Corriere della Sera 30.4.11
Abitare Questa è la mia casa
Massimo Fagioli. Nel centro di Roma la dimora piena di luce dello psichiatra inventore dell’analisi collettivaVivo in cima alla città e ai sogni
Sfruttare l’attico
«Una veranda con il tetto apribile: così vado in vacanza senza muovermi»
di Giovanna Pezzuoli
Richiama un po’ l’idea di una casa su un albero o di un nido d’aquila, lassù in alto, sopra il cinquecentesco palazzo Vitelleschi: l’attico con terrazza su due livelli dove vive il professor Massimo Fagioli potrebbe anche essere un’astronave atterrata lì per caso o un eremo sospeso nel tempo che sovrasta il cuore pulsante di Roma, in largo Torre Argentina dove gli scavi nel 1926 hanno fatto affiorare quattro templi dedicati a Giuturna, alla Fortuna e ad altre divinità protettrici di contadini e naviganti. «La prima volta lo vidi nel 1998 e mi piacque subito — racconta lo psichiatra «eretico» , adorato quanto discusso, inventore dell’analisi collettiva che a maggio compie 80 anni — c’era soltanto il pavimento di cotto e pioveva dentro ma è stato un colpo di fulmine. Per me che ho sempre a che fare con i sogni, la casa di volta in volta è identità o modo di essere, di vivere. E io vivo tra veglia e sogno, lavoro bene nel passaggio dall’una all’altro» . Entriamo dunque nella casa dei sogni e dei segni. Un architetto sapiente ha sfruttato bene gli spazi «senza impicci» , con la luce che inonda la veranda dalle pareti di vetro, mentre il tetto apribile si srotola e mette in comunicazione diretta con il cielo. «Così vado in vacanza senza muovermi» , sorride il professor Fagioli che è anche sceneggiatore e scultore. Lavora circondato dai suoi oggetti, le librerie come le sedie sottili, confortevoli, dallo schienale curvato all’indietro, ribattezzate «hysteria» e sistemate attorno al tavolo rotondo con piccoli inserti di vetro colorato incastonati nel legno. «Questo tavolo realizzato nel 1985 era un sogno di un mio paziente, un ramo di pesco imprigionato nel vetro; ma i sogni che mi vengono raccontati sono ormai troppi, 70 ad ogni seduta... Da 36 anni conduco l’analisi collettiva con un gruppo di 700, 800 persone» . Perché, secondo Fagioli, il non cosciente si può conoscere benissimo (e guarire) con gli strumenti della psicoterapia. Non c’è uno spazio vuoto nelle pareti del locale antistante la veranda studio, in un intreccio di linee colorate a formare volti stilizzati, profili abbozzati, movimenti sottili, alternati alle foto delle quattro adorate nipotine. Ecco Ginevra, la più grande che ora ha 10 anni, Veva, come ha deciso di chiamarsi lei, che sbuca accanto al ritratto fattole dal nonno. Poi, tanti altri quadri, segni tracciati magari in trattoria o a casa di un amico o su un autobus in Egitto. «Non sarebbe il mio mestiere» dice Fagioli, sottolineando le figure ricorrenti, spesso femminili («la realizzazione della donna è il cardine dell’analisi collettiva» ). Tra i disegni c’è un calendario con la storia di Amore e Psiche, che rappresenta la sua immagine base antagonista al mito di Edipo. E «Amore e Psiche» è intitolata la libreria di via Santa Caterina, da lui ideata e dichiarata «bottega storica per l’arte» , un audace intreccio di linee, con un soppalco aereo, dalle forme leggere come il suo curioso Palazzetto Bianco di via San Fabiano. Che nesso c’è tra architettura, cinema, psichiatria? Un filo deve esserci ma Fagioli si appella al caso: così si improvvisò regista sul set di Marco Bellocchio a metà degli anni 80 per il «Diavolo in corpo» , così venne chiamato dagli architetti a progettare restyling di piazze capitoline, attorno a sculture astratte, come un gigante bronzeo di cui conserva una miniatura nella terrazza dove giocano le nipotine tra l’acero giapponese e il glicine in fiore. Tutta la sua vita di studioso scorre in due stanze (la cucina minuscola è un fatto privato «liquidato in un tempo brevissimo» , la stanza da letto è spartana): nella veranda tre poltrone Frau, quella verde bottiglia è la preferita, sono sistemate di fronte alla scrivania ricavata da un albero d’ulivo dove sono impilati freschi di stampa «Todestrieb und Erkenntnis» , la traduzione per il marchio Stroemfeld Verlag, del testo base di Massimo Fagioli, «Istinto di morte e conoscenza» e «Il pensiero nuovo» che raccoglie le lezioni svolte nel 2004 all’Università di Chieti-Pescara. La casa delle linee (e dei sogni) ha un unico spazio che deve restare vuoto, una sorta di rettangolo rosso cupo che colora un’intera parte. Cosa significa? «Chiediamolo a Fontana che se ne intende» , dice Fagioli, un po’ sibillino.
La stilografica, che erotismo
«La mia passione sono le penne stilografiche, ne possiedo cinque e mi diverto ad alternarle: due Montblanc, una Parker, una Waterman e una Montegrappa, la mia preferita. Scrivere con le penne stilografiche per me è quasi una perversione erotica» .
La Stampa 30.4.11
La recensione del libro di Massimo Recalcati “Cosa resta del padre”
Padre nostro che sei evaporato
di Antonio Defilippi
Modelli Venuta meno la Legge (il limite), si è affermata la possibilità illusoria di avere tutto
Recensire un libro di Massimo Recalcati è sempre uno stimolo e un
piacere. Intanto, per la lucida costruzione del testo, che dona
chiarezza a un pensiero complesso e talora oscuro come quello lacaniano.
In secondo luogo, perché i suoi libri non sono mai superflui o
accessori, ma incidono sempre fortemente nel tessuto della realtà e
dell’oggi. L'autore è un analista - e un pensatore - di scuola
lacaniana, che ha scritto cose memorabili sui disturbi
dell'alimentazione e non solo. Si pensi, ad esempio, a L’uomo senza
inconscio , con la sua evocazione non casuale di Musil.
Questo Cosa resta del padre? non può che confermare l'interesse e
l'attesa che si provano di fronte a una sua nuova uscita. Libro denso e
al tempo stesso lieve, affronta temi centrali: il significato simbolico
che oggi rimane della figura paterna, di fronte alla sua evidente
«evaporazione»; e quel che di essenziale essa ci può comunque portare.
Il discorso, rigorosamente, parte dal confronto tra la Legge e il
desiderio, di grande attualità in questi tempi di conflitti, anche
politici e giudiziari, tra i due.
In primo luogo Recalcati ci ricorda che «la Legge non è una minaccia, ma
una condizione del desiderio»: interdicendo il godimento immediato e
totale essa apre la strada al desiderio di ciò che - forse - non si può
avere, donando al mondo e alla nostra vita il suo necessario motore.
Magari, viene da pensare, i nostri nonni, e anche i nostri genitori,
emersi dalla palude della guerra, erano lacaniani ante litteram o
comunque inconsapevoli, poiché furono loro a insegnarci, temo
inutilmente, la necessità della regola e la bellezza del differimento
del desiderio. L'evaporazione del padre e della Legge che in esso si
impersona conduce alla perdita del limite, e quindi, inevitabilmente,
del desiderio: tutto è sempre qui, presente, a portata di mano:
giovinezza, bellezza, potere, sesso, denaro. Non l'amore, in quanto lo
svuotamento della funzione simbolica del padre e della Legge ha come
risultato «un’emarginazione del discorso amoroso», poiché l'assenza del
limite e la possibilità - illusoria - di avere tutto e subito inibiscono
la nostra capacità di considerare e di desiderare l'Altro.
Il dolore di esistere però permane e viene nascosto, ingannato, dalla
fede negli oggetti che il consumismo ci presenta, sempre più numerosi,
sempre più accessibili, sempre più rapidamente obsoleti. Si potrebbe
pensare che in questo modo non si possa che aprire la strada al
feticismo, come sostituzione dell’altro - vivente e desiderante - con
oggetti che non ci chiedono nulla, né impegno né amore. Allo stesso modo
viene meno la funzione di testimonianza e di trasmissione dell’eredità
esistenziale che il padre possedeva.
Nella sua critica, Recalcati sembra rimanere fedele a una concezione
della psicoanalisi come pensiero forte, e soprattutto come pensiero
capace di interpretare anche il mondo della postmodernità. La
postmodernità, peraltro legata comunque - e noi ne siamo testimoni- ad
aspetti di decadenza e nichilismo, pare non avere più spazio per un
pensiero forte: la psicoanalisi è insidiata da se stessa, dal suo
tentativo cioè di essere uno degli ultimi tentativi onnicomprensivi di
spiegare la realtà, rischiando di divenire una cassetta d'attrezzi buona
per tutti gli usi, o di rivelarsi, come scrisse Karl Kraus, la malattia
che pretende di curare.
Il discorso di Recalcati, tuttavia, è stringente e molto spesso
condivisibile: la crisi della funzione paterna è sotto gli occhi di
tutti, anche e soprattutto nel suo divaricarsi da un lato in una
paternità autoritaria, che cerca di ricostruire una Legge (nel senso
lacaniano) simile a quella del Dio geloso della Bibbia (uno sguardo alla
Libia e ai fondamentalismi, compresi quelli cristiani); e dall’altro in
una forma di paternalismo che collude con il desiderio, conducendolo
verso una fede nel confronto di oggetti sempre più vacui. A noi,
italiani di oggi, questa divaricazione appare simbolicamente evidente,
ed essa sembra essere anche alla base del tramonto del nostro mondo.
Mondo preda di un desiderio senza limiti, senza Legge, appunto, in cui
gli oggetti e la fede in essi sono un «rimedio contro il dolore di
esistere».
Libro di un moralista, dunque, quest’ultimo di Recalcati, nel senso
fichtiano di colui che fa della morale un modo di leggere la realtà, e
non di colui che fa del moralismo. Distinzione, questa, fondamentale,
perché il moralista nel senso vero del termine è colui che crede che
debba esistere un'etica, mentre, come ricorda Jung, «l'uomo pio» è colui
che, dopo aver tenuto una conferenza sul degrado etico, ritorna a casa e
picchia la moglie. Quel che fa la differenza tra i due, naturalmente,
sono la consapevolezza di essere tutti fallibili e ingiusti, e
l'assunzione della propria responsabilità.
Differenza che Recalcati ha molto chiara: il suo libro, ancora una
volta, porta un po’ di luce nella penombra di questi anni, ricordandoci
che «quel che resta del padre è custodia del mistero della vita e della
morte, è la responsabilità dell’eredità e della trasmissione, è la
generatività del desiderio come nuda fede».
Una riflessione del lacaniano Massimo Recalcati: si è inibita la
capacità di considerare l’Altro Il dolore di esistere però permane e
viene nascosto, ingannato, dalla fede negli oggetti che sforna il
consumismo
Repubblica 30.4.11
Redon
L’esploratore dell´inconscio che all´improvviso scoprì il colore
Al Grand Palais, a Parigi, la mostra più completa dedicata
all´antesignano del simbolismo Pittore schivo e appartato, cominciò a
dipingere dando forma al lato notturno della vita
PARIGI. Ci sono artisti così innovativi che la loro opera spezza la
"serie delle forme", come scrisse George Kubler. Odilon Redon
(1840-1916) appartiene a questa specie rara, e fa riflettere il fatto
che Monet, Renoir e Cézanne erano suoi coetanei. Ma quale abisso li
separa. Redon era nato a Bordeaux, la madre Odile era creola, ma fu
cresciuto dallo zio in un paesino del Medoc. Redon ebbe un´infanzia
difficile con turbe di epilessia e la sua opera, almeno fino alle soglie
del Novecento, è segnata da un rapporto intenso con la solitudine,
l´onirico e il buio dell´inconscio. Freud doveva ancora scrivere
l´Interpretazione dei sogni, ma Redon aveva già iniziato il suo viaggio
nell´inconscio annodando il filo del suo discorso a Goya e a Poe:
adolescente, Armand Clevaud l´introdusse ai misteri del Giardino
Botanico di Bordeaux, l´educò al mondo misterioso delle piante e
dell´entomologia che profondo segno lasciarono nella sua formazione.
L´altro maestro fu il grafico Rodolphe Bresdin che gli insegnò i
rudimenti del mestiere. Imparò a suonare il piano e il violoncello ed
ebbe un´intensa passione per Debussy. A Parigi fallì l´ingresso
all´École des Beaux-Arts e intraprese una sua via in solitudine,
dedicandosi dapprima a tele di paesaggio e nature morte in cui forte è
l´influenza di Delacroix, come si vede anche nel primo autoritratto
(1867): poi la virata verso l´acquaforte e la litografia sul modello di
Grandville che aveva perlustrato il mondo di flora e fauna inventando
figure antropormofe.
La prima traduzione dell´opera di Darwin influenzò il coté artistico e
Redon lo mostra con evidenza nel Ragno (1881) gigantesco con un sorriso
mostruoso e beffardo volto al mondo artistico nel quale fatica ad
inserirsi. Un disegno a matita mostra un Pallone (1878) aerostatico
assai particolare con in cima un enorme occhio volto al cielo e, sotto,
al posto della cesta, una testa mozzata. L´occhio tornerà in altre
immagini e suscitò l´interesse ammirato dell´amico Mallarmé. Le sue
radici sono nella cultura romantica di Hugo, Delacroix e Baudelaire, ma i
suoi Neri precorrono di un ventennio almeno il Simbolismo a cui Redon
non aderì mai, anche se ne fu il riconosciuto progenitore. La mostra
Odilon Redon. Principe del sogno (al Grand Palais, fino al 20 luglio) a
cura di Rodolphe Rapetti è la più vasta rassegna mai dedicata
all´artista.
Al carattere misterioso e enigmatico delle sue immagini corrisponde una
personalità sobria e sedentaria: non ama i Salons e non si lascia
prendere dall´ambiente bohémienne. Ciò non gli impedisce di ammirare tra
i contemporanei soprattutto Gauguin a cui dedicherà due tele. Á rebours
di Joris-Karl Huysmans ha per protagonista un collezionista delle opere
di Redon: raffinato, decadente, "sensitif exsaspéré", che rifugge il
realismo del suo tempo ed è alla ricerca di un´arte che sia capace di
mostrare immagini partorite dal sogno e intimamente atroci. Lo scrittore
fu tra i più appassionati sostenitori di Redon e lo si capisce assai
bene dalle dieci lito che sono Dans la rêve (1878): teste mostruose
sospese nel vuoto o immerse in uno spazio cosmico hanno per orecchi ali
di pipistrello o dove un omino, in un paesaggio lunare, trascina un
immenso dado, o un occhio si libra gigantesco nel cielo. L´occhio
ritorna ossessivamente in disegni e incisioni: sono due forre in
Calibano, e ancora negli Occhi di Elena (1882). L´anno successivo
compaiono le sei lito dell´omaggio a Poe ". La terza raccolta di lito è
Les Origines (1883) a cui segue Ommage à Goya, in cui figure
antropomorfe e mitologiche s´incalzano in un crescendo inquietante. Nel
1890 improvvisamente, vien di dire, un paesaggio di dune pervaso di luce
e colore dopo il buio ossessivo dei Neri, che ritornano con le Songes
(1891). Nel 1889 è l´omaggio a Flaubert a cui segue la serie sulla
Tentation de Saint-Antoine.
Sono gli anni in cui nella sua tavolozza compare il colore. L´influenza
dei Nabis è evidente, poi assume una sua inequivocabile personalità
sempre più luminosa e oserei dire gioiosa: una voglia di sentire la
natura con lo spettacolo delle sue tinte e la festa della tavolozza
lascia stupefatti. Vien di pensare che qualcosa abbia profondamente
scosso la sensibilità di un uomo così severo: che si sia innamorato?
Nulla si sa. Compaiono paraventi alla giapponese, tanti fiori e
conchiglie, volti di adolescenti, ritratti di fanciulle, anche soggetti
sacri: nella Fuga in Egitto (1902) esplode giallo, viola e rosso. Redon è
un altro pittore, e si fatica a credere che sia lo stesso: è come una
resurrezione da cui esplode un vitalismo panteista. Fino alla
Fantasmagoria sottomarina (1910) che accosto a Kandinskij per la
scomparsa di ogni elemento naturalistico: un quadro astratto senza
soggetto, tutto colore, e la stessa tecnica è nuova per l´uso della
spatola. Si rincorrono per la tela blu marino, verde, giallo e rosa ai
margini senza corpo alcuno. E infine l´enigmatico Polifemo (1914) che
emerge da un mare corallino nel cui seno s´annida un nudo femminile.
Repubblica 30.4.11
Primo maggio, scontro Renzi-sindacati
"Sui negozi aperti applico la legge". Camusso: "Quella data è la nostra identità"
Serrande alzate? L´Italia si divide e a Milano e Firenze scatta lo sciopero
di Massimo Vanni
FIRENZE - Un tranquillo Primo maggio di scontro tra il sindaco Matteo
Renzi e i sindacati. Cgil in testa. Il sindaco «rottamatore» del Pd
conferma la scelta di consentire l´apertura dei negozi del centro
durante la festa del lavoro. E per settimane va in scena lo scontro: «E´
una provocazione, il Primo maggio fa parte dei nostri valori, è una
festa che dà identità ad un popolo e ad una nazione», ribadisce appena
ieri a Firenze la leader Cgil Susanna Camusso. E il sindaco Renzi
replica a sua volta: «Applichiamo solo la legge, siamo un centro
turistico: vogliamo far trovare a chi viene una città con i bandoni
chiusi?».
Da settimane Firenze discute e si divide. Sottoponendo la politica a
strane torsioni: dal Pdl che si schiera col sindaco Pd, al Pd che
consuma nottate su documenti pro e contro. Ma proprio nel venerdì
precedente il tanto conteso Primo maggio lo scontro raggiunge un nuovo,
rumoroso picco. Allo sciopero di un´ora per la «prima» del Maggio
musicale fiorentino si sommano improvvisamente quelli dei dipendenti del
teatro della Pergola e dell´azienda pubblica di trasporto (Ataf). E il
sindaco perde le staffe: «Strano che siano stati proclamati tre scioperi
nel giro di un giorno, c´è una regia per alzare il tono dello scontro
sindacale», reagisce il sindaco del capoluogo toscano. Lanciando un
ultimatum ai sindacati: «Se hanno voglia di confrontarsi con noi sono i
benvenuti, ma l´idea che Firenze sia in mano a dei sindacalisti a me ha
già divertito. Le aziende pubbliche le governiamo noi. Senza i
sindacati». In pratica, la rottamazione dei sindacati che remano contro.
Non ha mai fatto mistero, il sindaco «rottamatore», della sua scarsa
simpatia verso i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil. Fin dalla sua
elezione a Palazzo Vecchio, ormai due anni fa. Ma fu a gennaio scorso
che fugò ogni dubbio: «Io sto con Marchionne, senza "se" e senza "ma".
Sto dalla parte di chi sta investendo nelle aziende quando le aziende
chiudono», fu allora la frase-shock che contribuì ad aprire un solco nel
corpo della sinistra. E la polemica del Primo maggio ha fatto il resto,
spingendo molti dirigenti Pd ad interrogarsi su quale tipo di
post-sinistra sia mai quella vagheggiata da Renzi.
A Firenze Camusso ha preferito evitare frecciate a Renzi, ma ha
riaffermato le ragioni della festa dei lavoratori: «Ci sono giorni che
sono nostra identità e che non sono trasformabili, commerciabili», dice
la leader Cgil. «Proponiamo ai francesi di aprire i negozi il giorno
della Presa della Bastiglia: si mettono a ridere, non si mettono a
discutere», aggiunge pure Camusso. E di nuovo Renzi: «Noi applichiamo
una legge che si chiama Bersani, il segretario Cgil la prossima volta
che vede Bersani glielo dica». Ma chissà, potrebbe essere l´ultimo
scontro sul Primo maggio: il governatore toscano Enrico Rossi, contrario
alla scelta di Renzi, annuncia una legge regionale per rendere
obbligatoria la chiusura.
Corriere.it 30.4.11
Cairo decide l'apertura de valico di Rafah
qui segnalazione di Fabio della Pergola
http://www.corriere.it/esteri/11_aprile_29/cairo-apertura-%20alico-rafah_3f051012-722c-11e0-8477-9f85e9060fe2.shtml
Terra 30.4.11
Giovanni Paolo II, uomo da Guinness dei primati
di Federico Tulli
qui
http://www.scribd.com/doc/54267068