Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
domenica 1 maggio 2011
Napolitano sul Primo Maggio appello ai sindacati: "Ritrovino le ragioni dell´unità"
Repubblica 1.5.11
Camusso, leader della confederazione: continueremo a non firmare accordi che vengono imposti senza trattativa
"Giusto il messaggio del Quirinale ma nessuno chieda passi indietro alla Cgil"
di Luisa Grion
"Ci sono due novità rispetto al passato: un governo che ci divide e i precari giovani e adulti"
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ROMA - «E´ un appello giusto», la mancata unità rende il sindacato più debole ed è ora di cercare regole comuni e trovare la via per rilanciare occupazione e sviluppo. Ma chi travisando il messaggio del Quirinale pensa che «la conflittualità si possa risolvere chiedendo semplicemente alla Cgil di fare un passo indietro» si sbaglia. Così Susanna Camusso, leader del principale sindacato italiano, commenta le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Segretario, di fasi difficili, ce ne sono state tante anche il passato. Perché ora i sindacati non riescono a fare quel paziente lavoro di tessitura che permetteva di sanare i conflitti? Cos´è cambiato?
«Ci sono due novità rispetto al passato. La prima è che ci siamo trovati di fronte ad un governo che lavora per la divisione del sindacato, fatto che non ha precedenti nella storia di questo paese. La seconda è la dimensione della crisi occupazionale che stiamo affrontando: c´è il problema dei giovani, alla quale il Presidente ha posto giustamente attenzione, ma c´è anche il problema di chi è precario o senza lavoro in età adulta. Per uscire da questa situazione è necessaria una grande capacità innovativa, bisogna lavorare sulle proposte. Ma in fase di grandi incertezze è tutto più difficile».
Il governo ha le sue colpe, lei dice. E la Cgil ha mai sbagliato? Non si è mai alzata troppo presto da qualche tavolo contrattuale?
«E´ possibile che abbia fatto qualche errore, ma se penso alla prima rottura sindacale, all´accordo separato sulla scuola del 2008 e alle Finanziarie che vi hanno fatto seguito, alle volte che da soli abbiamo denunciato manovre - sottoscritte da Cisl, Uil e Confindustria - che punivano il lavoratori e non creavano sviluppo mi dico che non abbiamo sbagliato. Ci hanno chiesto di mettere la firma su documenti già pronti, elaborati senza alcuna trattativa, consegnati un quarto d´ora prima. Accettare sarebbe stato ingiusto, anche dal punto di vista deontologico. Non si può pensare che tutto si risolva chiedendo alla Cgil di fare un passo indietro».
Questo grado di conflittualità sindacale è inevitabile?
«Le differenze sono vere e contrariamente a quanto avviene in ambito politico la rissosità non si può ricomporre con le pratiche di compravendita cui il Parlamento ci ha ultimamente abituato».
Da dove si ricomincia allora?
«Dobbiamo metterci d´accordo su come si eleggono le rappresentanze e su come ci si conta. Dobbiamo trovare regole comuni e puntare ad un cambio di passo, ad una vera politica della crescita».
Con il governo c´è qualche spiraglio?
«Le parole del ministro Sacconi non vanno in quel senso: lui pensa che la funzione sindacale sia quella della complicità, non quella della rappresentanza degli interessi. Continua a chiedere ai giovani di accontentarsi, prosegue nella destrutturazione dei diritti e delle prospettive. Non dico debba stare dalla parte dei sindacati, ma penso che dovrebbe stare dalla parte del lavoro e del welfare».
Lei dice che l´appello del Quirinale è giusto, Bonanni della Cisl e Angeletti della Uil plaudono allo stesso modo. Il presidente Napolitano si è lamentato di come i suoi appelli siano accolti con ipocrisia istituzionale. Sarà così anche in questo caso?
«Spero proprio di no, non possiamo far finta che le divisioni non indeboliscano il sindacato e gli appelli all´unità ci arrivano anche dai nostri iscritti. Oggi, primo maggio, saremo insieme a Marsala nel 150esimo dell´Unità d´Italia: il valore del lavoro è il punto da cui ripartire».
il Fatto 1.5.11
La “festa” dei disoccupati
Il Primo maggio con 2 milioni senza impiego Napolitano: “L’Italia sia più fondata sul lavoro”
di Salvatore Cannavò
È un Primo maggio un po' complicato quello che si tiene oggi: cade di domenica, a solo una settimana dalle vacanze di Pasqua, costretto a fronteggiare il “fuoco amico”, oltre che potenzialmente oscurato dalla cerimonia di beatificazione di Karol Woitjla, Però, guardando al numero delle iniziative e all'atteggiamento deciso dai sindacati, è un Primo maggio che tiene botta. Ci saranno i cortei, la manifestazione nazionale unitaria a Marsala, il classico Concerto-ne di piazza San Giovanni a Roma. Tutto questo accade quando i dati Istat ricordano che il 28,6 per cento dei giovani fra i 18 e i 29 anni è senza lavoro e che la disoccupazione ha raggiunto l’8,3 per cento nel mese di marzo (circa 2 milioni di persone).
CI SARÀ ANCHE il 1° maggio alternativo della MayDay milanese. E c'è il Primo maggio istituzionale, celebrato ieri dal Presidente della Repubblica che ha ricevuto i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl e che ha mandato alcuni segnali chiari. Innanzitutto, la centralità dell'articolo 1 della Costituzione, quello che fonda la Repubblica sul lavoro e che il deputato del Pdl, Remigio Ceroni vorrebbe modificare. “Non bisogna esserlo di meno” ha chiosato Napolitano, “ma di più”. E “lo sviluppo economico e la sua qualità sociale – ha aggiunto il Capo dello Stato – la stessa tenuta civile e democratica del nostro paese passano attraverso un'ulteriore valorizzazione del lavoro, in tutti i sensi”. Napolitano ha poi lamentato “l'ipocrisia istituzionale” con cui vengono generalmente recepiti i suoi appelli riferendosi però anche alla necessità di raggiungere il pareggio del bilancio pubblico nel 2014. Secondo messaggio del presidente della Repubblica, stavolta a uso e consumo dei leader sindacali presenti, è stato ancora più netto: non litigate e ritrovate l'unità perduta. “È impossibile l'individuazione di interessi e di impegni comuni?” ha chiesto a Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. “Si teme davvero che possa prodursi un eccesso di con-sensualità, o un rischio di cancellazione dei rispettivi tratti identitari e ruoli essenziali?” Camusso, Bonanni e Angeletti hanno voluto sottoscrivere l'invito mettendo l'accento proprio sulla giornata di oggi che è, secondo il segretario Cgil, la “festa dei lavoratori e non delle organizzazioni sindacali” e che, “speriamo possa fecondare in tutti la possibilità di prendersi le responsabilità che ci competono, tutti insieme” come ha detto Bonanni.
MA GLI ELEMENTI di divisione sono ancora sul tappeto: la vertenza Fiat, i diversi rapporti con il governo e con Confindustria o, ancora, il fatto che il prossimo 6 maggio la Cgil farà uno sciopero generale guardato con ostilità dalle altre confederazioni. Cgil, Cisl e Uil, in ogni caso, terranno la loro manifestazione unitaria a Marsala, puntando sul “lavoro per unire il paese” con un chiaro riferimento ai 150 anni dell'unità d'Italia. La manifestazione partirà alle 9 in piazza Piemonte per percorrere via dei Mille e concludersi in piazza della Repubblica. Alle 11 il comizio dei leader sindacali.
A Roma, ci sarà il Concertone di piazza San Giovanni con Inno di Mameli e Bella Ciao. Cortei sindacali si svolgeranno in tutta Italia, in particolare a Torino dove il 1 maggio ha sempre avuto un significato particolare e dove la manifestazione ha il patrocinio di Comune, Provincia e Regione. Ci saranno però anche le divisioni, come a Bologna, dove la Cgil ha deciso di festeggiare da sola. Dissidi anche a Napoli dove non ci saranno cortei né comizi, ma solo uno spettacolo in piazza Dante. Corteo unitario anche a Milano, alle 9,30 da Porta Venezia a Piazza Duomo mentre nel pomeriggio si svolgerà la manifestazione alternativa di precari, studenti, migranti, centri sociali, sindacalismo di base e autoconvocati Cgil.
"VOGLIAMO DIRLO ben chiaro, dicono i promotori, i precari e le precarie chiedono l’opposto di quella politica di sacrifici che volete imporci. Vogliamo cavalcare la tigre della precarietà e dimostrare che tutti insieme possiamo diventare un problema per chi ci sfrutta". Infine Firenze. Il corteo attraverserà le vie del centro e si concluderà in piazza della Repubblica. Previsti, oltre a quelli dei segretari provinciali, anche gli interventi dei delegati del commercio, come risposta alla decisione del sindaco Matteo Renzi, di consentire l'apertura dei negozi. Una posizione che ha visto la ferma opposizione del segretario Cgil, Camusso, costretta a difendersi dal “fuoco amico” proveniente dallo stesso Pd. Non a caso, si è chiusa venerdì, proprio a Firenze, la campagna "La festa non si vende", lanciata dalla Filcams Cgil per combattere la totale liberalizzazione delle aperture domenicali e festive nel commercio. E ieri sera il Pd toscano ha sentito il bisogno di dichiarare che oggi “sarà nelle piazze delle manifestazioni dei lavoratori e dei precari”.
il Fatto 1.5.11
Primo maggio: chi divide i lavoratori fa il gioco della destra
di Furio Colombo
Oggi è il primo maggio, che dite, festeggiamo? Sarebbe la festa del lavoro, ricordo di un giorno in cui, in un tempo passato e tramontato, c’era chi si prestava a sparare sui lavoratori in sciopero. Tempi barbari e primordiali, quando aveva ragione solo il più potente e il più ricco. Ma poi sono venuti i sindacati, i diritti, le leggi, il rispetto, un senso di uguaglianza non economica ma giuridica e morale, che è l'altra faccia della democrazia.
Eppure c’e in giro chi non ha mai lavorato però va in giro a dire: ma quale festa? Il lavoro si festeggia lavorando. Logico, no? Non secondo la Bibbia. In quel Libro (e, per quel che se ne sa, in ogni altro testo sacro del mondo) a un certo punto Dio, per celebrare il lavoro fatto, riposa. E non secondo la legge americana, ovvero legge e tradizione del Paese di riferimento del capitalismo nel mondo. In quel Paese è stabilito che il primo martedì di settembre si celebra il “Labor Day” ovvero “il giorno del Lavoro”. E quel giorno, nella cosmopolita città di New York, celebre per la sua fama di non chiudere mai, di non dormire mai, non vi aspettate di trovare un ristorantino crumiro (si diceva così un tempo di chi rifiutava di partecipare a uno sciopero) aperto e pronto a servirvi.
Allora che senso ha, in un Paese molto meno capitalistico degli Usa e fondato quasi solo sul controllo monopolistico e familiare della ricchezza, con pochi lavoratori relativamente al sicuro, e tutti gli altri allo sbando, levare la voce con la fierezza degli infaticabili e dire che solo lavorando si celebra il lavoro, e che la festa (persino se cade di domenica) è una contraddizione, e anzi un pretesto per ridurre la produzione di ricchezza nazionale?
UNA RAGIONE C’È, ed è molto importante. Se si resta, almeno in apparenza, all’interno del sistema democratico, occorrono espedienti intelligenti, e complici culturali, per compiere la missione di togliere di mezzo il lavoro ovvero i sindacati, ovvero per cambiarne la natura. Entra in campo, molto prima che la realtà sveli il vero volto di una situazione, che si chiamerà “precariato”, l’ambigua parola “flessibilità”. È toccato al giornalista giapponese Hiroko Tabuki raccontarci, dal Giappone, la parabola del lavoratore precario, nei giorni di Fukushima: “La terra tremava, le ciminiere sembravano fili d’erba scossi dal vento, Masayuki Ishizawa stentava a restare in piedi sul terreno oscillante mentre cercava di allontanarsi dal reattore n. 3. Ma al cancello principale il personale di guardia lo ha fermato, ha chiesto i documenti, ha rifiutato di farlo uscire. ‘Ma lo Tsunami? Non vedete che arriva lo Tsunami?’. Il fatto è che Masayuki Ishizawa è solo uno delle migliaia di lavoratori precari che non dipendono dalla Tokyo Electric Power, l’impresa che gestisce il reattore, ma da gruppi che hanno vinto appalti. Sono tutti lavoratori che, in situazioni normali e senza emergenza, sono esposti a radiazioni sedici volte più alte dei lavoratori regolari della Tokyo Electric Power”.
Tutto il resto è l’immensa disgrazia che segue. Ma un principio è stabilito. Nasce un ordine di prestatori d’opera inferiore, che riproduce il sistema delle caste indiane.
Ora la seconda mossa. Bisogna persuadere i nuovi “intoccabili” che la loro controparte non è l’astuta organizzazione padronale, non sono i politici di sostegno a quella intelligente strategia del risparmio sui costi del lavoro. No, il vero nemico è l'altro lavoratore, quello che viene prima (ovvero da un’altra epoca) e ha un contratto stabile e normale.
Sentite Mario Deaglio, economista e docente: “I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello della Alitalia, quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, dunque privilegiata cassa integrazione, mentre i precari rimasero a bocca asciutta”. (La Stampa, 16 aprile). Dunque non è una trovata dei manager e dei nuovi investitori avere inventato la spaccatura fra un’azienda sicura (la “good company”) e una su cui scaricare tutti i debiti (la “bad company”). E non è l’inevitabile applicazione di un precedente contratto a imporre la cassa integrazione per i lavoratori assunti prima della invenzione del precariato.
DETTO COSÌ, tutto è pronto per lo scontro generazionale, che prenderà il posto della lotta di classe, o almeno del confronto, che per natura non può essere facile, fra lavoro e proprietà. Adesso se la vedano i lavoratori. Infatti conclude Mario Deaglio nel-l’articolo citato: “Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese normale composto di persone sopra i quarant’anni e un Paese precario composto di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi”. Ecco dunque il nuovo tipo di scontro, che potrebbe avere tre effetti desiderabili per ogni conservatore che sia anche un buon giocatore: mette sotto accusa i sindacati, spacca ogni opposizione di sinistra (fra chi cede alla sirena del precariato come modernità e chi resta dalla parte del lavoro). E impegna i giovani a combattere gli anziani (che intanto li stanno mantenendo) sicuri che gli operai anziani, e non gli imprenditori, siano gli esosi e i conservatori di un passato ormai insopportabile. Ecco dunque chiarito un piccolo mistero. Perché, in un Paese un po’ ipocrita e incline alla celebrazione di tutto, adesso si condanna la festa del lavoro? Ma perché se non togli il mito e il valore del lavoro resti legato a quella strana cosa chiamata “sinistra” in cui il lavoro era il fondamento di un legame fra tante persone non facilmente trasformabili in “audience”. Per governare nel modo nuovo di una destra senza scrupoli e senza pesi inutili bisogna liberarsi del lavoro. Qualcuno comincia con il Primo maggio. Qualcuno deve dire di no
La Stampa 1.5.11
“Più unità, l’appello è giusto” Ma c’è imbarazzo nei sindacati
Sacconi attacca: la Cgil dovrebbe avvertire che il mondo è cambiato
di Alessandro Barbera
Quando, di fronte a più di duecento persone fra leader ed ex, il Capo dello Stato ha affondato il coltello nella piaga, nei volti della prima fila degli ospiti si è materializzato l’imbarazzo. Da Susanna Camusso a Raffaele Bonanni, da Luigi Angeletti a Maurizio Sacconi, seduto solo qualche sedia più in là. Un imbarazzo così palpabile che alla fine della cerimonia, di fronte ai cronisti, le risposte a quella richiesta di unità “senza ipocrisia” altro non sono apparse come la conferma di una distanza difficilissima da colmare. «Un appello giusto, perché ha ragione quando dice che bisogna partire dalle ragioni di ognuno» (Camusso). «Una sollecitazione importantissima, speriamo di trovare sempre elementi di unità» (Bonanni). «Un richiamo doveroso e fondato, ma niente è gratis» (Luigi Angeletti). «Spero che le confederazioni ritrovino l’unità, ma non possiamo essere indifferenti rispetto al fatto che Cisl, Uil e Ugl hanno saputo assumere responsabilità non facili. Anche la Cgil dovrebbe avvertire che il mondo è cambiato» (Sacconi).
Dai contratti alla vicenda Fiat, fino alle recenti polemiche sul primo maggio, mai come in questo momento le distanze fra le grandi sigle sindacali sono state cosi ampie. In ossequio ai festeggiamenti per i 150 anni, e per la felicità di Napolitano, oggi i tre leader si incontreranno insieme a Marsala. Il titolo della manifestazione è un po’ generico: «Il lavoro per unire il Paese». Il motivo di tanta genericità è presto detto: nonostante l’arrivo alla guida della Cgil di un nuovo segretario, negli ultimi mesi le questioni che dividono le confederazioni non hanno fatto che aumentare. Le proteste prima, e le iniziative legali della Fiom contro gli accordi separati firmati con la Fiat, hanno ulteriormente allargato gli steccati non solo con Cisl, Uil e Ugl, ma anche con molte sigle autonome.
«Non c’è dubbio che le relazioni sindacali si basino sul dialogo costruttivo, ma i problemi non si risolvono nelle aule dei tribunali», diceva ieri, non a caso, il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli. Per capire lo stato di salute dell’unità sindacale basta dare un’occhiata alle iniziative per il primo maggio in giro per l’Italia. Perché nonostante la manifestazione di Marsala, in molte città la Cgil sfilerà lontana dai cugini di Cisl e Uil. Intendiamoci: non è la prima volta, e anzi, in alcuni casi l’aver deciso di unire i festeggiamenti del primo maggio a quelli per l’unità d’Italia ha evitato ulteriori spaccature. In Veneto ad esempio, dove l’anno scorso c’erano state molte iniziative separate, all’ultimo – almeno nei grandi centri - sono state evitate. «Questa volta abbiamo recuperato persino Treviso», dice soddisfatta la segretaria regionale della Cisl veneta Franca Porto. E però le divisioni – complici le crisi aziendali – quest’anno hanno raggiunto Regioni come l’Emilia e la Toscana. A Ferrara è ormai una tradizione. Manifestazioni separate si registrano a Pisa, Massa, Livorno e Lucca. Per la prima volta dagli anni cinquanta, quest’anno si sono separate le sorti dei sindacati anche a Bologna. La Cisl ha festeggiato ieri, mentre il sindacato che fu di Di Vittorio si incontrerà oggi, in solitudine, a Piazza Maggiore. «Abbiamo tentato di evitarla, ma i vertici bolognesi della Camera del Lavoro non hanno sentito ragioni», abbozza il segretario della Cisl emiliana Giorgio Graziani. Nella Cgil c’è ovviamente chi, come Giorgio Cremaschi, canta vittoria: «Questa storia del primo maggio tutti insieme è una colossale ipocrisia. Di che parliamo, di Garibaldi? La scelta della manifestazione unitaria a Marsala è una enorme stupidaggine, si doveva fare semmai a Termini Imerese».
In alcune città l’unità della piazza prevarrà sulle ragioni delle divisioni sulle grandi questioni: a Torino Cgil, Cisl e Uil marceranno insieme nonostante le diversità di vedute sul referendum che, fra poche ore, deciderà il futuro della Bertone. Per non parlare del paradosso di fondo, quello che vede festeggiare questo primo maggio dopo un botta e risposta fra Cgil e Cisl sul senso della festa e alla vigilia di un grande sciopero nazionale che venerdì prossimo vedrà la Cgil manifestare contro il governo e - di fatto - le scelte delle altre confederazioni.
il Riformista 1.5.11
Il riformismo in questo Primo Maggio
di Emanuele Macaluso
http://www.scribd.com/doc/54306668
Repubblica 1.5.11
La richiesta di ridiscutere la linea del partito irrita il vertice. Letta: parliamone dopo aver vinto le elezioni
Pd, gelo sulla "verifica" di Veltroni Bersani: ora i problemi degli italiani
di Giovanna Casadio
Sul web critiche all´ex segretario. La replica: voglio costruire, non accusare
La frecciata di Civati: "Certi leader dovrebbero fare meno interviste e volantinare di più"
ROMA - Un giro di telefonate e di sms. Tutti dello stesso tenore: «Non dare seguito a polemiche, nessun commento a Veltroni». Il segretario del Pd Bersani, il vice Letta, la presidente Bindi, Franceschini, D´Alema, i big della maggioranza hanno deciso che all´intervista al Foglio - in cui l´ex segretario, ora leader della minoranza Modem, ha lanciato l´ennesima sfida («Dopo il voto verifica sulla linea del Pd») - andava risposto con la congiura del silenzio. Al limite repliche laconiche. Rosy Bindi: «Non voglio commentare una proposta che riguarderà il post-amministrative. Lo farò semmai dopo le elezioni». Enrico Letta: «Dal quinto comizio veneto della giornata, dico che dei problemi sollevati da Veltroni ne discuteremo dopo avere vinto le elezioni». E lo stesso Bersani fa sapere che «per ora si parla dei problemi seri degli italiani, a cominciare dal lavoro», è tempo di stare pancia a terra. Confronto interno, congresso anticipato, cambio di linea? La sindrome di Tafazzi... come farci del male: mormorano in segreteria. Insomma, gelo.
A suffragare i malumori della maggioranza ci sono anche i commenti sul sito facebook di Veltroni. Un fiume in piena di critiche. Sospettose: «Ogni volta che Berlusconi è in difficoltà arriva qualcuno a dargli una mano». Esortative: «Ci vuole unità». Ironiche: «Milano ringrazia». Arrabbiate: «Tornatene in Africa». I veltroniani precisano: «È stata una intervista leale - dice Walter Verini -. Nasce giovedì, quando Giuliano Ferrara telefona a Veltroni. E comunque Walter chiede una riflessione "con" Bersani mica "contro". Pone anche il tema del ricambio». Nel senso che sponsorizza Renzi, Zingaretti e Chiamparino («Sono il futuro»). Matteo Renzi, sindaco di Firenze, il "rottamatore", solitamente irriverente, questa volta risponde: «Io sono a disposizione con molta umiltà». «Il Gianburrasca si veste da bravo ragazzo», osservano i veltroniani. Poi ci sono gli attacchi alzo zero di Giorgio Merlo, vicino a Franceschini: «A quindici giorni dalle amministrative arriva puntuale, come sempre dall´interno, una raffica di contestazioni alla guida del Pd di turno. Veltroni danneggia e aiuta Berlusconi». Per Sandro Gozi è «un´intervista al momento sbagliato». Soprattutto in un momento in cui, ragiona Gozi, «a Milano il risultato elettorale è aperto, forse riusciamo ad andare al ballottaggio, chi può comprendere una discussione su cambi di linea, congressi eccetera? Inoltre se un partito che in tre anni ha cambiato tre segretari chiede un congresso anticipato, allora vuol dire che è pronto a chiudere i battenti». Altra notazione: «Renzi e Zingaretti dovrebbero scrollarsi di dosso i kingmaker e dire: ci vuole il ricambio ma facciamo da soli, grazie».
Colti di sorpresa, e presi dalla campagna elettorale, anche gli altri due leader di Modem, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni che ieri hanno sentito Veltroni. «Walter è pure lui impegnato in giro per l´Italia a fare campagna per il Pd», sottolineano i veltroniani, tanto per precisare che non rema affatto contro. Anzi. Pippo Civati se la prende con la bulimia da interviste dei leader: «Dovrebbero farne meno, e volantinare di più».
il Riformista 1.5.11
La “verifica” nel Pd
Il gelo di Bersani verso Veltroni Sospetti su Renzi
Il Chiampa a Walter: «Non lavoro per una corrente»
di Tommaso Labate
http://www.scribd.com/doc/54306668
il Fatto 1.5.11
Non sono fatti vostri
di Lidia Ravera
Un deputato, prima di accanirsi contro la Costituzione, si è sfogato con la moglie e l’ha spedita all’ospedale. Un capo di governo ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne e l’ha sottratta alla tutela cui aveva diritto. Un direttore di telegiornale, forse, ha procacciato quarti di carne fresca femminile per una clientela di anziani sessualmente incontinenti. Qualcuno ha qualcosa da dire? No, no, per carità... Se hai qualcosa da dire sei bigotto, bacchettone & liberticida. La frase degli spiriti illuminati, che tutto comprendono e digeriscono, è questa: “Un uomo in casa sua (o in casa del suo indiretto superiore) può fare quello che vuole”. Variazione spericolata: “Basta che faccia bene il suo lavoro”, che magari è governare. E mettiamo pure che sia bravissimo a governare (sarebbe già un sollievo), siamo sicuri che possa fare quello che gli pare a casa sua? Che cos’è una casa? Uno spazio extraterritoriale, una zona franca, un paradiso morale in cui ogni regola è sospesa, ogni obbligo decade e nessuno paga per quello che fa (o non fa)? Una volta ci regnavano le donne, sul focolare (almeno lì, almeno a parole). Adesso la donna, nel chiuso delle sue stanze, torna a essere umile ancella. Dietro quella metafisica porta chiusa, quella che separa il privato dal pubblico, l’uomo è padrone. Può coprirti di ridicolo o di schiaffi, ma se tutto avviene lì, in tinello o nella tavernetta, magari nel corso dell’orgiastico riposino del guerriero, nessuno lo “può giudicare nemmeno tu”, come cantava Caterina Caselli, in un’altra era geologica. È una conquista recente del nostro Paese, questa sanatoria del peggio, estesa a chiunque abbia abbastanza potere per scansare almeno un paio di comandamenti. Dio, evidentemente , è dalla loro parte. Noi laici, costretti a comportarci bene per mancanza di protezioni altolocate, continuiamo a fare i conti con la nostra coscienza. Come ai tempi in cui si gridava contro chi era “a sinistra in piazza, a destra nel letto”. E giù feroci lezioni di perfezione relazionale! Avessimo quattro soldi da parte varrebbe la pena di lanciare un’Opa sulla Famiglia per conquistare il primo fra i suoi “valori”: l’impunità domestica.
Repubblica 1.5.11
L’Europa smarrita e l’immigrazione
di Nadia Urbinati
Nel suo mezzo secolo di vita l´Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. Teorici e giuristi hanno parlato addirittura di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall´appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789. Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l´Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità va letta come un invito dell´Europa dei diritti all´Europa della politica di rivedere la sua strategia sull´immigrazione.
Ma a dispetto di ciò che l´Europa vuole o non vuole, in un modo o nell´altro i migranti sono ormai parte della sua identità, di quello che è e sarà. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l´identità per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l´esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno.
Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità a persone apolidi nate nel loro territorio. La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell´Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere. Un fatto di grande interesse è che tra questa umanitá di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d´approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici.
I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge. Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l´ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura – che da ‘liberi´ non avrebbero, perché non-cittadini. La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all´inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività politica, un passo importante perché un´ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall´avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica. Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L´ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l´ambizione di essere sovranazionale, non contempla un´identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa l´importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell´Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall´appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l´idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.
il Fatto 1.5.11
Oggi Wojtyla beato in una Roma stanca
La festa unisce solo i fedeli
di Marco Politi
I romani si sono già un po’ stancati della beatificazione. Troppa enfasi, troppa glorificazione, troppi documentari, troppi aneddoti raccontati da chi si vuole scaldare al sole di Wojtyla.
Dice il teologo Hans Kueng che Giovanni Paolo II è stato il Papa “più contraddittorio del XX secolo, che non merita di essere presentato ai fedeli come un modello”. Combattente per la pace e i diritti umani e repressore delle donne e dei teologi.
Ma da ieri è iniziata la lenta invasione dei pellegrini e nelle colonne di zainetti, bandiere, giacche a vento, cappellini e mappe dell’urbe sventolate come ventagli si scopre che non c’è “un” Wojtyla nell’immaginario dei fedeli e dei curiosi bensì un caleidoscopio di ricordi e di impressioni strettamente personali.
LA TRENTENNE romana che lamenta l’“overdose di celebrazione” è la stessa che si tiene stretto Giovanni Paolo II come figura di “guida e di pastore”. L’avvocato spagnolo , appena arrivato in vista del cupolone michelangiolesco, scandisce che è stato una “persona buona per tutti”. Che vuol dire per tutti, chiediamo? “Nel suo cuore teneva tutto il mondo, non soltanto i cattolici”. Nella folla si rintraccia l’impronta di un Wojtyla al di là dei dibattiti storici e teologici. La biologa cinquantenne di Agrigento non è più la giovane scout, che nel 1993 faceva il servizio d’ordine quando il pontefice levò il suo grido contro la mafia. “Gli strinsi la mano perché già sapevo che era un santo”. L’impressione più forte? “Il suo modo di pregare. Intenso. Si estraniava da tutto”. È quello che pensa un’agnostica, che non frequenta le chiese: “Si vedeva che ci credeva e questo te lo faceva amare anche se eri in disaccordo su tante cose”. Un pellegrino ricorda la sua spiritualità e che “parlava con fermezza”. Madre e figlia, venute dal Costarica, si parlano sopra l’un l’altra: “Emanava una magia… la luce di un amore… se lo penso mi viene la pelle d’oca”. La storia è fatta anche di questo. Il riflesso di percezioni. Torna spesso il tema dell’universalità, il superamento delle frontiere. “Ha lasciato il suo segno nella Chiesa per la semplicità e la capacità di toccare i cuori di cattolici e non cattolici – confida un prete brasiliano finito a fare il parroco a Vienna – Un uomo che parlava la lingua degli uomini”.
C’È CHI RICORDA il suo impegno per la famiglia o i valori essenziali: amore, dignità, rispetto per la vita. E chi sottolinea l’apertura alle chiese cristiane e alle altre fedi. “Non escludeva”, commenta un fedele. “Non so descriverlo”, farfuglia arrossendo un ragazzo bavarese. Un tecnico cileno si ferma a spiegare: “Un uomo di pace, che unificava. Un’anima speciale diversa dagli altri papi. Io non sono praticante ma ho avvertito in lui una letizia nel dolore”. I pellegrini polacchi sono un capitolo a parte. All’ombra di una bandiera francese un nonno franco-polacco dichiara: “Un santo patriota. Per me contano Wojtyla, Wyszynski, Walesa”. Una giovane ragazza del coro di Varsavia è più articolata: “Ci ha insegnato l’amore per il prossimo, l’orgoglio di essere polacchi e al tempo stesso di essere umili”.
C’è il giovane croato curioso, arrivato per stare in mezzo alla folla e sentire l’emozione come adrenalina e la signora di Bari, che aspetta una grazia e al nome di Wojtyla associa un “senso di pace, serenità, disponibilità”. Dalle cinque del mattino molti giovani si assieperanno attorno a piazza san Pietro dopo avere passato una veglia al Circo Massimo ascoltando l’ex segretario di Wojtyla cardinale Dziwisz, l’ex portavoce Navarro e la suora miracolata suor Marie-Pierre Simon. Altri fedeli avranno trascorso una notte bianca in preghiera, fermandosi nelle otto chiese rimaste aperte a oltranza.
Si attende un milione. Con gli occhi fissi nel momento decisivo: quando dal balcone della basilica sarà srotolato lo striscione con l’immagine di Karol beato.
B., un mestiere di pr, non ci sarà. Ma lo rievoca per il suo appello: “Non abbiate paura”. Gli è rimasto impresso, perché “questo è un secolo di paure e di angosce”.
il Fatto 1.5.11
Il merchandpaping intorno al Vaticano
Statuette, accendini, medaglie e persino l’olio extravergine, prezzi gonfiati per gli stranieri
di Federico Mello
Santi e paccottiglie, accendini Zippo del papa e fede autentica; vino “Santa Messa” e una scritta a caratteri cubitali sotto il porticatodelBernini:“Spalancate le porte a Cristo”.
Sacro e profano si mescolano a Piazza San Pietro alla vigilia del giorno più atteso dai cattolici del mondo. Epicentro di tutto – in una Roma caotica vicino alla basilica e deserta nelle vie periferiche – è Borgo Pio, quartiere “santo” della Capitale: fino agli anni del duce un dedalo di viuzze dove perdersi tra sottane e mendicanti (effetto studiato per accrescere lo stupore arrivati davanti alla maestosità di San Pietro); oggi zona spaccata in due da una via della Conciliazione che da venerdì, in poche ore, con muri di telecamere che si alzano in ogni angolo, ha preso il testimone mediatico da Westminster Abbey.
A borgo Pio ristoranti e fast food si chiamano “Habemus delitias” e “Il Papalino”. I negozi di articoli religiosi sono ad ogni numero civico, la merce a disposizione pronta a soddisfare ogni fantasia, le commesse snocciolano prezzi in polacco, inglese, slovacco e croato (“so’ quelli che vengono di più”). Suore, preti e comuni fedeli fanno la spesa con dei cestelli.
DA COMANDINI, un enorme drugstore religioso all’ingrosso, bisogna fare anche mezzora di fila per entrare: un’addetta alla porta smista il traffico. Dentro si trovano pacchi da cento santini a 4,20 euro; statue per ogni gusto e portafoglio (dai 60 ai 400 euro); rosari in ogni foggia; bustine di medagliette in latta ordinate su una scaffaliera in stile ferramenta e divise per tema: “Perpetuo soccorso”; “Fatima”; “Maria Addolorata”; “Gesù risorto”. Nel firmamento dei santi, oltre al sempre lodato Francesco da Assisi, sono quelli più moderni a spiccare. Padre Pio, Maria Teresa di Calcutta e, naturalmente, l’ultimo arrivato: Karol Wojtyla. Di Giovanni Paolo si celebra il ricordo con la “benedizione da ascoltare” (sei euro): basta schiacciare per sentire la voce ferma del Papa; magneti da frigorifero ; busti da scrivania in più dimensioni; riproduzioni per mensole; monete commemorativa in simil oro (3,50 euro); poster per ogni cornice. I santini del papa polacco, alle tre del pomeriggio, sono terminati. Eppure basta inoltrarsi poco e si capisce che a borgo Pio niente è rimasto intentato per offrire un ricordo ai turisti della Roma Vaticana. I negozi di souvenir si sono sbizzarriti. Ci sono gli accendini di Wojtyla, le magliette (“sei sempre vivo nei nostri cuori”; “santo subito”); le tazze da latte; le tazzine da caffè; le penne; i calendari; i portachiavi; i braccialetti; le acquasantiere; gli orologi; i portapillole; le cartoline; i ceri (anche quello “ecologico”); i ditali; adesivi e specchietti apribili a forma di cuore. C’è l’olio extra-vergine di oliva: una lattina a 3 euro con stampigliato sopra il volto del pontefice e la scritta: “Roma primo maggio 2011. Beatificazione di Papa Giovanni Paolo”. Più ci si avvicina al tempio, però, e più una fede sincera e popolare spazza via i mercanti. Un gruppo di messicani scandisce emozionato: “Giampaulo/ Secundo/ te quiera/ todo el mundo”. Ragazzi venuti dal Galles suonano le loro chitarre e cantano con voce da Oasis: “Come praise de Lord”, mentre le groupies dell’Oratorio li accompagnano battendo le mani e distribuendo un volantino con i testi della canzoni. Comincia a piovere. Stretti vicini alle transenne, come se riparassero dalla pioggia, a decine bivaccano composti indossando cerate rigorosamente bianche.
NON C’È DUBBIO: sono felici, anche – o forse proprio perché – dovranno passare la notte all’addiaccio nella piazza più speciale al mondo. Là c’è via della Conciliazione ma sembra Times Square a New York. Lingue ed etnie; microfoni e maxischermi si mescolano in un patch-work globale. Le bancarelle qua sono poche. Ma non manca Emanuele che sembra nato per vendere oggetti sacri. Ha una rarità di successo e un po’ blasfema. La statua di Wojtyla con la testa ciondolante: la tocchi e continua a ballare in un moto che sembra perpetuo. Sulla bancarella fa bella mostra di sé una statua simile con le fattezze di Totti. Costo di quella del papa? “Per gli stranieri so’ 30 euro – e fa vedere il prezzo stampigliato sotto – ma per te italiano so’ 15”. La prendo. “Ahò passami er Gongolo”. Wojtyla, là a casa sua, meriterebbe più rispetto. Ma ora è santo: tutto vede e tutto (forse) perdona.
il Riformista 1.5.11
E il peggior dittatore del continente fa scalo a Roma direzione Vaticano
di Chiara Privitera
http://www.scribd.com/doc/54306668
Corriere della Sera 1.5.11
L’epos greco fonda l’Occidente
Uno spirito laico differenzia la polis dal misticismo degli asiatici
di Eva Cantarella
«Che i poemi omerici siano grandissima poesia, è superfluo dire. Che siano un documento storico è cosa meno nota, che ha dato origine a non poche controversie: si può credere» , chiedeva ad esempio lo storico Henri-Irénée Marrou, al racconto di eventi proiettati in un passato così irreale nel quale «persino le bestie parlano» ? Cosa, questa (che le bestie parlino, in Omero) assolutamente innegabile. Non solo parlano, conoscono anche il futuro: Xanto, il cavallo di Achille, predice al suo padrone la morte. Ma questo non toglie che l’epos sia un documento storico. Precorrendo non di poco l’idea che la storia vada intesa come il patrimonio culturale di una comunità, già Vico (Principi di Scienza nuova), scriveva che Omero è «il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità» . Nella specie, lo storico che trasmette la memoria di quella Grecia nella quale, scrive Gaetano Parmeggiani, affondano le radici «della nazionalità europea» : la Grecia della ragione, radicalmente diversa dall’Oriente istintivo e mistico, dalla quale parte «quel filone di pensiero che corre da epoca e luoghi remoti — la Tessaglia o la Ionia sullo scorcio del secondo millennio avanti la nostra era— fino ai giorni di cui abbiamo diretta esperienza» . Affermazione, bisogna dire, non poco perigliosa. Contrapporre la ragione greca alla cultura orientale è facilmente classificabile come eurocentrismo. Ma proprio per questo, oggi, è interessante leggere un libro così decisamente controcorrente (Gaetano Parmeggiani, Lo scudo di Achille, Sellerio). La razionalità dei greci, come ben noto, venne messa in discussione — sono ormai quarant’anni— da I greci e l’irrazionale di Eric Dodds, che avanzava forti dubbi sul fatto che la Grecia fosse l’unico isolotto di razionalità nel gran mare teistico della cultura antica. Il libro contribuì non poco a smantellare la credenza nel cosiddetto «miracolo greco» , alla cui storicità, successivamente, sferrò un attacco feroce un libro di Martin Bernal: Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilisation. Secondo Bernal quelle che abbiamo sempre considerato conquiste intellettuali dei greci, dalla filosofia alla teoria politica, dall’arte alla storiografia, nacquero, in realtà, per merito delle popolazioni asiatiche e africane. I greci si sarebbero limitati a recepirle. Le radici della civiltà occidentale, insomma, andrebbero cercate nella cultura afroasiatica. La nostra convinzione che le origini della civiltà occidentale siano indoeuropee sarebbe la conseguenza di una falsificazione storiografica, perpetrata a partire dalla fine del Settecento, quando l’Europa— escludendo «altri» , che europei non erano— volle costruire un monumento a se stessa, facendo della Grecia il luogo della sua prodigiosa adolescenza. Impossibile ripercorrere il dibattito che seguì, al termine del quale (al di là della denuncia degli eccessi e dei non pochi veri e propri errori di Bernal) a Black Athena è giusto e doveroso, comunque, riconoscere di aver non poco contribuito a far accettare, anche ai più recalcitranti, l’innegabile esistenza di influssi orientali sulla cultura greca. Ma Parmeggiani la pensa diversamente: furono i filosofi greci, scrive, che nel VI secolo a. C. innalzarono «quel baluardo che difenderà a lungo l’Occidente dal misticismo orientale» . Ed è greco «quell’umanesimo laico, limpido, che è la matrice del pensiero moderno» , a suo giudizio già presente nell’epos: i poemi omerici, sostiene, sono laici. E al di là di ogni discussione sui debiti della Grecia verso l’Oriente (sulla cui misura si possono avere opinioni diverse, ma che non possono essere negati), su questo punto ha molte ragioni dalla sua. Il comportamento dell’individuo omerico è ispirato alla necessità sociale di ottenere dai suoi pari il riconoscimento dell’onore (time). Null’altro esiste, per lui, dopo la morte, se non il ricordo dei posteri. Questo rivelano i poemi, «raffinata, coerente e organica enciclopedia che raccoglie il bilancio di un’epoca» , scrive Luciano Canfora nella introduzione al libro. E lo scudo di Achille, è, a ben vedere, il cuore di questa enciclopedia. Le scene di vita cittadina, su di esso scolpite, sono i momenti fondamentali della vita di una polis: un matrimonio, un processo, l’aratura di un campo, una vendemmia… È una polis interamente antropocentrica, quella omerica, «in cui gli dèi non sono che uomini, appena un po’ più grandi del vero» . Che le opinioni certamente radicali del suo autore vengano o meno condivise, vale la pena leggere questo libro che— pregio non da poco— induce a ragionare e ripensare criticamente molte delle proprie certezze. Anche se alla fine ne dovessero uscire confermate.
Corriere della Sera 1.5.11
Dove si nasconde l’armonia musicale
di Armando Torno
Da sempre si è cercato di spiegare, di comprendere l’armonia. Attraverso taluni miti greci o in quelle poesie dove Hölderlin sa ghermire i suggerimenti degli dèi, nella filosofia di Leibniz— che credeva in una particolare comunicazione tra le sostanze spirituali che compongono il mondo — o in quella società del futuro di Fourier: gli uomini, insomma, hanno sognato disperatamente di incontrarla. Cos’è? È possibile evocarla, possederla, conservarla? Si tratta di una sorta di «connessione» come vorrebbe Omero nell’Odissea o è «ordine» , «legge» secondo la solenne rivelazione del Prometeo di Eschilo? Platone nel Convivio la trasfigurò, unendola indissolubilmente alla «sinfonia» ; secoli dopo Plotino chiudeva, nella prima delle sue Enneadi, quel volo nei cieli considerando l’armonia musicale un riflesso sensibile di una legge metafisica. E ora di Susan Elizabeth Hale è tradotto il fascinoso saggio Spazio sacro, suono sacro (Mediterranee, pp. 328, e 24,90), in cui la musicologa nota negli Usa e in Gran Bretagna esplora i misteri acustici dei luoghi sacri per scovare quell’armonia che i filosofi hanno descritto e i musici sono a volte riusciti a recare tra noi. Invita a incontrarla nelle grotte preistoriche, dove le immagini furono dipinte sulle pareti dotate di maggiore risonanza; oppure nelle piramidi egiziane, dove non mancano camere sonore; o ancora la vede aggirarsi nella cappella di Rosslyn, in Scozia, dove i codici armonici suggellati nelle arcate lavorano eternamente per ricrearla e abbracciarla. La ricerca di armonia è un bisogno che non conosce requie. Questo saggio della Hale è un’odissea nei misteri e nell’impossibile, dagli stupa tibetani alle cattedrali gotiche. Nelle quali, sussurrano gli iniziati, qualcuno ha racchiuso ancora dei miti greci.
Corriere della Sera 1.5.11
Il libro di Luciana Castellina
La giovinezza comunista di una diciottenne borghese
di Antonio Dibenedetti
C’era una volta il Pci, quello delle lotte operaie e antifasciste. C’era una volta una ragazzina dal cuore borghese, magra come un chiodo e curiosa delle cose più grandi di lei. Questo libro di Luciana Castellina, La scoperta del mondo, racconta con ironia e franchezza la storia del loro incontro trasformatosi in amor-passione. Ci sono, a fare da testimoni d’un ménage dal lungo prologo, l’Italia degli anni di guerra e poi la Roma davvero mitica del 1945 e dintorni. Intervengono così nella narrazione, portati dal vento della liberazione, i giovani intellettuali, i pittori fra bohème e impegno, i grandi politici. Ci sono i quartieri alti, i licei chic e c’è la scoperta della realtà sottoproletaria. Là, nell’inferno delle borgate. E tutto, in questo diario romanzato, si fa racconto con semplicità e senza i trucchi, senza le reticenze d’una atteggiata innocenza. La narrazione prende avvio il 25 luglio 1943. Luciana quattordicenne, in vacanza a Riccione, sta giocando a tennis con Anna Maria Mussolini. Si, proprio con lei, la figlia del Duce. Residenti a Roma, Luciana e Anna Maria sono state per anni compagne di scuole e si sono ritrovate per caso al mare. Hanno dunque tantissime cose di cui parlare. All’improvviso, però, il loro pigro palleggio viene interrotte. Una guardia dice qualcosa a Anna Maria e lei, scusandosi col dire «devo andare via subito» , sparisce inghiottita da tutto quello che il suo cognome comporta in quelle ore. Storia e cronistoria d’una progressiva rinuncia alla condizione ma non alla cultura borghese, La scoperta del mondo della Castellina inizia non a caso ricostruendo un avvenimento legato al tramonto della dittatura mussoliniana. Il lettore non si aspetti tuttavia d’incontrare nelle pagine che seguono, imbastite tutte su episodi di vita vissuta, tiritere politiche o sofismi ideologici. L’autrice, ormai congedatasi da una storica militanza nella sinistra più intransigente, scrive queste sue pagine godendo d’una scoperta della leggerezza come fuga dal superfluo, come rinuncia alle bellurie e agli indugi ridondanti. È diretta, essenziale. Si avverte nel libro un piacere quasi fisico di ritrovare se stessi, resuscitando momenti cruciali del proprio vissuto giovanile. Non mancano, qua e là, ritratti icastici e pungenti. Così Togliatti che, confrontato maliziosamente a Tito, viene vestito da professore e spogliato almeno in parte del suo carisma. Di Guttuso si legge che «non ha la faccia né del pittore, né del comunista» . C’è poi una bonaria caricatura di Pajetta che, incaricato di ammonire Luciana per essersi comportata con palese indisciplina, le parla di Lenin in termini così severi e dotti da essere per lei incomprensibili. La pagina forse più sofferta? Quella in cui la Castellina ricorda, senza infingimenti, che cosa abbia significato nel 1947 per una diciottenne di buona famiglia iscriversi al Pci. Illuminanti, a coronamento del discorso, una citazione di Cesare Pavese e un’altra di Elio Vittorini. Sul piano letterario il libro si vale di una felice trovata. Luciana Castellina autrice riesce a fare di Luciana Castellina, protagonista in prima persona delle vicende raccontate, un vero e proprio personaggio. In altre parole stabilisce con questa sua omonima un rapporto molto franco e disinvolto, superando felicemente narcisismi, timidezze e scrupoli che non di rado gravano sui protagonisti delle narrazioni d’ispirazione autobiografica.
Il libro: Luciana Castellina, «La scoperta del mondo» , ed. nottetempo, pagine 296, € 16,50
Corriere della Sera 1.5.11
Mao grande traditore di Marx nell’occhio della mia cinepresa
di Carlo Lizzani
Soltanto un grande attore shakespeariano potrebbe regalarci lo sguardo perplesso, sulla Cina di oggi, di un immaginario Karl Marx risorto dalle ceneri. Uno sguardo capace di trasmetterci— tutti insieme — tanti significati. Compiacimento nel ritrovarsi davanti a un paesaggio ottocentesco (capitalismo emergente, aggressivo a lui così familiare). E quindi possibile tema per la scrittura di un nuovo Manifesto. Oppure sgomento, ironia, sarcasmo. Ma anche amarezza e sdegno: «Allora, se il mondo va ancora così, tutto quello che ho scritto non è servito a niente! Chi leggerà più i libri miei e del mio amico Engels?» . E invece, come è noto, intorno alla figura di Marx e alle sue opere, da non pochi anni si è riacceso l’interesse vivo di tanti studiosi, storici, sociologi. In occasione del riemergere delle sue ceneri, mi sembra giusto ricordare, però, i responsabili della sua sepoltura. Altro che i pensatori liberali o i fascismi! Il primo a scheggiarne la pietra tombale, ad attenuarne la voce, troppo in sintonia con il mondo industrializzato e così lontano da una Russia ancora contadina, fu Lenin. E gli fu complice Stalin, come responsabile del definitivo spostamento dell’asse rivoluzionario dalle zone più avanzate e industrializzate del mondo a quelle contadine, tutte da collettivizzare nel modo più rapido possibile e rendere funzionali a uno sviluppo industriale accelerato. Con i costi che sappiamo. Ma la sepoltura spettacolare, clamorosa di Marx sotto tonnellate di granito ideologico, fu dovuta a quel Mao, la cui icona continua a sorriderci maliziosa (o sinistra?) da sei decenni. Ne ho ancora il rimbombo nelle orecchie, perché il cinema mi portò a soggiornare per ben dodici mesi in Cina, tutto il 1957. Un anno chiave che avrebbe visto il declino della stagione dei «Cento fiori» e i primi segnali del «Balzo in avanti» : il processo di industrializzazione accelerato. Che avrebbe portato — dal ’ 58 a tutti gli anni Sessanta— alla catastrofe dell’acciaio fuso in milioni di fornelli casalinghi (quindi praticamente inutilizzabile) alla rottura con l’Unione Sovietica e a una soluzione dei conflitti di classe (operai-contadini) più rigida e spietata di quella pilotata da Stalin nella «patria del socialismo» durante gli anni Trenta. Il soggiorno del 1957 in Cina me lo consentì la realizzazione di un lungometraggio documentario destinato alle sale cinematografiche (come accadeva allora per certe opere non fiction ma di particolare spettacolarità). Un’avventura straordinaria dovuta a vari fattori. Il grande successo di un mio film, Cronache di poveri amanti, doppiato e diffuso in tutta la Cina nel 1956. La stagione dei «Cento fiori» , che ho ricordato, e che permetteva per la prima volta l’apertura di quel Paese all’occhio di un regista occidentale. E il coraggio di una produzione, l’Astra dei fratelli Ferranti e di Leonardo Bonzi, che aveva saputo cogliere la curiosità verso il fenomeno Cina da parte di tanto mondo occidentale anche lontanissimo da simpatie comuniste. Il titolo, inciso nelle targhette dei tanti premi ricevuti in Italia e all’estero: La muraglia cinese (mi restano nella memoria, emozionanti, due incontri che ebbi a Pechino con Curzio Malaparte, allora malato terminale, assistito con grande scrupolo dai medici e dalle autorità cinesi). Come tante volte ho ricordato, il cineasta — non per particolare perspicacia, ma per la natura stessa del suo lavoro — si trova, qualche volta, a poter cogliere, più dell’inviato speciale o del diplomatico, le vibrazioni, i segnali anche più tenui che l’onda lunga della storia deposita giornalmente nelle microstrutture della vita quotidiana. Si viaggia, si lavora, si mangia, si dorme, ci si logora nelle attese dovute in ogni parte del mondo alle burocrazie locali, e tutto con gli stessi ritmi: noi e gli ospiti, noi e l’ «altro» . Nel nostro caso, due assistenti e due interpreti cinesi, per dodici mesi, notte e giorno, accanto a me e ai miei tre collaboratori italiani. È questo tipo di lavoro, di convivenza, che favorisce il processo di percezione di certe lontane risonanze della storia nelle increspature della vita quotidiana. E in Cina fu, poi, ancora più favorito dal fatto che, viaggiando per mesi dal Nord al Sud, dall’Ovest all’Est, dallo Sinkiang, alla Manciuria, dalla Mongolia allo Yunnan, navigando giorni e giorni lungo il fiume Giallo o il fiume Azzurro, osservando usi e costumi delle tante etnie conviventi in quel Paese (uiguri, manciù, mongoli, miao, tibetani) vedevo manifestarsi nei miei accompagnatori (cinesi di Pechino) sia pure in forme non sempre facili da decifrare, il mio stesso stupore, lo stesso consenso, lo stesso sgomento e forse gli stessi interrogativi: come si sarebbe coniugato il marxismo-leninismo appreso e digerito a dosi massicce a Pechino o a Shangai (scusate se continuo ad usare la grafia dell’epoca) con quell’oceano contadino e a volte tribale che andavamo attraversando? Certo, segni positivi della rivoluzione di Mao li vedevo dappertutto, una povertà dignitosa, ma anche un grande entusiasmo. Una voglia di pulizia e di solidarietà. Ma fu in quella esplorazione a tappeto del pianeta Cina che maturai anche le prime risposte agli interrogativi miei e di tanti intellettuali marxisti di quel tempo. Interrogativi che venivano dai fatti di Budapest e dall’eco delle inquietudini che cominciavano a investire tutto il mondo dell’Est e della stessa Unione Sovietica. In quei mesi passati in Cina non avevo visto uno spillo, un chiodo, unmanufatto di metallo, un tronco di binario che non fosse di provenienza dall’Est europeo o da Mosca. E mi aveva colpito anche la presenza capillare — laddove era in opera una struttura industriale nuova, un ponte, una diga— di ingegneri e tecnici russi, cecoslovacchi, ungheresi e tedeschi della Ddr. Un travaso di mezzi enorme che allora sembrò, quando se ne veniva a conoscenza— e io lo toccavo con mano— la contropartita di un evento storico nuovo e straordinario: l’ingresso in campo di 600 milioni di comunisti! (tanti erano allora i cinesi). Era fatta! La proporzione in densità di popolazione, tra aree ancora a regime capitalistico, ed aree ad economia socialista era rovesciata! E già gran parte del mondo ex coloniale o ancora coloniale guardava a Pechino. Ma dopo sette mesi già scrivevo nel mio diario (una parte di questo diario «cinese» occupa 70 pagine della mia autobiografia: Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi, 2007): «Lan Chow, 3 agosto 1957. Ho sentito, qui in Cina, che la rivoluzione è divenuta "la rivoluzione degli alleati". Con l’ingresso impetuoso della Cina nel socialismo, e la discesa di tutti i popoli semicoloniali sul fronte della lotta antimperialista, i contadini poveri e gli agglomerati umani sottosviluppati— invece che "truppe di rincalzo"— sono divenuti protagonisti della rivoluzione mondiale. I confini esatti tra la funzione egemonica della classe operaia, oramai numericamente una minoranza all’interno di questo enorme campo, e quella ausiliaria delle grandi masse contadine arretrate sono in continuo movimento, con implicazioni politiche, economiche, culturali di enorme portata, che per ora mi sfuggono. Credo però che sfuggano anche a molti teorici del marxismo...» . Insomma, si è passati dal leninismo (alleanza con i contadini) allo stalinismo (costruzione del socialismo con la trasformazione dei contadini in operai). È questa la fase che sta attraversando la Cina. Stalinismo in Cina? Quanti si meraviglieranno. Eppure è così. Era così perché la Cina doveva cominciare— finito l’aiuto massiccio del blocco socialista a guida sovietica— a fare da sola. Al ritorno dalla Cina, e proprio, ancora, da intellettuale marxista, iniziai la mia personale battaglia per un dibattito serio sul fenomeno Cina. E le anomalie che cominciavano a derivarne sia a est che a ovest. Ma chi poteva ascoltarmi? Quei seicento milioni di nuovi «comunisti» apparivano, anche al mio Pci, una contropartita più che sufficiente per le tante sconfitte subite dal marxismo-leninismo nelle aree avanzate e industrializzate dell’Occidente. Si faceva strada l’idea che le prospettive marxiane, sconfitte nel cuore del capitalismo, avrebbero vinto con l’accerchiamento di quel cuore, insomma delle metropoli. Un assedio da parte del mondo socialista già così popoloso e delle masse sterminate di poveri di tutto il pianeta, sempre più assetate di giustizia, avrebbero un giorno messo in ginocchio Londra e New York, Parigi, Francoforte e Roma. Ne parlai con Paletta, con Longo, ma mi apparvero — pur amichevolmente — distratti. O stupiti. Un povero cineasta, pur amato e stimato, come poteva pretendere l’apertura di un dibattito di tali proporzioni? Ma ancora più patetica dovette apparire la mia posizione a quegli intellettuali e a quei giovani che via via, e in tutto il mondo, raggiungendo il culmine dell’entusiasmo nel ’ 68, e fino agli anni Settanta e Ottanta, avrebbero fatto di Mao il nuovo idolo rivoluzionario moderno, spregiudicato ma umano e non più ingessato come Lenin o Stalin. Finalmente l’autentico erede di Marx! Che tragico fraintendimento! E per me quante conferme — da tutto il mondo del comunismo reale, e dalle aree ex coloniali entrate nell’orbita cinese — di quella deriva stalinista di cui avevo percepito i primi segni in Cina, nel ’ 57. I dissesti tragici in Cina della «Rivoluzione culturale» , ultimo capolavoro del mao-stalinismo. E, intorno, forme sempre più folli, grottesche o tragiche di manipolazione del marxismo. Il comunismo dinastico della Corea del Nord e, al sud, la pazzia omicida di Pol Pot. E in Africa povere bandiere rosse a coprire spesso squallide dittature militari, solo il ricordo di tanti eroici e sinceri risvegli rivoluzionari. L’Angola di Agostino Neto straziata da trent’anni di guerra civile. Quante volte ho invidiato gli studiosi che nel corso dell’ultimo mezzo secolo hanno seguito queste vicende a tavolino, sia pure con scrupolo e passione. A volte anch’essi affascinati da Mao e dal suo libretto rosso. E quante volte mi sono detto, hegeliano nostalgico, meglio essere ciechi piuttosto che vedere certi aborti della storia, certe rotture incomprensibili della sua linearità. O sordi per non sentire quel rimbombo sinistro che ancora mi raggiunge da quell’esperienza sul campo. Una Cina di cui conservo anche tanti ricordi preziosi, e che mi ha lasciato legami di affetto profondi col suo popolo. Oggi così impegnato— scherzi della storia — a riproporre un capitalismo a guida comunista ancora più spregiudicato di quello che ispirò gli studi di Marx ed Engels. E ancora sotto lo sguardo (beffardo? malizioso?) della più sensazionale icona del Novecento.
Corriere della Sera 1.5.11
Ernesto Sabato, l’ultimo eroe
Arte, scrittura, ma anche impegno: le indagini sui desaparecidos
di Cesare Segre
È morto mentre si preparava ai festeggiamenti per i suoi cent’anni (era nato a Rojas il 24 giugno del 1911). Da tempo Ernesto Sabato s’era isolato nella sua casa di Santos Lugares (periferia di Buenos Aires), colpito severamente dalla malattia. Ripensava certo alla sua gioventù, alla laurea in fisica a La Plata, al suo lavoro presso la Fondazione Curie a Parigi, alla borsa di studio al MIT di Boston, e alla ricerca sui raggi cosmici; e poi alle sue prime simpatie per gli anarchici, e alla virata verso la letteratura, ai suoi libri, pochi ma talora imponenti, come Sopra eroi e tombe (1961), il capolavoro, o come L’angelo dell’abisso (1974) — meno voluminoso Il Tunnel (1948); e a quelli che facevano corona attorno, di critica, di riflessione (magnifiche le pagine sul tango), di ricordi, come Prima della fine (1998). Rievocava certo gli anni angosciosi trascorsi a indagare sui «desaparecidos» , nella Commissione nazionale che lo aveva avuto presidente, dopo il ritorno dell’Argentina alla democrazia, e la stesura della relazione finale (pubblicata con il titolo Nunca más «mai più» ). Tutti gli occhi del paese erano stati fissi su di lui, mentre le madri e le vedove dei «desaparecidos» facevano le loro ultime manifestazioni. In quei momenti, si era persino ammutolita la proverbiale, approssimativa leggenda di una sua rivalità con l’altro grande scrittore argentino, Borges, leggenda che ora si ripresenta, addirittura in queste prime ore di lutto (alludo a un articolo su «La Voz» ). Le vicende biografiche rispecchiano la vastità e varietà degli interessi di Sabato, che non sopportava di essere definito soltanto scrittore. Ricordo un nostro incontro a Washington, in cui mi espresse il suo scetticismo sul mito del progresso, citandomi, con esatta informazione, gli orrori del Medio Oriente e della Bosnia, il traffico di bambini latinoamericani, i disastri prodotti dalla globalizzazione; conosceva le statistiche sulla fame nel mondo, e si domandava se il neoliberalismo dominante sia in grado di migliorare qualcosa. Nei suoi scritti di attualità prevaleva un atteggiamento razionale, tanto razionale da sfociare nello scetticismo; ma in quelli narrativi la ragione si confrontava sempre con l’irrazionale, che pareva anzi un possibile vincitore. Specialmente in Sopra eroi e tombe, Sabato ha inventato un antimondo sotterraneo, ostile al nostro mondo: una luminosa Buenos Aires, descritta con partecipe realismo, cela una vita sotterranea, che si svolge in caverne, pozzi, grotte, fognature, tane di mostri. L’antimondo manda oscuri messaggi, tramite creature diaboliche, spesso ciechi, visti come una setta esiziale, impegnata a scalzare la nostra ragione. Ecco insomma il Male. Sabato mette in movimento una fantasia costruttiva, che si rivela in un progetto rigoroso; ma il mondo delle tenebre, agìto da una diversa fantasia, pare voler comunicare con noi tramite magia, telepatia, messaggi enigmatici. Anche questi contengono delle verità, dato che spingono a una discesa verso le Madri, una discesa al termine della quale i tunnel e le caverne finiscono per sostituire simbolicamente l’utero. Una sessualità primigenia attira e confonde gli uomini della luce, tanto che l’incesto è la molla dei personaggi principali, attori di incesti verticali (genitori-figli) e orizzontali (fratelli), e il detonatore della tragedia finale. Ma il male non è solo registrato e censito. C’è anche, nel romanzo, una decisa apertura alla storia, presente e passata, della nazione. Il mitico generale Lavalle, vinto in una delle numerose guerre d’indipendenza dell’Argentina, compie un’epica ritirata con i suoi fedeli per sottrarsi alle truppe dei governativi; una ritirata che continuerà anche dopo la sua morte, perché le truppe di Lavalle proseguiranno, portando con loro il suo cadavere. E la lotta per la libertà che Lavalle incarnava nel passato, nel mondo contemporaneo viene da Sabato simboleggiata in Che Guevara (anch’egli argentino, si ricordi), di cui ricostruisce, con una polifonia di testimonianze, la cattura e l’assassinio. Lo sforzo di Sabato è quello di trovare un senso alle cose. Anche il protagonista del Tunnel, Castel, vede il mondo ricomporsi e riordinarsi nel momento in cui l’amante María focalizza un particolare di un suo quadro sfuggito a tutti. Quando però la sua lucida paranoia lo porterà a uccidere María, di cui ha scoperto segreti dolorosi, ma anche fantasticato turpi moventi, il mondo ripiomberà nel caos. La ricerca del senso passa attraverso la creazione di uno stile realista e fantastico insieme. Sabato lo aveva anche asserito in termini generali: è l’arte stessa che attua la sintesi di realismo e fantasia, perché «in lei si coniugano tutte le facoltà dello spirito umano, essendo essa un regno intermedio fra il sogno e la realtà, fra l’inconscio e il conscio, tra sensibilità e intelligenza» .
Corriere della Sera 1.5.11
Integrazione La recitazione offre benefici sia alle persone fragili sia ai «normali»
La lezione di una «Banda di matti»
di Ruggiero Corcella
Potete chiamarli con i loro nomi d’arte: Yamakasi; l’Homme le +; Ed &ses Envolées voilées; Fifì &ses Bouts d’ficelles; Mine de Ren; l’Acrobate et ses BBB; Dandy One, Roi du Rb; Dandy Two Ping; Papy One, Homme orchestre; Papy Two, Prince Royal; The Magician. A loro scapperà uno sguardo compiaciuto o al massimo una di quelle risate, grasse o cristalline, che in Belgio stanno trascinando il pubblico. Sono la "Banda dei matti", spina dorsale di Complicités, spettacolo a metà strada fra teatro e circo con una particolarità: la compagnia è composta da 11 artisti disabili mentali, dai 25 ai 57 anni, e sette artisti professionisti (un musicista, un acrobata, un giocoliere, un equilibrista un break-dancer e due attori). Complicités arriverà anche in Italia e aprirà "Mirabilia", il Festival internazionale di teatro urbano in programma a Fossano (Cuneo) dall’ 8 al 12 giugno. Sarà l’occasione per godersi il risultato di un lavoro estremamente ambizioso, durato tre anni e con un budget di produzione superiore ai 300 mila euro in partenariato europeo. In Belgio, l’accoglienza di pubblico e di critica è stata entusiastica. Ma sarà anche l’occasione di toccare con mano il livello di bravura e di professionalità raggiunto dagli artisti della "Banda dei matti". Dal 2007 al 2010, Kirill, Thomas, Edouardo, Sarah, Virginie, Claudia, Lionel, Philippe, Axel, Michel e Damjan hanno lavorato in media dalle 5 alle 7 ore al giorno fianco a fianco con i colleghi "normali", creando appunto quelle complicità nate da un approccio fisico e naturale alla scena da parte di tutti e poi portate sul palco. Teatro, danza, numeri acrobatici da circo e musica sono le tante discipline toccate all’interno dello spettacolo. U n risultato di alto livello, frutto di un percorso che dimostra ancora una volta come la disabilità possa diventare non un ostacolo ma un’occasione di crescita. In Belgio lo ha capito in primo luogo il Créham, uno dei due centri co-produttori dello spettacolo. Il Créham (acronimo per Créativité et Handicap mental) è nato nel 1979 a Liegi ed ha aperto i battenti nel 1983 anche a Bruxelles. Si tratta di una vera e propria accademia d’arte per persone con handicap mentali. Attraverso laboratori creativi, tenuti da professionisti, e sulla base di un progetto artistico viene sviluppato un lavoro da proporre al pubblico. Dal Créham, tanto per fare il nome più noto, è uscito Pascal Duquenne, l’allora 25enne ragazzo Down che nel 1996 vinse al Festival di Cannes come migliore attore protagonista assieme a Daniel Ateuil suo partner nel film "L’ottavo giorno"del belga Jaco Van Dormael. L’altro centro motore di Complicités è stato Espace Catastrophe, un centro internazionale di ricerca e creazione di arte circense, sorto nel ’ 95 sempre a Bruxelles. «Dopo aver praticato differenti discipline, dalle arti plastiche alla musica, al teatro e alla danza— spiega Véronique Chapelle, direttrice di Créahm Bruxelles— ci è venuta voglia di allestire uno spettacolo di circo. Lavorando con i disabili mentali da numerosi anni, abbiamo avuto l'opportunità di osservarli nel loro percorso artistico. Ciò che ci ha lasciato il segno, tra le altre cose, è l'umorismo di cui danno spesso prova. Questo umorismo ci tocca, ci fa ridere per la sua generosità e la sua semplicità» . Il Créham ha cercato un partner e Catherine Complicités è uno spettacolo di teatro e circo (nella foto un’attrice della compagnia). Andrà in scena a Fossano (Cuneo) l’ 8 e il 9 giugno nell’ambito del festival «Mirabilia» . Lo show dura dai 75 ai 90 minuti. È accompagnato da una mostra fotografica di Jean François Rocher Magis, direttrice artistica di Espace Catastrophe si è mostrata interessata al progetto. A fine 2007, sono stati organizzati alcuni laboratori per capire quanti tra i disabili mentali che frequentavano il Créham fossero interessati alla proposta. Nei sei mesi successivi c’è stata la selezione dei candidati e a conclusione undici sono stati invitati a "entrare in pista". Per Catherine, un vulcano di idee con la fissa della contaminazione tra generi artistici, è stata la prima esperienza con persone disabili mentali. «Ma è stato da subito un regalo, — racconta con entusiasmo — un'opportunità rara di poter vivere degli incontri artistici ed umani differenti, fuori dal comune. I primi incontri con gli artisti del Créahm hanno solo confermato le mie impressioni: sincerità, spontaneità, umorismo, ritorno all’essenziale, precisione implacabile, generosità, capacità incredibile a vivere il momento presente, poesia, tenerezza da vendere» . Tra i compagni di viaggio si sono aggiunti artisti noti a livello europeo come l’attore Jean Luc Piraux e il polistrumentista Max Vandervorst, i coreografi Jordi Vidal e Maria Clara Villa Lobos e il mago Miguel Cordoba. La preparazione è stata lunga, proprio per dare allo spettacolo il tempo giusto di maturazione. «Volevo che lo spazio di espressione dello spettacolo restasse interamente libero e spontaneo — aggiunge Catherine Magis che ha già lavorato in l’Italia —. Volevo che ogni artista trovasse semplicemente il suo posto per quello che era. E mi sono subito convinta che gli 11 della "Banda dei matti"non avrebbero faticato ad adattarsi allo spettacolo che andavano a creare, lasciando libero corso al loro immaginario di matti» appunto!» . E adesso sì, hanno anche un "mestiere": artista di spettacolo, con tanto di cachet per ogni rappresentazione ma ad una tariffa che corrisponde ad una tabella speciale altrimenti perdono i loro sussidi. Sotto la grande struttura metallica da circo, storie e sogni degli attori di Complicités scorrono con linguaggi sempre diversi. «Io vorrei raccontare che vado a sposarmi su una barca al mare del Nord col mio fidanzato Philippe» sussurra Virginie, trapezista e sognatrice. In fondo, lei e tutti gli altri della "Banda dei matti"invitano solo ad oltrepassare le frontiere che separano il normale dall’anormale, l’ordinario dallo straordinario, la differenza dall’indifferenza, il sogno dalla realtà. Almeno per una sera. Semplice.
Corriere della Sera 1.5.11
Iniziò Basaglia coi laboratori in manicomio
Poi mille realtà, ma con pochi fondi
di R. Cor.
Teatro e handicap non sono un connubio nuovo in Italia. Anzi. Il nostro Paese vanta una tradizione trentennale, che prese impulso dai laboratori teatrali di Franco Basaglia all’interno dei manicomi. Proprio in quell’ambito si formò il progetto dell’Accademia della follia di Claudio Misculin, una compagnia formata da "matti", una delle esperienze più note all’estero. Altrettanto nota è la compagnia di Pippo Delbono, che ha portato sul palco Bobò, un sordomuto che Delbono conobbe nel manicomio di Aversa. E ancora il Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi a Roma. «In generale però da noi c’è un’eccessiva polverizzazione di attività— dice Claudio Bernardi, docente di Antropologia teatrale all’Università Cattolica di Brescia —. Abbiamo la ricchezza della boscaglia, che soffoca però la crescita del baobab» . Insomma, una miriade di attività, molte a livello amatoriale, e finanziamenti sempre più ridotti rendono difficile mantenere una struttura professionale in qualche modo paragonabile a quella belga del Créham (vedi sopra). Sembrano irripetibili esperienze come «Evangelio» (liberamente ispirato al Vangelo secondo Matteo di Pasolini), il primo spettacolo teatrale in Italia con attori "normali"e portatori di handicap allestito nel ’ 95 dal regista Enzo Toma con la compagnia del teatro Kismet di Bari da lui diretta per un decennio, portato su tutti i palchi nazionali e anche all’estero a Tokyo. «Da noi si resta legati a una visione di queste iniziative come teatro di ricerca— sottolinea Toma —. La cosa faticosa è che ogni volta bisogna ricominciare da capo, perché non abbiamo mai risorse per sviluppare un progetto organico» . Così è accaduto al Kismet che, come racconta l’attuale direttrice artistica Teresa Ludovico, da un anno ha dovuto sospendere il suo percorso "sociale"per mancanza di fondi comunali. La carenza di finanziamenti aveva già decretato nel 2002 la fine di un’esperienza unica come il Festival nazionale di teatro e handicap al Franco Parenti di Milano, con il coinvolgimento della Ledha (Lega per i diritti degli handicappati). «Possibile che non ci sia un mecenate o una fondazione che voglia investire culturalmente in questo settore solo perché ci crede?» si chiede Angelo Fasani, presidente di Anffas Milano e vicepresidente di Ledha, che dell’iniziativa al Parenti fu uno dei trascinatori.
Repubblica 1.5.11
Il romanzo del rivoluzionario da giovane
Materialismo comico e socialismo surreale
Karl prima di Marx
di Michele Serra
Aveva diciannove anni e odiava le convenzioni: per questo scrisse un breve romanzo satirico in cui si faceva beffe di borghesi, aristocratici e intellettuali. Era un ragazzo molto diverso dall´uomo che avrebbe scritto "Il Capitale" e dalla figura severa tramandata dall´ortodossia. Ora quel libro viene ripubblicato con le vignette disegnate dall´amico di una vita, Friedrich Engels
Quando, nel 1929, venne alla luce Scorpione e Felice, abbozzo di romanzo umoristico scritto dal diciannovenne Karl Marx quasi un secolo prima, le varie accademie del realismo socialista non ne furono certo entusiaste. D´accordo, si trattava di trenta paginette scritte da uno studente vivace e irriverente (un Marx non ancora marxista...). Quasi uno scherzo letterario, dedicato al padre e in seguito tenuto in pochissimo conto anche dal suo autore. Ma che il fondatore del "socialismo scientifico" avesse esordito con un testo così sideralmente distante dai dogmi ingessati che il futuro clero comunista avrebbe edificato sulle (alle) sue spalle, non era una sorpresa di poco conto.
Forse anche per questa inclassificabilità - oltre che per l´esilità letteraria - Scorpione e Felice ebbe una vita editoriale molto in sordina. Eccezion fatta per l´Italia, dove questa curiosa operina ora esce per Editori Riuniti, corredata dai disegni satirici del sodale Friedrich Engels, da una nota di Claudio Magris (scritta per il Corriere della sera nel 1968) e da una bella prefazione di Gabriele Pedullà.
he ci introduce nel clima letterario e culturale della Germania della prima metà dell´Ottocento: le irrequietudini romantiche, il rifiuto del classicismo, l´enorme popolarità di Sterne e del suo Tristram Shandy. Proprio di Sterne il giovane Marx è un convinto epigono quando prende a scrivere il suo tentativo di romanzo parodistico, anzi di parodia del romanzo, puntando sulla destrutturazione dei luoghi comuni narrativi e sul continuo auto-stravolgimento della trama, che saltabecca da una situazione a un´altra, da un personaggio all´altro, facendosi beffe della compiutezza formale del romanzo classico. Quasi surrealisticamente, tanto che Pedullà, nella sua prefazione, fa notare che nel vastissimo e variegato mondo della cultura comunista novecentesca, solo Breton e i surrealisti sarebbero stati in grado di apprezzare quello scritto marxiano tanto anomalo e inatteso.
Per il lettore moderno è molto difficile cogliere i riferimenti satirici al mondo politico-culturale dell´epoca: la satira ha quasi sempre un´alta deperibilità perché i modelli che cita e stravolge si sono nel frattempo estinti, o consumati. Si coglie bene, invece, lo spirito beffardo, anti-accademico, con il quale il ragazzo Marx mette in scena la sua storia strampalata e inconclusa. Si va dalla parodia della pomposità accademica (sull´etimologia di un nome l´autore spende tre noiosissime pagine, facendo il verso alla pedanteria di chissà quale professorone dell´epoca), alla demolizione quasi goliardica del sentimentalismo. In certi passaggi quasi si indovina nell´autore il futuro Marx "ufficiale", lo svelatore della struttura economica e sociale come motore primo (e spesso occulto) delle idee e dei comportamenti umani (la sovrastruttura). Accade quando i personaggi provano sentimenti che l´autore, perfidamente, attribuisce subito dopo a disturbi corporei o intoppi comunque fisici, divertendosi a ricondurre alla carne vile quegli ideali e quelle passioni che allora (e non solamente allora) la letteratura descriveva come spirituali, eteree. Fino alla scenetta finale, nella quale si pratica un clistere al cane Bonifacio (chiamato San Bonifacio dal religiosissimo padrone) e si stabilisce - sono le ultime parole del libro - un collegamento tra «ostruzione intestinale del cane e profondità delle idee», beffa anti-idealista che al giovane Karl dovette sembrare impagabile.
Testo a parte, è evidente che l´importanza di Scorpione e Felice sta soprattutto nello stridente contrasto tra l´icona severa e incombente del Padre Marx, sorta di nume barbuto per qualche generazione di uomini e donne di ogni parte del mondo, e il concetto stesso di umorismo. Pedullà fa notare che il forse più insigne tra i critici letterari marxisti di tutti i tempi, Lukacs, deprezzò Sterne e il Tristram Shandy mano a mano che consolidava il suo lavoro sul realismo socialista come probabile ritorno alla "totalità umana" dei classici. Come se - detto in parole semplici - l´umorismo non fosse all´altezza della serietà dell´impegno politico, né fosse in grado, procedendo per frammenti, per rotture di schemi, di dare dell´umanità una visione "totale".
È in parte vero: alla base dell´umorismo c´è il senso del limite, che nelle sue varie espressioni (da una parte il pudore, all´altro estremo il cinismo) suggerisce di non cedere ad alcun tipo di "totalità". Eppure Heinrich Heine, poeta romantico tedesco molto amato e frequentato da Karl Marx, vedeva in Sterne «un umorismo assoluto, nel quale si fondono sublime e ridicolo». Sublime e ridicolo, le due facce della medaglia umana, come in un successivo e fortunato aforisma (forse di Karl Kraus) viene detto anche meglio: il comico è solo il tragico visto di spalle.
E in fin dei conti, anche se il Marx apprendista satirico fu, come emulo di Sterne, molto approssimativo e svogliato, sapere che esordì come umorista lo risarcisce, almeno in parte, dell´uso super-strutturato che i suoi emuli fecero del suo pensiero, ossificandolo in precetti para-religiosi che avrebbero trovato degna parodia in Scorpione e Felice. È destino, peraltro, di molti culti umani vedere il fondatore trasfigurato in idolo, e un clero trasformare, nei secoli, l´energia intellettuale degli inizi in una cupa costruzione dogmatica - cioè in puro potere.
Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini». Se non un quinto fratello Marx (ad honorem), certo non un minaccioso pontefice.
Repubblica 1.5.11
«Proletari di tutto il mondo divertitevi!»
Destra e sinistra non sappiamo dove sono
di Karl Marx
Manca la definizione, la definizione. Chi potrà definirla, chi potrà esaminare quale sia la parte destra e quale la sinistra? E tu dimmi, mortale, da dove viene il vento, oppure se sul volto di Dio c´è un naso, e io ti dirò che cos´è destra e che cos´è sinistra. Null´altro che concetti relativi, è come bersi la follia, la furiosa pazzia, insieme alla saggezza!
Oh! Vano è ogni nostro sforzo, illusione è la nostra nostalgia, fino a che non avremo penetrato che cos´è destra e che cos´è sinistra, giacché a sinistra metterà i capri, a destra invece gli agnelli. Se si gira, se prende un´altra direzione, poiché di notte ha fatto un sogno, allora i capri staranno a destra e i devoti a sinistra, secondo le nostre misere vedute. Perciò definiscimi che cos´è destra e che cos´è sinistra, e l´intero nodo della creazione sarà sciolto, Acheronta movebo, dedurrò con precisione dove andrà a stare la tua anima, da questo concluderò inoltre su quale livello tu sei ora, poiché quel rapporto originario apparirebbe misurabile, in quanto la tua posizione sarebbe determinata dal Signore.
m a il tuo posto quaggiù può essere misurato secondo lo spessore del tuo capo, mi gira la testa, se comparisse un Mefistofele, diventerei Faust, poiché è chiaro che tutti noi, tutti siamo un Faust, in quanto non sappiamo quale parte sia la destra, quale la sinistra, la nostra vita è perciò un circo, corriamo tutt´intorno, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo sulla sabbia e il gladiatore, la vita appunto, ci uccide, dobbiamo avere un nuovo redentore, poiché - tormentoso pensiero, tu mi rubi il sonno, mi rubi la salute, tu mi uccidi - non possiamo distinguere la parte sinistra dalla destra, non sappiamo dove si trovano...
Lotta di classe
Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo che, affastellando pensieri su pensieri, illuminò il mio sguardo e apparve davanti ai miei occhi una configurazione luminosa.
Il maggiorascato è la lisciviatrice dell´aristocrazia, poiché una lisciviatrice serve solo per lavare. Ma il lavaggio sbianca, dando così una pallida lucentezza al bucato. Allo stesso modo il maggiorascato inargenta il figlio primogenito della casa, dandogli così un pallido color argento, mentre agli altri membri imprime il pallido colore romantico della miseria.
Chi fa il bagno nei fiumi, si getta contro l´elemento scrosciante, combatte la sua furia e lotta con braccia vigorose; ma chi siede nella lisciviatrice vi rimane chiuso e contempla gli angoli delle pareti. L´uomo comune, vale a dire colui che non ha la magnificenza del maggiorascato, combatte con la vita impetuosa, si tuffa nel mare rigonfio, e con il diritto prometeico ruba perle alle sue profondità; magnificamente gli compare davanti agli occhi l´interna configurazione dell´idea, e audacemente crea, ma il signore del maggiorascato fa soltanto cadere le gocce su di sé, teme di slogarsi le membra e perciò si siede in una lisciviatrice.
Trovata la pietra filosofale, trovata!
Autocoscienza
Giungemmo a una casa di campagna, era una bella notte, blu scura. Tu eri appesa al mio braccio e volevi staccarti, ma io non ti lasciavo, la mia mano ti legava, come tu avevi legato il mio cuore, e tu lasciasti che io ti tenessi.
Io mormorai parole piene di nostalgia e dissi la cosa più alta e bella che un mortale possa dire, poiché non dissi nulla, ero sprofondato intimamente in me, vidi sorgere un regno, il cui etere fluttuava così leggero, eppure così pesante, e nell´etere c´era un´immagine divina, la bellezza stessa, come io un tempo l´avevo presagita - ma non riconosciuta - in audaci sogni fantasiosi, sfavillava lampi di spirito, sorrideva, e tu eri l´immagine.
Mi meravigliai di me stesso, poiché ero diventato grande attraverso il mio amore, imponente; vidi un mare infinito, in cui non mugghiavano più flutti, aveva guadagnato profondità ed eternità, la sua superficie era cristallo, e nel suo oscuro abisso erano appuntate tremule stelle dorate, che cantavano canzoni d´amore, che irradiavano ardore, e il mare stesso era caldo!
Se quella strada fosse stata la vita!
Baciai la tua dolce, morbida mano, parlai d´amore e di te. Una nebbia leggera fluttuava sul nostro capo, il suo cuore andò in frantumi, pianse una grande lacrima, essa cadde fra noi, ma noi la sentimmo e tacemmo.
La miseria della filosofia
Giacevano davanti a me sul tavolo, proprio quando io mi lambiccavo il cervello sul perché l´ebreo errante sia un berlinese di nascita e non uno spagnolo, ma vedo che questo coincide con la controprova che devo fornire, per cui noi, per amor di precisione… non vogliamo fare nessuna delle due cose, ma ci accontentiamo dell´osservazione che il cielo sia negli occhi delle signore, ma che gli occhi delle signore non si trovano in cielo, da cui risulta che ad attrarci non siano tanto gli occhi quanto piuttosto il cielo, poiché non vediamo gli occhi, ma soltanto il cielo che è in essi.
Se ci attraessero gli occhi e non il cielo, allora ci sentiremmo attirati dal cielo e non dalle signore, poiché il cielo non ha un occhio solo, come è stato osservato sopra, ma non ne ha nessuno, bensì esso stesso è null´altro che un infinito sguardo d´amore della divinità, l´occhio mite e melodioso dello spirito di luce, e un occhio non può avere un occhio.
Il risultato finale della nostra ricerca, perciò, è che noi ci sentiamo attirati dalle signore e non dal cielo, perché non vediamo gli occhi delle signore, ma senz´altro il cielo che è in essi, sicché ci sentiamo dunque, per così dire, attratti verso gli occhi perché non sono occhi, e perché Aasvero, l´errante, è berlinese di nascita, poiché è anziano e malaticcio e ha visto molti paesi e molti occhi, ma continua pur sempre a sentirsi attirato non dal cielo, bensì dalle signore, ed esistono soltanto due magneti, un cielo senza occhio e un occhio senza cielo.
L´uno sta sopra di noi e ci attira verso l´alto, l´altro sotto di noi e ci attira nelle profondità. Ma l´Aasvero è attratto con forza verso il basso, altrimenti fluttuerebbe eternamente sulla terra? E fluttuerebbe eternamente sulla terra, se non fosse un berlinese di nascita e non fosse abituato alle distese di sabbia?
Traduzione Cristina Guarnieri © Editori Riuniti Srl