe per eccellenza ci appare come il più strenuo difensore della vita normale. Dei suoi paradossi. E banalità. Sarah Bakewell fa di Montaigne una specie di maestro Zen, il cui insegnamento è tutto nel non insegnare.
Che risieda qui il successo che il libro della Bakewell ha incontrato in America? La profondità di Montaigne sarebbe dunque tutta alla superficie. Certo, ridotto in pillole di saggezza il grande scettico può apparire a noi europei meno glorioso di come ce lo eravamo immaginato. Ma dopotutto, Montaigne pret à porter della filosofia non esclude l´altro: quello che sotto la bonomia del pensiero nasconde la tragicità del vivere. E non è un caso che alcune pagine del suo capolavoro sono state dedicate al tema del morire e al bisogno di familiarizzarsi con la morte. Negli ultimi anni della sua vita fu spesso vittima di coliche renali. Una particolarmente violenta provocò un´infezione dalla quale non si riprese. Montaigne morì all´età di 59 anni il 13 settembre del 1592. Un secolo prima era stata scoperta l´America e oggi l´America scopre in lui la seducente arte della consolazione.
Repubblica 10.6.11
Alla sinistra del padre
I consigli dei cinquanta saggi diventano un bestseller
di Raffaele Simone
I contributi sono carichi di una spinta propulsiva che in Italia ignoriamo
Viene criticata la "democrazia immediata" che affronta i temi non vedendo il futuro
Malgrado qualche successo in elezioni locali anche di rilievo, la sinistra pare in serio affanno in tutt´Europa. Quanto al modo di reagire si registrano però differenze importanti tra un paese e l´altro. Da noi, ad esempio, malgrado l´incoraggiante effervescenza di movimenti di varia natura (viola, arancione, ecologisti e altri), la sinistra "istituzionale" sembra aver perduto da un pezzo, insieme a una buona parte dell´elettorato, anche la capacità di generare idee strategiche serie e nuove; altrove invece si sforza di elaborare progetti per uscire dal pantano. La Francia è tra i paesi in cui quest´impegno è più forte: Indignez-vous, il modesto ma vibrante libretto di Stéphane Hessel, è stato per mesi in cima alle classifiche, segno eloquente di una diffusa preoccupazione per il futuro (della sinistra e del pianeta); e da qualche settimana è un bestseller anche il volumone Pour changer de civilisation (Odile Jacob, pagg. 439, euro 16,50), i cui autori sono "50 ricercatori e cittadini". Il forte senso dell´ego che è tipico della tradizione francese spiega il titolo un po´ madornale e il modo di indicare gli autori (che da noi sarebbe impraticabile). Ma sta di fatto che tra quei cinquanta "ricercatori e cittadini", a cui Martine Aubry mette come cappello un suo discorso-comizio piuttosto vago, stanno alcuni dei migliori cervelli francesi (e alcuni stranieri, come Ulrich Beck e Saskia Sassen) in molti campi. Su richiesta del "Laboratoire des idées" (altro nome sonante) del Partito Socialista, questi hanno indicato nodi irrisolti e prodotto proposte per restituire alla sinistra l´energia di governo che ha perduto; e questo volume è l´imponente sintesi di questo lavoro.
I temi sono organizzati a cerchi concentrici: da un gruppo di interventi sul "disordine del mondo" (le conseguenze politiche, economiche, culturali della globalizzazione, come la crisi del lavoro e l´immigrazione) si plana su una sezione sull´"uguaglianza reale", poi si discute della "società creativa" (istruzione, ricerca, arte) e infine sui meccanismi della democrazia (lavoro, rappresentanza, partecipazione, sicurezza, ecc.). Per il lettore italiano la lettura del volume è parecchio mortificante, perché dà la percezione del crepaccio che c´è tra loro e noi: solo a considerare i titoli delle sezioni ci si chiede come mai in Francia si abbia il coraggio di affrontare temi come "il disordine del mondo", mentre da noi la sinistra si chiede tutt´al più cosa fare con Di Pietro e con Casini. L´afflizione aumenta se si guarda ai singoli contributi, quasi tutti disegnati sullo sfondo dell´inquietudine per il capitalismo globale (che da noi non turba nessuno, ma che in questo volume è il vero protagonista) e carichi di una spinta propulsiva ignota alla depressiva sinistra del nostro depresso paese.
Cito qualche esempio che più colpisce, anche per dare un´idea dello spirito ardimentoso che soffia nel libro. Jean-Michel Severino addita il fenomeno tutto moderno dell´"inversione delle penurie": dopo aver concepito per secoli la natura come abbondante e gli uomini come scarsi, ora la presenza umana s´accresce mentre la natura comincia a scarseggiare. Ciò impone un´autorità planetaria per le regolazioni. L´idea di regolazione e di governance è del resto uno dei temi ricorrenti del volume, dove appare come mezzo per contrastare un sistema in cui (parole di Marcel Gauchet, uno dei teorici più acuti di Francia) "i mezzi poveri pagano per i poveri totali". Thomas Piketty, che tocca senza timore l´enorme questione di "domare il capitalismo del XXI secolo", suggerisce una "rivoluzione fiscale": instaurare un potere pubblico europeo capace di applicare tassi realmente progressivi, che operino come dissuasione rispetto ai redditi superiori al livello massimo politicamente e eticamente accettabile. Nella stessa vena Guillaume Duval pone un problema che la nostra sinistra non ha mai percepito: come fissare, oltre che un salario minimo, anche un "salario massimo"? Se "il cuore del progetto della sinistra" (dice Ernst Hillebrand) è lo stato sociale redistributivo, il fenomeno recente delle retribuzioni senza limite (i capi possono guadagnare oggi 400 o 500 volte più del loro dipendente meno pagato) è uno scandalo intollerabile a cui va posto riparo.
Chi è nauseato dalla "corta veduta" della politica italiana respira un´altra aria quando nel volume trova richiamata la necessità di immaginare nuove scale per i problemi, più ampi orizzonti per le decisioni. Per Jacques Lévy è urgente includere la "dimensione Mondo" tra le scale pertinenti per l´analisi e la decisione politica, e il governo dei beni naturali non va lasciato alla cooperazione o alla rivalità tra stati ma trattato come una questione di scala mondiale. Pierre Rosanvallon segnala le trappole della "miopia democratica" (quella che Condorcet chiamava "la democrazia immediata"), che affronta i temi del momento senza preveder nulla del futuro né domandarsi quali effetti avranno le decisioni di oggi. Questa miopia andrebbe contrastata con la "preoccupazione del lungo termine". Per Rosanvallon le due prospettive possono essere integrate mediante una "dualità rappresentativa": al parlamento (che gestisce il breve termine) andrebbe affiancata un´"accademia del futuro", col compito di lanciare dei "forum dell´avvenire", in cui i cittadini offrano idee, suggerimenti e proposte. Ciò può costituire anche una nuova istanza di partecipazione, essenziale per cittadini che si sono stancati della "democrazia a bassa intensità" dei tempi moderni, dove la classe politica è sempre più distante dal livello di terra.
Nouvelle cuisine applicata alla politica? Può anche essere: ma preferiamo il pensiero tiepido all´italiana? Sogni e esagerazioni? Paul Valéry diceva che "il modo migliore per realizzare un sogno è svegliarsi". Ma prim´ancora bisogna averlo sognato.
il Fatto Saturno 10.6.11
Patrimonio Sos
«Anche Michelangelo finanzia lo Stato»
Nei suoi scritti militanti, pubblicati postumi, Carlo Ludovico Ragghianti si rivela, suo malgrado, precursore del “capolavorismo”. Ma l’arte non è un “pozzo petrolifero”
di Tomaso Montanari
LA CANONIZZAZIONE dei papi recenti, si sa, giova soprattutto alle gerarchie ecclesiastiche: una regola a cui non sfuggono i “papi” della storia dell’arte italiana. Datano a questi ultimi anni la santificazione di pontefici come Cesare Brandi (1906-1988) e Giulio Carlo Argan (1909-1992), oggetti di un culto decisamente sproporzionato rispetto alla reale importanza della loro produzione scientifica e intellettuale: che avrebbe semmai bisogno di letture critiche ridimensionanti.
Non va in questa direzione la pubblicazione degli scritti militanti di Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), patriarca della chiesa storico-artistica pisana. La prefazione di Donata Levi e i saggi dei curatori Emanuele Pellegrini e Monica Naldi non tratteggiano, infatti, una sacra icona, ma storicizzano e problematizzano il pensiero di Ragghianti senza nasconderne i punti deboli, e anzi discutendoli con competenza.
Le idee meno entusiasmanti riguardano il «valore del patrimonio culturale», che Ragghianti, pur vicino a Croce, cerca di definire fin dal primissimo dopoguerra in termini non puramente idealistici. Con il pragmatismo che condivideva con gli altri fondatori del Partito d’Azione , egli insiste per decenni sulle «arti problema economico», sul «bilancio delle arti», su «arte e denaro» (sono alcuni dei titoli dei suoi articoli). L’ingenuo obiettivo era convincere la classe politica a tutelare il patrimonio non per il valore morale riconosciuto dalla Costituzione, ma perché «anche Michelangelo finanzia lo Stato», e per non mandare in malora un’«enorme ricchezza». Già negli anni Sessanta questa posizione attirò il giustificatissimo sarcasmo del tanto più lucido Roberto Longhi (il quale parlò del «listino degli Uffizi»), ma oggi essa sembra pericolosamente convergente con la sciaguratissima dottrina dell’arte «petrolio d’Italia», nata in ambito craxiano alla metà degli anni Ottanta. La politica culturale dei governi, di ogni colore, che si sono susseguiti da allora è stata più o meno strettamente ispirata a quella teoria: da settore in cui investire denaro per ricavare memoria e identità, i “beni culturali” sono diventati una sorta di gigantesca riserva petrolifera da trivellare incessantemente in cerca di profitto. Gli effetti più estremi di questa involuzione sono quelli che compromettono la stessa sopravvivenza del “bene”: l’alienazione, la ristrutturazione selvaggia, gli iper-restauri distruttivi. Ma ve ne sono altri, non meno drammatici, che sono connessi al “marketing” indispensabile alla redditività del bene, e che ne distorcono profondamente l’identità e il senso, e dunque ne minano alle fondamenta il valore educativo e culturale: la strumentalizzazione politica o ideologica, la forzatura in “eventi” di nessun valore culturale, il “capolavorismo” feticista, la banalizzazione mediatica e turistica, una divulgazione di cassetta.
Anche da questo punto di vista Ragghianti sembra precorrere negativamente i tempi, teorizzando (a più riprese) la necessità di organizzare all’estero mostre dell’arte italiana concepite come pura propaganda culturale nazionalista: senza alcun nesso con la ricerca scientifica, e con una certa noncuranza verso l’incolumità fisica e il retto uso intellettuale delle opere stesse.
Naturalmente sono moltissime le prese di posizione di Ragghianti che appaiono, invece, ancora oggi importanti e pienamente condivisibili: dalla continua e penetrante attenzione ai problemi urbanistici (che oggi gli storici dell’arte non sentono neanche più parte della loro disciplina), all’impegno per singoli interventi (per esempio in favore di Firenze colpita dall’alluvione del 1966), alla (inascoltata) perorazione per l’introduzione di agevolazioni fiscali capaci di far decollare anche in Italia un vero mecenatismo privato verso il patrimonio pubblico.
Ma il merito più importante di questo libro è ricordare che «l’impegno diretto per l’amministrazione del patrimonio culturale è un dovere degli intellettuali» (Pellegrini). Un dovere avvertito da pochissimi: e da quasi nessuno degli storici dell’arte, i più disimpegnati tra gli intellettuali.
Carlo Ludovico Ragghianti, Il valore del patrimonio culturale. Scritti dal 1935 al 1987, Felici, pagg. 344, • 22,00.
il Fatto Saturno 10.6.11
Cento milioni di donne mai nate
Il libro di Xue Xinran “Le figlie perdute della Cina”: una testimone racconta lo “sterminio di genere” nelle campagne che continua nel silenzio del regime
di Cecilia Attanasio Ghezzi
ABBANDONATE, annegate, rifiutate, strozzate nel proprio cordone ombelicale. Avvolte in scialli di broccato o nascoste ai bordi della strada con un sassolino, una foglia, un nome nella mano. Cresciute in orfanotrofi o in famiglie che nulla sanno della loro origine. Sono queste Le figlie perdute della Cina che ci racconta Xue Xinran. Fanno parte di quei cento milioni di bambine scomparse di cui chiedeva conto l’Economist con una copertina che gridava il nome dello scandalo: gendercide, sterminio di genere. Due minuscole scarpette rosa su un gigantesco sfondo nero.
Una consuetudine rurale che fatica a scomparire, anche nella moderna e positivista Cina. Il figlio maschio sarà un aiuto nei campi, permetterà di portare avanti il nome e la ricchezza del clan, accudirà i genitori quando invecchieranno. Sarà garanzia per il futuro e consolazione per gli antenati. E, visto che per legge è concesso un solo tentativo, la nascita di una bambina è temuta come una sciagura che si abbatterà sulla famiglia, una vergogna che ne infanga l’onore e che risale l’albero genealogico fino a sporcare il ricordo degli avi.
È indescrivibile il dolore che ogni madre deve affrontare per essersi sentita costretta a rinunciare a una figlia. Ed è un dolore taciuto, nascosto, represso. Bisogna continuare a vivere per provare a dare alla luce un maschio, e bisogna continuare a mentire perché si è disobbedito al Governo. La stessa legge sulla pianificazione familiare proibisce l’allontanamento delle donne che partoriscono figli di sesso femminile e afferma che è illegale abbandonare le neonate. Ma la realtà è sempre più complicata e la brava sposa di campagna sa che deve generare un maschio. È convinta che ogni donna che partorisce una bambina ha un’unica strada da percorrere: «sistemarla», ovvero sbarazzarsene.
Xue Xinran riesce a far parlare queste donne perché cerca disperatamente una giustificazione all’amore che sua madre gli ha negato durante l’infanzia. È cresciuta negli anni Sessanta, affrontando da sola la tremenda carestia che seguì il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e i campi di rieducazione. Erano tempi difficili, quelli: preoccuparsi della propria famiglia “era un comportamento capitalista e come tale poteva essere punito” .
La piccola Xinran si è sentita abbandonata e oggi crede che ogni madre abbia il dovere di spiegare alla propria figlia i motivi del suo gesto, di convincerla dell’inevitabilità del suo amore. Anche se non la rivedrà mai più. Così, quando alla fine degli anni Ottanta la Cina intraprese la strada delle riforme, Xinran cominciò a lavorare in una radio di Nanjing. Dal 1989 al 1997 fu conduttrice di uno dei più ascoltati programmi radiofonici locali. Si chiamava Parole nel vento della sera ed era rivolto alle donne. Girò la Cina in lungo e in largo per scoprire e raccontare il loro dolore silenzioso e capì che quelle storie che pensava appartenessero solo alla Cina rurale, abitavano anche le moderne metropoli. Vide la lavapiatti del ristorantino dove pranzava ogni giorno tentare il suicidio dopo aver assistito al compleanno di una bambina di città. Non sapeva che una bambina potesse essere felice. Vide coppie che si allontanavano dal proprio luogo ufficiale di residenza e che si muovevano da una città all’altra per sfuggire i controlli abbastanza a lungo da partorire un maschio. Li chiamano “i guerriglieri delle nascite clandestine” e il loro percorso è disseminato di bambine abbandonate.
Convinse una vecchia signora che riparava biciclette a raccontarle il suo precedente lavoro da levatrice. Un compenso normale per la nascita di una femmina, da tre a sei volte tanto per la nascita di un maschio, una cifra molto più elevata se doveva «sistemare» la bambina. A volte poteva solo farla sparire: venderla a una donna che non poteva avere figli propri, o abbandonarla. Non vide mai più quella signora, non poteva sopportare il peso dei ricordi.
Nel 1997 Xinran si trasferì a Londra, dove tutt’ora vive e lavora. Continua il suo lavoro di giornalista e cerca di colmare il vuoto lasciato dalle madri naturali negli orfani cinesi adottati all’estero. Sono oltre centoventimila, e sono quasi esclusivamente bambine. Il suo libro è dedicato a tutte loro.
Durante il Festival di Massenzio, in corso a Roma, Xue Xinran incontrerà il pubblico martedì 14 giugno, alle 21, insieme a Michela Murgia e Clara Sanchez.
Repubblica 10.6.11
Figli lasciati in ospedale crescono le madri segrete
di Maria Novella De Luca
Si chiamano "madri segrete". Arrivano dalle pieghe di un´Italia profonda, emarginata, sommersa, dove vecchie e nuove povertà si fondono. Sono clandestine, immigrate, senza patria, ma anche italiane, giovanissime, a volte poco più che bambine. Donne, ragazze, adolescenti cresciute in fretta, sole, spaventate, violate.
Ogni anno di più: partoriscono ma poi il loro bambino non lo riconoscono e lo lasciano in ospedale, affidato alle mani sicure di medici e infermiere. Sono la spia di un´emergenza infanzia nascosta e drammatica: sono infatti oltre 400 l´anno i piccoli che non vengono riconosciuti alla nascita, un tempo si chiamavano "nati indesiderati", ma il loro numero cresce, nel 2010 soltanto a Roma i casi sono stati 60, il 20% in più dell´anno prima, bambini destinati a veloci adozioni nazionali, soprattutto però se sani e senza difetti, altrimenti la strada si fa più difficile, per i minori con handicap spesso l´unico futuro è l´istituto. Le mamme hanno 3 mesi di tempo per ripensarci, poi basta, per loro quel figlio sarà missing, scomparso, accolto ormai dentro le vite degli altri. Nessuno può né deve chiedere loro nulla, la legge è chiara, sono "parti anonimi", il bambino resta, la madre biologica scompare.
Firmano e se ne vanno le madri segrete, ombre nei reparti di maternità, dove tutto il resto è invece attesa, gioia. Se ne vanno, curve su se stesse, sole come sono arrivate, con il corpo ancora sconvolto da quella nascita e da quella perdita. Mascia, Alina, Alice, Heiriti, Caterina, Magdalena, Ylenia, Deborah, Sabrina: alcune chiedono di vedere il bambino, altre no, è troppo dura, se lo tieni in braccio poi forse non ti staccherai più... Dietro quella decisione estrema ci sono uomini violenti, religioni intolleranti, famiglie che si vergognano di figlie incinte per sbaglio, prostituzione, clandestinità, la paura di essere espulse, violenze sessuali, non avere né terra né patria e nessuna informazione sull´aborto legale. «Un mese fa ho ricevuto una lettera in una busta chiusa. Era indirizzata ad un neonato ancora senza nome e senza identità. L´aveva lasciata sua madre quella busta, dopo averlo partorito e affidato all´ospedale. Adesso la busta la custodiremo noi, sigillata nel fascicolo di quel bambino che presto sarà dato in adozione... «. Racconta così Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, un recentissimo caso di parto anonimo, e le sue parole evocano un´Italia arcaica e disperata, un mondo che si pensava scomparso di figli abbandonati, di maternità non volute, di bambine-ragazze sconvolte da gravidanze premature, e di neonati "ignoti" consegnati allo Stato come un tempo venivano affidati alle ruote degli esposti.
Ma come è possibile che nell´Italia dei bambini amati e voluti, delle dramma delle culle vuote, del boom delle adozioni internazionali ci siano ancora sacche di povertà così assolute? E perché queste donne non vengono aiutate prima? La verità è che in Italia c´è una emergenza infanzia sommersa e taciuta. Non solo minori abbandonati, ma anche malnutriti, senza vestiti, senza latte, senza pannolini, senza medicine, come denunciano ormai da anni le associazioni di aiuto per le neo-mamme come «Salvabebè», la Caritas, i Movimenti per la Vita, la Comunità di Sant´Egidio, tra i pochi ad occuparsi della sopravvivenza delle donne in gravidanza, e poi dei primi mesi di vita dei loro neonati. Sono due milioni i bambini poveri nel nostro paese, dice l´Istat, a rischio di fame e malattie, e di questi 700mila hanno tra 0 e 3 anni. Un´emergenza tale che nel giro 15 anni le antiche ruote degli esposti, "rinate" a metà degli anni Novanta sotto forma di modernissime culle termiche collegate ai sensori dei Pronto Soccorso, sono triplicate accanto ai grandi poli ospedalieri e ai centri maternità.
IL DIRITTO ALL´ANONIMATO
Da secoli è possibile per le donne partorire e mantenere nascosta la propria identità. Erano 40mila ogni anno i neonati che nell´Italia di fine Ottocento venivano fatti scivolare nella notte dentro la ruota degli esposti da madri povere e disgraziate, ma anche da donne ricche rimaste incinte fuori dal matrimonio. Migliaia e migliaia di senza famiglia affollavano l´Annunziata di Napoli, l´Istituto degli Innocenti di Firenze, il Santo Spirito di Roma. Oggi sono poche centinaia. Ma il diritto all´anonimato, ribadito nel 1975 proprio con la riforma del diritto di famiglia, è stato rafforzato ancora dal Dpr 396 del 2000, che protegge "l´eventuale volontà della madre di non essere nominata" e sancisce il divieto di fare ricerche sulla paternità.
Il 70% delle madri segrete è composta da donne immigrate («quante badanti messe incinte dai datori di lavoro e poi cacciate», racconta Grazia Passeri, presidente di Salvabebè), il 30% da ragazze italiane, giovanissime, spesso cresciute in aree degradate, marginali, dove una gravidanza precoce (e senza marito) è tutt´oggi una ferita all´onore del clan. Molte, l´82%, restano incinte per la prima volta, al Nord come al Sud, ma la maggioranza di parti anonimi (48,7%) avviene nel Centro Nord, laddove gli ospedali sono grandi, la legge è un po´ più conosciuta, ed è più facile nascondersi tra la folla. «Avere una stima ufficiale dei parti segreti non è facile proprio per la tutela dell´anonimato. L´unica traccia sono le schede di dimissione ospedaliera - spiega Enrico Moretti, dell´Istituto degli Innocenti di Firenze - dove si registra che in quel giorno e a quell´ora c´è stato un parto e che la madre non ha riconosciuto il figlio. Ma non sempre le regioni comunicano i dati, non esiste un´anagrafe degli abbandoni, possiamo dire però con approssimazione che i casi sono circa 350/400 l´anno, in gran parte figli di donne straniere. Questi bambini entrano a far parte delle liste dell´adozione nazionale e in pochi mesi trovano una nuova famiglia: sono infatti 1200 ogni anno i minori dichiarati in stato di abbandono, ma le coppie in attesa sono oltre 7000..."
I MEDICI RACCONTANO
E la conferma di un fenomeno in crescita arriva proprio dai medici. Il Policlinico Casilino è una grande area ospedaliera che si affaccia verso le nuove aree satellite della città, tra la periferia inurbata e quella più estrema. Proprio qui, al Policlinico Casilino, nel 2006 fu installata una delle "culle protette" contro l´abbandono e l´infanticidio dei neonati. «I casi di figli non riconosciuti aumentano di anno in anno - conferma Piermichele Paolillo, direttore del reparto di Neonatologia - e il record è proprio nella nostra struttura, 60 bambini "ignoti" nel 2010 contro i 40-45 degli anni passati. Sono soprattutto figli di immigrate, in questo momento abbiamo due gemelline, nate premature ma in buona salute. Purtroppo i piccoli lasciati in ospedale, e quindi al sicuro, sono soltanto la punta dell´iceberg di una tragedia più vasta: sono decine i bambini partoriti in segreto e abbandonati chissà dove, di cui non sapremo mai nulla... «. «A Napoli in questo momento abbiamo due bambini, uno è sano, l´altro ha dei problemi - aggiunge Roberto Paludetto, primario del reparto di Neonatologia al Policlinico Federico II - ma i numeri sono in rialzo. E nei nostri ospedali le mamme anonime non sono immigrate ma italiane e giovanissime». Appunto. Chi sono, dove vivono queste donne così disperate da abbandonare il loro bambino in ospedale quando va bene, in un cassonetto o tra i canneti di un fiume quando va male? Non hanno famiglia, amici, compagni?
STORIE DI MAMME SEGRETE
Marina Secchi fa l´assistente sociale tra i centri di volontariato che raccolgono il bacino depresso delle aree romane di Tor Bella Monaca, Torre Angela, Lunghezza. Zone ad alto tasso di dispersione scolastica, delinquenza giovanile, campi nomadi, slum metropolitani, e sempre di più gravidanze adolescenziali. Ha i capelli bianchi e lo sguardo sereno: ascoltarla è come affacciarsi su un mondo di vite a perdere, tra le ultime delle ultime. « Ricordo Magdalena, moldava: il figlio della sua badante l´aveva messa incinta e poi abbandonata. Lei aveva un marito e altri figli a Chisinau, non sapeva che fare… Ricordo Mina, aveva 16 anni, tossicodipendente e ammalata di Aids: la sua bambina è nata in crisi di astinenza e sieropositiva, ma in pochi mesi si è negativizzata ed è stata subito adottata. Credo purtroppo - dice Marina Secchi - che Mina sia morta. Ricordo Alice, 17 anni, abitava a Tor Bella Monaca, noi dei servizi la conoscevamo bene: aveva superato i termini per l´aborto, ma forse con quel figlio avrebbe trovato radici... E poi Zaira, colf egiziana: non so come avesse fatto a nascondere la gravidanza ai suoi datori di lavoro, che forse l´avrebbero anche aiutata: ha avuto un bambino prematuro e cerebroleso. Non ha voluto vederlo…Ma Davide, così l´avevamo chiamato noi, è stato miracolosamente adottato, dopo essere rimasto per otto mesi in ospedale. In più di vent´anni di lavoro ho incontrato almeno una ventina di donne che hanno fatto questa scelta e la metà erano minorenni. La legge è chiara: bisogna rispettare la decisione, ma anche far sapere loro che potrebbero andare in casa famiglia, e che soprattutto possono ripensarci...».
Però ci vuole delicatezza, e non sempre avviene, spiega ancora Marina Secchi. «Ho visto donne trattate male dalle infermiere, dalle altre gestanti, ma soprattutto lasciate nella stessa stanza con le partorienti "normali". Pensate che crudeltà far entrare in contatto madri con destini così diversi». Storie attuali eppure drammaticamente arcaiche. Come quella di I. che forse si chiama Irina, messa incinta dal suo protettore. «Aveva promesso di sposarmi, per questo non ho abortito e ho lasciato che la gravidanza avanzasse. Quando ormai era troppo tardi - Irina parla con il viso schermato in un filmato raccolto dall´assistente sociale - ho capito che voleva solo il bambino, per farne qualcosa di brutto…Un´amica mi ha aiutata a scappare, sono stata in una casa del Comune fino al parto. Ma la bambina l´ho lasciata lì, in ospedale. So soltanto che era bionda e con gli occhi blu. Ma tutti i neonati hanno gli occhi blu, vero?».
«In realtà - spiega la ginecologa Alessandra Kustermann, primario alla clinica Mangiagalli di Milano - non è facile entrare in contatto con le donne che fanno questa scelta: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi dell´aborto, o durante i mesi della gestazione si accorgono di non potercela fare. Oppure, ed è frequente, i piccoli hanno malformazioni gravi, danni cerebrali. Ho però conosciuto una ragazza rimasta incinta dopo una violenza sessuale - racconta Alessandra Kustermann - molto cattolica e lucida che decise consapevolmente di far nascere e poi dare in adozione suo figlio, pur potendolo mantenere. Era una ragazza forte ed equilibrata, ma ricordo il suo dolore. L´abbandono è sempre vissuto come una violenza, come un´ingiustizia, credo che molte portino dentro di sé per tutta la vita il fantasma di quel figlio». «Conosco la disperazione di queste donne e ne ho viste alcune tornare indietro a cercare il figlio che avevano lasciato - aggiunge Melita Cavallo - ma quasi sempre sono ripensamenti tardivi. C´è stato un caso però in cui di fronte all´autentico dolore di una madre, abbiamo mutato un´adozione legittimante in un´adozione speciale, in modo che pur saltuariamente quella donna potesse ogni tanto rivedere il suo bambino».
Una legge imperfetta
Maria Grazia Passeri nel 1992 ha fondato l´associazione "Salvabebè, salvamamme", organizzazione di puro volontariato che sostiene le donne durante la gravidanza e nei primi anni di vita del bambino. Latte, pannolini, vestiti, assistenza medica, legale, psicologica. «Oggi nei nostri centri forniamo corredi e aiuti alimentari per cinquemila mamme e ottomila neonati, il 20% sono italiani, ma l´emergenza cresce e i fondi sono sempre più scarsi. La legge sul parto anonimo è una buona legge ma non basta. Perché permette di partorire in ospedale e di non riconoscere il figlio, ma in realtà non tutela davvero l´anonimato». Proprio a cominciare dall´ospedale, dove la segretezza, dice la presidente di "Salvamamme", non è affatto garantita. «Queste donne sono perseguitate, in fuga. Chi le nasconde? Chi le aiuta quando il momento di partorire si avvicina e l´unica soluzione a cui pensano è quella di abbandonare il neonato in un cassonetto? La risposta è semplice. Bisogna tappezzare proprio i cassonetti di tutta Italia con le istruzioni sul parto anonimo, con gli indirizzi delle "ruote" e con quelli dei consultori. Sono donne povere, straniere, colf, badanti: sono isolate, senza informazioni. Però almeno una volta al giorno questo è certo - conclude Maria Grazia Passeri - andranno a buttare la spazzatura, e vedranno quel volantino in più lingue, scoprendo così di avere ancora una via d´uscita: tenere con sé il bambino, farlo adottare da altri, chiedere aiuto. In ogni caso scelte di vita».
Repubblica 10-6-11
"Le straniere ignorano che l’aborto è legale così la nascita non voluta è l’unica alternativa"
Chi aiuta queste mamme negate prima e dopo il parto? E chi le informa delle possibilità alternative al cassonetto?
Come è possibile che nell´Italia delle culle vuote e dei bambini cercati a tutti i costi si consumino ancora tali drammi?
Il 70% dei parti anonimi in ospedale è effettuato da donne immigrate. Clandestine, senza reti, e terrorizzate dall´essere espulse. Perché se è vero che una immigrata irregolare al terzo mese di gravidanza può andare in questura e richiedere un permesso di soggiorno temporaneo, che le garantirà un anno al sicuro in Italia. È anche vero però che questo vuol dire rendersi visibili, uscire dall´ombra. «Le donne clandestine hanno paura - spiega Pilar Saradia, responsabile immigrazione della Uil del Lazio - nonostante il permesso di soggiorno copra i sei prima e i sei mesi dopo il parto. Ciò che temono è l´essere espulse dall´Italia allo scadere di questo breve periodo, e con un bambino in braccio. Così accade che le più sole, quelle fuori dalle reti di comunità, si ritrovino a dover gestire una gravidanza senza poter chiedere aiuto, e pur disperate abbandonano quel figlio che non saprebbero come gestire».
Dietro queste centinaia di parti anonimi, che riguardano appunto nel 70% dei casi donne immigrate, e nel 30% giovani ragazze italiane, ci sono alcune emergenze ben precise. «C´è un´area legata alla prostituzione - racconta Pilar Saradia - ci sono le vittime delle violenze sessuali, e anche tra le immigrate non poche minorenni. E poi c´è la mancanza di informazione. Molte straniere arrivano da paesi dove l´aborto è fuorilegge, il Perù ad esempio, e non sanno che qui invece è legale, ed è possibile interrompere una gravidanza in ospedale, anche se si è clandestine. Ma l´informazione non c´è, non passa, mentre invece passano i mesi. Così accade che per alcune non resta che l´abbandono del figlio. Sul fronte opposto - aggiunge ancora Pilar Saradia - sta emergendo un fenomeno altrettanto doloroso e segnalato proprio dai reparti di Ivg: molte donne immigrate, probabilmente assunte in nero, abortiscono per non perdere il posto di lavoro. Sanno bene che all´annuncio di una gravidanza si ritroverebbero per strada... ».
(m.n.d.l)
La Stampa 10.6.11
“La democrazia conquisterà anche la Cina”
Il padre della dissidenza Wei Jingsheng “Le primavere arabe? Troppo lontane”
Intervista di Marzia De Giuli
qui
http://www.scribd.com/doc/57499931
il Fatto Saturno 10.6.11
Internet
La Cina è vicina: Anche in Europa bavaglio alla rete?
di Laura Margottini
L’HANNO paragonato al Great Firewall, il sistema di censura che la Cina utilizza per controllare internet e vietare l’accesso a blog, social network e siti d’informazione scomodi al regime. Ora, il modello di censura cinese potrebbe diventare una realtà anche in Europa. Almeno così in una proposta avanzata da un gruppo di lavoro del Consiglio dell’Unione Europea denominato LEWP. Gruppo che si occupa dei crimini legati al terrorismo e alle frodi di varia origine. Nel corso di una riunione avvenuta lo scorso febbraio, i cui contenuti sono stati resi noti solo recentemente, si è discussa la possibilità di creare una dogana virtuale per la rete europea chiamata Virtual Schengen Border.
Riguarda la creazione di un unico e super sicuro cyberspazio europeo. Il riferimento al trattato di Schengen non è casuale. L’idea sarebbe quella di far circolare liberamente i contenuti del web all’interno dei confini europei solo dopo che siano stati filtrati in punti di accesso virtuali ai confini del continente. Qui gli Internet Service Providers bloccherebbero i contenuti illeciti sulla base di una “lista nera” di siti pericolosi o che ospitano materiale illegale. La presentazione del progetto è stata fatta da un esperto il cui nome non è stato rivelato. L’organizzazione per la libertà di informazione Articolo 19 è riuscita a ottenere e pubblicare il documento che illustrava la proposta. Nel documento si legge: «Questo è solo il primo passo per bloccare i contenuti destinati ai pedofili all’interno dei confini europei. […] In futuro sarà possibile allargare la cooperazione per bloccare altri tipi di crimini». Quali siano questi crimini e quali i siti da inserire nella lista nera non è però specificato. Cosa che ha fatto drizzare le orecchie alle associazioni in difesa della libertà d’informazione e ai provider di broadband. Utilizzare il pretesto di bloccare materiale pedo-pornografico per poi censurare la rete non è una novità. È lo stesso metodo che molte dittature utilizzano per bloccare anche quei siti che nulla hanno a che fare con la pedofilia. Spesso infatti si tratta di blog di dissidenti. Nel documento che illustra il Virtual Schengen Border c’è anche un altro punto interessante, rilevato da EDRI – uno dei più importanti movimenti europei a favore dei diritti digitali, che si è schierato duramente contro la proposta del LEWP. Riguarda il fatto che nella bozza del progetto non c’è mai un riferimento alla possibilità di perseguire per legge i criminali: «La domanda che ci poniamo è – si legge sul sito dell’EDRI – da quando la priorità della legge è diventata quella di sopprimere le prove di un crimine, piuttosto che punire i criminali e salvare le vittime?». La preoccupazione di EDRI e di altre organizzazioni è legata al fatto che una sorveglianza di internet autorizzata in Europa fornirebbe un’ottima giustificazione per censurare ulteriormente la rete in altri posti del mondo dove vige una dittatura.
Anche le aziende provider di broadband sono preoccupate, sostenendo che i contenuti illeciti dovrebbero essere rimossi grazie a una cooperazione tra la polizia e le aziende di web hosting. Bloccare parte della rete, secondo loro, non è una soluzione, perché è una misura antidemocratica, antieconomica e anche molto semplice da eludere. Per non parlare dei costi: Ian Brown, ricercatore dell’Oxford Internet Institute in Gran Bretagna, tra i maggiori esperti mondiali di diritti digitali e censura di internet, ha dichiarato a Saturno: «Il progetto è pericoloso, ma è ancora in fase embrionale, non essendo stato discusso dalla comunità europea. Ma è proprio in questa fase che deve esser bloccato, perché se la proposta dovesse andare avanti sarebbe poi molto difficile impedirne la realizzazione».
il Fatto Saturno 10.6.11
Astrofisica
Siamo tutti figli dell’antimateria
L’esperimentoAMS scandaglieràil cosmoperchiarire ilmisterocheci permettediesistere
di Amedeo Balbi
SECONDO ARISTOTELE, una delle caratteristiche della bellezza è la perfetta simmetria. È una fortuna che questo ideale estetico non si sia realizzato nell’universo in cui viviamo, visto che è stata proprio la presenza di lievi imperfezioni a rendere possibile la nostra stessa esistenza. Una delle asimmetrie più bizzarre che si manifesta nel cosmo è quella tra la materia che dà forma a tutto ciò di cui abbiamo esperienza diretta, e la sua controparte speculare: l’antimateria.
Prendete una particella elementare – per esempio un protone o un elettrone, i costituenti di base degli atomi – lasciate in-variata la sua massa e cambiate segno alla sua carica elettrica: avrete un’antiparticella. Con gli antiprotoni e gli antielettroni potreste poi costruire antiatomi, con gli antiatomi potreste mettere insieme antielementi e antimolecole, secondo le regole di una chimica perfettamente identica a quella che conosciamo. Procedendo di questo passo potreste costruire un intero mondo fatto di antimateria. Ma allora, perché il nostro mondo sembra fatto esclusivamente di materia?
Che le antiparticelle esistano è provato sperimentalmente. Ma sono mosche bianche. Per trovarle, bisogna andare a cercarle con il lanternino: per esempio tra le miriadi di particelle prodotte quando i raggi cosmici (particelle cariche veloci provenienti dallo spazio esterno) entrano nella nostra atmosfera. Oppure negli acceleratori di particelle, dove i fisici sono persino riusciti, superando grandi difficoltà tecniche, a produrre per brevi attimi antiatomi di idrogeno e di elio. Questa predominanza della materia rispetto all’antimateria risulta molto strana, dal momento che la simmetria tra particelle e antiparticelle sembrerebbe praticamente perfetta da ogni punto di vista. Un fisico che osservasse a distanza un oggetto fatto di antimateria non noterebbe differenze rispetto a una sua copia identica fatta di materia. E se un astronomo osservasse una galassia di antimateria avrebbe serie difficoltà a distinguerla da una fatta di materia.
L’unico effetto eclatante della coesistenza di materia e antimateria si ha quando esse vengono a contatto diretto. Se una particella incontra la propria antiparticella, le due si elidono a vicenda, rilasciando un’energia corrispondente alla somma delle proprie masse. Ma questo pone un problema. Se all’origine dell’universo la simmetria tra materia e antimateria fosse stata perfetta, tutto si sarebbe risolto in una generale annichilazione tra particelle e antiparticelle, che avrebbe lasciato dietro di sé solo energia, e nemmeno un mattone per costruire il mondo. Non ci sarebbero atomi, né tantomeno galassie, stelle, pianeti e persone. L’universo è quello che è in virtù di una inspiegabile (almeno per il momento) asimmetria, che ha portato a preferire la materia all’antimateria. Siamo figli di una piccola imperfezione. Di questa imperfezione, i fisici non conoscono ancora la causa. Esistono diversi tentativi teorici di interpretare il fenomeno, ma nessuna ipotesi ha ancora avuto una prova sperimentale certa. Lo scorso 16 maggio, uno dei tentativi di soluzione ha affrontato un viaggio complicato, chiuso nella stiva dello Shuttle Endeavour (per inciso, l’ultimo viaggio di quella navetta spaziale), che lo ha portato con successo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Si tratta dell’esperimento AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), un costoso apparato voluto dal premio Nobel Samuel Ting e portato avanti da una vasta collaborazione internazionale – di cui è parte importante anche il nostro paese – che scruterà il cosmo per cercare, tra le altre cose, anche tracce della presenza di antimateria.
Basterebbe trovare anche solo un antiatomo di elio per avere un forte indizio della presenza di grandi quantità di antimateria – magari intere galassie – in regioni distanti del nostro universo. Per “costruire” un atomo di elio, infatti, c’è bisogno di condizioni particolari che, per quanto ne sappiamo, si verificano in natura solo nelle condizioni di estrema densità e energia presenti negli attimi successivi al big bang, oppure nel nucleo delle stelle. Per fare un antiatomo di elio, quindi, ci vorrebbe quantomeno un’antistella, da qualche parte.
Se così fosse, l’antimateria potrebbe non essere sparita completamente, ma l’universo potrebbe essere fatto a “chiazze”, diviso in regioni di materia e antimateria separate fra loro. Sarebbe una conclusione notevole e per certi versi sconcertante; dopo di che bisognerebbe però trovare un meccanismo fisico plausibile in grado di giustificare la presenza di vaste regioni del cosmo dominate dalla materia intervallate a un numero equivalente di regioni cadute in mano all’antimateria.
Ma AMS potrebbe invece mettere limiti ancora più stringenti alla presenza di antimateria nel cosmo, portando a concludere (ed è questo l’esito più probabile secondo molti fisici) che tutto l’universo osservabile sia fatto esclusivamente di materia. A quel punto, la questione sarebbe chiusa dal punto di vista sperimentale: ma la necessità di spiegare la strana asimmetria che ha reso possibile l’esistenza dell’universo diventerebbe ancora più urgente.
Corrado Guzzanti questa sera su SkyUno (canale 109)
“Sono sceso sulla terra per combattere paura viltà e bugiardìa”
l’Unità 10.5.11
E Guzzanti finisce a Sky «In Rai vige il terrore...»
Dopo 9 anni di assenza dalla tv, il comico di «Avanzi» porta al canale di Murdoch uno special: c’è «il massone», un vecchio Licio Gelli, le Olgettine vestite da odalische...
di Roberto Brunelli
Ci sono le «orfane dell’Olgettina», vestite da danzatrici del ventre. C’è «il massone», ovviamente incappucciato, che si deve preoccupare di trovare una ragazza per Scilipoti. C’è un vecchio Licio Gelli, che curiosamente parla napoletano e rivendica con nostalgia di «quando era il burattinaio d’Italia». C’è Aniene, che è una via di mezzo tra un supereroe e «una divinità di serie C», mandata dall’Altissimo per aiutare l’umanità dolente («papà, che devo fa’ de questi terrestri, dove regna la bugiardia e so’ tutti come bambini?»). C’è uno spot per sordomuti sui quattro referendum, nel quale la conduttrice fa di tutto pur di depistare gli elettori: «Potete votare anche il 14 dice, con il linguaggio dei segni almeno troverete meno gente. Della scheda potete fare anche un aeroplanino, sicuramente sarà conteggiata lo stesso». Ebbene sì, Corrado Guzzanti torna finalmente in tv (a parte la visita a Vieniviaconme). Ma «non è la Rai», si potrebbe dire parafrasando un famigerato programma del passato: è Sky ad ospitare, l’ex Rokko Smitherson di Avanzi, transfuga della tv da ben nove anni. È non è un caso. L’appuntamento è per stasera, su SkyUno in prima serata, con altri cinque passaggi a seguire. Il titolo è, appunto, Aniene: un po’ perché uno dei pezzi forti dello speciale è l’imitazione di Venditti che canta L’esondazione dell’Aniene, il cui video in rete ha già fatto il botto, un po’ perché «l’Aniene è un fiume piccolo, come siamo noi, ma che se piove troppo è capace di arrabbiarsi davvero ed esondare». Il punto cruciale per Corrado è la libertà d’azione e di scrittura. «Non hanno nemmeno voluto vedere i testi», assicura. Andrea Scrosati, capo della programmazione del canale di Murdoch, dice che fino a ieri mattina non aveva visto nemmeno mezzo minuto di girato. Non come capita di questi tempi alla tv di Stato. Racconta Guzzanti: «L’ultima volta che sono stato in Rai c’era un clima di terrore, con persone che si sentivano detestate dal proprio editore, che dovevano combattere una guerra amministrativa e burocratica quotidiana. Molto stressante...». Gli domandano se ritiene che qualcuno voglia dissolvere Rai3. «A Viale Mazzini mi stanno superando in quanta a satira: pare che vogliano mandare Fazio a condurre il programma dei pacchi su Rai1... E Santoro? Ha fatto benissimo ad andarsene».
È curioso vedere come le vicende Rai rimbalzino qui a casa Sky. La questione degli eventuali (o probabili) fuorisciti da Rai3 interessa non poco anche Scrosati, che ripete che «le eccellenze» che dovessero rimanere senza casa potrebbero anch finire alla rete di Murdoch. Qui è in ballo quello che in altri paesi è l’elementare concetto di concorrenza. E da questo punto di vista le teste d’uovo di Viale Mazzini rischiano di lasciare un immenso campo aperto: in effetti, a vedere gli spezzoni di Aniene viene piuttosto difficile immaginarseli sulla Rai. Non solo: come conferma anche Scrosati, è ampiamente probabile che non rimanga un esperimento «one shot». Si parla apertamente della possibilità di una serie da realizzare a partire da settembre. Un progetto ambizioso. Dice Guzzanti che «Aniene è una struttura fatta di tanti sketch cuciti insieme, senza studio, senza conduttore, senza pubblico. Per il futuro, vorrei fare qualcosa che è a metà strada tra satira e fiction. Non voglio il solito show del sabato sera, ma qualcosa di più anarchico...». Intanto ci accontentiamo delle Olgettine mascherate a rallegrare «il massone che gestisce i poteri occulti del paese». No, non è la Rai, e probabilmente mai lo sarà.
Repubblica 10.6.11
Bellocchio farà un film tratto dal libro della veladiano
ROMA - Marco Bellocchio ha acquistato i diritti cinematografici del romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto, pubblicato da Einaudi Stile libero. Il libro di esordio della teologa cinquantenne, che ha già vinto il Premio Calvino, è ora in corsa per lo Strega: si saprà mercoledì prossimo se entrerà nella cinquina dei finalisti. La storia della ragazzina brutta, abituata a «esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo», ha colpito il regista per la sua tematica originale che lo avrebbe toccato nel profondo. Il romanzo della Veladiano è soprattutto una sfida per il cineasta: la trasposizione in immagini si annuncia complessa e sarà interessante vedere come Bellocchio trasformerà la materia letteraria in un film.