domenica 5 giugno 2011

Corriere della Sera 5.6.11
«Gli elettori di sinistra e centro si sono già mischiati»
Bersani: «Assieme per uscire dal berlusconismo»
intervista a Pier Luigi Bersani di Aldo Cazzullo


Segretario Bersani, cosa rappresenta per lei questo voto? «Il segno di una riscossa civica, nel quadro di un problema sociale che si è fatto acuto e ha via via reso vulnerabili anche i ceti che finora si erano ritenuti al riparo dalle incertezze. È la prova che nell’incrocio tra questione democratica e questione sociale c’è l’evoluzione della crisi del Paese. Il rito personalistico e populistico si è mostrato inconcludente e menzognero di fronte ai problemi che prometteva di risolvere. Lo si vede più nettamente al Nord; cioè nel luogo più dinamico» . Bersani, è sicuro che il Pd abbia vinto? Pisapia e de Magistris non erano i vostri candidati. «In questo tam tam c’è la velina del terzismo: un colpo al cerchio e uno alla botte, se Atene piange Sparta non ride. Siamo l’unica democrazia al mondo in cui si ragiona così. In realtà, se uno perde ci dev’essere qualcuno che vince. I dati sono chiarissimi: su 29 vittorie, il Pd aveva 24 candidati; a Milano, su 28 consiglieri del centrosinistra il Pd ne ha 24. Non solo il nostro partito non ha pagato una presunta opzione radicale, ma elettoralmente ha spesso compensato i problemi degli alleati. Oggi siamo la forza centrale nella costruzione di un’alternativa. E cresciamo mettendoci al servizio di un centrosinistra che si apre a tutte quelle forze e a quelle opinioni che pensano di andare oltre Berlusconi su un terreno saldamente costituzionale. Gli elettorati di sinistra e centristi si sono già ampiamente mescolati nei ballottaggi» . Questo significa che continuate a cercare l’accordo con il terzo polo? Oppure la sinistra può fare da sé? «La barca della politica deve avere più pescaggio. Magari viaggerebbe più lenta; ma è bene avere più pescaggio. C’è un’esigenza di ricostruzione. Il Paese ha davanti problemi seri; è tempo di affrontarli. Una democrazia che assuma un carattere costituzionale, una politica economica che prenda atto della realtà, la necessità di uscire dalla malattia del berlusconismo, sono obiettivi che ormai accomunano gli strati di opinione che si definiscono di centrosinistra con altri di centro o anche di centrodestra non berlusconiano» . Quindi avanti verso un’intesa più ampia possibile? «Vedremo se la congiunzione avverrà tra elettori, o tra forze politiche. Il Pd intende ribadire questa prospettiva: un centrosinistra che non rifaccia l’Unione ma si vincoli a riforme visibili ed esigibili, proposte a tutte le forze politiche, cittadine, sociali che vogliono guardare oltre Berlusconi. Non esiste la possibilità di alzare steccati verso chi ha mostrato di voler discutere con noi. In nome di un’esigenza costituente, il centrosinistra non metta barriere e si rivolga in modo ampio. Tocca alle forze politiche prendersi responsabilità» . Ma alle Amministrative accordi con il terzo polo ne avete fatti pochini. «Dove non sono venuti i partiti, sono venuti gli elettori. Dove l’accordo si è fatto, come a Macerata, nessuno ha pagato alcun prezzo» . L’allarme sociale è così grave secondo lei? «Vedo che nel centrodestra si chiacchiera molto: Alfano, primarie. Non trovi mai una discussione che parta dai problemi. Eppure, dopo il referendum avremo di fronte scelte micidiali. Nelle carte che Tremonti ha già scritto, anche se forse Berlusconi forse non le ha lette, c’è scritto che dobbiamo arrivare al 2014 con una base di spesa pubblica di 40 miliardi in meno, forse anche 50. Io dico: è irrealistico. Non lo possiamo fare, se no andiamo in recessione sparati. Non si è voluto andare in Europa e dire: noi facciamo un pacchetto di riforme strutturali— fisco, lavoro, liberalizzazioni, pubblica amministrazione —, e impostiamo tagli più graduali» . Ma voi sosterreste un governo di fine legislatura, con un premier diverso da Berlusconi, che impostasse queste riforme? «Il governo non è operativo da mesi e mesi. La coalizione che vinse il premio di maggioranza non esiste più. Il voto ha dimostrato che Berlusconi non ha più neppure la maggioranza nel Paese. Dovrebbe presentarsi dimissionario alla verifica che giustamente gli chiede il capo dello Stato, e rimettersi a lui. La nostra opinione è che a quel punto la strada maestra sarebbe il voto. Siamo pronti però a discutere un rapido passaggio che consentisse di andare a votare con una diversa legge elettorale, perché questa deforma l’assetto democratico. Purtroppo Berlusconi sembra insistere nella sua tecnica di sopravvivenza estenuata. E il distacco non solo tra governo e Paese ma anche tra istituzioni e Paese si accentua. Mi chiedo come la Lega possa accettarlo » . Lei ha lanciato segnali alla Lega, con formule tipo «partito di popolo a partito di popolo» . Dove vuole arrivare? Potrete mai fare un pezzo di strada insieme? «Noi siamo alternativi alla Lega. Ma le diciamo: il federalismo non finisce se finisce Berlusconi. A noi interessa, naturalmente dal punto di vista di un partito saldamente nazionale, come ci interessano temi che una volta Bossi indicava e ora sono finiti nel bosco: la sburocratizzazione, la trasparenza, la pulizia. Noi su questi temi ci siamo. Con un punto di vista diverso dal loro, ma ci siamo. Io ad esempio non ho mai detto che la Lega è razzista. Ho detto che, a forza di ripetere "ognuno a casa propria", si finisce per assecondare pulsioni razziste. Ormai il calo del Pdl non porta buono alla Lega. La somma non è zero. Perdono tutt’e due. Se poi la Lega pensa di uscirne chiedendo più ministeri, diremo al Nord che ha legato il Carroccio dove voleva l’imperatore» . L’accordo con il terzo polo significa rinunciare alle primarie. È così? «Non è questo il punto. Io ho chiara la sequenza, che esporrò nella direzione Pd di lunedì (domani; ndr): prima i problemi, e le riforme; il Pd presenta un progetto per l’Italia e ne discute con chi ci sta. A cominciare naturalmente dal centrosinistra; poi si decide il passo successivo. Le primarie le abbiamo inventate noi e restano sempre la strada preferita; ora vedo che ne parla anche il Pdl; ma primarie e Berlusconi sono un ossimoro. Non mettiamo però le primarie in testa. In testa mettiamo una decine di riforme da fare: democratiche e sociali. Se negli Anni ’ 90 avevamo l’euro, oggi il grande obiettivo devono essere le nuove generazioni. Organizziamo ogni cosa intorno a questo, disturbandoci, pagando qualche il prezzo. Chi ha di più, dia di più» . Lei sa bene che l’Irpef non fotografa la ricchezza degli italiani ma dei lavoratori dipendenti. Finireste per colpire il ceto medio. «Non è così. Noi vogliamo un’operazione seria, solida, in nome dei giovani. Alleggeriamo le imposte sul lavoro e sull’impresa che dà lavoro. Colpiamo l’evasione e le rendite immobiliari e finanziarie. Aggrediamo la precarietà: un’ora di lavoro stabile deve costare un po’ meno, un’ora di lavoro precario un po’ di più» . Casini invita a votare due no al referendum. Voi siete per il sì. Come la mettiamo? «Intanto è importante l’impegno affinché si vada a votare. Il quorum andrebbe calcolato in proporzione ai votanti delle ultime Politiche. Raggiungere il 50%non è facile, ma possiamo farcela. Senza politicizzare il referendum, che sarebbe un errore» . La destra la accusa di aver cambiato idea sulla privatizzazione dell’acqua. «Il referendum semplifica tutto: sì o no. Noi siamo contro l’obbligo di privatizzare la gestione dell’acqua. Per quanto riguarda la questione della governance e degli investimenti, in Parlamento c’è una nostra proposta di legge. Se vince il sì, ripartiamo da quel testo» . Vendola nel ’ 98 votò per la caduta di Prodi. Oggi le pare un alleato affidabile? Anche sull’Afghanistan? «Lo verifichiamo, prima del voto. Ci presenteremo agli italiani senza ambiguità. Quando dico che non vogliamo rifare l’Unione, intendo che dobbiamo costruire un profilo di governo, anche sulla politica estera. Non do nulla per scontato. Mi auguro che ognuno si prenda le sue responsabilità» . Prodi è salito con lei sul palco della vittoria, e già si parla del Quirinale... «Mi ha fatto un grande piacere averlo al mio fianco. Vedo in lui il padre nobile della grande operazione che stiamo portando avanti. Prodi ha già un ruolo internazionale. È un uomo che ha una visione strategica, e abbiamo bisogno anche di quella. Più grande sarà la sua disponibilità, più grande sarà la mia disponibilità a impiegarlo in battaglia» .

Repubblica 5.6.11
Bersani sfida Berlusconi sul quorum "Inutile è il nucleare, non il voto"
di Goffredo De Marchis


Adesso mi auguro che il professor Veronesi ascolti quello che dicono i suoi colleghi
Quattro Sì seppelliranno l´ultima meschinità del governo e le sue menzogne
Sono sicuro che gli italiani andranno a votare. Perché si parla di cose serie
Vado a votare e dirò tre Sì e un No. Non bisogna bloccare gli investimenti sull´acqua
Venerdì in piazza non ci sarà nessuna bandiera di partito. I quesiti sono di tutti
Il Pd in giudizio alla Consulta: va respinto il tentativo di far saltare la consultazione

ROMA - Domani arriva sul tavolo di Pier Luigi Bersani l´ultimo sondaggio sulla percentuale di italiani pronti ad andare a votare i referendum. La precedente ricerca risale ai giorni tra il primo e il secondo turno delle amministrative. Con un esito promettente ma non ancora superiore al 50 per cento più uno degli italiani, la soglia per far passare i quesiti. Il segretario del Pd però è convinto che i ballotaggi, il vento del cambiamento e una campagna a tappeto daranno la spinta decisiva al risultato del 12 e 13 giugno. «Gli italiani andranno alle urne - garantisce Bersani -. Perché si parla di cose serie». Poi scandisce: «Non è inutile il voto, è inutile il nucleare». Che è una risposta diretta, quasi una sfida a Silvio Berlusconi.
Battere sul quesito contro le centrali, è la parola d´ordine del Partito democratico. Il Pd si muove contro il ricorso del governo alla Consulta per bloccare il voto sull´atomo. È quello il traino per i referendum sull´acqua e sul legittimo impedimento, la chiave per scalare il quorum. Serve però uno sforzo che vada oltre gli schieramenti, «oltre il centrosinistra», dice Bersani. Per questo, d´accordo con Antonio Di Pietro, la manifestazione di venerdì sarà rigorosamente senza bandiere. Per questo il Pd guarda e apprezza le uscite di Pier Ferdinando Casini e di Futuro e libertà a favore del voto, le indicazioni della Chiesa sull´acqua, le posizioni della Lega che giudica tutt´altro che inutile la consultazione di domenica e lunedì. Oggi quindi è un azzardo dare una valenza politica al referendum: bisogna portare a votare tutti, berlusconiani compresi.
Ottimismo viene sparso da Nichi Vendola. «Sarà un plebiscito - annuncia il governatore pugliese -. Quattro sì che seppelliranno l´ultima meschinità del governo Berlusconi. Hanno mentito consapevolmente e spudoratamente sulle centrali». Di Pietro, primo promotore dei quesiti, continua invece il suo martellamento dal blog perché anche lui ci crede ma non si fida. «L´aria, l´acqua e l´eguaglianza di fronte alla legge non hanno colore politico e quindi che nessun partito può appropriarsi della battaglia contro il nucleare o di quella contro la privatizzazione dell´acqua, neppure chi, come noi dell´Italia dei valori, ha raccolto le firme». La preoccupazione dell´ex pm è la stessa di Bersani: «Sui palchi delle manifestazioni di chiusura non dovrebbe esserci neppure un logo di partito, nemmeno una bandiera». Spinge per quattro Sì Antonio Bassolino, presidente della Fondazione Sud: «Adesso è dal vento nuovo delle città, e soprattutto delle grandi città, che può venire il quorum». Matteo Renzi è della partita con una posizione di merito personale. «Vado a votare - spiega il sindaco di Firenze - e dico sì all´acqua pubblica, dico sì per bloccare il nucleare di Scajola e Romani, dico sì perchè non voglio legittimi impedimenti. Dico No al quesito sulla remunerazione. Senza questa norma si bloccherebbero gli investimenti per acqua e depurazione». Si schierano per il Sì sul quesito nucleare gli oncologi italiani. «Il nucleare fa male, quindi l´appello è quello di votare Sì ai referendum del 12 e 13 giugno», dicono i medici dell´Associazione di oncologia medica (Aiom). E Ignazio Marino chiede a Umberto Veronesi, favorevole all´energia atomica, di ascoltare i suoi colleghi.

l’Unità 5.6.11
Intenzioni di voto
Sondaggio Pd, centrosinistra avanti anche senza Casini


Centrosinistra in vantaggio sul centrodestra in ogni caso, sia che vada al voto con la formula del Nuovo Ulivo che nella versione Alleanza costituente (insieme al Terzo polo). È quanto emerge da un sondaggio riservato ora nelle mani del Pd. Nella prima versione il vantaggio della coalizione costruita attorno a Pd, Idv e Sel è di 8 punti percentuali rispetto all’alleanza fondata sull’asse Pdl-Lega. Vantaggio che cresce a 17 punti percentuali se il centrosinsitra classico si presentasse alle urne insieme a Udc e Fli. Dal sondaggio, che dà anche il Pd al 29,2% (più 0,8%) e il Pdl al 27,5% (meno 1), emerge inoltre che la fiducia in Bersani è quasi doppia rispetto a quella in Berlusconi: il leader del Pd si attesta sul 45%, quello del Pdl è inchiodato al 26%.

il Riformista 5.6.11
Il sorpasso
Azzurri in allarme. In un foglietto sulla scrivania del Cav. c’è scritto che, se si votasse domani, per lui sarebbe la fine. L’era Alfano inquieta Tremonti.
di Tommaso Labate

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/398173/

l’Unità 5.6.11
La nuova militanza
di Alfredo Reichlin


Guardando gli    spostamenti elettorali ciò che più mi colpisce è la difficoltà di capire, anche a sinistra, cosa è successo di veramente nuovo e di profondo. Sembra che improvvisamente sia emerso un mondo sconosciuto. Ma come? Non si era detto (un coro assordante) che il Pd era ormai ridotto a un fatto appenninico, tosco-emiliano, e che dovevamo solo cercare di imitare la Lega che certamente avrebbe vinto le elezioni perché rappresentava l’anima e il nuovo blocco sociale del Nord? E adesso si scopre che il Pd è nettamente il primo partito e che, col centrosinistra, governa non le valli alpine ma tutta l’area metropolitana della Padania, da Torino a Milano, da Genova a Venezia, da Trento a Bologna e Trieste. Ma come? Non eravamo ridotti al punto che per sopravvivere dovevamo accettare un «Papa straniero»? Mi scuso per questo piccolo sfogo polemico.
In realtà esso mi serve per capire meglio la novità e la portata del messaggio che questo voto manda anche a noi. Parlo senza nessuna iattanza perché conosco l’enorme difficoltà dei problemi e la nostra inadeguatezza. Il fatto è che Milano, il cuore produttivo del Paese, ci dice tante cose ma al fondo il suo messaggio si può riassumere così. Siamo a un passo da eventi che se non governati possono rimettere in gioco tutto: desistenza di una grande Italia industriale, un drastico aumento della povertà anche tra i ceti medi, il precariato come destino di una generazione con ovvie ricadute sull’unità nazionale e la
democrazia repubblicana. Altro che declino. Un salto storico all’indietro come nel Seicento.
La mia impressione è che il Nord vota così perché sente e vive più direttamente di altri questi rischi. E perciò sente il bisogno di un riscatto civile. Non solo per moralismo ma per la necessità di una mobilitazione nuova di risorse sociali e intellettuali, essendo questa la condizione per uscire dal pantano, dal blocco ormai decennale della crescita denunciato l’altro giorno perfino dal governatore Draghi.
Ecco allora il nostro grande problema. Cade sulle nostre spalle una responsabilità enorme. Sono in gioco le stesse ragion d’essere del Partito democratico. La gente ci ha scelto non perché abbiamo il sole in tasca ma perché si comincia a capire che il Pd non è più la somma delle vecchie faide e dei vecchi partiti ma sta facendo emergere l’idea di una forza nuova in quanto più aperta, più tollerante ed inclusiva. Ma soprattutto perché stiamo cercando di ridefinire il senso di una nuova militanza politica. I media parlano ancora una vecchia lingua, quella del «politichese». Cercano il chi comanda e capiscono ancora poco un leader che non disprezza affatto le alleanze, le considera anzi necessarie, ma si rifiuta di definirle a priori. E perché? Perché parte da più in alto. Perché pensa che il suo scopo, il suo assillo, l’oggetto della sua politica è «salvare l’Italia». Capisco: una frase così sembra perfino ridicola. Invece questa è oggi (o dovrebbe essere) la politica. Come quando io ero ragazzo. La politica che mi travolse insieme a tanti altri giovani. Il messaggio di un certo Ercoli che sbarcò a Salerno e ci disse che dovevamo prima di tutto unirci e prendere le armi per cacciare i tedeschi. E il resto veniva dopo. E così accadde. Avvenne che ci mettemmo alla testa degli italiani per renderli padroni del loro destino e, quindi, i costruttori di un’Italia nuova. E ci riuscimmo. Il miracolo economico. La Costituzione democratica.
Oggi l’Italia è a un passaggio simile. Ho sentito il discorso di Draghi alla Banca d’Italia. Tutte cose giuste e dette benissimo. Tutte cose che bisognerebbe fare e che il Pd riproporrà certamente nel suo progetto per l’Italia. Ma vogliamo dire la verità? Tutte cose che già sapevamo ma che, per farle, richiedono che finalmente la politica (la grande politica) decida due cose. La prima è che per «canalizzare» il risparmio e le risorse tuttora grandi del Paese verso la crescita occorrono grandi investimenti nei beni pubblici, scuola, servizi, strutture e capitale umano. E anche questo lo sappiamo.
Ma come possiamo farlo senza inventare qualche strumento nuovo di politica economica che sia in grado di non sottostare alle logiche di un’oligarchia finanziaria che domina il mercato e si «mangia» l’economia reale? La seconda cosa è che il potere politico rompa l’attuale suo vergognoso intreccio con le infinite rendite che soffocano la produttività del sistema italiano e ci condannano al declino.
Qui sta la sostanza del messaggio politico che viene dal voto. Questo è il nostro compito: mettere in campo non solo un grande progetto, ma anche una nuova soggettività etico-politica. Perché nessun progetto è credibile se invece di restituire alla democrazia gli strumenti per decidere persiste l’idea che domina da anni secondo cui la società è poco più che la somma degli individui, per cui il solo modo per tenerla insieme è il populismo oppure il «lasciar fare al mercato».
Andiamo verso prove molto difficili, ma noi possiamo dare una speranza all'Italia se il Pd si rende conto che emergono dalla società civile spinte di solidarietà umana che riflettono un aumento della capacità e volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita.

il Fatto 5.6.11
Internet, baluardo della libera informazione


Mai come in occasione di questi referendum, sta emergendo il ruolo cruciale che internet comincia ad occupare come veicolo di idee e informazioni. Mentre lo spazio sulle reti televisive, in particolare quelle pubbliche, è gravemente insufficiente per garantire alle persone di farsi un’opinione, la grande mole delle iniziative attorno ai referendum nasce e si sviluppa sulla Rete. Un fatto che conferma le straordinarie potenzialità democratiche del web: la politica può anche sonnecchiare, i media tradizionali possono pure essere distratti, ma internet rimane sempre e comunque un’arena aperta dove possono diffondersi le opinioni e dove le singole iniziative si trasformano in mobilitazione. La Rete è stata un baluardo della libertà d’informazione del nostro paese, in tempi duri come quelli che abbiamo vissuto a lungo e, speriamo, sembrano ormai volgere al termine.

il Riformista 5.6.11
Pd: idee-forza per le nuove sfide
Referendum inutili? Non sembra, visto che il governo ha addirittura fatto ricorso alla Corte costituzionale contro la riammissione del quesito sul nucleare...
di Claudia Mancina

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/398174/

il Fatto 5.6.11
Dieci ragioni per i referendum
di Furio Colombo


C’è un curioso rapporto fra referendum e democrazia. Se in un Paese il referendum è facile, nel senso che è stato pensato come strumento naturale degli elettori, come garanzia, controllo, partecipazione e non come disturbo e sfida ai politici, allora la burocrazia è disponibile, le verifiche sono rapide e precise, i numeri richiesti (le firme, la partecipazione al voto) sono ragionevoli, e nessuno considera oltraggio l'uso frequente del referendum. Il lettore, a questo punto, si è accorto che non sto descrivendo l'Italia, né ora, né ai tempi di cui a volte, a causa di Berlusconi, si finisce per essere impropriamente nostalgici.
PENSAVO, ovviamente, agli Stati Uniti e alla Svizzera dove il referendum è uno strumento in più e non un ingombro buttato lì di tanto in tanto da menti stravaganti, per la democrazia. Si è spesso detto che il "cattivo nome" dei referendum in Italia, non solo presso i politici ma anche tra i cittadini, è colpa dei Radicali, che ne hanno abusato, perché ne hanno spesso voluti troppi. Qualcuno evidentemente ha dimenticato che l'Italia ha fatto il primo passo verso l'era contemporanea con il referendum sul divorzio e poi sull'aborto. Di qui la lunga battaglia su e intorno ai referendum, condotta in solitario dai Radicali (Pannella, anche adesso, da 45 giorni, è impegnato nel suo "solito" sciopero della fame per la legalità). Gli ultimi anni, il potere che sembrava perenne di Berlusconi, nuove e baldanzose offensive della Chiesa contro i cittadini e la loro pretesa di pensare e decidere in libertà, hanno riportato interesse sull'istituto del referendum, pur senza raccordi con il nobile passato che ha avuto, nella vita pubblica italiana, questo svilito ed essenziale strumento di democrazia. Ed ecco dunque i quattro referendum (il quarto, quello sull'energia nucleare, appena restituito ai cittadini da una decisione chiara e netta della Corte di Cassazione, altro grande cambio di stagione rispetto al passato) che stanno per avere una grande importanza nella vita italiana, molto più che nei partiti e nella contrapposizione di schieramenti politici.
Come è noto si vota per l'acqua (pubblica o privatizzata?), sul "costo dell'acqua" (profitto o servizio ai cittadini?) sull'energia nucleare (sì o no?), sul legittimo impedimento, che vuol dire il diritto del capo del governo e dei suoi ministri di dire no ai giudici (nel senso di "non ho tempo, ho cose più importanti da fare"). I quesiti sembrano i titoli di quattro racconti per spiegare senso e valori di una comunità democratica. Ma la questione del significato politico di far riuscire o fallire un referendum (tutto dipende dal 50 per cento più uno di coloro che si presentano alle urne) suggerisce di insistere. Ecco dieci ragioni. 1. La prima e prevalente ragione di partecipare dipende dalla famosa questione del quorum. Inutile continuare a lamentare arbitri e inadeguatezze della classe politica se poi si rinuncia all'occasione esemplare di far valere il proprio libero giudizio.
   2. La domanda sull'acqua ci porta a un punto alto ed estremo della vita democratica. Si può privatizzare un bene che è il simbolo più alto di ciò che è irreversibilmente di tutti? I percorsi per farlo (privatizzare l'acqua) sono molti e insidiosi. Il più tipico è l'inganno, dire che non si privatizza affatto, ma si rende migliore l'uso del servizio per il bene di tutti. È lo stesso inganno con cui la destra americana ha privato di assistenza sanitaria quasi quaranta milioni di poveri e di anziani, spesso con il voto e il sostegno delle stesse persone che stavano per essere abbandonate.
   3. NEGLI ULTIMI venti anni tutte le democrazie industriali sono state investite dal vento della privatizzazione e dalla predicazione secondo cui, una volta privatizzato, un settore migliora e gli utenti o consumatori ne beneficiano. Il mito della privatizzazione è l'altra faccia del mito della deregolamentazione, sempre fallita. Basti pensare a ciò che è successo nei trasporti aerei degli Stati Uniti: sempre meno servizi e sempre più costosi per i cittadini, sempre meno lavoro e sempre meno pagato, per il personale di volo.
   4. LA QUESTIONE del prezzo "conveniente" dell'acqua non è solo per tecnici. Si tratta di decidere se si vuole un mondo nel quale le cose si fanno solo se convengono ("se sono remunerative per il capitale") oppure si fanno perché sono dovute. Questa domanda, apparentemente neutrale e legata al buon senso, tocca in realtà un principio fondamentale della democrazia, ovvero i diritti inalienabili. La grande e possente talpa della destra economica cerca punti di penetrazione dove non vi sia adeguata sorveglianza dei cittadini. Dunque attenzione a ciò che state facendo. Vogliono da voi un segnale sbagliato per poi rispondere che con il mercato non si può discutere.
   5. Il "legittimo impedimento" garantito a un personaggio importante è un diritto in meno per i cittadini che non sono più uguali. È una crepa che spacca e corrompe il sistema giuridico in due punti essenziali. Rende sterile l'autonomia della magistratura. Crea un super-cittadino dotato di poteri e garanzie che lo fanno speciale.
   6. Ma il legittimo impedimento è anche, in sé, una offesa, un muro alzato fra potere e non potere, una discriminazione che sottrae ai cittadini dignità e uguaglianza e li definisce come inferiori. Fermare subito questa offesa è essenziale.
   7. La questione dell’energia nucleare, così come è stata presentata in Italia, è un inganno. Meraviglia che persone di valore non abbiano visto l'inganno. I vantaggi che avrebbero potuto esserci con una conversione di due decenni fa non ci sono più perché i sistemi adottabili sono vecchi e in attesa di "nuove generazioni" che non arrivano. I rischi, che sono immensi, ci sono tutti. A cominciare dalle scorie, che sono indistruttibili.
   8. Tutte le tecnologie portano rischi. Solo nel nucleare i rischi, quando si realizzano, sono disastro immenso e irrimediabile e creano dunque una categoria a parte nei problemi del bene e del male. Qui il male, quando c'è a causa di incidenti, è per sempre e senza via d'uscita.
   9. UN PUNTO indiscutibile, spaventoso e vero del rischio nucleare è il numero grande,
   tendenzialmente senza limite, delle persone coinvolte. Un altro punto, altrettanto spaventoso e indiscutibile è il tempo: le conseguenze durano decenni. Dunque nessun governo può essere davvero in grado di governare una simile catena di eventi, come dimostra il ritiro dal nucleare di Paesi industriali come la Germania e come accadrà in Giappone. 10. Ma la ragione più importante per partecipare al referendum è il potere di decidere dato ai cittadini su questioni essenziali. Rinunciare è un delitto contro la democrazia.

Corriere della Sera 5.6.11
Una buona occasione per salvare i referendum
di Michele Ainis


rimo turno, ballottaggi, referendum: e tre. Ci vorrà un atto d’eroismo per metterci in fila davanti ai seggi elettorali, quando ce lo chiedono per la terza volta in quattro settimane. Perché il governo ha rifiutato d’accorpare i referendum alle amministrative, anche a costo di gettare al vento 300 milioni. Perché ci mandano a votare senza spiegarci a che serve il nostro voto, tanto che l’Agcom ha preso carta e penna per inviare una solenne rampogna a mamma Rai.
Perchémagari si tratterà d’una fatica inutile, dato che gli ultimi 24 referendum hanno fatto cilecca, dato che da 14 anni nessuna consultazione popolare ha più raggiunto il quorum. E perché infine i 4 referendum che ci aspettano al varco cadono in un clima surreale, mentre i partiti si esibiscono in una sagra delle ipocrisie. Qual è infatti l’oggetto dei quesiti? Nucleare, acqua pubblica, legittimo impedimento. Ma sullo sfondo si staglia a lettere maiuscole una domanda più generale, più assorbente. Questa domanda investe la popolarità del quarto gabinetto Berlusconi, la sua capacità di riflettere gli umori prevalenti del Paese. Domanda impropria, ma poi neppure tanto. Perché la politica energetica, le privatizzazioni, le leggi ad personam corrispondono ad altrettante scelte strategiche dell’esecutivo in carica, ne disegnano il profilo, nel bene o nel male. E perché ogni referendum si carica di significati evocativi, ben al di là del suo oggetto specifico. Accadde già nel 1974, in occasione del primo referendum, quando il quesito sul divorzio finì per interrogare la laicità degli italiani, il loro grado d’obbedienza rispetto al Vaticano. Ma è un effetto fisiologico, giacché nei referendum si esprime la volontà popolare, senza filtri, senza mediazioni, e allora la sovranità diventa come un’onda che tracima dalle dighe. Non a caso la seconda Repubblica di cui siamo inquilini fu allevata da un referendum, quello del 1993 sulla legge elettorale. Ma tutto ciò è tabù, non se ne può parlare. O almeno non ne parla la politica, che difatti è impegnata in un singolare gioco delle parti. L’opposizione — da Bersani a Di Pietro— si sgola per convincere il popolo votante che questi referendum non sono affatto un’ordalia su Berlusconi. Per forza: altrimenti gli elettori del centrodestra resteranno a casa, e a sua volta il quorum resterà un miraggio. Il conto al governo verrà presentato dopo, se i referendum avranno successo nelle urne. Specularmente il presidente del Consiglio vede questa consultazione come il diavolo, però non lo può dire. E allora fa parlare l’Avvocatura dello Stato, chiedendole di sostenere dinanzi alla Consulta l’inammissibilità del nuovo quesito sulle centrali nucleari. Lascia libertà di coscienza ai propri elettori, aggiungendo che comunque i referendum sono inutili, non cambieranno nulla. E in conclusione mette le mani avanti: quale ne sia l’esito, il governo tirerà per la sua strada. Mettiamole anche noi, le mani avanti. Mettiamole sulle schede colorate che ci consegneranno tra una settimana, senza farci condizionare dai giochini dei partiti. Perché è vero, questi referendum hanno ormai assunto un valore simbolico, virtuale. Quello sul legittimo impedimento tocca una legge amputata già dalla Consulta, tant’è che Berlusconi ogni lunedì lo passa in tribunale. Quello sul nucleare concerne una legge amputata dalla stessa maggioranza di governo, sicché voteremo su un indirizzo normativo, anziché su norme vere e proprie. Ma il vero oggetto di questi referendum è lo stesso referendum, inteso come istituto di democrazia diretta, come canale di decisioni collettive. Un altro fiasco ne decreterebbe i funerali. E tuttavia dopo innumerevoli appelli all’astensione, dopo la fortuna bipartisan del trucchetto che ha messo in crisi i referendum, stavolta nessun partito ha la faccia tosta di consigliarci una vacanza al mare. Hanno capito che soffia un’aria nuova, e non vogliono beccarsi un raffreddore. Se quest’aria gonfierà le urne, magari lorsignori si decideranno ad abolire il quorum, o a correggerlo al ribasso. Dopotutto, se esistesse un quorum per le elezioni provinciali (dove ha votato il 45%), avremmo già abolito le province.

Repubblica 5.6.11
I dubbi della Prestigiacomo e la ribellione dei governatori anche a destra si fa largo il Sì
Nella Lega "cresce" la difesa dell´acqua pubblica
di Carmelo Lopapa


Il ministro dell´Ambiente rivendica di essersi battuta nel Pdl per la libertà di voto
Alessandra Mussolini si spende per il quorum: "Lo faccio come madre e come medico"

Governatori e peones. Eurodeputati e amministratori locali. Parlamentari e ministri. Spezzoni di Pdl, i leghisti, il partito di Storace e perfino i Responsabili. Quelli che, a destra, a votare andranno comunque.
Qualcuno sbandierandolo, i più senza farlo sapere troppo in giro. E al premier, soprattutto. Perché i referendum saranno pure «inutili e privi di conseguenza sul governo», come si tenta di minimizzare Berlusconi per evitare il peggio. Fatto sta che giorno dopo giorno almeno tre dei quattro quesiti esercitano una certa presa anche dentro la sua coalizione. E così, la consultazione del 12-13 giugno rischia di mandare all´aria l´unico obiettivo che al Cavaliere sta davvero a cuore: affondare il quorum sul legittimo impedimento.
Crepe si aprono anche dentro il governo. Non annuncia ancora il suo "sì" contro il nucleare, ma poco ci manca, il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo. «È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate» incalzava a Montecitorio Tremonti e Bonaiuti il 17 marzo, a margine delle celebrazioni per il 150°, in un confronto che doveva restare riservato ma che è finito poi su tutti i giornali. La ministra, com´è noto, è in guerra perenne col collega allo Sviluppo, e nuclearista convinto, Paolo Romani. Ma non è solo per quello che adesso dice di «rispettare la decisione della Cassazione» sul referendum contro l´atomo. Ancora tre giorni fa, in un´intervista al Mattino, ricordava i «molti presidenti di Regione del centrodestra che si sono pronunciati in maniera netta contro il nucleare». Lei stessa rivendica di essersi «battuta perché il Pdl si pronunciasse per la libertà di voto». Mentre resta contraria «fermamente» alla consultazione sull´acqua. Già, i governatori. Quello sardo Ugo Cappellacci, per esempio. Berlusconiano doc, aveva annunciato che per costruire una centrale sull´isola avrebbero dovuto passare sul suo corpo. A maggio i sardi hanno già anticipato un loro referendum sul nucleare, bocciandolo col 97%. «Mi auguro venga replicato il risultato, la nostra contrarietà va dichiarata in maniera espressa, oggi e per il futuro» dice ora il presidente della Regione. In prima linea, come lui, i governatori leghisti: Luca Zaia in Veneto e Roberto Cota in Piemonte. «Figurarsi se ho problemi ad andare a votare per il nucleare - spiega Zaia - . Sono convinto che il 75 per cento degli italiani non condivide questa strategia. Io sono contro il nucleare, contro gli Ogm e per l´acqua pubblica. Chiaro?». D´altronde, lo stesso Umberto Bossi ha confessato di trovare «attraente» il quesito contro la liberalizzazione dei servizi idrici. Suscitando tutto il disappunto che si può immaginare nel presidente del Consiglio. Il segnale è ormai partito e gli uomini del Carroccio lo hanno subito colto. Le amministrazioni locali del Lombardo-Veneto schierate per «la tutela dell´acqua bene comune» si sono moltiplicate in pochi giorni. Il sindaco di Belluno Antonio Prade, ha dato vita al manifesto sui «dieci buoni motivi per votare sì al referendum». Qualcuno, come il sindaco di Verona Flavio Tosi, la pensa diversamente, ma il vento che tira è quello. «L´orientamento lo decide il Senatur, ma la Lega è sempre sensibile ai temi che interessano il territorio», racconta l´eurodeputato Mario Borghezio, che della pancia del partito esprime sempre umori e tendenze. Da Nord a Sud, chi lavora sul territorio ha le idee chiare su acqua e nucleare. Giuseppe Castiglione, superberlusconiano presidente dell´Unione delle Province e a capo di quella di Catania, due giorni fa ha riunito duecento amministratori per far quadrato. E ora spiega: «L´Acqua è pubblica e deve restare tale, piuttosto si affidi la gestione alle Province, e comunque mai centrali nucleari in Sicilia, spazio alle energie rinnovabili». E poi in Parlamento. Tra i pidiellini, Alessandra Mussolini è tra i referendari più convinti. «Anche se la consultazione dovesse essere politicizzata, e spero non accada, io andrò. In quanto medico, in quanto madre, in quanto politico. L´energia? Vorrà dire che la compreremo, fosse pure dai cinesi, tanto ormai si compra tutto». E come lei il collega Fabio Rampelli, perché «milioni di elettori di centrodestra sono contro le centrali e per l´acqua pubblica». Anche i Responsabili cedono al richiamo. «Martedì ci riuniamo per decidere, ma io voto su acqua e nucleare» annuncia il capogruppo Luciano Sardelli. Il loro uomo-simbolo, Domenico Scilipoti, si spinge perfino oltre: «Certamente andrò e mi esprimerò su tutti i quesiti». Dunque anche sul legittimo impedimento, perché «è giusto che gli italiano vadano a votare e esprimano la loro opinione». Che poi è la linea decisa ieri sera dall´esecutivo della Destra di Francesco Storace: l´indicazione agli elettori è per il "si" ai due quesiti sull´acqua e a quello sul nucleare.

l’Unità 5.6.11
Le vittime secondo i dati aggiornati di Fortress Europe sono 17.600 soltanto quest’anno
Il conflitto in Libia intanto si fa più ravvicinato: in azione elicotteri francesi e britannici
«Barcone a picco davanti a noi» Oltre 150 i migranti libici morti
Nessun superstite del barcone naufragato a largo della Tunisia. Almeno 150 migranti sono colati a picco sotto gli occhi dei soccorritori, è il racconto della Guardia costiera di Sfax. In Libia in azione gli Apache Nato.
di Umberto De Giovannangeli


«Abbiamo lavorato giorno e notte per realizzare un miracolo. Ma non c’è stato nulla da fare. Il mare li ha inghiottiti». La speranza muore all’alba. L’ultima ad arrendersi è il tenente colonnello Landoulsi Tahar, responsabile della Guardia
costiera di Sfax e coordinatore per i soccorsi al natante affondato a largo dell’isola tunisina di Kerkennah. Riusciamo a contattarlo telefonicamente. La linea è disturbata e il colonnello Tahar ha i minuti contati: «Posso solo dirle – afferma – ciò che ho ripetuto anche ad altri suoi colleghi: il mare in tempesta, oltre che lo stato di quel barcone, hanno impedito il salvataggio di centinaia di persone che erano a bordo». La maggior parte sono morti in non più di due metri d'acqua. Ed è il particolare più agghiacciante.
«Tanti sono morti cadendo in mare, ma l’esperienza mi porta a ritenere che in molti siano rimasti prigio-
nieri del barcone». Colati a picco. I morti, conferma l’ufficiale, «sono almeno 150 ..ma si tratta di una cifra calcolata per difetto». Altri particolari della tragedia, l’ufficiale li rivela all’inviato dell’Ansa: il capovolgimento del barcone affondato nel golfo di Gabes, proveniente dalla Libia e che aveva come meta Lampedusa, con quasi 800 clandestini a bordo, è
stato provocato dalla non comprensione dei migranti delle indicazioni che venivano date loro dai marinai tunisini. «Il barcone – racconta il colonnello Tahar aveva la prua sollevata perché la maggior parte dei clandestini si era concentrata a poppa. Abbiamo cominciato a dare loro le prime indicazioni. State calmi, non muovetevi, gli abbiamo gridato. Lo abbiamo fatto in francese, in inglese, in arabo. Ma molti di loro non ci capivano, ci guardavano terrorizzati e continuavano a spostarsi, freneticamente». Quando due mezzi, accostando dalla poppa al battello, si sono poi spostati a destra e a sinistra per rendere più veloci le operazioni di trasbordo, i marinai tunisini hanno ripreso a gridare ai migranti «state fermi». «Alcuni facevano segno di aver capito e obbedivano. Ma altri no. E si sono spostati da una fiancata all'altra, tutti insieme. È stato allora che il battello, come un guscio in una pozzanghera si è capovolto. In molti si sono lanciati, sono finiti in acqua, altri sono rimasti aggrappati a qualsiasi cosa trovassero sulla nave. Pochi secondi, e il mare si è aperto sotto di loro.
GUERRA NELLA GUERRA
Cifre agghiaccianti di una guerra nella guerra, che in troppi fanno finta che non esista. Da anni Fortress Europe, il blog di Gabriele del Grande, collaboratore de l’Unità, cerca di documentare questa strage. I numeri parlano da soli. Dal 1988 sono morte lungo le frontiere d'Europa almeno 17.627 persone. Di cui 1.820 soltanto dall'inizio del 2011. Il dato è aggiornato al 2 giugno 2011 e si basa sulle notizie censite negli archivi della stampa internazionale degli ultimi 23 anni. Ma il dato reale potrebbe essere molto più grande.
Da una guerra “dimentica” a quella che s’inasprisce sempre più, la guerra in Libia, luogo di partenza dei barconi di disperati sempre più frequenti e sempre più sfasciati, vere e proprie bombe umane che salpano verso le nostre coste con il loro carico di speranza. Nelle operazioni militari in Libia da ieri sono entrati in azione anche gli elicotteri da combattimento britannici Apache e i Tigre francesi che hanno colpito in diversi raid i veicoli militari e le forze del colonnello Gheddafi. Il cerchio si stringe sempre più attorno al raìs.
Gli elicotteri da combattimento consentono di attaccare con precisione anche obiettivi di piccole dimensioni come unità di fanteria, carri armati e postazioni d'artiglieria, difficili da centrare con mezzi aerei ad alta quota come Tornado e Typhoon. Non si tratta di un intervento di terra ma il campo d’azione è più mobile, la battaglia più ravvicinata. Ieri Il vescovo copto di Matrouh, Bakhomios Demetry, ha denunciato tramite il sito web di Youm7, che durante gli ultimi «raid di velivoli della Nato» sono state colpite anche due chiese. San Giorgio di Misurata e San Marco a Tripoli. Il vescovo ha però assicurato che «non ci sono vittime tra la comunità copta libica».

La Stampa 5.6.11
Gemellini abbandonati in auto per giocare alle slot machine
di Rosaria Talarico


I genitori dei due gemelli di undici mesi sono stati denunciati

ROMA. Sarà come al solito colpa di giornali e televisione se sembra scoppiata la sindrome dell’abbandono facile? Si susseguono i casi di bambini lasciati da soli in auto dai genitori. Due giorni fa a Roma l’ultimo episodio: due gemelli di undici mesi dormivano nei loro seggiolini nell’auto del padre parcheggiata in doppia fila. Dopo dure ore sono stati «salvati» dalla polizia. Dopo le due tragiche morti di Teramo e Perugia, questa volta una storia a lieto fine, per fortuna. Anche se i genitori sono stati comunque denunciati alle autorità per abbandono di minore.
Le slot machine sono state la causa della distrazione di padre e madre, troppo presi dal gioco. Il tutto è avvenuto di fronte a un bar in via Oderisi da Gubbio, zona Marconi. «Ora c’è la psicosi dei bambini - prova a minimizzare il titolare dell’Othereasy Cafè, dove i due si sono intrattenuti dalle 9 alle 11 -. I genitori hanno lasciato la macchina parcheggiata all’ombra, perché la mattina c’è l’ombra qui di fronte. I gemelli dormivano nei seggiolini. Era il padre a giocare alle macchinette. La mamma entrava e usciva per controllare, tenendo per mano la terza figlia, una bimba di due anni». Quindi nessun rischio che i bambini potessero stare male a causa della temperatura elevata. Magari era solo scomodo entrare nel bar con tra figli, di cui due da tenere in braccio contemporaneamente...
Quando gli agenti del commissariato San Paolo sono arrivati sul posto hanno trovato un finestrino dell’auto aperto abbastanza da consentire a un poliziotto di forzarlo per riuscire ad aprire le portiere della macchina. A chiamare il 113 è stata una negoziante della zona insieme a una sua cliente. Luigi De Angelis, che dirige il commissariato San Paolo racconta: «La notizia fa scalpore dopo i casi in cui i bambini sono morti. Ma la cosa qui è molto più semplice, fortunatamente. Sono stati lasciati imprudentemente dal padre e dalla madre per giocare con la slot machine. Il reato c’è, ma noi stessi abbiamo riconsegnato i figli ai genitori senza avvisare i servizi sociali, come sarebbe previsto nel caso avessero avuto precedenti specifici».
A far scattare l’allarme e la chiamata alla polizia è il pianto dei due neonati, una volta svegli. Poco dopo l’arrivo della volante è giunta anche un’ambulanza. Ma i sanitari non hanno potuto che accertare le buone condizioni di salute dei piccoli. Una volta considerati fuori pericolo i gemelli, gli agenti si sono quindi messi alla ricerca dei genitori. Che sono stati rintracciati poco dopo all’interno del bar, intenti ancora a giocare. La madre però probabilmente controllava attraverso la porta, visto che i testimoni sostengono di non aver visto uscire nessuno dal bar.
I genitori sono un’italiana di 37 anni e un egiziano di 32. «Sono stati deferiti all’autorità giudiziaria, che ora deciderà - prosegue De Angelis - e sono stati invitati a tenere un comportamento più corretto, perché quel che hanno fatto una gravità ce l'ha». Anche se questa percezione non sembra essere molto diffusa. «Fa riflettere che gli stessi testimoni che hanno richiesto il nostro intervento - conclude De Angelis - hanno aspettato due ore prima di avvisare la polizia. Quando abbiamo chiesto perché non ci avessero chiamato subito, la risposta è stata che ormai è un’abitudine di tutti lasciare i bambini in macchina mentre si va a fare la spesa o si sbriga una commissione».

Corriere della Sera 5.6.11
Felicità non è andare alla Mecca
«I miei personaggi si godono la vita senza (per ora) sensi di colpa Noi magrebini siamo vittime solo della mancanza di democrazia»
di Stefano Montefiore


G randi occhi per piccoli dettagli. «Sono ossessionata dai particolari che possono rivelare una storia. Il mio primo libro, Confessioni a Allah, nasce dall’aver notato, in un bar in Marocco, quella che secondo me era una prostituta alla sua prima serata. Era nervosa, a disagio, le unghie sporche ma ricoperte di smalto, teneva il bicchiere di champagne con tutta la mano, come un martello, stretto come se dovesse romperlo. Ho avuto voglia di immaginare la sua vita e il suo rapporto con Dio, che gli islamisti ritengono loro monopolio, chissà perché» . Poi sono venuti Mio padre fa la donna delle pulizie (uscito di recente in Italia per l’editore Giulio Perrone) e l’ultimo La Mecca-Phuket, capitolo conclusivo di una sorta di trilogia — toccante e piena di humour— sui francesi, gli arabi e i rapporti genitori-figli. Saphia Azzeddine, nata 35 anni fa a Figuig in Marocco e oggi abitante dei beaux quartiers parigini, ci dà appuntamento al caffè Rouquet di boulevard Saint-Germain, alternativa vintage e meno scontata alle istituzioni Flore e Deux Magots, che si trovano a pochi metri sullo stesso marciapiede. Nella saletta rimasta immutata dal 1954, con le lampade a fiori e i tavolini di formica, la scrittrice e regista bella come un’attrice— il film tratto dal suo secondo romanzo è appena uscito — beve una limonata con la cannuccia e parla di una nonna quasi cieca che si ostinava a cucire a macchina, della madre sarta e del padre che appena arrivato a Parigi, negli anni Sessanta, preferì rimanere in un buco a Montparnasse piuttosto che seguire i compagni marocchini nel grande appartamento della banlieue destinata a diventare un ghetto. «Voleva integrarsi, imparare dai francesi. Diceva che era meglio andare al bar sotto casa e vedere come si comportano i parigini, invece che restare tutta la vita tra arabi a mangiare cuscus con le mani. Una persona poco istruita che non ha rinnegato nulla della sua identità, ma ha insegnato a tutta la famiglia a essere aperti, curiosi e non lagnosi» . L’ascensore sociale, così spesso in panne, nel caso di Saphia ha evidentemente funzionato. Ed ecco quindi l’inevitabile senso di colpa nei confronti dei genitori, la difficoltà di tenere unite generazioni diverse. Nei libri e nel film della Azzeddine è questo il tema ricorrente, che fa di lei un’autrice che oltrepassa il cliché etnico. Mio padre fa la donna delle pulizie ha come attore principale l’ottimo François Cluzet, già in Round Midnight di Bertrand Tavernier e in molti film di Claude Chabrol. Il film è ambientato in banlieue, dettaglio geografico più che cuore della storia. «Polo è un adolescente francese di un ambiente sociale umile, ma che arriva fino al diploma di maturità grazie ai sacrifici, l’amore e l’intelligenza istintiva del padre impiegato in un’impresa delle pulizie — racconta Saphia —. Non c’è l’abitudine ai libri, ma Michel capisce che quella potrebbe essere la salvezza di suo figlio: in una casa piena di telecomandi, gli tappezza la stanza con una carta da parati da pochi euro che riproduce volumi antichi. Polo studia, in poco tempo conosce il mondo più del padre che ha fatto tutto per lui, e finalmente vanno insieme al ristorante, a Parigi. Il padre è fiero e impacciato, il figlio gli spiega a mezza bocca che è un locale normalissimo, e non può che vergognarsi un po’ di quell’uomo tanto buono quanto rozzo e a disagio nel mondo» . L’accettazione, l’amore verso chi è rimasto indietro anche perché altri potessero andare avanti, si imparano con gli anni. Prima, la generosità genera distacco e imbarazzi, la riconoscenza si mescola alla rabbia. Prima di trasferirsi a Parigi, Saphia Azzeddine è arrivata in Francia dal Marocco all’età di nove anni, e ha vissuto a lungo a Ferney Voltaire, alle porte di Ginevra, dove la madre aveva trovato lavoro come sarta. «Dopo la scuola, gli studi di sociologia e un lavoro come assistente in un laboratorio di diamanti ho cominciato a scrivere, in una fase della mia vita in cui rischiavo di addormentarmi un po’ — racconta —. Niente di serio, con delle amiche facevamo un giornale sugli spettacoli e le serate di Ginevra, mi occupavo dell’ultimo artista o di un nuovo bar o dei negozi di scarpe, ma tutti mi dicevano che avevo un mio stile, riconoscibile e divertente. Poi una volta ho fatto un viaggio in Israele e in Palestina, mi sono trovata due giorni in albergo a Nablus con il coprifuoco, non potevo uscire e non c’erano tv e dvd, così mi sono messa a scrivere quel che avevo visto. Arrivata a Parigi, ho preso coraggio e ho scritto Confessioni a Allah. Ho incontrato poi Nathalie Rheims, della casa editrice Léo Scheer, che mi ha chiamato il giorno dopo aver letto il manoscritto per dirmi che lo pubblicava» . Il cinema è venuto di conseguenza, Nathalie Rheims (sorella della fotografa Bettina e compagna del produttore cinematografico Claude Berri scomparso due anni fa) ha voluto portare sullo schermo la storia di Mio padre fa la donna delle pulizie, «e mi ha convinto a passare dietro la cinepresa — dice la Azzeddine —. Ci siamo trovate d’accordo sul fatto che la sceneggiatura era molto personale, e che forse avrebbe funzionato meglio diretta da me» . Sotto la guida spirituale di François Truffaut— «Ho scoperto da poco il suo libro-intervista ad Alfred Hitchcock, ne leggo non più di 10 pagine al giorno per prolungare il piacere» — Saphia si appresta a portare al cinema anche La Mecca Phuket, dove un piccolo ruolo sarà riservato al suo oggetto feticcio, un vassoio-cuscino. «Mi segue ovunque e lo si vede anche nel film precedente. Passo molto tempo a letto, scrivo al computer, mangio e leggo lì, e quel vassoio con i bambù è diventato fondamentale» . Che cosa legge? «Mi piacciono i romanzi un po’ acidi, con un fondo di cinismo. Quindi Philip Roth. E poi torno sui classici letti (e detestati, tranne Stendhal) a scuola» . Dall’intimismo della camera da letto allo sguardo sul mondo: dopo le rivolte in Egitto e Tunisia, Saphia è ottimista: «Sono un’iniezione di fiducia per tutti noi, in Nordafrica e anche in Francia» . E controcorrente: «Non sono d’accordo con le associazioni come Ni putes, ni soumises, che appiccicano ai nostri padri e fratelli delle banlieue l’immagine di violenti maschilisti. Nel Maghreb, e nelle periferie francesi, non ci sono uomini liberi e donne oppresse: tutti sono vittime della stessa povertà e della mancanza di democrazia. Il problema è politico ed economico, più che culturale» . Nell’ultimo romanzo La Mecca-Phuket, l’eroina Fairouz abita in una casa popolare con gli adorati genitori, il fratello Najib e le sorelle Kalsoum e Shéhérazade. Fairouz è una ragazza sveglia e impertinente, ma ha negli occhi l’immagine della madre semi-analfabeta, che parla francese poco e male: se la immagina seduta per ore, con lo sguardo rivolto verso il pavimento, in uno degli uffici amministrativi che per gli immigrati sono un calvario. «Fairouz e Kalsoum vogliono ricambiare, per una volta, i sacrifici dei genitori, e mettono da parte i soldi per offrire a mamma e papà quel pellegrinaggio alla Mecca che li renderà finalmente degni agli occhi di parenti e vicini, adempiendo al dovere di ogni buon musulmano— dice la Azzeddine —. Il libro è la storia di come le ragazze capiscono che ci sono due modi di rapportarsi a Dio, su questa Terra: chiedere perdono, o ringraziare. Alla fine, invece di regalare il pellegrinaggio alla Mecca a mamma e papà le sorelle usano quei soldi per concedersi il viaggio dei sogni sulla spiaggia di Phuket, in Thailandia. I sensi di colpa verranno, ma intanto si godono il sole. Come me, scelgono di ringraziare Dio della felicità, piuttosto che espiarla. È una grande conquista» .

Repubblica 5.6.11
La vera storia di Malcom X
di Federico Rampini


Aveva trentanove anni quando fu ucciso mentre teneva un comizio nella Audubon Ballroom di Harlem. Chi sparò e chi diede l´ordine? Un libro riaccende i riflettori sulla vita e sulla morte del leader più amato e più temuto che l´America black abbia mai avuto


NEW YORK L´America ha dovuto aspettare un presidente nero che sa parlare all´Islam, cresciuto da bambino all´ombra dei minareti di Jakarta, poi star di Harvard, depurato di ogni "accento nero" linguistico e ideologico, lo statista che osa pensare una società pacificata e post-razziale. Solo nell´èra di Barack Obama diventa possibile riaprire un grande tabù, una pagina di storia lacerante. È la vicenda di Malcolm X. Oggi avrebbe 86 anni e morì che ne aveva 39, centrato dagli spari mentre arringava la folla nella Audubon Ballroom di Harlem. Quel 21 febbraio del 1965, nel giorno di una morte violenta che lui stesso aveva prevista e annunciata, Malcolm X si portò nella tomba tanti segreti: a cominciare dall´identità dei suoi assassini e dei mandanti. Per più di quarant´anni un grande intellettuale nero, lo storico Manning Marable, ha lavorato per venire a capo del mistero. Marable, fondatore del dipartimento di studi afroamericani alla Columbia University, è morto due mesi fa. Uscita postuma, la sua opera monumentale Malcolm X: a Life of Reinvention, aiuta a capire i perché di tante reticenze e omertà. Un altro storico, Stephen Howe, ricorda cosa fece di Malcolm X l´eroe di una generazione: «Straordinario oratore, divenne lo schermo sul quale milioni di neri proiettarono le loro speranze. Aveva molto degli improvvisatori di musica jazz, anticipò i futuri rapper. Incarnava il mito del fuorilegge vendicatore, in una società di neri senza diritti». Artista della reinvenzione di se stesso, Marable lo descrive come una costruzione di «maschere multiple»: da zotico di provincia a delinquente, da uomo di spettacolo a intellettuale autodidatta, esponente radicale del nazionalismo nero, predicatore religioso, musulmano ortodosso. Acerrimo rivale di Martin Luther King, poi sul punto di riconciliarsi con lui: firmando così la propria condanna a morte. Dopo l´assassinio di Malcolm X tre uomini vengono arrestati, processati, condannati velocemente. Due saranno messi in libertà negli anni Ottanta e mai hanno smesso di proclamarsi innocenti. Solo il terzo, Talmadge Hayer, rilasciato dal carcere l´anno scorso, è reo confesso. C´era solo lui quel giorno a sparare? La minuziosa indagine di Marable ricostruisce una verità diversa: fu un commando di cinque sicari a firmare l´esecuzione. Chi sparò il primo colpo, mortale, non è mai stato disturbato dalla giustizia. Ha 72 anni, oggi vive a Newark sotto il nome di William Bradley. È un ex campione di basket, celebrato nel Newark Athletic Wall of Fame. La pista dei mandanti si biforca in due direzioni, verso forze tra loro opposte ma ugualmente interessate a far fuori Malcolm X e poi a seppellirlo nell´oblìo. Da una parte c´è l´Fbi che intercettava sistematicamente le sue telefonate, ignorò le minacce di morte che si moltiplicavano, fece di tutto perché l´attentato procedesse indisturbato. Dall´altra c´è il radicalismo nero, a cominciare dalla Nation of Islam e un leader come Louis Farrakhan che a Marable ha confessato: «Potrebbero trascinarmi davanti a un gran giurì anche oggi, non esiste prescrizione per gli omicidi». Le prove accumulate dall´autore appena scomparso sono schiaccianti, Michael Eric Dyson della Georgetown University ne è convinto: «Questo libro impone di riaprire l´indagine». Peter Goldman, reporter che intervistò più volte Malcolm X, è altrettanto convinto che non succederà: «Fare giustizia oggi, risalendo lungo la catena di comando? Colpire chi diede l´ordine di ucciderlo? Nessuno lo vuole».
L´ultimo revival d´interesse risale alla fine degli anni Novanta: il fascino di Malcolm X conquista il regista Spike Lee che mette in scena la sua vita affinando la parte a Denzel Washington. Nel ´99 le poste gli dedicano perfino un francobollo. Ma poi arriva l´11 settembre: nell´epoca della «guerra globale al terrorismo» proclamata da George Bush, guai a ricordare che un´Islam radicale e violento ha messo le radici da tempo nella società americana, tra i neri, non come fenomeno d´importazione dal mondo arabo.
All´Islam il giovane Malcolm Little di Omaha, Nebraska, arriva dopo numerose reincarnazioni, scandite da cambi d´identità: Jack Carlton, Detroit Red (quando si tinge i capelli), Satan, El-Hajj Malik El-Shabazz. Da ultimo quella X, simbolo di ribellione contro dei cognomi che erano stati affibbiati agli schiavi dai padroni bianchi. Figlio di un pastore battista forse lui stesso assassinato (da bianchi), Malcolm cresce in una famiglia così povera che spesso a cena la madre può cuocere solo erbacce di strada. Diventa spacciatore, poi capo di gang di ladri, a Detroit e a Harlem. In carcere per rapina dal 1946 al 1952, alla Norfolk Prison Colony del Massachusetts. Qui si converte all´Islam, abbandona il fumo e il gioco d´azzardo, studia la storia degli afroamericani e insieme Erodoto, Kant, Nietzsche. Lì avviene il passaggio fra due ruoli egualmente popolari nella mitologia dei neri: il bandito spregiudicato vendicatore degli oppressi, e il predicatore chiamato a salvare le loro anime. La reinvenzione della propria immagine continua fino alla celebre Autbiografia di Malcolm X: affidata a un ghost-writer ultramoderato, il giornalista nero di fede repubblicana Alex Haley che diventerà poi famoso con Radici. In quell´autobiografia, fonte del film di Spike Lee, viene esagerato il curriculum criminale di Malcolm X, per rendere ancora più spettacolare la sua redenzione religiosa.
All´apice della sua fama Malcolm diventa il portavoce della Nation of Islam e contribuisce ad allargarne i ranghi fino a 500.000 iscritti. È il periodo della sua radicalizzazione estrema. Quando in un incidente aereo muoiono 62 ricchi bianchi di Atlanta per lui è «la prova che Dio esiste». Reagisce all´assassinio di John Kennedy dicendo che se l´è meritato. Recluta nelle carceri, creando una commistione totale fra militanza politica e criminalità. Invoca la lotta armata, difende il terrorismo contro la polizia, diventa il precursore teorico delle Black Panther. Immagina una «nazione nera» che fa secessione dentro l´America, al punto da incontrarsi con esponenti del Ku Klux Klan per progettare assieme «la separazione tra le due razze». The Nation of Islam, spiega Howe, con Malcolm X diventa «una bizzarra mescolanza di teologia, fantascienza, fanatismo razziale. Teorizza la malvagità intrinseca della razza bianca e in particolare degli ebrei, l´inferiorità delle donne». Il divorzio matura all´improvviso. Per ragioni anche personali: il leader spirituale della Nation of Islam, Elijah Muhammad, mette incinta la donna con cui Malcolm aveva avuto una lunga relazione. E poi c´è il viaggio alla Mecca, l´incontro con un Islam moderato e multirazziale. Un´altra conversione: alla fede sunnita. È il "tradimento" che arma i suoi assassini. Proprio quando Malcolm comincia a recuperare il dialogo con Martin Luther King, fino allora dipinto come uno «zio Tom», servo sciocco dei bianchi. «Ci sono cose - aveva detto Malcolm in tono sprezzante contro King - più importanti del diritto a sedersi insieme coi bianchi in un ristorante».
Per il poeta nero Amiri Baraka non aveva torto, Malcolm X, e la sua eredità è meno negativa di quanto sembri: «Senso d´identità, indipendenza, con questi valori l´ala dura del movimento di liberazione dei neri ebbe un impatto enorme nella società americana, senza di lui non ci sarebbe Obama». Anche su questo i neri continuano a dividersi. Tra chi vede in Malcolm il paladino di un orgoglio di razza, e chi fa risalire a lui il vittimismo permanente: l´etichetta del "nero arrabbiato" che Obama è riuscito a togliersi con una fatica enorme, sopportando stoicamente le insulse accuse sulla sua nazionalità keniota o la sua religione islamica. E quando nel luglio 2009 questo presidente ha preso le difese di un professore nero di Harvard, Henry Louis Gates, vittima di un sopruso da parte della polizia, l´America bianca benpensante e conservatrice è saltata addosso a Obama. Sperando che reagisse coi nervi a fior di pelle. Sognando di ritrovare come avversario un Malcolm X: un Satana.

Repubblica 5.6.11
Ecco un uomo che ha ancora molto da dirci
di Spike Lee


Avevo quattordici anni quando ho letto l´Autobiografia di Malcolm X scritta da Haley Alex, frequentavo le superiori, ad Atlanta, in Georgia. Quel libro mi cambiò la vita, non avevo mai letto niente del genere prima, cambiò radicalmente il modo in cui osservavo il mondo, e fino ad oggi resta il libro più importante che io abbia letto.
Ciò che mi toccò di più furono l´onestà e la forza di Malcolm X. Malcolm diceva quello che tutti noi avevamo paura di dire. Sono rimasto attratto dalla sua intera vita, dall´evoluzione del suo personaggio.
Anni dopo, quando io stesso cominciai a scriverne per la sceneggiatura del mio film, feci un mare di ricerche su Malcolm X: documenti, registrazioni audio, video, parlai con la sua famiglia, con i suoi collaboratori, con sua sorella, e dai loro racconti imparai tantissimo sul calore e sullo spirito di quell´uomo. E credo che questa intuizione sia stata un elemento molto importante per il film, perché Malcolm era certamente un gigante ma noi volevamo anche far vedere l´essere umano, il padre, il marito. Era una persona dotata di un grande senso dell´umorismo, rideva in modo forte e quasi sguaiato, ed era un grande amante della vita. Denzel (Washington, ndr.) ha saputo cogliere perfettamente questi aspetti del carattere di Malcolm, la sua recitazione è stata fenomenale. Non avevo dubbi sul fatto che avrebbe potuto farcela, lo avevo visto recitare la stessa parte in una commedia dell´off Broadway dieci anni prima. E comunque gli ci volle un anno pieno per prepararsi al ruolo, si mise a studiare il Corano, si sottopose a una dieta rigidissima per ripulirsi, e così diventò Malcolm. Per me è stata la sua migliore interpretazione, Oscar o non Oscar. Nel film ha interpretato quattro Malcolm diversi, perché il Malcolm che alla fine si converte all´Islam non ha nulla a che vedere con Detroit Red.
I miei critici, quelli che mi dicevano che avrei distrutto l´eredità di Malcolm, X, che mi stavo concentrando troppo sui giorni in cui era un gangster, alla fine si sono dovuti ricredere. Fino all´uscita del film l´immagine di Malcolm X era stata un´immagine angusta, limitata a quello che la gente aveva recepito attraverso i media bianchi. Il mio obiettivo, con il film, è stato proprio quello di cambiare quell´immagine stereotipata, di far sì che la gente uscisse dalle sale sentendosi ispirata, motivata e spiritualmente sollevata. Non volevo che il film fosse solo un documento storico, un pezzo da museo. Volevo far vedere che Malcolm ha ancora molto da dirci, e che le cose di cui parlava allora sono ancora con noi oggi.
(testo raccolto da Silvia Bizio)