l’Unità 11.6.11
Arrivati al quartier generale del Pd sondaggi incoraggianti
D’Alema: «Berlusconi non va alle urne? Segnale d idebolezza»
Bersani: «Il quorum è a portata di mano. Tutti a votare»
I sondaggi fanno dire a Bersani che il quorum «è a portata di mano». Il leader del Pd tra la gente a piazza del Popolo. D’Alema: «Berlusconi non vota? Segnale di debolezza. Io sono d’accordo con Napolitano e con il Papa».
di Simone Collini
Gli ultimi sondaggi arrivati al quartier generale del Pd fanno dire a Pier Luigi Bersani che «il quorum è a portata di mano». Il leader dei Democratici arriva a Piazza del Popolo, dove si svolge la manifestazione di chiusura della campagna referendaria, e come promesso si ferma sotto il palco. «Noi dobbiamo avere un atteggiamento coerente con il movimen-
to, dobbiamo darci tutti la mano per uscire da questa lunga stagione buia, che ha indebolito la democrazia e la partecipazione». Ripete che domani andrà a votare presto, nella sua Piacenza, e invita chi gli si fa attorno a fare altrettanto, «per dare un segnale di incoraggiamento a chi magari ha qualche titubanza o pigrizia». Raggiungere il quorum «è come scalare una montagna, non a caso sono 16 anni che non si riesce a raggiungerlo dice ma questa volta sono convinto che basterà allungare la mano per afferrarlo». Bersani è d’accordo con Antonio Di Pietro, che incrocia e abbraccia sotto il palco, sul fatto che il voto di domani e dopodomani non vada politicizzato («dobbiamo aprire anche a destra se vogliamo ottenere il risultato») e ribadisce che lunedì non scatterà l’ora X, in cui il governo se ne dovrà andare. Ma il leader del Pd sa anche che questa campagna referendaria già ora ha logorato ancora di più una maggioranza e un esecutivo in grossa difficoltà. «Trovo che sia davvero disdicevole che un uomo che è al governo e che ha giurato sulla Costituzione non senta il dovere di dare un messaggio di civismo», dice a proposito dell’annunciata astensione del premier. «Ma non sono per nulla stupito. Berlusconi è Berlusconi. Del resto, se c'è la partecipazione non c'è lui, il “ghe pensi mi” non può sopravvivere di fronte ad un movimento di partecipazione unitaria e collettiva». Una partecipazione che dopo le amministrative può dare un ulteriore segnale di voglia di cambiamento, anche se formalmente non sarà sufficiente per far scattare il quorum, e accelerare una «svolta politica».
GOVERNO A CASA
Anche se il Pd si è schierato ventre a terra per la riuscita della consultazione, infatti, già a questo punto inizia a diffondersi tra i Democratici la convinzione che comunque vada, lunedì, l’opposizione sarà più forte e il governo avrà poco da cantare vittoria. Se saranno andati a votare 25 milioni 209 mila 345 elettori (è la cifra aggiornata fornita dal ministero dell’Interno poche ore prima della chiusura della campagna referendaria) sarà «un’altra botta per il governo», come dice Rosy Bindi. Ma se anche la fatidica soglia non dovesse venir raggiunta, è il ragionamento che si fa in queste ore ai vertici del Pd, la massa di votanti e l’alta percentuale di Sì espressi contro leggi ad personam e politiche energetiche e ambientali del governo saranno comunque un segnale difficilmente ignorabile, soprattutto da parte di uno schieramento che ha impostato l’intera sua campagna referendaria sull’astesionismo. Non a caso Massimo D’Alema dice che è «un segnale di debolezza» da parte di Silvio Berlusconi annunciare che non andrà a votare. Il presidente del Copasir dice che «se un capo di governo di un Paese democratico è contrario a un quesito referendario si batte per il no e non per stare a casa», e ha gioco facile nel dire che lui personalmente è d’accordo «con il Presidente della Repubblica e con il Papa» (il primo ha per tempo fatto sapere per tempo che «da elettore che fa sempre il proprio dovere» domani si recherà alle urne, mentre il secondo ha lanciato un appello a lavorare sulle energie «che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l`uomo»).
Rimarrebbe il problema, nel caso il quorum non venisse raggiunto, del permanere in vigore di leggi che consentono la costruzione di centrali nucleari, la privatizzazione dell’acqua e le norme ad personam. Per Bersani rimarrebbe una soluzione: «Gli italiani hanno capito che se vogliono liberarsene devono liberarsi di Berlusconi».
Corriere della Sera 11.6.11
Sfida finale per il quorum
Bersani: ci siamo quasi. Il Pdl: quesiti strumentali
In un foglietto i conti e i timori del Pdl: la reazione a Silvio porterà il 7% alle urne
L’opposizione spera nell’«effetto Berlusconi» per raggiungere il quorum
di Francesco Verderami
Gli uomini del Cavaliere temono che Berlusconi sia diventato il più temibile antiberlusconiano, il più feroce nemico di se stes so, e interpretano la sua esternazione sui referendum come l’ennesimo gesto di autolesionismo. È chiaro a tutti infatti — nonostante tutti lo smentiscano— che i referendum sono (anche) utilizzati dalle opposizioni come un’arma contro il premier. Perciò lo stato maggiore del Pdl aveva implorato Berlusconi di restare defilato, di mettersi al riparo per tenere al riparo il suo governo. Era stata messa a punto una linea di comunicazione per evitare le trappole mediatiche e il Cavaliere si era impegnato — in caso di domande della stampa — ad adottare la formula congegnata: «Deciderò all’ultimo momento se e come pronunciarmi sui quesiti» . Invece niente, ha voluto far di testa sua: «Non andrò a votare» , ha risposto d’istinto l’altro ieri, gettando nello sconforto i suoi uomini. Avesse potuto, Di Pietro gli avrebbe dato un bacio in fronte, «speriamo che Berlusconi infili una cazzata dietro l’altra» , confidava l’ex pm in questi giorni. Perché è sul Cavaliere che le opposizioni facevano e fanno affidamento per ottenere la spinta decisiva verso il quorum. — per una volta l’analisi è bipartisan, nel centrodestra hanno quantificato il danno con un sondaggio improvvisato: niente di scientifico, nessun calcolo ponderato, solo una previsione scritta come una schedina, nella speranza per una volta di non azzeccare il risultato. La traccia sta su un foglio rimasto per una settimana sulla scrivania di un dirigente del Pdl, che aveva preso a valutare la possibile percentuale dei votanti. — secondo il pronostico, il 35%degli elettori lo porteranno alle urne «il centrosinistra e il terzo polo» , il 5%andrà al seggio «dopo l’indicazione di Napolitano» , il 3%sarà spinto dal «discorso di Benedetto XVI sull’ecologia» , l’ 1%«lo farà per Celentano» . Sul biglietto c’è poi una nota a margine su Berlusconi, che indurrebbe al voto «per reazione» il 5%degli aventi diritto. Così, fino all’altro ieri, si arrivava al 49%. Ma dopo l’ennesima sortita del Cavaliere — che aveva già definito «inutili» i quesiti— al dato originario del 5%è stato aggiunto un 2%... Così si arriverebbe al 51%e se i referendum superassero la soglia della validità, l’idea del premier di «andare al mare» potrebbe poi far rima con «governo balneare» . Perché avrà pur ragione il sindaco democratico di Firenze, Renzi, «ai miei dico che si illudono se pensano di dare in questo modo la spallata a Berlusconi» . Ma è questa la speranza che alberga in Bersani, sebbene il leader del Pd tenti di smentirlo. Ancora ieri, infatti, prima ha negato («i referendum non sono l’ora x per il Cavaliere» ) poi non è riuscito a trattenersi: «Il meccanismo del "ghe pensi mi"non potrà sopravvivere a una riscossa di un movimento di partecipazione» . — al pari di Bersani anche Casini si è scoperto referendario, «la consultazione è una prova di democrazia » sottolinea il capo dei centristi. Così si produce un paradosso: finché — per merito soprattutto dei Radicali— i referendum sono stati usati come strumento di democrazia diretta, per dar voce ai cittadini su singoli provvedimenti, solo in poche occasioni hanno superato il quorum. Ora che vengono adottati (anche) per risolvere controversie politiche, si prevede una forte partecipazione, al limite del risultato. D’altronde è come se i quesiti si fossero fusi tutti in uno, con cui si chiede se mandare o meno a casa Berlusconi. Ecco spiegata l’ansia degli uomini del Cavaliere. E quel sondaggio artigianale dà voce a un moto dell’animo, serve a esorcizzare la paura dell’ «effetto domino» , che il voto delle urne possa cioè incidere sul voto di Palazzo, sulla verifica parlamentare che attende la maggioranza fra due settimane. Di qui ad allora — se i referendum centrassero l’obiettivo— nel centrodestra si avrebbe un’escalation di tensioni. A Pontida, dove si riunirà il «popolo padano» , Bossi non potrebbe non tenere conto del risultato e sommarlo alle «cose che non vanno» da addebitare a Berlusconi. Magari prenderebbe spunto dalle critiche che Tremonti ha rivolto al premier per la gestione del «dossier nucleare» , per quelle «leggi inutili e sbagliate» varate all’ultimo momento così da scongiurare il referendum e che invece non hanno evitato la consultazione, «mentre i costi dei progetti per il rilancio atomico — secondo il ministro dell’Economia— dovremo comunque metterli a bilancio» . E il titolare di via XX settembre sa come s’invirgola il Cavaliere ogni qualvolta si accenna agli accordi sottoscritti con la Francia sulle centrali, di cui aveva parlato con Sarkozy anche nell’ultimo bilaterale. — per una maggioranza alle corde e già colpita al mento dal voto delle Amministrative, sarebbe difficile evitare il conteggio nel caso i referendum avessero la meglio. Perché sul ring parlamentare si nota come la maggioranza abbia abbassato la difesa. Le tensioni e le defezioni tra i Responsabili, i mal di pancia nella Lega e nel Pdl: basterebbe un niente, l’assenza di un deputato, per costringere l’esecutivo a mettere il ginocchio sul tappeto. Può darsi che l’idea di «andare al mare» non porti a un «governo balneare» , che la vittoria dei referendum non produca effetti politici, che sia stata per tempo scongiurata la congiura immaginata e temuta dal premier: la crisi sulla manovra imposta da Tremonti e il cambio in corsa proprio con Tremonti e proprio in nome della manovra da varare per salvare il Paese dal dissesto finanziario. Però tra i quesiti al vaglio elettorale ce n’è uno che interessa da vicino Berlusconi. E non perché sul legittimo impedimento il premier faccia ancora affidamento, ma per gli effetti che un voto di abrogazione della legge si porterebbe appresso. L’impressione nel Pdl è che, in quel caso, sarebbe «un suicidio» poi tentare di approvare provvedimenti come il processo breve, ancora al vaglio del Parlamento e su cui Napolitano già in passato ha espresso più di un dubbio. Gli uomini del Cavaliere sono certi che se il referendum sul tema di giustizia passasse, il capo dello Stato non firmerebbe quella legge. Francesco Verderami
l’Unità 11.6.11
I numeri Per arrivare al fatidico «50%+1» previsto dalla legge sono necessari 25.209.345 voti
La «via crucis» del quorum: otto milioni di voti cercansi
Una «montagna da scalare», ecco cos’è il quorum. A maggior ragione pensando alle scorse amministrative, dove l’astensione è stata molto alta: in sostanza, non bastano gli elettori di Pisapia & co...
di Roberto Brunelli
È la via crucis del quorum. Una babele di numeri, «una montagna da scalare», una sfida tutt’altro che facile, figlia di una normativa, quella del «50% +1», che aveva un senso agli albori della storia repubblicana, quand’era scontato che l’affluenza alle urne toccasse il 90% degli elettori, o giù di lì. Gli italiani chiamati ad esprimersi domani sui quattro quesiti referendari sono esattamente 47.118.784, il che significa che il «numero magico del quorum» è esattamente di 25.209.345 elettori. Sono quelli che si devono recare alle urne affinché il referendum sia valido. Tanti, tantissimi. Un’immensità. Per fare un confronto, alle elezioni politiche del 2008 il centrosinistra raccolse complessivamente 13,6 milioni di voti. Anche sommando altri partiti d’opposizione, a malapena si arriva a 17 milioni. Questo vuol dire che nel migliore dei casi mancano all’appello circa 8 milioni elettori: da cercare evidentemente nell’area del centrodestra e del non voto.
Ci sono altre variabili da tenere in considerazione. Il primo sono i 3.299.905 italiani all’estero. Il fatto è che secondo gli analisti si tratta di persone in generale scarsamente invogliate al voto. Nondimeno, a causa del complicato meccanismo che regola il voto nelle circoscrizione estere, hanno già votato, peraltro su schede che riportavano il vecchio quesito sul nucleare, ed il Viminale ha affermato che non era possibile stampare per tempo le nuove schede, per cui il loro voto potrebbe essere considerato tecnicamente nullo. Secondo un calcolo dell’Idv, questi 3,2 milioni alzerebbero il quorum «reale» al 58%. Poi c’è la questione dell’affluenza. Prendete il dato delle scorse amministrative. Alle comunali è stato del 68,5%, alle provinciali ancora più basso, ossia del 61%. Questo vuol dire che chi spera che i referendum vadano a vuoto può semplicemente sommare il proprio «non voto» propugnato da gran parte del centrodestra alla percentuale di chi tende a non presentarsi alle urne: un fetta di italiani che supera ampiamente il 20%. È chiaro che i promotori della consultazione sperano in due o tre «effetti trascinamento»: in primis, la grande sensibilizzazione intorno alla questione nucleare dopo il devastante incidente di Fukushima, poi la forte mobilitazione intorno ad un tema sensibile come quello dell’acqua e la percezione, tutta politica, che una vittoria ai referendum possa rappresentare una spallata al governo Berlusconi e, soprattutto, la grande onda di passione civile che ha portato alle vittorie di Pisapia, De Magistris, Fassino & co. Stando ai dati, però, il problema è che la battaglia va ben oltre gli schieramenti per come si sono sono definiti alle amministrative. Vediamo, per esempio, Milano. Qui di fronte a 996 mila elettori, quelli che si sono effettivamente andare a votare sono stati 673 mila al primo turno e 671 mila al secondo, con un’affluenza rimasta di poco sopra il 67,3%. Il che vuol dire che il quorum teorico di Milano è di 492 mila elettori. Facciamo un po’ di conti: se consideriamo tutti i voti di chi al secondo turno ha portato Giuliano Pisapia alla sua straordinaria affermazione, imprevedibile in questi termini fino a poche settimane fa, siamo complessivamente a 365 mila voti. Ne mancano 127 mila, che bisogna pescare tra i 297 mila che hanno segnato la propria crocetta sul nome di Letizia Moratti. Ancora più intricato il caso Napoli, dove bisogna fare i conti con un astensionismo molto alto. Al ballottaggio è andato a votare solo il 50,5%: 410 mila elettori. Di questi 264 mila hanno votato De Magistris: bisogna conquistarne altri 146 mila. E vanno trovati ovunque: tra gli elettori di Lettieri, e soprattutto nel popolo del non voto. Come avevamo detto? Una via crucis.
Repubblica 11.6.11
Le rilevazioni sull´affluenza di domani possono già far capire se il quorum sarà raggiunto. Ecco quattro precedenti
Occhio ai dati, la domenica è fondamentale
ROMA - Quorum sì, quorum no: in attesa di conoscere il dato definitivo dell´affluenza alle urne in Italia e all´estero che sancirà la validità o meno dei quattro referendum in programma domani e lunedì, già la rilevazioni dell´affluenza alle urne della mattina di domenica e poi quelle delle ore 19 e delle ore 22 saranno un indicatore significativo. Ma come leggerle? Come interpretarle? Per farsi un´idea su come trattare i dati che domani inizieranno a irrompere sui media ci si può rifare al passato, prendendo ad esempio tre casi in cui il quorum venne raggiunto, sfiorato o mancato clamorosamente. Il 12 maggio 1974 si votava sul divorzio, ovvero per l´abrogazione della legge Fortuna-Baslini. Vinse il no: la domenica le rivelazioni sull´affluenza furono tre, alle 11, alle 17 e alle 22: la prima segnava il 17,9%, la seconda il 46,5% e la terza il 73,8%. Alla fine votarono l´87,7% degli aventi diritto. Il secondo esempio utile per orientarsi arriva dal 3 giugno 1990, quando si votava sulla caccia e il quorum venne sfiorato: alle 11 di domenica l´affluenza era del 5,1%, alle 17 del 15,2% e alle 22 del 31,5%. A urne chiuse votarono il 43,4%. Il terzo e ultimo esempio è quello del 15 giugno 2003, quando si votava sul reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati ed il quorum venne vistosamente mancato, con appena il 25,7% dei voti. Allora le rilevazioni avvennero alle 12, alle 19 e alle 22 di domenica e comprendevano le schede degli italiani all´estero: ebbene, i parziali furono del 4,5%, 10,4% e 17,5%. Da notare che quella volta votarono, come domani e dopo, anche gli italiani all´estero e che il loro afflusso fu praticamente identico a quello nazionale. La stessa cosa accadde nel 2009.
il Fatto 11.6.11
Referendum, quorum in pericolo Corsa fino all’ultimo voto
Manifestazioni in tutta Italia, bandiere sui monumenti. Idv e Pd in piazza, Bersani: “Possiamo farcela”. In tv però continua il bavaglio
Al quorum, al quorum!
Mobilitazione in tutta Italia, Idv e Pd: Sì può fare Il Caimano ha paura: “E se la gente non va al mare?”
di Enrico Fierro
Andrea Rivera sale sul palco, si guarda attorno, vede che nel catino rovente di Piazza del Popolo a Roma non ci sono masse oceaniche e sfodera l’ironia. “A Emilio Fede, la piazza è vuota perché gli altri stanno a cercà di capì come cazzo si vota, di che colore so le schede, visto che la televisione non lo dice”. E vai con la musica per la lunga maratona che dalle due del pomeriggio anima la grande piazza romana. Ci sono attori, come Claudio Santamaria e Ulderico Pesce, scrittori, Moni Ovadia e Piergiorgio Odifreddi, cantanti come Baccini, Cristicchi, Teresa De Sio, Eugenio Finardi, Er Piotta, e tantissimi gruppi musicali. Ci sono i leader di partito. Ma c’è poca gente all’inizio di questo caldissimo pomeriggio referendario, un po’ di più col fresco della sera. Ma la piazza non è certo quella delle grandi mobilitazioni. Dal palco tutti invitano a votare, votare e votare sì. Pierluigi Bersani è “cautamente ottimista”. “Raggiungere il quorum è come scalare una montagna, ma il risultato è a portata di mano”. Antonio Di Pietro pensa agli imbrogli del governo e al voto degli italiani all'estero. “Questo è il vero grande problema. Noi vorremmo che il loro voto non venisse conteggiato ai fini del quorum”. Sotto il palco arrivano anche Susanna Camusso e Guglielmo Epifani. “Il voto è un diritto – dice la segretaria generale della Cgil – noi ci batteremo fino all'ultimo momento utile perché la gente vada a votare”. Moni Ovadia sale sul palco e parla del questito sul “legittimo impedimento”. “Un referendum che ha un valore simbolico e pratico preciso. Perché Berlusconi ha affermato come giusto il principio di disuguaglianza stabilendo quello della ingiudicabilità per i potenti”.
LA GENTE in piazza lo sommerge di applausi quando dice quasi urlando che “la democrazia dove non c'è uguaglianza è un guscio vuoto. Silvio Berlusconi è l'illegittimo impedimento che non ci permette di godere di una vera civiltà democratica”. Mentre la maratona continua a Piazza del Popolo, in mille altri punti di Roma, al centro e nei quartieri periferici, i movimenti organizzano altre manifestazioni. Nel pomeriggio militanti di Greenpeace appendono uno striscione antinucleare sul Colosseo.
Una mobilitazione generale confortata dal tam-tam sui sondaggi. Ne circolano tanti, quelli delle società demoscopiche più accreditate danno il quorum ad un filo di lana. Anche quelli consultati da Berlusconi che parlano di una forbice molto vicina al 50%. Il Cavaliere teme che domani, nonostante la calura, la gente deciderà di non andare al mare. Problemi non ce ne sarebbero nel Nord-Est e nell'Italia Centrale, ad un passo dall'obiettivo nel Nord-Ovest, problemi seri nel Sud. Ecco perché sono in tanti gli artisti che dal palco lanciano appelli al voto. “Siamo come quelli è l'immagine usata da Antonio Di Pietro che stanno per arrivare alla riva del risultato e quando qualcuno gli chiede se si sta per arrivare, io rispondo: ‘Nuota, fratello, nuota’”'. E ci sarà ancora da nuotare nelle ultime ore per convincere indecisi, distratti, scettici. Certo che le chiazze di vuoto che tratteggiano Piazza del Popolo non aiutano. Sindacalisti e politici non sono sul palco per evitare le polemiche sulla strumentalizzazione dei referendum che ci sono state negli ultimi giorni tra psartiti e comitati.
MARTEDÌ scorso si era raggiunta una sorta di intesa sulla presenza dei leader dei partiti alla manifestazione conclusiva, ma l'equilibrio si è rotto con la lettura dei giornali di mercoledì mattina e i titoli che annunciavano un accordo Pd-Idv per la piazza unitaria. Guglielmo Epifani fa un giro nel retro-palco, osserva i troppi vuoti, si stringe nelle spalle e si lascia andare ad una considerazione: “Se ci avessero chiesto un consiglio... ”. Gianfranco Mascia, attivista del Popolo Viola, minimizza. “Questa non è una manifestazione, ma una festa popolare per il voto. Movimenti e partiti non c’entrano, ad organizzare questa maratona sono stati i ragazzi di Etruria Festival. E poi guardiamo il web, face-book, le dirette streeming. C'è una piazza vera e una virtuale, in quest'ultima stiamo avendo centinaia di migliaia di contatti”. Battiquorum e velati ottimismi. Si continua a nuotare tutti fino alle 15 di lunedì con la speranza che si possa ribaltare l'antico motto “Piazze piene urne vuote”.
l’Unità 11.6.11
Sì, battiamo i privilegi
di Moni Ovadia
I l raggiungimento del quorum e la conseguente vittoria del fronte referendario assumerebbe un significato politico decisivo per il futuro del nostro paese e non solo del nostro paese. In particolare il quesito che riguarda l'acqua contiene in se un orizzonte ben più ampio del suo merito specifico. Una vittoria dei sì per affermare che l'acqua è bene comune, potrebbe inaugurare una rimessa in discussione dell'ideologia privatistica ed economicista del mondo che considera l'intero creato, essere umano incluso, costituito da una serie di commodities negoziabili sui cosiddetti mercati, ma soprattutto territorio violabile e violentabile con ogni forma di speculazione selvaggia.
Gli idolatri del mercato, da che il thatcherismo e le reganomics hanno fatto il loro impetuoso esordio sulla scena mondiale, hanno fatto gabellato per oro colato, l'idea che la privatizzazione di ogni attività economica sia la panacea di tutti i mali. È falso. L'ultima crisi economica mondiale ha smascherato questa ignobile menzogna dei signori del privilegio.
Per quanto attiene al bene acqua basta informarsi sulle ragioni della ripubblicizzazione dell'acqua a Parigi, dopo anni di fallimentare gestione privata. La lungimirante decisione ha portato solo vantaggi: alla qualità del servizio, alla qualità intrinseca del bene, alle tasche dei cittadini e da ultimo alle casse della municipalità, 35 milioni di Euro, permettendo all'amministrazione di investire nel welfare ancora a vantaggio dei cittadini. L'economia pubblica del bene comune è una scelta al servizio della società. Ed è la società civile che deve dettare questa priorità al ceto politico.
«l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo»
l’Unità 11.6.11
Un popolo di poeti, eroi e voltagabbana
Il noto comparatista parla di questa moda tutta italiana, quella di cambiare casacca, e spiega: «È un sintomo post-moderno negativo di una società liquida come la nostra. E Scilipoti ne è la caricatura all’ennesima potenza»
Le radici storiche sono nel trasformismo parlamentare dei primi anni d’Unità d’Italia
intervista di Roberto Carnero
BORDEAUX. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto comparatista italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.
Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana? «Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabba, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento». Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?
«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila». Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano? «La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».
In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante? «Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo». Ma non è lecito cambiare idea? «Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».
I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...
«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge». Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi... «Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata... In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».
Chi è
Studioso di letteratura all’Italia e all’estero
Remo Ceserani è uno dei più importanti studiosi di Letterature comparate a livello mondiale. Ha insegnato in varie università, italiane e straniere. È inoltre autore di numerosi volumi di storia e teoria letteraria e di critica tematica, «Raccontare il postmoderno» (Bollati Boringhieri) e, con Lidia De Federicis, «Il materiale e l’immaginario» (Loescher 1978), un’antologia in dieci volumi che ha avuto un grande successo nella scuola secondaria. R. CARN.
Repubblica 11.6.11
Il pianto di Grossman davanti al muro dei figli perduti
di Fabio Scuto
Gerusalemme. In sordina, quasi senza alcun annuncio, esce in Israele in occasione della Settimana del Libro Ebraico, l´ultima fatica di David Grossman. Difficile definire Fuori dal tempo ("Nofel Mihutz Lazman", pagg.187) un "semplice" romanzo e infatti lui stesso lo definisce nel sottotitolo un "racconto a più voci". È quasi una pièce teatrale dove i personaggi, "voci" senza un nome, recitano per lo più monologhi in versi liberi, da cui, poco alla volta, si evince la trama. Una sera, un Uomo, il cui figlio è morto cinque anni prima, decide di mettersi in cammino per andare ad incontrarlo "laggiù". La Moglie tenta di dissuaderlo, ma invano, lui non vuole sentire ragioni andrà "laggiù". Al cammino dell´Uomo, si uniscono via via altri personaggi: il Duca, la Levatrice con il Calzolaio suo marito, il Vecchio Maestro di Calcolo, la Rammendatrice delle Reti da Pesca, tutti accomunati dal dolore di aver perduto un figlio o una figlia e di non essere riusciti a "parlarne". La marcia dei derelitti – che avviene in cerchio, sulle colline che circondano una città fantastica – è documentata, per ordine del Duca, dallo Scriba delle Cronache Cittadine, che, come si rivelerà in seguito, ha anche lui perduto un figlio. Ma è seguita da lontano anche da "Centauro": uno scrittore che dopo la morte del figlio non è più riuscito ad alzarsi dalla scrivania, questa è diventata parte del suo corpo, ma lui non è più riuscito a scrivere una parola. Alla fine il gruppo giunge alla meta: su una muraglia compaiono, come su uno schermo plastico, bassorilievi a forma di volti e altre parti del corpo, nelle quali ai genitori sembra di riconoscere le sembianze dei propri ragazzi. Ma forse è solo una suggestione: la muraglia scompare rapidamente e con essa le figure. All´Uomo-che-cammina resta solo la consapevolezza dell´inevitabilità del distacco finale.
David Grossman continua a vivere nei personaggi dei suoi libri. Un filo diretto lega il bambino Momik di Vedi alla voce: Amore, il primo grande romanzo che gli diede notorietà internazionale, all´Uomo che cammina in Fuori dal tempo. Entrambi devono misurarsi con un "laggiù", misterioso e pericoloso, nel caso di Momik è il luogo dove viveva la "bestia nazista", posto da cui non si torna e se si torna si rimane menomati nel corpo e nella mente; nel caso dell´Uomo-che-cammina è il luogo dove si trovano i figli morti, separati per sempre da una muraglia invalicabile. Un´esperienza atroce che Grossman attraversa dal luglio 2006, quando nell´ultimo giorno di guerra suo figlio Uri morì lungo il fronte con Libano.
Fuori dal Tempo è un libro complesso, su più piani narrativi, su cui bisogna tornare più di una volta per coglierne il senso più profondo. È un libro sofisticato e contemporaneamente uno dei più umani che Grossman abbia mai scritto, supera la barriera dell´intelligenza analitica per colpire direttamente quella emotiva. È un viaggio nel profondo dell´animo umano che, se apparentemente si svolge in gruppo, in realtà è un processo solitario di elaborazione di un lutto senza fine. Solo l´accettazione della morte del figlio - "la sua morte non è morta" – riesce a ridare le parole a chi le aveva perdute.
Repubblica 11.6.11
Commosso dalla primavera araba
Lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk è tornato a Istanbul per seguire la campagna elettorale
"Il mio paese tra cultura e democrazia ecco perché l´Europa sbaglia a rifiutarci"
Assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori dall´Egitto alla Tunisia mi ha commosso fino alle lacrime
intervista di Marco Ansaldo
Orhan Pamuk, la Turchia va al voto ma all´estero diventa un polo d´attrazione per le rivolte arabe. Lei come giudica questo momento politico così intenso?
«La Turchia è sempre più protagonista. Lo vediamo nella cultura, nelle arti, nei film. Ma lo constatiamo anche in politica. Ad esempio, per quanto riguarda gli avvenimenti più recenti attorno ai confini del mio Paese, assistere alla primavera araba e alla caduta dei dittatori mi ha commosso fino alle lacrime».
Il premio Nobel per la letteratura turco, gira il mondo per mestiere e per piacere, ma dopo qualche mese finisce sempre per tornare nella sua Istanbul. Chi lo conosce bene sostiene, anzi, che «Pamuk non può vivere lontano dalla sua città». Ed è vero. La scorsa settimana il grande scrittore di "Neve" e di "Altri colori" è stato in Italia. Poi è rientrato per assistere agli ultimi giorni di campagna elettorale.
La Turchia che non riesce a entrare in Europa guarda al Vecchio continente con occhi ormai pieni di disincanto?
«Nei miei libri, come l´ultimo da poco uscito in Italia ("Il signor Cedvet e i suoi figli", Einaudi), ci sono spesso personaggi ricchi della Turchia degli anni Trenta. Costoro coltivavano in maniera molto assidua il desiderio di occidentalizzazione. E l´Europa, in quegli anni, definiva davvero i colori del mondo. Era così nell´economia, nella cultura».
Ora il sogno europeo si è rotto?
«Adesso credo che il mondo non sia più così. E c´è una pletora di motivi a dimostrarlo. Ad esempio l´Europa si è arricchita molto. Poi però sono diventate più ricche anche una serie di nazioni, non occidentali, che hanno acquisito fiducia, e pure una certa rabbia nei confronti dell´Europa, del risentimento».
Come la Turchia che si sente rifiutata. Ma Occidente ed Europa rappresentano ancora il faro della cultura? Oppure le rivolte in Africa e in Medio Oriente ci mostrano che il vento è cambiato?
«E´ una domanda molto grande. Nelle democrazie ci sono tutta una serie di valori, per i diritti umani, le donne, la libera informazione, che non sono più esclusivo patrimonio dell´Europa. Ma sono diventati istanza dei Paesi che un tempo non li avevano».
Sono le richieste della cosiddetta primavera araba?
«Sì, il grido degli arabi, in Tunisia, in Egitto e negli altri Paesi musulmani, prova il desiderio per questi valori. Osservare questa cosa mi ha fatto quasi piangere».
Dalla commozione?
«Forse la reazione, di primo acchito, è stata di carattere sentimentale, per la caduta di questi tiranni. E poi anche per considerazioni culturali».
Quali?
«Quando vivevo in America, ad esempio, sono stato vittima di pregiudizi sull´Islam. Dicevano che era un sistema iperobbediente a un tiranno. Cosa che per molti Paesi non era così. Ecco, oggi plaudo al fatto che questo ragionamento sia stato scardinato dai fatti. Lo dicevano senza conoscere la Turchia». (m. ans.)
Corriere della Sera 11.6.11
Turchia, il ministro per l’Europa Egemen Bagis
«Siamo noi l’ispirazione della primavera araba»
«Il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, la Ue»
di Monica Ricci Sargentini
ISTANBUL— L’autobus avanza lentamente per le strade di Maltepe, popoloso quartiere di Istanbul sul lato asiatico, la musica si alterna a una voce che ripete: «Egemen Bagis vi saluta, cittadini è il momento di diventare grandi, camminiamo insieme verso il futuro» . Lui, 41 anni, ministro per gli Affari dell’Unione Europea, uomo di punta dell’Akp, è in piedi da ore ma non si stanca di salutare gli elettori che domani dovranno votarlo nel primo distretto della città dove è in lista subito dopo il premier Erdogan. Tra una stretta di mano e l’altra si rivolge al Corriere: «Quando metteranno la scheda nell’urna— dice— queste persone guarderanno al loro stile di vita, a cosa abbiamo prodotto in questi anni: 13 mila chilometri di strade, una crescita economica dell’ 8,5%contro l’ 1,5%del resto d’Europa e un reddito pro capite passato dai 2.300 dollari l’anno a 11.000. Nessuno farà caso alla spazzatura pubblicata dalla stampa straniera prima del voto» . Il suo governo ha certo migliorato la vita della gente, ma spesso è accusato di non tollerare le critiche. L’Economist ha invitato i turchi a votare l’opposizione per il bene della democrazia. Lei cosa risponde? «Il Paese non è mai stato così trasparente. Ora le persone sono più libere. L’idea che in Turchia ci sia una deriva autoritaria è semplicemente assurda» . Ma la libertà di stampa non è a rischio? In prigione ci sono 57 giornalisti. «I procuratori hanno già chiarito che i reporter arrestati non sono imputati per le loro opinioni o quello che hanno scritto, ma perché hanno commesso dei crimini. E per quanto riguarda gli arresti di massa ricordatevi di Gladio e di Mani pulite» . La politica estera della Turchia è cambiata negli ultimi anni, il Paese è considerato un modello da gran parte del mondo arabo. Ankara ora guarda ad Est? «La Turchia non sta andando né a est né a ovest, la Turchia sta crescendo e sta diventando più sicura di sé. Lo stesso anno in cui abbiamo iniziato il percorso di ammissione all’Ue abbiamo anche assunto la segreteria generale dell’organizzazione della Conferenza islamica. Siamo diventati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu dopo 47 anni. Stiamo negoziando per la pace tra Siria e Israele, Russia e Georgia, Afghanistan e Pakistan, Iraq e Siria. Siamo la parte più ad est dell’Occidente e la parte più ad occidente dell’Est. Ma il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, l’Ue» . Due anni fa in un’intervista al Corriere Erdogan aveva chiesto all’Europa di dire una parola chiara sull’ammissione. A che punto siamo? «Solo l’ 8%dei turchi pensa che la Ue sia sincera con noi, per gli altri sta facendo il doppio gioco. Guardi la questione del visto: i brasiliani possono entrare nell’area Schengen senza problemi, per noi è una vera tortura. Su Cipro la parte turca ha approvato il piano dell’Onu, ma resta sotto embargo. E poi ci sono quei 20 capitoli sulla strada della Ue: 17 sono bloccati da singoli Stati per motivi di politica interna» . Quindi secondo lei l’obiettivo è lontano? «No. Io dico che l’Europa deve prendere la decisione giusta e deve farlo ora. Dobbiamo diventare membri al più presto. Quale garanzia migliore di una Turchia democratica, che l’entrata nell’Unione? L’Occidente dimostri di essere sincero con noi. Durante la guerra fredda abbiamo protetto i nostri alleati della Nato, ma ora vediamo gli ex Paesi sovietici entrare nel club, mentre noi restiamo fuori. Dovevamo forse diventare membri del Patto di Varsavia invece che della Nato?» Qual è la sua posizione verso la primavera dei Paesi arabi? In particolare cosa pensa della situazione in Siria? «Non è la prima volta che abbiamo rifugiati al confine e come nostra tradizione li accoglieremo e accudiremo. In questi Paesi c’è stato un grosso cambiamento: prima si scendeva in piazza solo contro Israele, ora le persone chiedono democrazia, lavoro, libertà. Vogliono essere come la Turchia. Noi siamo la loro fonte di ispirazione» .
Corriere della Sera 11.6.11
Incontro con Nabil El Arabi
In bilico tra vecchi e nuovi amici Il grande gioco dell’Egitto di domani
I temi caldi: mediazione in Medio Oriente, asse con la Turchia, «Iran connection»
L’apertura del valico di Rafah è una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto
di Sergio Romano
Ogni ministero degli Esteri si considera il tempio dell’interesse nazionale, il luogo dove la continuità prevale sul colore dei governi e sugli indirizzi della politica interna. Quello della Repubblica egiziana non fa eccezione. Nel grande palazzo che ospita la sua diplomazia, due lunghi corridoi del piano nobile (quello in cui sono gli uffici del ministro e dei suoi principali collaboratori) sono dedicati agli «antenati» , vale a dire ai ritratti di coloro che hanno diretto la politica estera del Paese. I più vecchi portano il fez, un copricapo ottomano che fu di moda in Egitto sino all’abdicazione di re Farouk e al breve regno del figlio Fouad, ultimi sovrani della dinastia di Mohamed Ali Pascià. I più recenti sono ritratti a capo scoperto. La serie s’interrompe durante il protettorato britannico e ricomincia dopo il ritorno all’indipendenza. Amati o detestati dai loro contemporanei, tutti i ministri degli Esteri appartengono alla nazione e hanno diritto agli stessi onori. Fra qualche settimana, nella galleria dei ritratti vi sarà anche quello della persona con cui ho un appuntamento. La permanenza di Nabil El Arabi alla testa del ministero degli Esteri verrà ricordata come una delle più brevi nella storia del Paese: dal 6 marzo, quando venne chiamato dai militari a far parte del governo post-rivoluzionario di Essam Sharaf, al 15 giugno, quando si trasferirà nel palazzo della Lega Araba in piazza Tahrir per divenirne il segretario generale. Ma sarà ricordata come quella dell’uomo che ha fatto in poche settimane almeno tre cose: ha presieduto alla riconciliazione palestinese, ha aperto Rafah, il valico di frontiera che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza, ha avviato i contatti per la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Iran. E sarà anche ricordato probabilmente come il primo ministro degli Esteri egiziano, da molti anni a questa parte, che ha meritato un giudizio sospettoso, diffidente, quasi ostile del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. El Arabi ha avuto incarichi diplomatici, ma è principalmente un giurista. Ha partecipato come consulente legale agli accordi di Camp David fra l’Egitto e Israele nel 1978, è stato giudice alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sino al 2006, ha fatto parte della commissione che ha espresso un parere sulla costruzione del muro israeliano e ha criticato il governo di Gerusalemme, nel corso di questi anni, con argomenti soprattutto giuridici. Mi accoglie in italiano (ha studiato a Roma quarant’anni fa), ma passiamo rapidamente all’inglese e parliamo anzitutto della mediazione egiziana per la conclusione dell’accordo fra i discendenti palestinesi di Yasser Arafat e i cugini separati di Hamas. Quando osservo che l’accordo è stato indirettamente facilitato dalla rivoluzione del 25 gennaio, El Arabi ricorda che la mediazione egiziana era cominciata da tempo e preferisce mettere l’accento sulla continuità della politica estera del suo Paese. L’intesa, secondo il ministro, sarebbe stata resa possibile dalla evoluzione della linea di Hamas dopo l’inizio della crisi siriana: gli islamici della Striscia temevano di perdere la protezione di Damasco e sono diventati più concilianti. È vero, ma soltanto in parte. Il mediatore, prima della rivoluzione, era il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e noto per essere il migliore amico di Israele nella regione. Oggi, grazie ai documenti caduti nelle mani del giornalista Robert Fisk e pubblicati dall’Independent del 7 giugno, sappiamo che una delegazione composta da palestinesi delle due parti, andò al Cairo il 10 aprile ed ebbe conversazioni con l’Intelligence egiziana, con Amr Moussa, segretario della Lega Araba, e con El Arabi, da poco installato al ministero degli Esteri. L’Intelligence promise che lo spirito della mediazione sarebbe cambiato. Moussa dette la benedizione della Lega. El Arabi volle riceverli e ascoltarli alla presenza del ministro degli Esteri turco, allora in visita al Cairo: il modo migliore per garantire ai palestinesi che da quel momento i mediatori egiziani avrebbero smesso di adottare la tattica dilatoria di Suleiman. Da quel momento i negoziati sono diventati pragmatici, concreti, animati dal desiderio di raggiungere un’intesa. Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi. Ma El Arabi respinge le critiche israeliane. Il regime del valico non rientra negli accordi con Israele, che il nuovo Egitto intende rispettare. È una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto. Passiamo ai rapporti con l’Iran. Qualche giorno fa i servizi egiziani hanno arrestato un diplomatico iraniano, lo hanno accusato di spionaggio e lo hanno espulso. Ma sull’aereo che lo riportava a Teheran viaggiava anche una delegazione egiziana. Nelle scorse settimane ve ne sono state due: la prima limitata a tre intellettuali, fra cui uno studioso dell’università di Al Azhar, la seconda composta da cinquanta persone che rappresentano diverse opinioni, confessioni e attività professionali. El Arabi mi dice che i contatti per la piena ripresa dei rapporti diplomatici (oggi ciascuno dei due Paesi ha nell’altro soltanto un ufficio di rappresentanza) richiederanno un negoziato piuttosto lungo. Ma poi si chiede perché l’Egitto non dovrebbe avere rapporti diplomatici con un Paese importante della regione a cui appartiene. In una intervista, qualche settimana fa, ha detto che l’Iran ha il diritto di fare una politica corrispondente al suo ruolo e che non bisogna avere paure ingiustificate. Parliamo infine della Libia, con cui l’Egitto ha una lunga frontiera che gli abitanti della regione (spesso appartenenti alle stesse tribù e legati da vincoli familiari) attraversano liberamente senza visti e passaporti. La maggiore preoccupazione di El Arabi è la sorte della comunità egiziana. Dice che del milione e mezzo di connazionali che vivevano in Libia prima della guerra civile, 250 mila sono tornati in Egitto attraverso la sua frontiera occidentale, mentre 150 mila si sono rifugiati in Tunisia. Più di un milione, quindi, sono ancora in Libia, nel mezzo di un conflitto che ha paralizzato l’economia del Paese. Sono queste le ragioni per cui l’Egitto auspica una rapida cessazione delle ostilità. Ma non mi sembra che ponga come condizione l’estromissione di Gheddafi: una posizione alquanto diversa, quindi, da quella della Nato e delle maggiori potenze occidentali. Negli anni di Mubarak l’Egitto aveva una politica estera costante e prevedibile, fondata su tre rapporti di ferro: con gli Stati Uniti, con Israele e con l’Arabia Saudita. Erano rapporti che permettevano al regime di valorizzare la propria politica anti-jihadista mercanteggiandola contro i finanziamenti degli Stati Uniti alle Forze armate e il diritto di governare con metodi autoritari. Oggi, dopo la defenestrazione di Mubarak e il ruolo politico assunto dalla Fratellanza musulmana, questa politica estera, senza rinunciare alle relazioni con l’America e con l’Occidente, deve essere aggiustata e corretta. El Arabi ha cominciato a disegnare nuove tendenze e molto, in ultima analisi, dipenderà dalla fisionomia politica e sociale dell’Egitto alla fine della transizione di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni. Ma qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia. (3-fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 6 e il 9 giugno
Corriere della Sera 11.6.11
Tutela dei beni culturali
Settis folgorato dallo Stato etico
di Marco Romano
Quasi tutti ricordano quel bambino che in una novella di Andersen, I vestiti nuovi dell'imperatore, vedendo passare il corteo reale, dice quanto tutti gli adulti non osano denunciare, che «il re è nudo» . Ecco, un ruolo analogo è oggi quello di un esile pamphlet di 26 pagine — Luca Nannipieri, Salvatore Settis, La bellezza ingabbiata dalla Stato, (Ets, e 8) — che sottolinea quanto molti sanno per esperienza diretta ma non dicono. È vero che paesaggi, città, borghi, abbazie, castelli sono un patrimonio fondamentale della nazione e noi siamo chiamati ad amarlo e a conservarlo. Ma non è vero che il senso condiviso di questo patrimonio debba essere affidato alla struttura impersonale delle norme, dei codici, delle procedure amministrative, del ministero, in sostanza soprattutto alla sfera istituzionale dello Stato: questo patrimonio ha senso soltanto quando le singole persone lo condividono. E in effetti la nostra Costituzione affida la tutela non allo Stato, ma alla Repubblica, e la Res publica è costituita sì dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni ma sopratutto da tutti i suoi singoli cittadini che al riconoscimento di questo patrimonio collettivo affidano la consapevolezza della propria identità. E questo volevano i Costituenti: la prima versione dell'art 9, che recitava appunto «Lo Stato protegge» , verrà infatti consapevolmente corretta nella versione attuale, «La Repubblica tutela» . Oggi a restaurare con cura un'antica chiesa, un castello, una casa sono persone, sono gruppi di persone, sono i Comuni che proteggono il loro centro storico, sono le Casse di risparmio che li finanziano, sono davvero quella Repubblica che Settis, quasi ossessionato dal principio gerarchico di uno Stato etico, semplicemente non vede. Lo Stato ha un suo ruolo ma solo di primus inter pares, di interprete di un punto di vista che riconosce e integra quelli di tutta l'articolazione della nazione fino al privilegio delle singole persone: a non volerlo riconoscere finirà che le Regioni, più vicine ai loro cittadini, chiederanno di assumersi i compiti che oggi il ministero pretende per sé. Marco Romano
Repubblica 11.6.11
Battiato: vi canto i grandi poeti arabi che hanno fatto l´Italia
In tour con "Diwan, l´essenza del reale"
Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho sempre privilegiato gli incontri tra letteratura e musica
di Giacomo Pellicciotti
ROMA. Franco Battiato ha trovato un modo molto singolare di festeggiare i 150 anni dell´Unità d´Italia, riscoprendo quei misconosciuti poeti arabi che nella sua Sicilia, per quasi tre secoli a partire dall´anno Mille, lasciarono affascinanti tracce in versi destinati a influenzare la poesia italiana classica. S´intitola Diwan, l´essenza del reale l´insolito progetto poetico-musicale che l´artista catanese presenta oggi a Barletta, domani all´Auditorium di Roma e lunedì al Comunale di Bologna. Con Battiato sale sul palco un eterogeneo gruppo di musicisti con esperienze e lingue diverse ma comunicanti: Etta Scollo, Nabil Salameh dei Radio Dervish, la cantante araba Sakina Al Azami, H. E. R., il pianista Carlo Guaitoli, Gianluca Ruggeri del PMCE, Jamal Ouassini e le prime parti della Tangeri Café Orchestra.
La lingua italiana ha preso diverse parole dall´arabo, ma non tutti sanno o ricordano che i poeti fiorentini del Trecento sono stati influenzati dalla poesia della scuola siciliana dei mitici arabi. Primo fra tutti il sommo Ibn Hamdis, nato da una famiglia nobile più o meno nel 1056 tra Siracusa e Noto. Battiato gli dedica un´attenzione speciale, modulando con la sua voce da muezzin alcuni testi del poeta arabo-siciliano, il più grande interprete della poesia araba di Sicilia tra l´XI e il XII secolo. I versi scelti dal suo ricco diwan, il canzoniere di componimenti poetici, sono diventati il testo di una nuova canzone con musica di Battiato che viene presentata per la prima volta in concerto.
In un´Italia che si accapiglia per la costruzione di una moschea a Milano non somiglia a una provocazione festeggiare i 150 anni dell´Italia rievocando i poeti siciliani in lingua araba? Alla domanda il musicista di Jonia reagisce con stupore e un pizzico di risentimento: «Tutto ho fatto nella mia vita tranne che provocare. Ho accolto una proposta di Oscar Pizzo, musicista e amico. Non per niente ho studiato l´arabo per tre anni all´Ismeo di Milano, in passato con la mia casa editrice ho pubblicato libri di mistici sufi e ho sempre privilegiato gli incontri tra la letteratura e la musica. E allora perché non ricordare questi poeti che hanno contribuito alla fondazione della cultura del nostro paese? Faccio l´esempio di Ibn Hamdis. Fu costretto a scappare dalla Sicilia all´arrivo dei Normanni e riparò a Siviglia, accolto nella corte di un principe-mecenate. Viaggiò ancora, ma soffrì sempre la mancanza della terra siciliana. Mi vengono in mente versi come "Chi è assente conta i mesi dell´esilio, sulla mappa io ho contato le dune. Chi partendo ha lasciato il cuore in quella terra con il corpo desidera tornare"».
Dopo i poeti arabi da riscoprire, Franco Battiato cambia drasticamente sound, tuffandosi in un impegnativo rock tour di più di venti date che debutta a Roma il 15 luglio e termina a Torino il 15 settembre.
Repubblica 11.6.11
Se l’evoluzione si crea in laboratorio
Siamo umani o postumani? Le nuove sfide della bioetica
Costruire una specie perfetta ecco il nuovo dilemma dell´umanità
di Stefano Rodotà
Biologia, genetica, nanotecnologie: la scienza oggi è sempre più in grado di trasformare la nostra specie. Ma questo progresso apre grandi dilemmi etici: dobbiamo lasciar fare alla natura o è giusto governare i meccanismi dell´evoluzione? E ancora: visto che queste possibilità non sono alla portata di tutti, come possiamo garantire il diritto all´uguaglianza? Ecco perché la chance di diventare perfetti ci pone davanti a sfide inedite
Affermando i diritti alla modificazione del corpo si pone la questione dell´eguaglianza Riconosciuta la legittimità di una costruzione artificiale tutti devono accedervi in condizioni di parità pena la nascita di una società castale
LA SPECIE umana, unica, si avvia a essere sostituita da una molteplicità di specie, con un passaggio dal singolare al plurale reso inevitabile da una tecnoscienza che ci avvicina sempre più al post-umano? Entrando in questo mondo nuovo, più che il riferimento abituale all´utopia negativa di Aldous Huxley, vale il ricordo di quel che scriveva Guenther Anders, chiedendosi già nel 1956 se l´uomo fosse antiquato: «Come un pioniere, l´uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si "trascende" sempre di più - e anche se non s´invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell´ibrido e dell´artificiale».
Parole nelle quali si può cogliere l´eco delle Magnalia naturae, descritte nel 1627 da Francis Bacon in appendice alla Nuova Atlantide: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all´altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».
Lontane nel tempo, queste due posizioni riflettono modi assai diversi di guardare al "trascendersi" della persona, con un passaggio dallo sguardo ottimistico lanciato sul futuro da Bacon ad una riflessione sulla quale incombe la bomba atomica, che segna drammaticamente l´uscita dalla guerra, ma ipoteca in modo altrettanto drammatico il futuro. Oggi, realisticamente, il destino del genere umano appare affidato a scienza e tecnica, che lo immergono nella storia, lo liberano progressivamente da caso e necessità, fino a prendere congedo della natura.
Di fronte alla radicalità di questo passaggio, alla discontinuità che descrive, l´etica torna prepotentemente in campo, la politica si divide, il diritto si interroga sul proprio ruolo. Parole nuove ci accompagnano – biopolitica, bioetica, biodiritto. E, con esse, l´umanità sembra voler "uscire da se stessa", nel senso almeno che si svincola dalla pura logica darwiniana, affidandosi ad una evoluzione tutta legata ad una tecnica direttamente governata dalle persone. Intorno al corpo di ciascuno si addensano le possibilità incessantemente offerte da biologia e genetica, dall´innovazione informatica, dalle neuroscienze, dalle nanotecnologie. Il corpo sta per trasformarsi appunto in una "nano-bio-info-neuro machine", versione ultima di quell´ "homme machine" di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D´Holbach? Il corpo, dunque il luogo per definizione dell´umano, ci appare come l´oggetto dove si manifesta e si compie una transizione che, da un canto, sembra voler spossessare la persona del suo territorio, appunto la corporeità, facendolo "reclinare" nel virtuale ; e, dall´altro, ne modifica i caratteri in forme che non da oggi fanno parlare di post-umano e di trans-umano (termine, questo, la cui introduzione è attribuita ad uno scritto del 1927 di Julian Huxley).
Il corpo ci appare così come un planetario campo di battaglia, dove si affrontano bioconservatori e transumanisti. Tenacemente impegnati, i primi, a restaurare i diritti della natura. Custodi, gli altri, di una nuova libertà, quella appunto di usare senza limiti il nuovo potere di cui siamo investiti. Ma questa polarizzazione non dà nessuna vera indicazione sul modo di governare la fase interamente nuova nella quale l´umanità è già entrata. E´ illusorio pensare che il diritto, con le sue regole artificiali, possa ricostituire le situazioni naturali profondamente modificate dalla scienza. E l´illimitata apertura all´utilizzazione di ogni nuova opportunità sembra piuttosto confermare la tesi di chi vede nella tecnica l´unico potere del nostro tempo, al quale sarebbe vano cercar di porre argini.
Ma la realtà non può essere chiusa in contrapposizioni astratte, esige distinzioni per cogliere le vere domande. Nel 2008 Oscar Pistorius, un corridore sudafricano, privo della parte inferiore delle gambe, sostituita con impianti in fibra di carbonio, si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Così non cade soltanto la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi. Si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita. Prendendo spunto da questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che «modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune».
Affermando, però, il diritto d´ogni persona alla modificazione tecnologica del corpo, si pone immediatamente la questione dell´eguaglianza. Poiché siamo in presenza di straordinarie possibilità di migliorare le prestazioni fisiche e intellettuali, una volta riconosciuta la legittimità di una specifica costruzione artificiale tutti devono potervi accedere in condizioni di parità, pena la nascita di una società castale, nella quale solo chi dispone di risorse adeguate può avvantaggiarsi della tecnologia. Ma dobbiamo spingerci oltre lo stesso ineludibile principio d´eguaglianza. Un differenziarsi della specie tra umani e post- o trans-umani fa immediatamente nascere il problema di due diverse legittimazioni, di un doppio standard, di due diverse qualità dell´umano. Qui il conflitto tra persone geneticamente programmate e persone con un patrimonio genetico naturale, di cui ci ha parlato il film Gattaca di Andrew Niccol, si trasformerebbe in una concreta e generalizzata "guerra tra umani e transumani". Mentre, infatti, le differenze tra le persone determinate dalla natura portavano ad una loro accettazione sociale, ed alla nascita di quella solidarietà tra avvantaggiati e svantaggiati di cui ci ha parlato Etienne de la Boetie nel suo Discours de la servitude volontarie, la diversificazione tecnologica si rovescia nella percezione individuale e sociale di una esclusione, dunque nella radice di un conflitto, che può essere evitato solo riconoscendo a tutti una pari dignità. La dignità del corpo e nel corpo è l´altro, grande e ineludibile tema, che ritroviamo nelle parole che aprono la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile». La persona, dunque, inseparabile dalla sua dignità.
Ma di quale persona, di quale corpo stiamo parlando? Quando si afferma che il diritto di ricorrere alle tecnologie riguarda le decisioni relative a sé e alla propria discendenza, si equiparano situazioni tra loro profondamente diverse. L´autodeterminazione, legata o no all´uso della tecnica, deve ricevere il massimo riconoscimento quando gli effetti delle decisioni della persona si producono nella sfera dell´interessato. Non è così, invece, quando si vogliono costruire corpo e vita dell´altro, violando la sua "libertà esistenziale", presidiata dal suo consenso, che dunque non può essere sostituito dalla volontà di altri, soggetti privati o poteri pubblici.
Le immagini del corpo si moltiplicano. Lo mostrano modificato tecnicamente per "ripararne" i difetti o "migliorarne" le prestazioni, lo descrivono attraverso le costruzioni dei rapporti tra cervello e computer. Le frontiere si spostano verso forme di integrazione tra persona e macchina e nascono, nuovi e più radicali interrogativi. Un sistema bionico ibrido è una persona che può essere considerata titolare di diritti e doveri? Le componenti umane di un sistema bionico ibrido sono la stessa persona prima e dopo essere divenute l´interfaccia di componenti artificiali? Domande nuove, ma che rimandano a temi antichi, alla nave di Teseo per la quale ci si chiedeva se persistesse la sua identità originaria anche dopo che, via via, tutti i suoi pezzi erano stati cambiati.
Repubblica 11.6.11
Attenti, l'intelligenza artificiale diventerà come quella naturale
L´intelletto umano ha la forza dell´impellenza. È legato alla nostra mortalità Le macchine penseranno quando saranno consapevoli di avere un tempo determinato
di Adam Gopnik
Quando ero piccolo, al Franklin Institute di Filadelfia c´era una macchina che giocava a filetto e non perdeva mai. Indipendentemente da dove mettevi la tua X, il suo O era sempre quello giusto. Riusciva a vincere sempre o ti costringeva a un pareggio, anche se avevi il vantaggio di iniziare per primo e occupavi la casella centrale. Quella macchina appariva estremamente intelligente a un bimbetto di otto anni, ma mia madre – grande ragionatrice, linguista, esperta già allora del linguaggio di programmazione Fortran – in una delle nostre frequenti visite a quel museo mi spiegò che l´intelligenza era soltanto l´ultima delle qualità di quella macchina.
In sostanza, infatti, sapeva fare un´unica cosa: quel gioco fondamentalmente banale – e lo sapeva giocare bene soltanto perché era stata programmata per seguire un network automatizzato di interruttori on/off. Non pensava, quindi. Teneva soltanto traccia di quello che accadeva.
Le nuove macchine e i nuovi programmi sono davvero più intelligenti? Gli scettici fanno notare che ciò che essi sanno fare non è in verità ciò che noi definiamo "intelligente". Racchiudono un ampio assortimento di esempi, una grande casistica, ma la loro capacità logica non è granché diversa da quella della macchina che giocava a filetto nel museo di scienze. Hanno potenti memorie e una straordinaria capacità di analizzarla rapidamente per trovare ciò che serve in una data circostanza, ma tutto ciò non dimostra che sappiano pensare, programmare, trovare strategie, sorprendere o escogitare un piano così folle da funzionare alla perfezione. Anche se su piani diversi, in sostanza si limitano tuttora ad abbinare uno scenario familiare "A" a una soluzione predeterminata "A". Riconoscono una mossa o una situazione particolare sulla scacchiera e riescono a trovare nella loro memoria la mossa da compiere che il più delle volte porta alla vittoria quando giocano contro esseri umani, ma questa – brontolano gli scettici – è semplicemente idiozia ben indicizzata, non autentica intelligenza.
Ho sempre pensato che il test di Turing (quello che serve per misurare se una macchina è in grado di pensare, ndr) fosse una pura astrazione, un problema da filosofi, e invece ha portato alla nascita di veri e propri tornei – come se il paradosso di Zenone avesse portato ad autentiche corse tra tartarughe e guerrieri greci. I dettagli dei test di Turing e dei tornei sono l´argomento trattato dal meraviglioso libro di Brian Christian, poeta e appassionato di computer, che si intitola The Most Human Human (Doubleday, $ 27,95), uno dei rari eredi letterari di successo di Gödel, Escher, Bach, nel quale arte e scienza si ritrovano in una mente impegnata e il loro incontro produce vere scintille.
Christian avanza un´idea più sottile e poetica quando afferma che il linguaggio umano non è soltanto scambio di assiomi, o finanche di abbreviazioni codificate a livello emotivo, bensì un´attività effettuata al limite tra la "perdita di qualità" di una comunicazione compressa e la versatilità con la quale noi la comprimiamo; tra la nostra consapevolezza che da qualsiasi cosa diciamo dobbiamo necessariamente escludere moltissime informazioni per motivi di economia e la nostra capacità di rendere tale economia eloquente e informativa in ogni caso. Il linguaggio dei bimbi piccoli, per esempio, è un esempio perfetto di compressione ben bilanciata con la concisione. Ciò che all´estraneo suona limitato e ripetitivo, per l´ascoltatore informato è pieno di sfumature come Henry James.
E tuttavia l´intelligenza umana ha un altro punto a suo vantaggio: il senso di impellenza che conferisce all´intelligenza umana una sua forza tutta particolare. Forse la nostra intelligenza finisce soltanto con la nostra mortalità: in gran misura è la nostra mortalità. Immaginiamo per un momento di impartire a una serie di computer interconnessi e in grado di correggersi, programmati per raggiungere un obiettivo volutamente indeterminato e a lungo termine, la seguente disposizione: «Effettuate quanti più calcoli significativi riuscite, e cercate di farne più di qualsiasi altro computer del laboratorio», lasciando di proposito multivalente e vago il concetto di "significativi". Immaginiamo poi che ciascuno di questi computer abbia un candelotto di esplosivo collegato al suo microprocessore (Cpu, unità centrale di elaborazione), con un fusibile ad azione ritardata e un´instabilità da settantenne, e che ciascuno di essi lo sappia. Aggiungiamo che l´acido corrosivo che fa detonare il fusibile rallenta ogni singola funzione del computer, così che verosimilmente faccia calcoli più significativi interfacciandosi a un altro computer prima che le sue connessioni si usurino. I computer, pertanto, in qualsiasi momento dovrebbero prendere decisioni terribilmente difficili e valutare se valga la pena investire in un determinato calcolo, tenuto conto del più generico incarico a tempo limitato di effettuare calcoli veramente significativi. Essi pertanto dovrebbero, per esempio, valutare gli svantaggi e i vantaggi legati al fatto di scambiare informazioni subito a fronte della consapevolezza della loro distruzione incombente e delle esigenze di tutti gli altri incarichi che è necessario che svolgano. Alcuni si tirerebbero indietro e non farebbero altro che effettuare calcoli per conto proprio; alcuni allaccerebbero connessioni in modo frenetico; altri ancora si chiederebbero se sia valsa la pena cercare di vincere un programma televisivo a quiz giacché scopo principale era vincere la gara dei "calcoli più significativi". I computer effettuerebbero calcoli sul giusto rapporto tra il tempo necessario e il significato raggiunto e li distribuirebbero in tutto il network creato. Tenendo conto delle pressioni dovute ai limiti temporali, i calcoli probabilmente sarebbero brevi – diciamo di dieci o undici linee al massimo – e il più significativo con ogni probabilità sarebbe condiviso con tutte le altre macchine. (Potrebbero addirittura essere resi più facilmente memorabili grazie a ritmi e configurazioni melodiche). Alcune macchine indubbiamente inizierebbero a produrre sottoprogrammi che meditino più astrattamente sulle difficoltà di essere una macchina intelligente con un´imminente rischio di esplosione. («Alle mie spalle sento avvicinarsi sempre più un programma incombente», «Radunate tutte le vostre funzioni, finché potete!»). Nel giro di una generazione, ironia, poesia, ambiguità, estasi diverranno parti integranti della produzione e della percezione dei computer. Saranno intelligenti e ottusi, proprio come noi siamo intelligenti e ottusi.
© 2011, Adam Gopnik Traduzione di Anna Bissanti. L´autore ha pubblicato in Italia da Guanda Una casa a New York. A settembre Guanda pubblicherà Paris to the Moon
Repubblica 11.6.11
La storia di uno studioso che somiglia a Konrad Lorenz e l´esercizio dell´osservazione per capire i sentimenti
Ddr, scienza e animali ecco perché la verità ci fa sempre paura
a cura di Benedetta Marietti
Un titolo potente attira l´attenzione e può fare la fortuna di un libro, ma non è mai innocente. La sua forza, lo qualifica come una chiave di interpretazione, il prisma attraverso il quale leggiamo la storia. Forme originarie della paura il titolo scelto da Einaudi per l´edizione italiana del libro di Marcel Beyer (per sineddoche, essendo questo il titolo del saggio scritto dal protagonista del romanzo, nonchè perno della vicenda), è potentissimo. Molto più di quel Kaltenburg che l´autore aveva voluto, affidandosi al nome del protagonista. Madame Bovary contro La linea d´ombra. Ma il libro di Beyer è davvero un romanzo sulla paura, come suggerisce il titolo italiano, così come quello di Conrad lo era su quel confine dell´esistenza divenuto proverbiale?
Tedesco, poco più che quarantenne, poeta e narratore molto conosciuto anche nel mondo anglosassone, Marcel Beyer racconta la storia di uno zoologo ed etologo, Ludwig Kaltenburg appunto, il cui modello sembra essere il celebre Konrad Lorenz. Come lui, Kaltenburg è un uomo eccentrico e fascinoso, dalla lunga chioma bianca, austriaco, appassionato di motociclette. Nobel per la Medicina nel 1973, Lorenz è stato un teorico del comportamento animale ma soprattutto un formidabile divulgatore. Solo la teoria della relatività può competere in successo mondano con la storia delle oche e dell´imprinting proposta nel suo Io sono qui, tu dove sei?. Anche il saggio di Kaltenburg, Forme originarie della paura, ottiene un enorme successo di pubblico. Il suo autore diviene un personaggio conosciuto anche fuori dalla comunità scientifica, ma da questa aspramente criticato. Per aver osato sconfinare in un terreno meno tecnico, più psicologico, soprattutto nel capitolo dove affronta il rapporto tra uomo e animale in circostanze estreme.
Rarissime sono le opere letterarie che descrivono l´inferno dei bombardamenti anglo americani sulle città della Germania. La tesi di W. G. Sebald, esposta nel suo Storia naturale della distruzione, è che si tratti di un vero e proprio tabù. Non era sopportabile per i tedeschi l´idea che fossero proprio loro, «i quali si erano dati come obiettivo quello di ripulire e igienizzare al completo l´Europa», a trasformarsi in un popolo di ratti. Una fiumana di disperati che vagava tra le rovine scavando nello sfacelo.
Tra il 13 e il 15 febbraio 1945, racconta Kaltenburg, le forze aeree anglo-americane bombardarono Dresda. Ci furono decine di migliaia di morti, la città fu rasa al suolo e le esplosioni crearono una tempesta di fuoco, tenuta viva da una specie di tifone di aria calda, che bruciò per ore. Lo zoo, come tutto, non esisteva più e gli animali impazziti vagavano per la città. Un gruppo di scimpanzé si era fermato accanto ad alcune persone che, attonite, osservavano i cadaveri tutti intorno a loro. Sembrava, scrive Marcel Beyer, che gli scimpanzé guardassero «alternativamente negli occhi morti e i vivi cercando consiglio»: Così, quando qualcuno finalmente aveva iniziato a trascinare via i corpi per le braccia e le gambe, adagiandoli su una striscia di prato, le scimmie avevano fatto lo stesso.
La persona che descrive questa scena al professore, è il suo allievo Hermann Funk, allora ragazzino, che nel bombardamento perse entrambe i genitori. È lui, divenuto a sua volta ornitologo, la voce narrante del romanzo. Nato a Posen e poi trasferito per un breve e fatale periodo a Dresda, Funk non è un predestinato. La sua vocazione non si manifesta con precisione, malgrado il padre botanico lo incoraggi all´osservazione della natura e lo educhi al rispetto degli animali. Forse non sarebbe neanche diventato un ornitologo se Kaltenburg non lo avesse quasi obbligato a seguirlo, dopo averlo conosciuto bambino. Eppure, di quell´incontro avvenuto quando ancora Hermann abitava a Posen, Kaltenburg finge di non avere memoria, lo censura dalla sua biografia, come alcuni altri piccoli episodi.
Perchè? Di cosa parla, appunto, il romanzo di Beyer? Questo è l´incipit: «Fino alla sua morte, nel febbraio 1989, Ludwig Kaltenburg aspetta il ritorno delle taccole». Prosegue descrivendo le abitudini degli amati corvi, e delle innumerevoli specie di volatili che abitano nella casa insieme al professore. Studiati e coccolati, ospitati come fossero loro i padroni. Sono loro, gli uccelli, i protagonisti di questo superbo romanzo di Beyer. Sono le loro abitudini a dettare il ritmo, delle loro vite, e della loro morte improvvisa e misteriosa parla questo libro. Che è senza dubbio una riflessione sulla paura ma è anche, e soprattutto, un romanzo sulla verità.
Ho letto le prime dieci pagine di Forme originarie della paura almeno tre volte. Per quanto sono belle, ma anche perché, come tutto il resto del libro, sono ellittiche fino allo spaesamento. Non che non si dica, si dice tutto quello che è necessario come sanno fare i grandi scrittori, ma la vicenda sembra negata. Fino a diventare uno strano giallo, nel quale niente è quello che appare, e tutto si svela pagina dopo pagina, in un continuo ruminare del senso. Per farlo, per mettere in scena quel teatro della negazione che è stata la politica della Ddr, Marcel Beyer usa gli animali. Usa anche l´arte, Marcel Proust, l´amicizia, ma sono gli animali a rappresentare con precisione l´inermità di fronte alla catastrofe, e lo sconcerto che si prova quando alla semplicità monotona dell´accadere si sostituisce la progressione inarrestabile del male e la sua misteriosa e ostinata ottusità.
L’Osservatore Romano 11.6.11
L’adolescenza va protetta
Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana l'intervento pronunciato il 6 giugno, a Ginevra, dall'arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della XVII sessione ordinaria del Consiglio dei Diritti dell'Uomo sui diritti del fanciullo.
Presidente,
innanzitutto, la mia delegazione desidera congratularsi con tutti i partecipanti impegnati nella preparazione della Bozza del Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo (Crc) per offrire una procedura di comunicazione (Opc), che diverrà uno strumento significativo del sistema dei diritti umani. Oltre l'aspetto legale, il Protocollo Opzionale per la Crc offre speranza e incoraggiamento a quei bambini e a quei giovani le cui innocenza e dignità umana sono state ferite dalla crudeltà che può essere presente nel mondo degli adulti. Se tutti gli Stati, gli organismi delle Nazioni Unite, la società civile e le istituzioni basate sulla fede coopereranno in maniera più efficace, riusciranno a garantire amore, cura e assistenza a quanti sono colpiti da violenza e abusi. Inoltre, promuoveranno un mondo in cui questi bambini potranno perseguire i loro sogni e le loro aspirazioni di un futuro libero dalla violenza.
"Il maggiore interesse del fanciullo sarà una considerazione primaria" (Cfr. Assemblea Generale, art. 3, allegato 1 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1) e la precondizione per realizzare il futuro così auspicato. Infatti, noi siamo "convinti che la famiglia, unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli, deve ricevere la protezione e l'assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività" (Assemblea Generale, Preambolo della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, 1989, p.1). In linea con la Crc, che riconosce la famiglia come essenziale, la Santa Sede ritiene che il maggior interesse del fanciullo sia soddisfatto in primo luogo nel contesto della famiglia tradizionale.
Presidente, più di cinquant'anni fa, nella Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, l'Assemblea Generale proclamò che "il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità". (Assemblea Generale, Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, 1959, p. 1). Questo continua a rivestire una grande importanza, ora come allora, ed evidenzia la responsabilità di tutta la comunità internazionale di realizzare la sua opera essenziale di promuovere la dignità e il benessere di tutti i fanciulli e gli adolescenti ovunque.
Nel 2009, Papa Benedetto XVI, lanciò un appello alla comunità internazionale affinché potenziasse i suoi sforzi per offrire una risposta adeguata ai problemi tragici vissuti da fin troppi bambini: "Che non manchi un impegno generoso da parte di ognuno cosicché si possa dare riconoscimento ai diritti dei fanciulli e sempre maggiore rispetto alla loro dignità".
Presidente, la Santa Sede considera questo nuovo Protocollo Opzionale per la Convenzione sui Diritti del Fanciullo per offrire una procedura di comunicazione come un contributo opportuno per rafforzare il sistema dei diritti umani. Che esso possa anche avvicinarci ancor di più al nostro obiettivo definitivo: la tutela e il rispetto incondizionati della dignità di ogni singola persona, donna o uomo, adulto o bambino.
Repubblica 11.6.11
"Dopo l´estate stabiliremo le regole, mi candido anch´io"
Primarie del centrosinistra Vendola annuncia: correrò
"La consultazione della base è un valore aggiunto. Lo penso io e lo pensa il Pd più di me"
ROMA - «Il leader della coalizione di centrosinistra lo stabilirà le primarie ed io mi candiderò. Penso che dopo l´estate saremo in grado di mettere in piedi le regole per farle». Nichi Vendola annuncia ad Otto e mezzo di Lilly Gruber la sua intenzione di correre per la leadership del centrosinistra e per la poltrona di Palazzo Chigi quando ci saranno le elezioni politiche.
Il governatore della Puglia è anche convinto che sull´utilizzo dello strumento primarie non ci siano problemi con i democratici. E lo dice chiaramente alla giornalista: «Il Pd e Bersani più di me pensano che le primarie abbiamo un valore aggiunto e non mi sembra ci sia ostruzionismo su questo punto, né da parte del centrosinistra né da parte del centrodestra».
Vendola nel corso della trasmissione parla anche del caso Battisti e della decisione brasiliana di non estradarlo in Italia. «Ho rispetto per un argomento che evoca ferite ancora aperte in Italia. C´è una questione di principio per cui chi ha commesso reati molto gravi e sfugge alla sanzione penali provoca scandalo nella coscienza civile», spiega il leader di Sinistra ecologia e libertà. Ma dice anche che «c´è anche un´altra considerazione da fare: quando il tempo che passa tra il momento in cui si è commesso un reato e la sanzione è di 25 anni, il rischio è che il sentimento della giustizia si dissoci dall´amministrazione della giustizia e che ci si trovi ad avere a che fare con due persone differenti».
Vendola dice di condividere quello che il governo sta facendo per far tornare Battisti in Italia per scontare la pena, spiega di «sentirsi rappresentato da ciò che sta facendo nel merito il presidente della Repubblica Napolitano». Ma insiste sul fattore tempo, sui tanti anni passati dai reati. «Noi dobbiamo consentire sempre che chi infranga le regole subisca la giusta pena, ma non so quanta giustizia ci sia quando intercorre un tempo così lungo», dice. E aggiunge: «Se la giustizia italiana viene poi rappresentata nel mondo con le parole del presidente del Consiglio dette al presidente Obama, forse questo fa sorgere qualche dubbio nella credibilità della nostra giustizia». Una frecciata a Berlusconi. Che fa il paio con la critica su come i giornali del centrodestra hanno raccontato ieri l´incidente in cui è morto un ragazzo milanese travolto dall´auto di quattro rom inseguiti dalla polizia.