sabato 4 giugno 2011

l’Unità 4.6.11
Effetto elezioni il Pdl si è smosciato Il Pd primo partito col 29,2 per cento
Secondo l’ultimo sondaggio commissionato dal Partito Democratico lo schieramento di Bersani sarebbe salito al 29,2% mentre il Partito delle libertà sarebbe arretrato al 27. In costante discesa.
di Pino Stoppon


Il sorpasso è avvenuto. Nonostante tutto il gotha del Partito delle Libertà si fosse premurato di ricordarlo, e tra questi il governatore della Lombardia Roberto Formigoni che nell’ultima trasmissione di Ballarò si è speso nel rammentarlo a tutti gli ascoltatori, l’effetto elezioni c’è stato. Il partito di Berlusconi non è più in testa. Secondo un sondaggio riservato commissionato dal Pd, che è pur sempre il diretto concorrente ed è bene sempre ricordarlo, il Pdl sarebbe in caduta libera. La vittoria di Pisapia (fortemente sostenuto dal partito di Bersani), quella di Fassino, Merola, hanno ridato fiato ai democratici. Che per la prima volta da molti mesi a questa parte sono risaliti sopra quota 29.
Questo, dunque, il raffronto: il partito democratico si attesterebbe a quota 29.2% mentre quello del presidente del Consiglio navigherebbe attorno al 27,5%. Quasi due punti percentuali di distacco. Fino a qualche tempo fa una chimera solo ipotizzarlo. Berlusconi pur cedendo molta strada, si partiva dal 38% delle ultime elezioni politiche (dato che includeva però anche l’ex partito di Gianfranco Fini), nonostante gli scandali era sempre una ruota avanti. Ma nell’ultima volata il Pd ha preso la scia ed è passato. E come spesso accade, nei sondaggi non si guarda solo alla fotografia pura e semplice del risultato ma alla tendenza che si registra. E quella del Pd è in crescita (+0,8%) mentre quella del Pdl è in forte discesa (-1%).
Tant’è che all’interno del partito di Berlusconi si sta pensando a come poter risalire la china. Una delle possibili soluzioni che il neo segretario
Angelino Alfano sta vagliando è quella di ricorrere alle primarie per la scelta del leader. Se fosse vero una piccola e ma significativa rivoluzione. Che, parrebbe, potrebbe stare bene anche a Re Silvio a patto che «non siano infiltrate», sporcate, cioè, dai soliti comunisti. «Ci stiamo già preparando, Berlusconi sia preoccupato» ha ribattuto ironicamente il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Che ieri ha ricevuto un attestato di stima persino da Arturo Parisi: «Per un confronto politico e per condividere una responsabilità di governo avrei difficoltà a trovare una persona migliore di Bersani». Anche se poi ha aggiunto: «È proprio lui a ricordarci che vuole essere considerato espressione di una squadra, di una ditta, di un storia collettiva più antica» Non si può avere proprio tutto.

Corriere della Sera 4.6.11
Il premier: quesiti inutili
Bersani mobilita il partito
di Alessandro Trocino


ROMA— Per motivi diversi, Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani condividono lo stesso obiettivo: depoliticizzare il voto. Il leader del Pdl spiega che l’esito dei referendum «non ha nulla a che vedere con il governo: se i cittadini non vorranno il nucleare ne prenderemo atto» . E il leader del Pd, di rincalzo: «Quale colpo al governo, figuriamoci se vogliamo impostare così il referendum: qui si parla di acqua, di nucleare» . Unità di intenti virtuale, s’intende, visto che l’obiettivo dei due è opposto. Berlusconi teme che un’eventuale sconfitta possa rappresentare la spallata decisiva al suo esecutivo. Inoltre, non vuole alienarsi il rapporto con una Lega sempre più decisa a svincolarsi e ad avere una sua autonomia. Bersani vuole raggiungere il quorum, cosa che sarà possibile solo con la partecipazione consistente al voto di elettori di centrodestra, da non schiacciare nell’ordalia pro o contro Berlusconi. Il Pdl, per evitare di intestarsi un’eventuale sconfitta, non darà indicazione di voto. Il filo nuclearismo del partito è noto, anche se ora il premier prova a smarcarsi: «Le norme sulla localizzazione delle centrali sono state abrogate e quindi si chiede ai cittadini di votare sul nulla. È un voto inutile» . Berlusconi rende nota anche la sua posizione sull’acqua: «Il quesito è fuorviante, non è vero che la legge che si vuole abrogare voglia privatizzarla, ma solo porre fine agli sprechi» . Bersani considera invece «utilissimi » i quesiti. E spinge il suo partito a una mobilitazione di massa per raggiungere il difficile obiettivo del quorum. Sono in arrivo 5 milioni di lettere-brochure firmate dal segretario pd, ma sono pronti anche gli spot radiofonici e la campagna sul web. Il punto culminante dovrebbe essere la manifestazione di Roma del 10 giugno (si vota il 12 e 13). Sulla quale si registra qualche oscillazione. Sinistra e Libertà si è chiamata fuori, per voce di Paolo Cento: «Non ci sono le condizioni per una chiusura assieme agli altri partiti: serve una mobilitazione capillare nei territori, al di là di schieramenti e bandiere di partito» . Anche Antonio Di Pietro frena: «Non è un giudizio di Dio su Berlusconi» . Ma la manifestazione unitaria si farà, probabilmente in piazza del Popolo. Con la precauzione di mettere in primo piano i comitati e i partiti sullo sfondo. Anche perché, spiega Bersani, «chi vuole venire, di destra o di centro, è benvenuto» . Le posizioni sulla materia, al di là delle convenienze politiche, sono diversificate. E i partiti sono attraversati da fratture interne. Il Terzo polo è diviso. Il finiano Carmelo Briguglio non dice se voterà sì o no, ma invita comunque i suoi a votare: «È un atto di patriottismo costituzionale» . La Lega, ai piani alti, tace (ma Bossi aveva detto che «alcuni quesiti sono attraenti» ). Sul territorio si moltiplicano i sì. Dopo il sindaco di Varese Attilio Fontana, è Luca Zaia a uscire allo scoperto, con ironia: «Sono contro il nucleare, a favore dell’acqua pubblica e del prosecco» . Anche nel Pdl qualcosa si muove. Ugo Cappellacci, governatore sardo, auspica un bis del referendum locale del 15 maggio sul nucleare. E Alessandra Mussolini voterà sì. Ma se ci sono sì nel centrodestra, non mancano no nel centrosinistra e in particolare nel Pd. A Bersani, padre delle «lenzuolate» liberalizzatrici, si imputa un cambio di opinione. Il segretario non va al cuore della materia per non spaccare il partito. E fa sapere che è «contro la privatizzazione forzata dell’acqua» . Dove la parola «forzata» (come risulterebbe dal decreto Ronchi) è il termine chiave. Non è detto, infatti, che il Pd sia tout court contro la privatizzazione, sia pure a certe condizioni. Sono note le posizioni di Sergio Chiamparino ed Enrico Letta. Ieri anche Matteo Renzi ha fatto sapere di essere in dubbio su uno dei referendum sull’acqua, quello sul profitto dei gestori. Franco Bassanini è durissimo: «Se passasse il quesito sull’acqua sarebbe un tragico passo indietro. Eliminare il profitto provocherebbe gravi problemi a qualunque azienda, incluse le municipalizzate. Fatto che i promotori, compresi alcuni ex liberalizzatori come il mio amico Bersani, fingono di ignorare» . Resta sullo sfondo il quesito sul legittimo impedimento. Pochi ne parlano, per la depoliticizzazione ritenuta necessaria al raggiungimento dei quorum. Non ne parla Berlusconi e ne parla poco Bersani. Di Pietro non si tira indietro: «Se il legittimo impedimento non passa, Berlusconi non andrà più alle udienze» .

Repubblica 4.6.11
La porta stretta della sinistra
di Miguel Gotor


Gli esiti di queste elezioni lasciano intravedere l´esistenza di un passaggio stretto, ma percorribile, verso una nuova fase della politica italiana. Al netto della propaganda e delle forzature interpretative i risultati sono chiari e assegnano al Pd una responsabilità imprevista e uno spazio di agibilità politica inedito, alimentati non dai desideri o dalle speranze, ma dai nuovi equilibri usciti dalle urne, i soli che contano per davvero.
Si è avuto uno "sconfitto mascherato", ossia il terzismo attendista, formato da quanti auspicavano la contemporanea dissoluzione dei due poli e l´apertura di uno spazio al centro che raccogliesse contemporaneamente le due frane tanto agognate: quella di Berlusconi e dei democratici. E di conseguenza c´è stato anche un "vincitore oscurato", il Pd, che vede accresciuto il suo ruolo di perno di una possibile alternativa all´attuale blocco di potere: dai suoi voti, ossia dal suo consenso popolare, volenti o nolenti, bisogna passare.
Quali sono i processi di fondo che caratterizzano gli albori di questa originale fase politica e perché, se il vecchio sole tramonta, il nuovo fatica a nascere? Anzitutto, si riceve la conferma che, nonostante le difficoltà, il bipolarismo resiste. Non si è aperto uno spazio per soluzioni terzopoliste autonome e non per colpa di questa legge elettorale, ma perché c´è un´antica e radicata tendenza italiana al bipolarismo multipartitico che costituisce, insieme con il potere di ricatto delle forze medio-piccole, un tratto distintivo del sistema politico nazionale. Il Terzo polo deve ripensare la sua strategia poiché rischia di essere meno condizionante di quanto avrebbe voluto e i suoi elettori hanno dimostrato che, se vedono un´alternativa credibile a Berlusconi, sono disposta a votarla, anche se collocata dentro il fronte progressista.
In secondo luogo, l´astensionismo, soprattutto nelle città principali, è forte e sarebbe sbagliato trascurare questo dato. L´impressione è che un 20% dell´elettorato abbia scelto di restare a guardare e che un polo sia prevalso sull´altro, come spesso accade, soprattutto in quanto è riuscito a portare la sua parte a votare. Si tratta di un blocco dormiente, prevalentemente moderato, con tanti elettori che in passato hanno scelto Berlusconi e che ora si sono astenuti in attesa di una nuova proposta politica o perché non ancora convinti dal valore equilibratore del Pd. Certo, gli assenti hanno sempre torto, ma non bisogna pensare che lo saranno ancora o per sempre, altrimenti il risveglio, soprattutto in caso di elezioni politiche, potrebbe rivelarsi amaro.
L´esistenza di questo blocco sommerso e ancora da convincere interroga la funzione nazionale e costituente del Pd a cui ora viene chiesto di elaborare una piattaforma politica non solo in grado di vincere le elezioni, ma anche di governare il Paese. Per riuscirvi il Pd deve continuare a occupare il centro delle opposizioni a Berlusconi (Fini/Casini da un lato, Vendola/Di Pietro dall´altro) proponendo un´alleanza per la ricostruzione materiale e civile dell´Italia che tenga insieme progressisti e moderati. Non una santa alleanza antiberlusconiana, ma un progetto costituzionale, repubblicano e riformatore - moderato e progressista nelle sue componenti interne come sempre è avvenuto nei momenti fecondi di sviluppo della storia italiana - che sia capace di rispondere ai bisogni inevasi dal lungo ciclo di governo berlusconiano sul terreno della crescita economica, della politica fiscale e della dignità nazionale. Perché qui è il punto: Berlusconi ha governato soltanto 6 mesi nel decennio 1991-2001, ma ben 8 anni su 10 in quello successivo e dunque porta oggi tutto intero sulle spalle il peso della sua sconfitta come forza dirigente. Bisogna però riconoscere che egli ha rappresentato una delle possibili risposte a una serie di nodi antichi nel nostro Paese che non dipendevano da lui e che non si scioglieranno come per incanto con la sua eventuale sconfitta.
Sull´onda dell´euforia il Pd non deve ripetere un errore già commesso dal Pds nel 1993: questo Paese, nella sua lunga e tribolata storia, non è stato mai governato secondo una logica frontista, puntando su un´autosufficienza progressista. Non a caso il successo del Pd è stato oscurato esaltando la forza della sinistra radicale oltre ogni dato di realtà: si vorrebbe spingere Bersani a bordo ring, tutto schiacciato a sinistra dentro una sfida per la leadership con Vendola e Di Pietro in una nobile corsa a chi ama di più i rom o i fratelli musulmani e si sente per grazia ricevuta migliore dell´altra Italia, per definizione gretta e volgare. In questo modo si vuole aprire in vitro uno spazio al centro in cui una nuova proposta potrebbe raccogliere gli esisti del berlusconismo senza Berlusconi strutturandoli dentro un quadro neo-moderato e di segno centrista. Per evitarlo è necessario che Bersani continui a dialogare con le forze che lo incalzano a sinistra e che hanno il merito di mobilitare un elettorato altrimenti non votante, senza però rinunciare a definire una proposta che parli al mondo imprenditoriale, finanziario, culturale che oggi non si sente più rappresentato da Berlusconi, appartiene al campo moderato, ma sa di non poter vincere con il Terzo polo e basta.
Il percorso che si apre davanti è stretto e dispendioso, ma è l´unico pagante come queste elezioni hanno cominciato a rivelare. Bersani ha il passo del maratoneta e ora ha ottenuto un rifornimento di consensi persino inaspettato, che deve però saper gestire perché la competizione è ancora lunga. Peraltro nessuno mai ha pensato che la soluzione dell´equazione italiana, andare oltre il berlusconismo senza cadere in un nuovo populismo di segno progressista, fosse una gara da sprinter: servono, piuttosto, durata, spirito di sacrificio e temperamento fino all´ultima curva e oltre.

Repubblica 4.6.11
Bersani: "Il voto è la strada maestra"
Il Pdl e l'offerta di D'Alema sul governo di transizione: "Sembra Tecoppa"
di Giovanna Casadio


ROMA - Con Roberto Maroni ha parlato brevemente a fine parata del 2 giugno. Bersani potrebbe incontrare il ministro e leader leghista nei prossimi giorni per discutere di legge elettorale. Ma in definitiva il segretario del Pd crede poco alla possibilità di cambiare il "porcellum", l´attuale sistema. «Bisogna prendere atto che per Berlusconi questa è la legge migliore del mondo... - riflette - comunque se c´è uno spiraglio noi siamo disponibili». Realismo vuole che il Pd sia pronto al voto. Per Bersani un premier senza più maggioranza, sonoramente sconfitto alle amministrative, deve presentarsi dimissionario e, a quel punto, «sono le elezioni la strada maestra».
Se Massimo D´Alema - nell´intervista a Repubblica di ieri - ipotizza un governo di fine legislatura con il compito di fare quel che è più urgente, ovvero una manovra economica equa per rilanciare lo sviluppo e la riforma elettorale, ebbene Bersani nutre poche speranze. Non lo esclude, ma non lo sponsorizza. Lunedì nella direzione del partito, la parola d´ordine del segretario sarà: prepariamoci al voto. Rilancerà «la proposta positiva per il paese», cioè la larga alleanza costituzionale, e chiederà agli altri leader democratici di essere compatti e convinti su questa linea. «Dalle macerie del berlusconismo si uscirà affrontando la ricostruzione del paese e c´è bisogno di tutte le forze politiche, sociali, imprenditoriali disponibili», è uno dei passaggi della relazione che terrà. «Non abbiamo intenzione di lasciare tempo all´inconcludenza - rincara Rosy Bindi - Incalzeremo. È chiaro che non potremo che chiedere le elezioni». Ugualmente per Arturo Parisi dopo i referendum, non si può che puntare al voto.
Dal centrodestra è un "no" e un coro di ironie sulla proposta di D´Alema. Fabrizio Cicchitto, il capogruppo Pdl alla Camera, paragona D´Alema a «Tecoppa, che spiega all´avversario ciò che deve fare per essere infilzato più facilmente. Evidente che Berlusconi non si atterrà alle perentorie intimidazioni dalemiane e la partita sarà giocata in modo totalmente diverso». Cominciando con il rilancio del governo e del Pdl. Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa, è sicuro che Berlusconi durerà fino al 2013 e che «D´Alema è relegato in un angolo del centrosinistra». «Proposta ridicola di D´Alema», per Jole Santelli.
Ironizza a sua volta Bersani sul premier che teme «gli infiltrati» della sinistra in future primarie del Pdl. «Ci infiltreremo nelle primarie? Ci stiamo preparando, Berlusconi sia preoccupato». Cicchitto è costretto a precisare: «No, non ci spaventano infiltrazioni del Pd che è abituato a perdere le primarie... «. Battute che non tolgono al segretario Pd il buonumore, sostenuto dall´ultimo sondaggio che dà il partito al 29,2% e il Pdl al 27,5%. Le grane democratiche di certo non mancano. In direzione all´ordine del giorno c´è il "caso Napoli", non solo la dura batosta al candidato Morcone, ma pure la questione dell´appoggio e della composizione della giunta De Magistris. Resa dei conti poi, sulla Calabria dove bruciano le sconfitte e il Pd è balcanizzato. Il segretario sa bene che sbagliare una mossa significa pregiudicare il vantaggio acquisito; e che c´è un problema di ricambio generazionale nel partito.

il Fatto 4.6.11
12-13 Giugno. Niente trionfalismi, obiettivo tutt’altro che scontato
Referendum, attenti al quorum servono 25.332.487 voti
È il numero di cittadini necessari per il quorum. Operazione passaparola
di Paola Zanca


Prendete tutti i 900 mila elettori che hanno votato Pisapia, Fassino, Zedda e De Magistris. Moltiplica-teli per 27: ecco sono tutti quelli che il 12 e 13 giugno dovranno andare a votare per ottenere il quorum ai referendum. Cinque volte i telespettatori che giovedì hanno visto Annozero. Ottantamila volte il numero dei deputati che sostiene la maggioranza di centrodestra. Altro che i trenta Responsabili, qui ci vuole mezza Italia che abbia voglia di democrazia. Delle 15 occasioni, negli ultimi 40 anni, in cui serviva che il 50 per cento più uno degli italiani andasse a votare - come vedete nella tabella qui accanto - ci si è riusciti solo otto. L’ultimo referendum ad aver raggiunto il quorum risale al 1995. Poi più nulla. E in ballo c’erano questioni importanti: dalla legge elettorale alla procreazione assistita, dall’articolo 18 all’abolizione dei rimborsi elettorali per i partiti. Per questo i comitati promotori dei 4 quesiti al voto chiedono di cominciare l’operazione-passaparola, perché le persone da portare ai seggi sono tante: almeno 25 milioni 332 mila e 487. E stavolta c’è anche l’incognita del voto all’estero: sulle schede spedite ai consolati - che saranno distribuite a partire dal 9 giugno - c’è un quesito diverso da quello che voteremo in Italia. Il referendum sul nucleare, infatti, è stato riscritto alla luce della sentenza della Cassazione che ha interpretato (negativamente) la decisione del governo, che nel decreto Omnibus, aveva provato a far credere di aver cambiato idea sulle nuove centrali. Ieri, il ministro Maroni, a chi gli chiedeva come il Viminale avrebbe risolto la questione, ha risposto: “Qual è il problema?”.
AL COMITATO Fermiamo il nucleare non è piaciuta questa “sottovalutazione” perchè il rischio che problemi ci siano c’è eccome. Soprattutto se i voti di quei 3 milioni 236 mila e 990 fuori confine risulteranno decisivi per il quorum. Ci sono poi, al momento, 10 mila e 103 italiani temporaneamente all'estero, e altri 17 mila fuori sede che hanno chiesto di poter votare in una città diversa da quella di residenza. Nel dubbio, dicono dai comitati, meglio puntare a “27 milioni”. La stessa tesi dell’Idv Antonio Di Pietro, che avverte: da qui a domenica prossima, tutti a caccia dei voti di centrodestra, perchè bisogna assolutamente evitare che i quattro quesiti siano intesi come un referendum pro o contro Berlusconi. “Dobbiamo raggiungere il quorum sapendo che non basta il 50%, ma serve il 60%” perchè, dice Di Pietro, “sono pronto a scommettere che il ministero dell’Interno farà tutto il possibile per non conteggiare i voti dei connazionali” all’estero. Lui, Berlusconi, ieri a MattinoCinque ha detto che andare a votare è “inutile”: nessun accenno al legittimo impedimento, ma “non è vero che si vuole privatizzare l’acqua” e le norme sul nucleare “non esistono più”. Quindi, andate pure al mare: lo disse già Bettino Craxi nel 1991. Anche allora era il secondo weekend di giugno, e si votava per la preferenza unica alla Camera. Gli italiani forse al mare ci andarono lo stesso, ma dopo essere passati dai seggi: il quesito passò, con un quorum del 62,5 per cento.
VADA ANCHE per l’invito balneare, dunque, purché se ne parli. Il Gruppo di ascolto sul pluralismo televisivo ha contato pochissimi minuti nelle edizioni principali dei tg di giovedì: 49 secondi da Minzolini, 7 minuti e 34 secondi al Tg3, 42 secondi al Tg4 e 49 al TgLA7. Nemmeno un accenno da Tg2 e Tg5. Ieri l’Agcom ha mandato alla Rai “l’ultimo avviso”: da oggi, la tv pubblica è obbligata a trasmettere le tribune elettorali e i messaggi autogestiti non in orari da bebè o da nottambuli. Inoltre la Rai dovrà garantire una “rilevante presenza dei temi oggetto dei referendum” nei tg e nei programmi di approfondimento . Porta a Porta l’altro ieri parlava di vacanze. In studio, Michela Vittoria Brambilla, titolare del Turismo. Ministero abolito dal referendum del 18 e 19 aprile 1993.

Repubblica 4.6.11
Il pressing del Cavaliere sulla Corte "Ho paura che il quorum ci sarà"
di Francesco Bei


Il premier: basta sentenze politiche. E vede Napolitano
Il capo del governo ha confermato al Colle le prossime dimissioni di Alfano "Ma serve tempo"

ROMA - È l´ultimo argine, eretto in tutta fretta, contro l´arrivo della piena. Il ricorso del governo contro la decisione della Cassazione di far tenere ugualmente il referendum sul nucleare contraddice clamorosamente la strategia decisa due giorni fa dal Pdl. Avevano infatti consigliato al premier di «depoliticizzare» l´appuntamento con le urne, era stata stabilita la «libertà di voto» per non trasformare il 12 giugno in un referendum contro il governo. Di fatto un terzo turno elettorale che potrebbe assestare un colpo fatale alla maggioranza. Per questo, ancora ieri, il Cavaliere ripeteva che il voto «non avrà nulla a che vedere sul governo». Il fatto è che i sondaggi, dopo la svolta impressa dalla Cassazione, danno il quorum come possibile, al 50 per cento. E Berlusconi ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, sperando in una bocciatura in extremis dei quesiti.
Per aumentare la pressione sulla Consulta, il Cavaliere era anche pronto a porre il problema ieri direttamente con Giorgio Napolitano. In privato si è infatti lamentato per quella che considera «una decisione tutta politica» della Cassazione, una sorta di processo alle intenzioni, visto che le centrali nucleari, nella legge oggetto del referendum, non esistono più. È stato Gianni Letta a trattenerlo, sconsigliando di sollevare il problema durante l´incontro al Quirinale. Eppure Berlusconi è convinto delle sue ragioni. Tanto più dopo che gli è stato spiegato che la Cassazione ha deciso a maggioranza, confermando i suoi sospetti su una ordinanza tutta «politica». Il relatore designato, Antonio Agrò, si sarebbe rifiutato di scrivere l´ordinanza, costringendo il presidente Antonino Elefante a indicare come estensore il consigliere Gaetanino Zecca. A mossa «politica» Berlusconi ha voluto dunque rispondere con un´altra mossa altrettanto politica: il ricorso alla Consulta. Non a caso ad accompagnare la memoria dell´Avvocatura dello Stato c´è una lettera firmata da Gianni Letta, che chiede appunto l´intervento di fronte ai giudici costituzionali «al fine di evidenziare l´inammissibilità della consultazione».
I margini tuttavia sono strettissimi. «Volete che la Consulta - dice un avvocato-deputato del Pdl - si metta a smentire i giudici della Cassazione?». L´esile speranza di Berlusconi è appesa all´arrivo lunedì, alla presidenza della Corte costituzionale, del giudice Alfonso Quaranta al posto di Ugo De Siervo. Napoletano, coetaneo del premier, Quaranta è considerato vicino al Pdl ed è stato già protagonista di un testa a testa con De Siervo, risultato poi vincitore per un solo voto di differenza.
Nell´incontro di ieri al Quirinale la questione referendum è rimasta dunque fuori dalla porta. Napolitano ha invece chiesto spiegazioni al premier sui prossimi passaggi che investono la successione ad Alfano. Non si sarebbe parlato di nomi, ma solo perché Berlusconi ha messo subito le mani avanti: «Presidente, ci serve ancora un po´ di tempo. Alfano è diventato segretario per far fronte a un problema politico che si è aperto nel partito dopo le amministrative». Ora, ha aggiunto Berlusconi, ci saranno alcuni «adempimenti formali» prima di rendere operativa la nomina di Alfano. Lo stesso Guardasigilli intende vedere approvato il suo codice antimafia. «Non appena avrò le idee chiare - ha promesso il premier - ci rivedremo per discutere della nomina del prossimo Guardasigilli».
Durante l´udienza si è quindi fatto il punto sugli incontri internazionali di questi giorni che entrambi - Berlusconi e Napolitano - hanno avuto con i leader presenti a Roma. E ha fatto capolino la vera urgenza del momento, la manovra di correzione che Tremonti sta ultimando a via XX Settembre. Il Quirinale è in allarme, teme infatti che la sconfitta elettorale possa indurre Berlusconi ad abbassare la guardia, Napolitano osserva con preoccupazione il processo a Tremonti che ha già preso il via nel Pdl. E ha fatto sapere che non starà a guardare se l´Italia dovesse essere esposta al rischio Grecia per le esigenze elettorali del Cavaliere.

l’Unità 4.6.11
Intervista a Laura Boldrini
«È guerra nella guerra
Ormai è chiaro: si tratta di stragi pilotate»
Un’ecatombe: «Da fine marzo 1.500 migranti dalla Libia risultano dispersi»
di U.D.G.


La rappresentante dell’Alto commissariato Onu «Per tentare di arrestare il traffico bisogna aiutare Tunisia e Egitto. L’Italia garantisca anche accoglienza»

Irifugiati morti in mare sono il tragico portato di una guerra nella guerra a cui la comunità internazionale non può assistere inerme». Ad affermarlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).
«All’Italia – afferma Boldrini – chiediamo di continuare a dare accesso al territorio alle persone in fuga dalla Libia e di fornire loro un’accoglienza tale da consentire una rapida integrazione».
Una nuova immane tragedia sembra essersi consumata nel Mediterraneo. Quali riflessioni fare? «Riflessioni improntate a grande tristezza e preoccupazione. Vorrei innanzitutto esprimere profondo cordoglio alle famiglie di tutte le persone morte in mare. Siamo di fronte a una guerra nella guerra. Sono cifre davvero allarmanti. Da fine marzo, da quando cioè è arrivata a Lampedusa la prima imbarcazione proveniente dalla Libia, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati stima che oltre 1.500 persone siano partite dai porti libici ma mai arrivate sull’altra sponda del Mediterraneo. Queste stime si basano su testimonianze di sopravvissuti, telefonate ed email di parenti di persone partite, oltre che su Sos. lanciati dalle imbarcazioni in mare aperto...». Una guerra nella guerra. Chi ne tira le fila?
«Quello che sembra evidente è che ci sia una regia dietro le partenze. Anche perché ogni volta vengono raccolte centinaia di persone fatte partire su carrette da rottamare a distanza di poche ore l’una dall’altra. E poi tutto si ferma per alcuni giorni. Fino a qualche tempo fa per le traversate in mare degli immigrati venivano utilizzati gommoni attrezzati artigianalmente che caricavano 70, 80 persone. Oggi dalla Libia partono vecchi pescherecci in disuso stipati di gente e privi di qualsiasi condizione di sicurezza. Inoltre il viaggio non costa più 1.200 dollari come un tempo, ma molto meno, qualcuno ha raccontato d'aver dato tutto ciò che aveva ed essersi imbarcato con pochi soldi. Oggi la traversata del Mediterraneo costa molto meno e contemporaneamente è a più alto rischio».
A fronte di queste tragedia che si ripetono con sempre maggiore gravità, una domanda è d’obbligo: cosa fare per provare quanto meno a contenerle?
«Da che mondo è mondo, i civili fuggono dalla violenza della guerra. Ricordo che oltre 900mila persone hanno lasciato la Libia e si sono riversate nei Paesi confinanti, cioè verso i confini terrestri. Solo 16mila persone hanno attraversato il Canale di Sicilia verso l’Italia. Si tratta di un numero esiguo se rapportato al contesto generale. Per quanto riguarda la sicurezza in mare, oggi più che mai è necessario unire le forze per salvare vite umane. Ogni imbarcazione in partenza dalla Libia è di per sé una imbarcazione da considerare in pericolo, da soccorrere a prescindere dagli Sos, prima che sia troppo tardi. A ciò va aggiunto che siamo di fronte ad un’altra situazione che mette a rischio i rifugiati».
A quale situazione si riferisce?
«Si tratta del rientro in Libia di quei rifugiati, specialmente somali ed eritrei, che si erano riversati in Tunisia e che non avendo la prospettiva di essere trasferiti in Paesi dove potersi stabilire stanno rientrando in Libia nonostante la guerra in corso, nel tentativo disperato di imbarcarsi verso l’Europa. Sarebbe auspicabile che i Paesi della comunità internazionale si facessero carico di questo problema, definendo delle quote per un regolare trasferimento di questi rifugiati. In questo modo si eviterebbe sia di far arricchire chi sta dietro questi viaggi, sia di mettere a rischio la vita di queste persone, dimostrando in questo modo senso di responsabilità e solidarietà verso i Paesi più esposti a questa situazione, in particolare penso alla Tunisia e all’Egitto».
Cosa chiede l’Unhcr all’Italia?
«Di continuare a dare accesso al territorio italiano a queste persone in fuga dalla Libia, e di fornire loro una accoglienza tale da consentire una rapida integrazione».

La Stampa 4.6.11
La traversata degli innocenti
L’odissea dei profughi bambini
Spesso soli, a volte accompagnati dai loro genitori, i minori sono i protagonisti dimenticati del grande esodo che corre lungo le rotte incerte del Mediterraneo. L’allarme è di Save the Children. Cosa si può fare per loro?
di Francesca Paci


Racconta una guardia costiera da settimane in servizio ininterrotto nel Canale di Sicilia che «quando recuperi in mare tanti bambini come in questi giorni non ti stacchi più di dosso i loro occhi avidi di perché». E’ dai tempi della guerra nei Balcani che sulle coste italiane non approda un numero così alto di minori soli o in compagnia di mamma e papà. Lo conferma l’organizzazione umanitaria Save the Children secondo cui, da gennaio a oggi, sono arrivati a Lampedusa circa 1.500 piccoli profughi, 544 dei quali solo nell’ultimo mese.
«I nuclei famigliari sono la novità di questo nuovo esodo, negli anni passati sbarcavano soprattutto maschi adulti in cerca di lavoro ma adesso la maggiore percorribilità del braccio di mare e la pressione della guerra spinge alla traversata mogli e figli che un tempo avrebbero aspettato» nota don Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana.
L’incertezza della crisi libica ha reso incandescenti le rotte dei clandestini. Eppure nelle carrette vecchie e malandate che salpano da Zanzur o dal porto di Tripoli gli spregiudicati trafficanti di uomini caricano ormai di tutto: il viaggio è stato ribassato parecchio rispetto ai 1200 dollari originari e ogni tre o quattro passeggeri c’è posto per un paio di bimbi che però, come dimostra ancora una volta il naufragio di ieri, sono i più vulnerabili, quelli che scompaiono in un attimo nella notte nera pece del Mediterraneo.
Dal 2008 i volontari di Save the Children fanno base in Puglia e in Sicilia per occuparsi del progetto del Ministero dell’interno Praesiudium. Hanno seguito passo dopo passo l’aumento dei barconi alla deriva a partire dal 26 marzo scorso, quando raccolsero con coperte e caffè caldi i primi migranti salpati dalla Libia. Da allora, insieme ai colleghi dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, hanno contato 14 mila disperati, il 10% dei quali piccolissimi o adolescenti. Molti, soprattutto giovani tunisini e libici, non s’imbarcano sulle orme dei genitori ma soli, sperando nel futuro di cui la primavera araba non è riuscita a fornire garanzie sufficienti. La legge italiana riconosce loro il diritto all’accoglienza in specifiche comunità alloggio e, successivamente, un permesso di soggiorno fino alla maggiore età. Ma, insiste Save the Children, la maggior parte resta «parcheggiata» a oltranza «in strutture inadeguate»: «A Lampedusa e nel resto della Sicilia abbiamo ancora 425 minori non accompagnati, in prevalenza sedicenni e originari del Mali, del Ghana e della Costa d’Avorio, in attesa di collocamento da oltre quindici giorni. A porto Empedocle ben 109 aspettano dal 13 maggio».
Lasciarsi alle spalle la tenebre per vedere l’alba rinviata «sine die» spegne gli sguardi più vivaci. Così i 219 ragazzini ospiti «temporaneamente» presso la Base Loran e il Cpsa di Lampedusa interrogano il domani senza chiedere nulla. Dieci di loro hanno appena undici anni e pare che abbiano osservato muti alcuni dei fratelli maggiori commettere «atti di autolesionismo», estremo tentativo infantile d’attrarre l’attenzione degli adulti.
Nessuno degli operatori umanitari vuole ancora sentir parlare d’emergenza, ma preme la richiesta di «strutture ponte» per tamponare la fase intermedia. Monsignor Nozza invita a recuperare la lezione vincente dei Balcani: «Allora sperimentammo con successo l’idea di distribuire i migranti in centri minori anziché concentrarli massicciamente con il rischio di aumentare le problematiche della sicurezza e le tensioni con le comunità di accoglienza. Il risultato fu un atterraggio più morbido, più dignitoso, più umano». La Caritas lavora dal principio di questo nuovo flusso al dislocamento dei profughi in diverse diocesi e piccole comunità.
Cosa resterà dopo i punti di domanda negli occhi dei più piccoli tra coloro che sfidano il Canale di Sicilia? Per i cinque fotunati piccoli della congolese Kamil Fuamba, che alla fine di aprile sono naufragati con la mamma sulle coste impervie di Pantelleria per essere fiabescamente adottati dagli isolani, ce ne sono migliaia perduti alla ricerca dell’orizzonte incapaci d’individuare un perché.

Corriere della Sera 4.6.11
Dai profughi del Darfur agli eritrei, il villaggio degli «ultimi del mondo»
di  Giuseppe Sarcina


I primi scampati al naufragio nel mare tunisino, il più grave nel Mediterraneo secondo l’Onu, sono arrivati alle 5 di ieri mattina nel campo profughi di Choucha, a otto chilometri dal confine con la Libia. Ad accoglierli qualche eucalipto, tanta sabbia, un piatto caldo preparato dai volontari della Croce Rossa italiana e la prospettiva di passare un numero imprecisato di mesi con altri nove rifugiati in una tenda di venti metri quadrati. Il maggiore colonnello Mohammed Essoussi, responsabile del campo medico installato dall’esercito tunisino, risponde al telefono con un tono rassegnato: «Abbiamo accolto più di 500 superstiti. Una processione cominciata il mattino presto e terminata alle 8 di sera. Erano tutti in condizioni penose, molti ancora sotto choc» . I gradi dell’ufficiale devono essere quasi scomparsi dall’uniforme. È qui da più di 100 giorni, ma l’usura non c’entra. Semplicemente l’autorità militare stenta a mantenere l’ordine in questa cittadella di uomini e donne condannati al confino forzato, senza che abbiano commesso alcun reato se non quello di aver inseguito un lavoro qualsiasi nei pozzi di petrolio, nelle fabbriche e negli uffici alle dipendenze di Gheddafi. Oggi Choucha significa 4 mila africani, provenienti soprattutto da Eritrea, Somalia, Darfur (Sudan occidentale). Il colonnello Essoussi ora quasi ruggisce: «Le organizzazioni internazionali non fanno il loro lavoro. Dovrebbero rimpatriare i profughi, sono lì per quello. La Tunisia non ce la può fare da sola. Ci sono almeno 30-40 mila cittadini libici che sono ospitati dalle famiglie nei villaggi tunisini. E nessuno ha chiesto un dinaro» . Ma l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite non ha i soldi necessari per riportare tutti a casa e gli appelli ai Paesi donatori (Stati Uniti e governi europei in primis) sono serviti a raccogliere solo 48 milioni di dollari, a fronte degli 80 milioni necessari. E allora? E allora ecco spuntare i galoppini dei trafficanti, con la ributtante puntualità degli avvoltoi nei film western. Noora, una giovane somala arrivata nel campo con il marito e i suoi due figli gemelli, ha raccontato la sua fuga a Marine Olivesi, una produttrice radiofonica francese. Qualche settimana fa la donna convince la famiglia a sgusciare dalle tende a notte fonda. Quattro chilometri a piedi senza bagaglio, tranne un sacchetto di plastica con le baguette e le bottigliette di acqua. In silenzio fino alla striscia di spiaggia poco lontana dalla dogana di Ras Jedir. Qui, ma questo Noora non lo ha riferito, probabilmente trovano i furgoni dei «passeur» tunisini, contrabbandieri di benzina, prontamente ricollocati nella rete dei clan. Per gente così è un attimo trovare il sentiero giusto, anche al buio, che porti dall’altra parte e poi verso il porto di Zuwarah. Il barcone di Noora, della sua famiglia e di altri 300 migranti comincia a imbarcare acqua poco lontano dalle rive tunisine. Ma questa volta è andata bene. La Guardia costiera li salva tutti. E i militari li riportano nella casella di partenza, nello stagno sabbioso di Choucha. Noora giura che ci riproverà, ma almeno è lì a raccontarlo. La storia di Safia, una somala di 25 anni, incinta di tre mesi, rivive, invece, nelle parole del marito Mouadin Mohamed, un collaboratore di «Medici senza frontiere» . Una sera, rientrando nella sua tenda, l’uomo non trova più la moglie. Sparita, come altre donne del «compound» . Dove sono finite? Solo dopo ore di inutili ricerche Mouadin ricorda gli strani discorsi di Safia: dovremmo andare in Svezia, dalle mie zie. Tre giorni dopo squilla il cellulare di un marito ormai disperato: è Safia, sta bene, dice di essere di essere a Tripoli e di aver trovato un posto su una barca per l’Europa. Un saluto e una promessa: appena arrivata in Svezia si procurerà i soldi per «liberare» anche Mouadin. Ma due settimane dopo il denaro non è ancora arrivato. Nel campo piomba, invece, una notizia: una piccola imbarcazione, gremita da 150 africani, è affondata sulla rotta per Lampedusa. Nessun superstite. Tra i morti anche una donna somala sui 25 anni. Incinta.

Corriere della Sera 4.6.11
I morti in mare che non commuovono più
di Claudio Magris


Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell’altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola
Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive. Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è certo inquietante e accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell’attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno. Diversamente da altri casi, in cui l’indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall’identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine. Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l’efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l’ordine del mondo né il cuore. L’assuefazione — alla droga, alla guerra, alla violenza— è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere — si dice in un romanzo di Bernanos — ed è questa la cosa più orribile» . Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un’altra e poi un’altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo — perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali — non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere — non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona— che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali. Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l’umanità astratta e l’astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia — schernita come fredda e ideologica — è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare. 

l’Unità 4.6.11
Due mercati del lavoro
Uno per iitaliani e uno per immigrati
di Nicola Cacace


Il dibattito  di questi    giorni è concentrato sugli sbarchi a Lampedusa, prima dei tunisini, poi degli africani del sub Sahara dalla Libia, con uno strascico di brutture e lutti che si potevano evitare. Come quella di giovedì, quando la conduttrice del Tg2 ha dato notizia che «nel Mediterraneo era disperso un barcone con 270 clandestini», non migranti o profughi, ma clandestini!?
Ancora una volta il grande tema immigrazione è trattato come materia di ordine pubblico e non di sviluppo economico o solidarietà internazionale. Si continua a parlare di invasione dal mare che è tale solo nella propaganda della destra se è vero come è vero che nel decennio 2000-2010 gli ingressi dal Canale sono stati meno del 10% degli ingressi complessivi.
Un fenomeno ben più grave è l’emigrazione di italiani, quasi tutti giovani diplomati e laureati. Che circa 30mila giovani italiani scappino ogni anno all’estero per trovare un futuro è un altro segno negativo dell’incultura di questo Paese, della sua classe dirigente, politica e non solo. Ecco i dati:
Italiani emigrati (al netto dei rientri): 2008, 2009, 2010, da 20.000 a 30.000 ogni anno.
Immigrati stranieri (nuove iscrizioni alle anagrafi comunali al netto delle cancellazioni): 2008, 453.765, 2009, 362.343, 2010 (11 mesi), 354.187.
Occupazione nel biennio 2009-2010, meno 532.000 occupati, di cui meno 892.000 italiani e più 360.000 stranieri.
In Italia coesistono due mercati del lavoro, quello per stranieri e quello per italiani. I 350mila stranieri che dal 2000 ogni anno entrano in Italia, pari a 200mila lavoratori, servono a coprire il buco di 500mila giovani che ogni anno mancano a causa del dimezzamento delle nascite, da 1 milione a 500mila. E questi lavoratori si con-
centrano in agricoltura ed allevamento, pesca, edilizia, commercio, alberghi e ristoranti, ospedali, società di pulizia, tessile, servizi alle famiglie, con 3 milioni di lavoratori, di cui 1,5 colf e badanti.
È un Paese vecchio e che per la scarsità di imprese ad alta tecnologia non produce lavori qualificati sufficienti per i suoi giovani. È il risultato di politiche economiche ed industriali sbagliate che hanno tagliato risorse a scuola ed innovazione. L’Italia è di fronte a due mercati del lavoro, uno di lavori a bassa istruzione, che regge anche negli anni di crisi, cui rispondono solo gli immigrati, uno di lavori qualificati, più asfittico, cui rispondono gli italiani. Ecco spiegata la consistenza e persistenza dei flussi migratori che continueranno, anche nei prossimi decenni, sinchè la natalità non riprende, per consentire al sistema Paese di non morire. Bisogna spiegarlo bene agli italiani.

l’Unità 4.6.11
Un codice per il diritto d’asilo entro il 2012

L’Europa chiama l’Italia

Ci siamo quasi (o almeno si spera). Entro il 2012 verranno varate modifiche significative in materia di diritto di asilo. La Commissione europea, infatti, parla di un «sistema europeo comune di asilo» che prevede maggiore tutela e maggiore sostegno per chi richiede una misura di protezione internazionale. Con questo provvedimento, in tutti i paesi europei i tempi per inoltrare la domanda di asilo, le procedure di valutazione e di accettazione o di diniego, saranno resi uniformi. Queste sono alcune delle modifiche che la Commissione europea propone in materia di direttive che regolano il sistema di «accoglienza» e le «procedure» per l’ottenimento dello status di rifugiato. Si tratta di misure presentate il primo giugno dall’esecutivo di Bruxelles, che costituiscono il completamento del sistema europeo comune previsto, appunto, per il 2012. Un sistema omogeneo fa sì che anche nei paesi, come per esempio l’Italia, in cui non c’è una legge organica sul diritto di asilo, vengano applicate regole in grado di rispondere in maniera non arbitraria alle richieste e a garantire i diritti all’accoglienza. Ciò significa che dovrebbero esserci delle norme precise destinate a regolare anche l’attuale e confuso sistema del trattenimento delle persone straniere, prive di uno status definito nel paese in cui hanno richiesto la protezione internazionale. Negli ultimi mesi diversi sono stati gli acronimi (Cara, Cie, Cda, Cai) per indicare i luoghi a cui si ricorre per gestire quello che il Governo ha qualificato «stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale». Ecco, forse, con un sistema europeo «comune» di asilo, quegli acronimi potrebbero ridursi. E sarebbe un vantaggio non solo per la lingua italiana.

Repubblica Firenze 4.6.11
Bimbo abbandonato in auto la mamma era a una festa
di Gerardo Adinolfi


Ha parcheggiato l´automobile nei pressi di una casa dove c´era una festa a cui voleva andare, lasciando il figlio all´interno per circa due ore. Ad accorgersi del bambino, di tre anni, sono stati verso la mezzanotte alcuni passanti che hanno immediatamente avvertito i carabinieri. Una nuova tragedia sventata, per l´accorrere di alcuni cittadini che hanno notato il bimbo, e perché questa volta il piccolo, a differenza di altri casi, era stato rinchiuso nell´automobile di sera, e non al sole. La vicenda è successa nelle vicinanze del centro storico di San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo. La donna, una ventunenne del posto, è stata denunciata per abbandono di minore dai carabinieri. Prima di dare l´allarme i passanti hanno aspettato qualche minuto che qualcuno tornasse a prenderlo. Ma così non è stato ed allora hanno chiamato il 112. Il bambino, tranquillizzato e liberato dai carabinieri era in macchina, da solo, da circa due ore. Le condizioni di salute del bambino sono parse subito buone ai soccorritori, anche grazie alla temperatura fresca della sera. Secondo le ricostruzioni dei carabinieri la donna avrebbe parcheggiato l´auto in strada verso le 22. Non conoscendo l´identità della madre i carabinieri hanno deciso di seguire gli schiamazzi e la musica proveniente da un´abitazione poco lontana dal luogo dove era stata parcheggiata l´automobile. E proprio in quella festa hanno trovato la giovane madre che aveva abbandonato il figlio in auto per raggiungere gli amici. La donna si è giustificata dicendo di aver lasciato il bambino in auto perché sarebbe dovuto passare a prenderlo il suo ex marito. Il piccolo è poi stato riaffidato alla madre.

Corriere della Sera 4.6.11
L’ultimo respiro del «Dottor morte» ascoltando Bach
Addio a Kevorkian, paladino dell’eutanasia
di Alessandra Farkas


«Alla fine era troppo debole per usare i controversi metodi offerti per decenni ad altri» , ha commentato il suo ex avvocato Geoffrey Fieger, «se fosse stato più forte— precisa— avrebbe scelto lui come morire» . Si è spento così, a 83 anni e in un ospedale di Detroit dove era ricoverato dal mese scorso, il «Dottor morte» , com’era conosciuto Jack Kevorkian, per aver aiutato a morire 130 persone gravemente malate. Le infermiere, poca prima che spirasse, hanno diffuso nella stanza musica di Bach. Figlio di operai che avevano abbandonato l’Armenia dopo il genocidio del 1915, Kevorkian era nato a Detroit nel 1928. Dopo la laurea in medicina all’Università del Michigan, nel 1952 comincia ad approfondire i temi legati all’eutanasia. La sua ossessione nasce durante l’internato in ospedale, quando assiste alla morte per tumore di una donna di mezz’età. «Era emaciata e sofferente — ricorderà più tardi — uno scheletro tenuto forzatamente in vita» . Dopo aver messo a punto la «macchina» della morte Thanatron, nel 1989, con parti acquistate al mercato delle pulci, va a caccia di aspiranti suicidi pubblicando inserzioni sui giornali locali. Anche se numerosi «clienti» rispondono all’appello, aspetta quasi un anno prima di inaugurare l’invenzione. Il 4 giugno 1990, in un parco semideserto alla periferia di Detroit incontra Janet Adkins, 54enne dell’Oregon malata di Alzheimer che si suicida schiacciando un bottone della sua Thanatron da cui fuoriesce un’iniezione letale. Più tardi Kevorkian realizza un secondo marchingegno, Mercitron (macchina della pietà): una mascherina riempita di monossido di carbonio, rilasciato ad hoc dal paziente. Bandito da cliniche e ospedali, (il Michigan gli revoca la licenza a medico nel 1991), Kevorkian esercita ovunque, dai motel fino al suo furgoncino Volkswagen: qualsiasi luogo è idoneo per morire e far morire. Dal 1990 al ’ 98 è accusato per ben quattro volte di omicidio, ma viene sempre assolto. In un caso il processo è annullato per vizio di procedura. A tradirlo, alla fine, è lo stesso leggendario gusto per la teatralità che l’aveva portato a scioperi della fame e, un giorno, persino a presentarsi in tribunale indossando la gogna: antico strumento di tortura. Nel 1998 invia al popolarissimo 60 Minutes della Cbs un video nel quale aiuta a morire Thomas Youk, 52enne affetto da morbo di Gehrig. È l’inizio della fine: nel marzo 1999 Kevorkian sarà incriminato per omicidio di secondo grado. Il caso Youk è diverso da tutti gli altri perché lui stesso è il responsabile diretto della morte di un uomo, mentre in passato era sempre il malato a mettere in azione il dispositivo che induceva al «suicidio» . Kevorkian deve scontare una pena a 25 anni di carcere ma le autorità acconsentono al rilascio anticipato dopo solo otto anni, nel 2007, per «buona condotta» . Tornato libero, mantiene la promessa di non effettuare altri suicidi assistiti, portando avanti nello stesso tempo la sua campagna per convincere l’America che l’eutanasia non è reato. «Morire non è un crimine» , spiega al Corriere in un’intervista concessa subito dopo il rilascio, dove afferma che «l’eutanasia è contemplata dal nono emendamento della nostra Costituzione» . Dopo la fallita corsa per il Congresso nel 2008, torna alla ribalta per un telefilm biografico della HBO Il Dottor Morte, che fa vincere un Emmy e un Golden Globe ad Al Pacino nei panni di un Kevorkian austero e onesto che non ha mai preso un centesimo per i suoi servigi. Ma il film riaccende vecchie polemiche in un’America, dove il patologo ha profondamente diviso le coscienze. Mentre i suoi sostenitori vanno ai processi con una spilletta con scritto «I back Jack» , i media lo accusano di aver mandato all’altro mondo «anche gente soltanto depressa» , rifiutandosi, almeno in un caso, di fermare la sua diabolica macchina quando l’aspirante suicida cambiò idea all’ultimo momento. A scagliarsi contro di lui sono anche i fautori del suicidio assistito— oggi legale in Oregon, Washington e Montana — che lo guardano con sospetto, accusandolo di aver leso la loro crociata. 

Repubblica 4.6.11
In un film non del tutto riuscito, il regista greco Angelopoulos affronta la storia del Novecento: da Stalin alla Shoah. Con Willem Dafoe, Irène Jacob, Bruno Ganz
Solo con l´amore si sopravvive all´Urss
di Paolo D’Agostini


l regista greco Theo Angelopoulos non dovrebbe avere bisogno di presentazioni. Con le sue opere degli anni 70, in particolare la trilogia sulla storia greca formata da I giorni del ‘36 assieme a La recita e I cacciatori, si collocò tra i nomi di punta dell´innovazione internazionale. Appartenente a una generazione (nato nel ‘35) cinematograficamente abbeveratasi all´estetica e alla poetica dei rottamatori parigini della Nouvelle Vague, Angelopoulos vi ha unito la sensibilità politico-ideologica degli europei del sud, vincolando così l´audacia espressiva del suo cinema alle sofferte passioni delle vicende nazionali (esiliato dal regime dei colonnelli instaurato nel ‘67, figlio della guerra civile che insanguinò la Grecia del dopoguerra e di un padre condannato a morte) e della grandiosa e torva epopea del comunismo. Importante nel suo percorso artistico è il legame che dagli anni 80 stabilisce con l´Italia: Tonino Guerra sceneggiatore, Mastroianni due volte interprete di suoi film, Volonté che morì proprio su un suo set.
La polvere del tempo (festival di Berlino 2009) è il secondo atto di una nuova trilogia avviata con il precedente La sorgente del fiume. Va data una sintesi di quella che sarebbe improprio definire trama o intreccio. Piuttosto un´idea e i personaggi che la abitano. Un uomo ottiene documenti falsi per raggiungere un angolo remoto dell´Unione Sovietica. E´ Spyros, greco emigrato negli Stati Uniti dopo la guerra. Va a cercare Eleni, la sua amata con la quale divide soltanto il ricordo di un ballo, che coinvolta nella guerra civile ha seguito la diaspora comunista in Urss. La ritrova - ed è il giorno della morte di Stalin, marzo 1953 - ma i due hanno appena il tempo di amarsi che vengono arrestati. Eleni spedita in Siberia dove nascerà A. (il film lo chiama solo A.) figlio di quell´unica notte d´amore furtivo, e dove ritroverà Jacob, ebreo tedesco conosciuto in Russia, innamorato di lei, che le resterà per sempre accanto anche se respinto. Tutto questo viene in realtà risvegliato dalla memoria e dalle ricerche ossessive di A. ormai cinquantenne, regista che prepara un film sulla propria storia e ne viene inghiottito, perdendo la fiducia della moglie e della figlia (Eleni anche lei). I personaggi del passato non appartengono soltanto al passato, si sono salvati dalla macina della Storia e ritornano. Le loro vite nomadi si sono svolte tra mille viaggi e trasferimenti e il film li racconta punteggiando i loro percorsi con i grandi avvenimenti e passaggi d´epoca: la Shoah e Israele, la destalinizzazione, il Vietnam, la caduta del Muro, il nuovo millennio. Ciò che resiste e continua a unirli è la solidarietà, l´amicizia, l´amore. Valori che li fanno sentire vivi e antidoto alla sinistra percezione di sé come sopravvissuti a un tempo di ferro e sangue sparso inutilmente.
Debole nella struttura e suggestivo nell´evocazione, il film merita rispetto. Ma non è riuscito. A. è Willem Dafoe, Eleni (la madre) Irène Jacob, Spyros e Jacob da adulti/anziani sono rispettivamente Michel Piccoli e Bruno Ganz.

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Lilith, il male è l’indifferenza
Il viaggio di Violante intorno alla mitica prima moglie di Adamo
di Enzo Bianchi, Priore di Bose...

La mitologia ha sempre costituito un prezioso ponte tra interiorità dell'essere umano e vissuto quotidiano, tra rilettura del passato e comprensione del presente, tra universale e particolare. La mente umana è stata capace fin da tempi antichissimi di cogliere l'essenziale che sta dietro i piccoli e i grandi eventi di ogni giorno e della storia e di rielaborarlo attraverso l'invenzione di personaggi mai esistiti ma vicinissimi a ciascuno di noi. E questo grazie a una narrazione fantastica che è sempre più aderente al reale di qualsiasi cronaca.
Un mito nasce perché coglie ciò che non cambia nel mutare degli eventi, ma poi il mito cresce, si sviluppa, si trasforma, si adatta a lingue e culture diverse, conservando gli elementi fondamentali e variando nomi, immagini, colori, suoni. L'uomo così ritrova costantemente se stesso, i propri limiti e le proprie potenzialità, si riconosce parte di un'umanità che lo supera e nel contempo protagonista di una unicità irripetibile.
È la sensazione che ho provato leggendo Viaggio verso la fine del tempo di Luciano Violante (Piemme, pp. 188, 16), un'opera in versi che narra l'«Apocalisse di Lilith», la mitica prima moglie di Adamo che, rifiutando una posizione di sottomissione al maschio, finisce maledetta da Dio.
Poco importa quanto nella avvincente narrazione di Violante sia stato effettivamente ripreso dall'immaginario che nel corso dei secoli ha colorato di tinte diverse la vicenda di Lilith. Paradossalmente mi pare persino che la stessa tematica della rivolta contro la disuguaglianza maschio-femmina - propria del mito di Lilith - non sia al centro di questo lavoro. Mi pare piuttosto un efficace pretesto per concentrare l'attenzione del lettore su quanto sta davvero a cuore all'autore, così come lo esplicita egli stesso: «Il filo conduttore del viaggio di Lilith è quel particolare male che consiste nell'indifferenza alla vita degli altri».
Violante, già magistrato e parlamentare, in fondo si è sempre preoccupato di lotta contro il male e di ricerca del bene comune, attraverso i due poteri statali quello giudiziario e quello legislativo - a questo predisposti. Eppure nelle sue pagine non si respira nulla di dogmatico o di apologetico, solo un desiderio di parlare «della verità e della giustizia e della cura della vita per gli altri», perché «la lotta che insieme con Dio è necessario combattere» è sì «contro il male», ma il volto che questo assume è innanzitutto «l' indifferenza che separa gli uomini dalla loro umanità».
In questo senso Lilith non afferma cose straordinarie ma, come un'autentica figura mitologica, fa risuonare con accenti convincenti parole che rischierebbero di scivolare via nel già noto della nostra esistenza. Chi infatti non sa, per esempio, «che il bene va costruito ora dopo ora nella durezza della vita quotidiana»? Eppure quanto spesso contraddiciamo questo con le nostre azioni e persino con le parole.
Questo straordinario viaggio nell'ordinario - in cui Lilith incontra i personaggi più diversi, dal capitano Achab alle vittime di Stalin e dei lager, alle donne abusate, fino a Gesù di Nazaret sotto processo a Gerusalemme - terminerà da dove è iniziato: «accanto al Signore / se il male non prevarrà».
In mezzo, tutta la fatica di chi deve giorno giorno imparare «a prendere cura dell'altro», per abitare un mondo degno della grandezza dell'uomo, un mondo dove non domina «l'indifferenza nei confronti dell'altro».
Oltre la disuguaglianza maschio-femmina, il desiderio di parlare «della verità e della giustizia»

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Canfora La meravigliosa, definitiva indagine sul papiro che filologicamente non è mai esistito
Artemidoro giù la maschera
di Silvia Ronchey


Luciano Canfora LA MERAVIGLIOSA STORIA DEL FALSO ARTEMIDORO Sellerio, pp. 251, 14

Qualcuno potrebbe domandarsi perché Luciano Canfora negli ultimi cinque anni abbia profuso tanta attenzione e perfino ostinazione nello studio del cosiddetto «Papiro di Artemidoro» e nella dimostrazione della sua falsità, argomentata in libri e in una serie di articoli scientifici oltreché giornalistici.
La risposta è ovvia. Canfora ha sentito il dovere etico e politico di mettere a disposizione tutti gli strumenti del metodo critico e del mestiere di filologo per raggiungere il fine di ogni intellettuale, quasi una sorta di giuramento d'Ippocrate prestato all'intero organismo sociale: distinguere il vero dal falso e rendere questa distinzione disponibile non solo a pochi ma all'intera collettività. Spezzando, in questo caso, un muro di silenzio e di ipocrisia, e scongiurando il pericolo che il falso venisse esposto come vero ai cittadini da parte dello stato.
Era difficile. Più i suoi argomenti si moltiplicavano e con ciò mettevano in crisi l'impianto difensivo di quanti avevano promosso nel 2004 l'acquisto del cosiddetto Papiro da parte di un'onesta e meritoria fondazione bancaria per la vertiginosa somma di 2 milioni e 750 mila euro, anticipata da un importante studio di avvocato torinese - più risultavano ardui ai profani e talora perfino alla comunità degli studiosi.
Ora che per la portata delle scoperte e la tenacia delle argomentazioni la falsità del papiro è diventata communis opinio per lo più tra gli addetti ai lavori ma anche tra i profani, Canfora, coerentemente con lo spirito che fin dall'inizio ha animato la sua battaglia, ha voluto condensare tutta quell' ampia materia in un agile resoconto conclusivo, aggiornato fino all'ultima novità, che sotto il provocatorio titolo La meravigliosa storia del falso Artemidoro mette ordinatamente ogni dato a disposizione di ogni lettore.
Nel 2006 a Torino, in occasione della mostra a Palazzo Bricherasio, per spiegare la singolare multiformità del lungo rotolo - contenente sul primo lato un testo geografico, una bizzarra mappa e delle tavole da manuale di disegno - si era avanzata una teoria secondo cui avrebbe avuto «tre vite», cioè sarebbe stato reimpiegato tre volte tra la fine del I secolo a.C. e la fine del I d.C. Canfora dimostra che non si tratta di «tre vite» ma di «tre opere», ossia di tre falsi distinti. Eseguiti nell'800 dal celebre falsario Simonidis, rimasti a lungo chiusi nel fondo a lui dedicato nel Museo di Liverpool, in seguito (dopo il 1980) da lì scomparsi, poi ricomparsi, acquisiti dal «mercante» armeno Simonian, sono poi stati accorpati in un unico grande rotolo, per renderli commercialmente più appetibili ma anche, è pensabile, per mascherare il difetto di lavorazione (forse litografica: il cosiddetto fenomeno della «scrittura impressa») per cui Simonidis doveva avere rinunciato a far circolare il suo lavoro.
Se l'autenticità del papiro è dimostrata impossibile già solo da considerazioni filologiche (macroscopica difformità stilistica del cosiddetto proemio, scritto in greco tardissimo, dalle colonne propriamente geografiche, a loro volta attinte da un autore del IV secolo d.C., Marciano), l'ascrivibilità dei tre falsi che lo compongono a Simonidis è dimostrata da una serie di influenze sia contenutistiche sia letterali derivanti da opere ottocentesche (l' Artemidoro di Kuffner, la Geografia di Ritter) la cui conoscenza da parte di Simonidis è provata. Altrettanto lo è la dipendenza di tutte le figure del recto dalle tavole di manuali di disegno sette-ottocenteschi (Jombert, De Wit, Volpato-Morgen, Le Brun) ben noti al grande falsario.
La «radice infetta» che inquina la querelle, la volontà di occultamento e mistificazione di questi e altri elementi da parte quanto meno di chi ha venduto il papiro è peraltro dimostrata dall'allestimento di un altro falso macroscopico: la foto del cosiddetto Konvolut , ossia dell'ipotetico ammasso papiraceo da cui il «grande rotolo», insieme ad altri 150 frammenti di papiri documentari mai resi noti, dovrebbe essere stato estratto. Foto solo tardivamente esibita in risposta ai dubbi sull'autenticità e per le indagini della polizia scientifica frutto di un fotomontaggio.
La cronologia addotta dai difensori del papiro (e spesso ridefinita, così come sono mutate nel tempo le loro versioni e perfino, sembrerebbe, i contenuti materiali del rotolo) presenta incongruenze tali che la falsificazione dei dati parrebbe nota non solo al venditore del reperto. Ma non ci addentreremo qui in un argomento così delicato, così come non entreremo nel merito dei moltissimi altri dati oggettivi che Canfora ha esposto in questo libro per dimostrare che nessuna verità può essere preconfezionata e somministrata al «popolo che non intende» approfittando della difficoltà delle competenze che richiede per essere sceverata. Al contrario - anche se con molta fatica - tutto può (e deve) essere spiegato a tutti: a tutti coloro che hanno la buona volontà di capire, e di discernere la verità dal suo contrario. Una volontà che è pericolosissimo scoraggiare. Ed è questo il più schiacciante degli argomenti del libro, e il più importante motivo per leggerlo.
Un agile resoconto conclusivo, aggiornato fino all’ultima novità sul rotolo che avrebbe avuto «tre vite» La prova che nessuna verità può essere preconfezionata e inculcata al «popolo che non intende»

La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Franzinelli

I Diari di Mussolini sono una bufala, smentita dai documenti
Così si assolve il fascismo: falsificandolo
di Angiolo D'Orsi


Mimmo Franzinelli AUTOPSIA DI UN FALSO Bollati Boringhieri ppp. 278, 16

Uno dei momenti topici della metodologia storica si chiama «critica delle fonti»: essa consiste nell’esame attento e sistematico di ogni tipo di documento, nell’accertamento della sua autenticità (attraverso la «critica di provenienza» e la «critica di restituzione», l’esame estrinseco e quello intrinseco: insomma, roba seria per professionisti...): una pratica dirimente prima dell’uso di qualsivoglia fonte; ed esiste una intera letteratura che lo spiega, diffondendosi in esemplificazioni. La storia, in effetti, pullula di falsi, dalla Donazione di Costantino ai Protocolli di Sion; ma se per ogni falsario, per fortuna, esiste uno storico vero che smonta i falsi documenti, rimane pur sempre il fatto che i falsi fanno la loro strada. E oggi, tanto per dire i falsissimi Protocolli dei Savi di Sion continuano indisturbati ad esser riediti in diversi Paesi del mondo. Con le conseguenze che si possono immaginare.
Ora è il turno dei Diari di Benito Mussolini, i quali, benché uno stuolo dei più qualificati studiosi abbia inequivocabilmente dimostrato la natura non autentica, sono stati pubblicati da un editore con la motivazione che sono «interessanti». Ora si sa perfettamente che anche i falsi documenti possono (e sovente debbono) essere tenuti in considerazione, purché non lo si faccia come si fece, per esempio, quando smascherata la falsità dei Protocolli, ne venne distribuita l’edizione italiana con la Prefazione di uno dei peggiori antisemiti d’Italia, l’ex prete Giovanni Preziosi, il quale sostenne che magari erano falsi, ma potevano dire il vero. Il concetto di veridicità (indimostrato) sostituiva quello di autenticità della fonte. Del resto, i metodologi della storia ci insegnano che esistono documenti autentici che dicono cose false, e documenti non autentici in cui si possono trovare verità: l’importante è essere informati sulla natura del documento che usiamo, e informarne il lettore.
Ora con i pretesi «diari» mussoliniani, siamo invece al cospetto di un’autentica bufala, accreditata da un editore, e spacciata in giro da un chiacchierato bibliofilo, il senatore Marcello Dell’Utri, il quale si affanna, pateticamente, da anni per «dimostrare» l’indimostrabile; ossia l’autenticità di quelle agende su cui mani abili avevano imitato la grafia del duce, inzeppandole di sciocchezze, copiate frettolosamente dalla stampa dell’epoca, sciocchezze peraltro puntualmente smentite da tutti i documenti (autentici e veridici) disponibili.
Mimmo Franzinelli, studioso prolifico, ma serissimo e rigoroso, ha ora ricostruito analiticamente (fin troppo, sia consentito dire), la vicenda della fabbrica del falso, istituita in una modesta dimora di Vercelli, a casa Panvini Rosati, dove tutti, dal padre alla madre alla figliola, si dedicavano, dagli Anni 50 in poi, a una indefessa fabbrica del falso. Furono in particolare mamma e figlia, Rosetta e Amalia (detta Mimì), a ottenere eccellenti risultati «d’autore». Nella vicenda, complicatissima, si inseriscono servizi segreti, faccendieri italiani e stranieri, speculatori finanziari, tipografi disponibili, magistrati e poliziotti in caccia del vero e del falso, politici nostalgici del duce, qualche storico oscillante (vedi Renzo De Felice), giornalisti compiacenti o in caccia di scoop, anche quando fondato su false notizie: una «spy story» all’italiana, piena di colpi di scena, in cui i personaggi sono davvero tanti, da far perdere talora il filo al lettore.
Una storia in scala uno a uno, quella raccontata nel libro, forse degna di altro tema, con sovrabbondanza di documentazione, anche se la vicenda è di indubbio interesse, come esempio di manipolazione della storia, attraverso l’impiego di fonti contraffatte (e contraffatte senza alcuna conoscenza dei contesti storici): il senso dell’operazione? Mostrare che il fascismo «non era poi così male», e che il duce era un «brav’uomo». Affermazioni che il lettore più attento ricorderà essere state, in tempi recenti, proferite dai nuovi potenti, di cui il senatore-bibliofilo Dell’Utri ( en passant : condannato per associazione mafiosa), è intrinseco.
Franzinelli ricostruisce con rigore una casalinga manipolazione storica trasformatasi in una nostrana spy story

«Attraverso la brahmacharya , liberandosi di ogni traccia di desiderio maschile, egli sperava che le donne l’avrebbero considerato uno di loro. In breve, il suo scopo era diventare una donna»
La Stampa TuttoLibri 4.6.11
Gandhi, Tagore e le donne
di Giovanna Zucconi


Uno degli aspetti meno frequentati di Gandhi corrisponde in realtà alla sua aspirazione più alta e al senso profondo della sua discussa brahmacharya (celibato). Attraverso la brahmacharya , liberandosi di ogni traccia di desiderio maschile, egli sperava che le donne l’avrebbero considerato uno di loro. In breve, il suo scopo era diventare una donna, nei fatti e nella mentalità, se non nel corpo. Se ci sia riuscito o no è un’altra questione: ma è la ricerca di una vita intera».
L’affermazione, lapidaria, è in una recensione a un saggio sui rapporti fra Gandhi e le molte donne occidentali che ne furono discepole o amiche ( Going Native: Gandhi’s Relationship with Western Women di Thomas Weber). Libro e articolo, uscito su Outlook , si interrogano su perché Gandhi si circondava di tante donne emancipate, non convenzionali, combattenti per i diritti sociali e sessuali: in una parola, occidentali. Per contro, dal punto di vista di queste straordinarie femmine, «nell’Europa stravolta dalla guerra Gandhi era la risposta al vuoto spirituale ed emotivo. L’altro indiano che soddisfaceva questo bisogno era Rabindranath Tagore». Il quale a sua volta, come testimonia il suo epistolario, trattava molto diversamente le donne occidentali e le donne indiane: per esempio la scrittrice argentina Victoria Ocampo, e sua moglie Mrinalini Debi. Sposata, quest’ultima, quando lui aveva 22 anni e lei 10.
Nelle lettere alla moglie, pur amatissima, Tagore le chiede dei figli, della casa, di pagamenti e acquisti, tutta la concreta quotidianità. Nulla di personale. Con Victoria Ocampo invece parla d’amore, di ideali, di se stesso, e anche di femminismo: «le donne moderne non si stancano di accusarci di violenza e tirannia, senza sapere che sono espressioni perverse della nostra contemplativa placidità, repressa e torturata per il nostro obbligo ad essere membri attivi della società». Poveri uomini, davvero. Di Tagore si celebra in questi giorni il centocinquantenario della nascita.