martedì 3 maggio 2011

l’Unità 3.5.11
Il segretario Pd a Cagliari. Una città su cui scommettere per la svolta a sinistra. Come a Olbia
In Sardegna «possiamo vincere». E su Veltroni: «Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro»
«Dalle urne avremo sorprese e il governo dovrà tenerne conto»
«Dalla Sardegna può arrivare un segnale importante a livello nazionale», dice il leader del Pd. Che ripete: le amministrative devono far capire che bisogna smetterla di occuparci di «equilibri comprensibili solo a Radio Padania».
di Simone Collini

«Dalle urne usciranno delle sorprese. E il governo non potrà non tenerne conto». Pier Luigi Bersani segue con attenzione l’evolversi della situazione in vista del voto parlamentare sulle mozioni riguardanti la Libia. Ma c’è un altro voto a cui guarda con anche maggior attenzione, quello amministrativo di metà mese. Il leader del Pd non ha mai creduto che il governo potesse cadere sui raid aerei, mentre è convinto che le elezioni comunali possano mandare un avviso di sfratto a una coalizione che sta in piedi solo per interessi privati. «Non lavoriamo per spallate, ma auspichiamo che da questo voto venga un segnale inequivocabile che così non si può più andare avanti, che bisogna smetterla di occuparci dei problemi di uno solo e di equilibri comprensibili solo a Radio Padania, che dobbiamo cominciare a discutere di lavoro, redditi, servizi».
Per questo mentre tra Roma, Arcore e via Bellerio va in scena una trattativa che per lui avrà come unico risultato «coprire di ridicolo il nostro Paese», Bersani vola in Sardegna per sostenere i candidati sindaci del centrosinistra. «Sono fiducioso sulla possibilità di vincere qui», dice arrivando a Cagliari. «Da qui si può dare un contributo forte al centrosinistra anche a livello nazionale». Già, perché mentre tutti i riflettori sono puntati sulle sfide di Milano, Torino, Bologna e Napoli, non sarà da sottovalutare il risultato di Cagliari e Olbia. Due città in cui il centrosinistra non è mai riuscito ad aggiudicarsi il sindaco, ma che stando ai sondaggi diffusi prima del blackout informativo potrebbero dare un segnale in controtendenza.
In entrambe le città i candidati non sono espressione del Pd, ma Bersani non sembra darvi peso. A Cagliari è in corsa Massimo Zedda, trentacinquenne consigliere regionale di Sinistra e libertà che alle primarie ha battuto il senatore Pd Antonello Cabras. Il suo partito si impegnerà al massimo nonostante la sconfitta ai gazebo? Risponde Bersani: «Non amo sentir parlare di sconfitte nelle primarie. I contendenti qui non sono avversari. Con tutta la nostra convinzione sosterremo il candidato del centrosinistra. Su questo non ci sarà una sbavatura». Quanto a Olbia, dove Bersani si sposterà oggi per questa due giorni sarda, il candidato sostenuto dal Pd è l'ex sindaco Pdl Gianni Giovannelli, fuoriuscito dal partito di Berlusconi dopo un duro scontro e ora a capo di una sorta di coalizione di salvezza civica. Un laboratorio in vista dell'ampia coalizione? «Non sperimentiamo alleanze politiche alle amministrative – risponde – davanti a temi come l'imparzialità della pubblica amministrazione, la trasparenza, la legalità siamo aperti e generosi rispetto a qualsiasi convergenza».
Se il centrosinistra riuscirà a raggiungere l'obiettivo di espugnare le roccaforti sarde della destra, sarà anche perché è «unito e con un Pd tutto assieme in campo». Un aspetto sottolineato da Bersani rispondendo a chi gli chiede del ruolo che potrà avere Renato Soru, recentemente assolto nel processo sulla pubblicità della Regione sarda. Il leader del Pd si dice «felice che tutte le energie tornino in campo»: «Non c’è dubbio che Soru rimarrà protagonista della nostra vita politica, è un dirigente che ha un profilo sardo e nazionale e vedremo insieme a lui quale può essere il modo migliore di impegnare questa energia». E l'uscita di Walter Veltroni sula necessità di una verifica interna dopo il voto e di coinvolgere maggiormente alcune singole personalità? Di questo Bersani non vorrebbe parlare.
Anche perché, come spiega poco dopo in una saletta della sede del Pd regionale, «certi arzigogoli agli italiani interessano il giusto, soprattutto alla vigilia di un voto e quando la gente ci chiede grande unità. Ne discuteremo dopo. Non vorrei che il berlusconismo ci fosse entrato in vena. Ricordiamo come abbiamo fatto quando abbiamo vinto le elezioni. Scimmiottare Berlusconi non è affar nostro, altrimenti rischia di vincere l'originale».

l’Unità 3.5.11
Ai danni del berlusconismo si aggiungono quelli di una involuzione economica e sociale che ha investito l’intero pianeta. Il Pd deve proporre una nuova visione politica
Oltre la crisi
La vera sfida: tornare al futuro
Nel mondo è in atto una rivoluzione conservatrice senza precedenti. Un partito riformista come il Pd ha il compito di affrontarla comunicando con chiarezza alternative e valori
di Alfredo Reichlin

La politica, se vuole tornare a mordere, deve raccontare ai cittadini, specie i più giovani, quello che sta accadendo nel mondo
Lo sapevamo, ma è davvero tremenda questa lunga agonia del “Cavaliere”. Assediato da eventi che non è più in grado di dominare, quest’uomo si difende bruciando i raccolti e avvelenando i pozzi. Il problema politico anche per evitare lo sfascio della compagine nazionale è quello di ridare al Paese fiducia e guida. Una guida non soltanto politica, intellettuale e morale. Essere noi la forza costituente capace di porre su nuove basi il futuro della nazione italiana.
A me sembra che, finalmente, questa strada maestra il Partito democratico l’abbia imboccata. E a questo punto è la realtà nella sua terribile asprezza che rende ridicola la chiacchiera politica sulle alleanze. Noi a chi dobbiamo parlare se non all’insieme del popolo italiano? Il popolo italiano non è una accozzaglia di individui che si definisce in base alle sigle di partito o alle “facce” che si esibiscono in Tv. È un popolo, il quale sente tutta l’incertezza del suo futuro. Ecco perché per dirigerlo bisogna dire bene chi siamo e se l’Italia di domani ha ancora bisogno di una sinistra, e quale.
L’impresa non è facile perché i partiti non si inventano. Sono vitali e contano se sono storicamente necessari, se “fanno storia”, se è chiara la loro funzione nella vita nazionale. Bisogna rispondere, quindi, ad un interrogativo cruciale. Qual è oggi la nostra “funzione”? A fronte di quale grande problema di riforma esso si pone come necessario? Certo la risposta deve partire dall’Italia e, come da anni qualcuno di noi va dicendo e scrivendo, si tratta di creare uno strumento capace di affrontare quella che non è una crisi come tante altre, ma un rischio di dissoluzione della nazione italiana. L’Italia non è un’isola e la sfida che si pone davanti è un enorme e inedito problema sociale e umano. Vogliamo davvero un partito “a vocazione maggioritaria”? Bisogna allora sapere (questo a me sembra il cuore della discussione) che un programma riformista moderno non esiste, non morde se non ha il coraggio di misurarsi con quella profonda rivoluzione conservatrice che domina il mondo da trent’anni.
Non scopro nulla, dico una ovvietà. Ma la ripeto perché forse non ci siamo ancora capiti bene sulla natura di quella svolta. Domandiamoci perché la politica non morde. Solo per insipienza oppure perché si tratta di qualcosa che configura i termini di un nuovo conflitto? Un conflitto di portata storica tra le forze del progresso e quelle della reazione, e un conflitto tale che ridefinisce anche i soggetti, noi compresi. È per questo che il Paese si chiede chi siamo ed esita a riconoscerci come alternativa. Perché insieme alla più gigantesca redistribuzione della ricchezza tra i continenti e dentro i continenti questo conflitto ha investito la vita, le libertà, il destino, il tessuto della società europea. Ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia, ha posto fine al “cittadino” riducendolo alla misura del consumatore, ha contrapposto l’individuo alla società. In definitiva è questo fenomeno grandioso di portata mondiale che ha creato l’antipolitica, ha scavato questo solco tra i partiti e la gente e che ha reso la sinistra impotente, dato lo squilibrio sempre più profondo tra la potenza dell’economia finanziaria e il potere della politica, cioè la possibilità degli uomini di decidere del loro destino.
Sono solo accenni per dire una cosa su cui non so quanti concordano. Non si tratta di una delle tante modificazioni del capitalismo. È una sfida senza precedenti ai fondamenti storici del compromesso sociale, e quello scambio tra guadagno personale e diritti sociali, tra capitale e lavoro su cui si è retta la moderna società capitalistica e la cosiddetta economia sociale di mercato. Non credo di esagerare. Quando le attività finanziarie (cioè la speculazione in borsa e le scommesse su titoli incartati su altri titoli) sono arrivate a superare di tre/quattro volte le attività reali, e quando sulla spalle dei produttori della ricchezza reale (produzione non significa solo produzione di oggetti ma di creatività umana e della complessità del tessuto sociale) grava l’onere di remunerare una rendita enorme e parassitaria, non possiamo non chiederci, non solo su quali basi reali, ma su quale legittimazione etica si regge la società di oggi. Io penso che questo sia il passaggio nuovo. È etico-politico, non soltanto economico. E anche certi economisti dovrebbero ricordare che dopotutto l’economia è un rapporto tra uomini, non tra cose. Enormi ricchezze si creano sul debito, cioè giocando su risorse inesistenti. Ma chi paga i debiti? Quei debiti non sono pagati da chi li ha fatti ma dal denaro pubblico e dal “valore aggiunto” creato dal lavoro. Ovunque il debito privato si trasforma in debito pubblico. Ma allora di che riforme parliamo? Quale nuovo compromesso sociale è pensabile (prima il risanamento e poi lo sviluppo) quando il sistema finanziario sottrae il risparmio alla produzione di quei beni pubblici (formazione, capitale umano) i quali rendono poco nell’immediato ma senza i quali non esisterà mai lo sviluppo? Aumenterà solo l’ingiustizia. Ecco perché il riformismo è di fronte a una cosa diversa dall’economia sociale di mercato, ovvero dalle civiltà che ha avuto come centro l’Europa, cioè un luogo dove il comando della società e della vita umana non dipendeva solo da una oligarchia del denaro fatto col denaro, ma anche dal genio e dalla libertà dell’imprenditore, dal sindacato, dallo Stato, da movimenti ideali e culturali.
Ci sono alternative? Questa è la domanda che mi assilla. Dico alternative concrete, democratiche non il sogno di una rivolta disperata. Io credo che la risposta stia in una dimensione nuova della politica. Penso che dovremmo liberarci dei fantasmi di un modello che in realtà non può più funzionare: l’idea di una società guidata dall’alto. La politica nel mondo di oggi richiede un protagonismo nuovo delle masse. E quindi non solo un programma concreto, ma una rivoluzione intellettuale e morale che parli ai giovani di problemi di questa natura, che poi sono quelli che creano il precariato e oscurano il loro futuro. Il messaggio da mandare ad essi è semplicissimo: riappropriatevi delle vostre vite.
Ecco, io vedo qui un campo enorme di iniziativa di un nuovo partito. Un campo molto vasto perché si rivolge, non solo ad una parte, ma all’intera società. E non a parole, in quanto si pone il problema di coniugare le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità. Costruire una nuova comunità umana: questo è il nostro compito, non “solo” costruire un nuovo Stato. Chi difende l’individuo senza storia e senza diritti uguali non capisce che gli uomini non esistono se non in quanto stanno dentro una storia e un legame sociale. Spetta a noi lottare perché essi tornino ad essere persona e ad appropriarsi delle loro vite. Questo è il riformismo. È anche un nuovo linguaggio, meno politicistico e meno economicistico. Del resto che cosa è stato nella storia l’atto di nascita del Riformismo se non la costruzione di una vasta rete sociale di solidarietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, ad opera di socialisti come di cattolici? In tutt’altri termini, in tutt’altra scala, anche oggi questo è riformare. È rendere possibile un nuovo umanesimo. Ecco perché io penso che la presenza cattolica sia parte costitutiva del Partito democratico: perché sta nelle cose e nella lotta di oggi la necessità profonda di riunire l’umanesimo cristiano con la lotta per l’emancipazione dell’uomo che fu propria della tradizione socialista.
Vorrei quindi fosse chiaro che il tema che sollevo è qualcosa di molto diverso dall’idea di un classico spostamento a sinistra oppure del ritorno al vecchio scontro sociale. È invece quello di capire meglio il rapporto sempre più stretto, sempre più complesso (questo è il punto) nel mondo moderno tra una economia sempre più dominata dal bisogno di nuovi beni e di un più qualificato capitale sociale e un potere finanziario che in pratica lo nega. È decrepita la vecchia contrapposizione cara ai “liberal” tra Stato e Mercato, è diventata anche poco significativa la vecchia contrapposizione socialista tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altro: riguarda il lavoro ma investe la condizione umana, la vita, i modi di pensare, i territori. Io credo stia qui il ruolo storico e la base sociale di un partito nuovo. Ed è questo che comincia ad emergere dalle cose.


La Stampa 3.5.11
Secondo il Viminale i giudici di Strasburgo  «Hanno fatto un po’ di confusione». La discussione nel prossimo consiglio dei ministri
Maroni: nuovo decreto per le espulsioni
Il ministro prepara norme che possano superare i rilievi della Corte europea
di Francesco Grignetti

La Giustizia europea ha bocciato il reato di immigrazione clandestina. E però il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intende «assolutamente reintrodurre» la norma in quanto l’espulsione diretta è «l’unico rimedio per contrastare in modo efficace l’immigrazione clandestina». In questi giorni il ministro non ha mancato di polemizzare con la decisione europea, come anche ieri: l’espulsione diretta dei clandestini a questo punto è «resa di fatto impossibile da un intervento della Corte di Giustizia Europea che ha fatto un po’ di confusione». E’ perciò in preparazione un provvedimento del ministero dell’Interno che dovrebbe basarsi su due capitoli fondamentali. Uno, ripristinare le espulsioni immediate. Due, superare una sentenza della Corte costituzionale che nei giorni scorsi aveva bocciato il potere di ordinanza da parte dei sindaci. Ci sarà un decreto legge già al prossimo consiglio dei ministri.
Il secondo provvedimento, anche questo «allo studio del ministero», dovrà «ovviare al problema della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale una norma introdotta nel primo pacchetto sicurezza». Il ministro si riferisce al potere di ordinanza dei sindaci «che è stato molto utile». Ma quella della Corte Costituzionale è stata una «censura più di metodo che di merito e, per questo, facilmente superabile attraverso lo strumento legislativo». Con l’occasione, il ministero dell’Interno metterà mano a «un quadro complessivo» delle norme che riguardano la polizia locale. «Non è giusto che abbia uno stato giuridico di quando non aveva i compiti che ha oggi», riconosce il ministro.
E intanto alla frontiera italo-francese i controlli restano sempre severi. Circa 50 immigrati tunisini, pur provvisti di permesso temporaneo di soggiorno, sono stati respinti perché non avevano sufficiente denaro per poter espatriare. Ora protestano con uno sciopero della fame a Ventimiglia.
A Lampedusa, sono 1.750 gli immigrati sull’isola dopo la partenza, l’altra sera, della nave «Flaminia» della Tirrenia che ha portato via 1.500 profughi verso diverse strutture di accoglienze. Soltanto un centinaio degli immigrati di quelli sull’isola sono tunisini, mentre tutti gli altri provengono da Paesi dell’Africa subsahariana e sono fuggiti dalla Libia, pertanto saranno trasferiti in centri per richiedenti asilo.
A Ventimiglia i tunisini respinti al confine dalla Francia entrano in sciopero della fame

l’Unità 3.5.11
Feste «sacrosante»
C’è bisogno di un «tempo senza tempo» per risanare la nostra vita

Il senso della pausa nasce da un riferimento al privato (la casa), condiviso con altri. Oggi però in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione, si aspira a stare tranquilli con i propri cari. Un bisogno di riposo ineludibile per gli umani che non sono macchine...
di Stefano Bolognini, psicoanalista, presidente SPI (!)
Mi telefona un collega da Madrid, e il discorso cade sulle polemiche italiane riguardo al 1 ̊maggio: negozi chiusi o aperti? L’amico cade dalle nuvole; in Spagna mi spiega se il 1 ̊ maggio è una domenica, il lunedì viene reso automaticamente festivo, e nessuno ci trova da ridire. Per gli spagnoli è fuori discussione.
Al di là degli aspetti politici connessi, che spesso sono contingenti, giocati su base nazionale e difficilmente leggibili in contesti molto differenti, i miei pensieri evadono dalla politica (ma ci torneranno), per esplorare il senso della festa e del tempo ad essa collegato. Dunque: pare che «festa» (stessa radice latina di feriae) derivi dal greco estiào/festiào=«accolgo ospitalmente», «festeggio banchettando»; e ben più anticamente dal sanscrito vastya=«casa, abitazione». La festa dunque nasceva con un riferimento al privato (la casa), reso condiviso con altri, di solito per celebrare tutti insieme qualcosa o qualcuno. In effetti, le feste religiose e civili hanno spesso mobilitato all’incontro grandi masse di persone, chiamate a celebrazioni e a riti collettivi. Eppure, si ha la sensazione che qualcosa sia profondamente cambiato rispetto al passato.
Si percepisce un certo contrasto con la massima aspirazione di molte persone al giorno d’oggi, che è quella di potersene stare finalmente tranquilli per conto proprio o al massimo con poche, selezionate persone (i propri cari, qualche amico). Rispetto agli antichi, viviamo in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione: tra viaggi, cellulari, Skype, meeting e briefing,
Ipod e Ipad, Facebook e compagnia cantante, l’individuo raggiunge presto il livello di saturazione sociale e da quel punto in poi non ne può più; desidera stare per conto suo. Ha bisogno della festa, certo; ma non nel senso di re-infilarsi nel gruppone per celebrare qualcosa o qualcuno, bensì per farsi in santa pace i fatti propri.
C’è un prototipo fisiologico di questo bisogno di base (tanto sano da essere letteralmente sacrosanto): è il bisogno universale di ritirarsi e di dormire. Le persone sane percepiscono e soddisfano periodicamente il desiderio di «ritiro» nel sonno: una condizione equivalente al ritorno allo stato intrauterino, con ritiro degli investimenti dalla realtà esterna e con l’avvio di quel naturale reset automatico che è il sognare, volto a digerire, a metabolizzare quello che si è incamerato durante il giorno nelle attività della veglia. È un bisogno ineludibile, che va rispettato: togliere artificialmente il sonno ( e dunque il sogno) agli individui (la cosiddetta «privazione ipnica») significa condurli progressivamente all’impazzimento programmato.
In modo meno diretto e meno drammatico, sottrarre il tempo del riposo alle persone significa privarle della possibilità di lasciarsi andare – pur senza dormire – al piacere del funzionamento preconscio, tanto più accessibile quanto meno il soggetto è impegnato in attività che richiedono la sua piena partecipazione attentiva e operativa.
Nei giorni di festa le persone si dedicano più facilmente a cose distensive e meno conflittuali; oltre a chi si dedica al dormire, c’è chi va a correre in bicicletta e chi zappa l’orto, chi legge un libro e chi va a trovare un amico, chi armeggia su un motore e chi sistema l’armadio o la cantina. Molto spesso la festa consente un certo grado – parziale – di regressione funzionale: si fanno cose che tengono abbastanza fuori gioco la parte professionale di sé; e i pensieri vanno un po’ per conto loro, fuori dai binari della operatività coatta e della performance competitiva.
Mi tornano in mente le vacanze dell’infanzia e della prima giovinezza, quando l’assenza della scuola (il nostro lavoro di bambini e di ragazzi) generava senza sforzo mattinate e pomeriggi senza tempo. Da piccoli si perdevano (o meglio, si guadagnavano) ore e ore a fare quello che ci pareva, astratti dalla realtà e assorti a leggere giornalini, giocare con le macchinine o i soldatini, correre per il cortile impersonando varie figure (cowboys o altri avventurieri) in base a copioni spontanei nati lì per lì, rudimentali ma del tutto soddisfacenti. Il tempo spariva, per ricomparire ufficialmente solo col richiamo della mamma per la cena.
Pure da ragazzini il tempo della festa era un «non-tempo»: le partite di calcio al campetto dell’oratorio erano interminabili, si andava avanti per ore ed ore fino allo sfinimento, con le formazioni che mutavano di tanto in tanto quando qualche genitore veniva a prelevare un attaccante o un difensore per imperscrutabili necessità famigliari, ma il collettivo non si fermava mai, perlomeno fino a che ci si vedeva. Il tempo era segnalato solo dall’arrivo del buio; e tutto ciò era formidabile. Cosa – ricordo benissimo di cui eravamo consapevoli anche allora, e non solo adesso per rimpianto idealizzante postumo: eravamo immaturi, sì, ma non scemi.
Anche il tempo della lettura (non quello dello studio!...), della lettura libera, nelle feste o nelle vacanze della giovinezza, era un tempo «senza tempo»: la full immersion in un romanzo ci faceva immedesimare con i protagonisti e con l’ambiente, e spesso i genitori si ritrovavano a cena con un ragazzo o una ragazza in stato di semi-trance, con gli occhi persi nella Russia di Guerra e pace o nel Borneo di Sandokan e Yanez.
Il preconscio «beveva» quelle storie con avidità assoluta, il preconscio creava e sognava, libero da doveri e da compiti precisi; e il resto del Sé introiettava, elaborava, costruiva silenziosamente; il bambino cresceva, il ragazzo evoluiva, in quelle sane e necessarie atmosfere regressive che anche le lingue straniere hanno connotato con espressioni culturalmente nobili e rispettose: «zeitlos», «timeless», «hors du temp», ecc.
Oggi noi soffriamo, a mio avviso, di una colossale turlupinatura propinataci dalla tecnologia: siamo nella malaugurata condizione di poter OTTIMIZZARE IL TEMPO. Grazie ai mezzi di comunicazione possiamo programmare ogni minuto del nostro tempo organizzandoci in modo da non avere tempi vuoti; possiamo predisporre incontri, attività e impegni a ritmo continuo, stipandoli a forza anche negli intervalli più intimi e privati. Non ci sono più i cosiddetti «tempi morti», ma il sospetto è che a volte quelli fossero i momenti più vivi e più aperti della nostra esistenza, al di fuori dell’imperativo frenetico «Produzione! Produzione! Produzione!» recitato persecutoriamente da Charlie Chaplin in Tempi moderni. Ora, per tornare alla poli-
tica (beninteso, nel senso dilettantesco e del tutto generico con cui posso farvi riferimento io, che so abbastanza poco di economia complessa): capisco benissimo che oggi i Cinesi o i Coreani o chissà chi altro ci stiano dando dei punti grazie alla loro iper-produttività a basso costo che li rende così competitivi. Non entro nel merito della quantità media di lavoro necessaria al giorno d’oggi per mantenere un buon livello produttivo e commerciale; tengo conto del fenomeno ben noto per cui a certe persone piace più lavorare che riposarsi, anche per sfuggire al contatto con pensieri e rapporti più temuti che desiderati; e arrivo a considerare anche l’esistenza delle cosiddette «nevrosi della domenica», che sono note agli psicoanalisti fin dai tempi di Freud.
Ciononostante, se da psicoanalista dovessi dare un consiglio ai governanti e ai cittadini, direi: rispettate il tempo della festa. È un tempo «sacrosanto», non per motivi religiosi o civili, ma per fondamentali ragioni di sanità del vivere. Gli uomini non sono macchine meccaniche, sono organismi psico-biologici delicati e complessi ed hanno bisogno di riposarsi per poter lavorare, di poter dormire per poter essere ben svegli, di coltivare aree di ritiro benefico per poter re-investire energie sul mondo esterno.
C’è un tempo per il lavoro e un tempo per il riposo, c’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, e conviene non perdere il contatto con questa ritmicità del tutto naturale.

La Stampa 3.5.11
Abusi sulle pazienti Arrestato psichiatra
di F. Pol.

Medico e violentatore. Con il camice bianco avvicinava le sue vittime scelte tra le pazienti più giovani, con sedativi e ansiolitici le costringeva a fare quello che voleva. C’è voluto quasi un anno di indagini, ma alla fine i carabinieri di Lodi hanno smascherato un medico psichiatra di 55 anni, in forza all’ospedale di Codogno. Il gip di Lodi ha disposto il suo fermo, il medico è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale pluriaggravata. I casi accertati sono due, ma i carabinieri credono che siano molti di più e hanno lanciato un appello a tutte le donne passate in quel reparto del nosocomio di Codogno.
Perchè alla fine questa vicenda è venuta fuori per caso. Per le confidenze di una giovane paziente italiana di appena vent’anni che lo scorso giugno ha raccontato a un’altra donna, ricoverata nello stesso reparto, di avere subito pesanti attenzioni sessuali da parte del medico, stimato e apparentemente irreprensibile camice bianco. Anche l’altra paziente, pochi anni di più, ha ammesso di avere subito le stesse violenze. Da qui la denuncia ai vertici dell’ospedale che hanno poi avvisato i carabinieri.
Il sospetto che il medico possa avere abusato di altre donne è più che fondato. Dalle indagini è emerso che il medico iniziava a tormentare le sue vittime quando erano ricoverate nel suo reparto a Codogno, ma poi continuava le violenze anche durante le visite e la fondamentale terapia successiva alle dimissioni.


Corriere della Sera 3.5.11
Femministe di sinistra sedotte dallo scientismo
Il vuoto ideologico colmato dalla fiducia nella tecnica
di Paolo Mieli

Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta il Partito comunista italiano (dal 1991 Partito democratico della sinistra) ha modificato radicalmente il proprio modo di guardare alle questioni morali connesse con la vita umana. Un giovane storico, Andrea Possieri, già autore di un eccellente lavoro sugli ultimi anni del Partito comunista, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), pubblicato dal Mulino, ha ora studiato come è avvenuto, passo dopo passo, questo Cambiamento di senso comune sui temi bioetici (così il titolo del suo saggio che esce nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, per le edizioni Lindau). Il racconto prende le mosse da una lettera pubblicata su «Noi Donne» il 3 dicembre del 1972. All’epoca la rivista — espressione dell’Unione donne italiane, un’organizzazione collaterale al Pci — era diretta da Giuliana Dal Pozzo e la pagina delle lettere serviva a dar conto alle lettrici (ma anche ai lettori) di un universo, quello femminile, in grande trasformazione. «Credo che la vera liberazione, la vera uguaglianza, può arrivare soltanto con la scienza e con la tecnica» , scriveva Marianna T. su «Noi Donne» . Per poi così proseguire: «Che cosa è che differenzia radicalmente l’uomo dalla donna e concede a lui di lavorare come vuole? Il fatto che lui non deve fare figli, non ha disturbi mensili, non ha da crollare sotto il peso della gravidanza o da allattare i bambini e così via. Ebbene si passi questa incombenza alle macchine, ovvero alle incubatrici. Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un’incubatrice un uovo femminile e un seme maschile, e tornare nove mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti, fra l’uomo e la donna. Mi rendo conto che questa rivoluzione biologica sarebbe sconvolgente, per i suoi effetti psicologici; ma d’altra parte non mi sembra affatto necessario che, per il semplice gusto di restare "donna"nel senso tradizionale della parola, si abbia da soffrire anche fisicamente» . Desta interesse, scrive Possieri, il fatto che una rivista come «Noi Donne» , «certo non assimilabile al movimento femminista — che all’opposto, in quegli anni, polemizzava duramente con le scelte e le posizioni politiche dell’Udi — né tantomeno alle teorie filosofiche del femminismo radicale di marca anglosassone, accogliesse nelle sue pagine un richiamo a visioni politico-culturali del tutto estranee alla storia del movimento delle donne di estrazione marxista» . In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 — all’epoca della commercializzazione (ma solo a scopo terapeutico) della pillola anticoncezionale di Pincus — e il 1968, anno del movimento studentesco nonché dell’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite. «Noi Donne» — fino a quel momento incentrata sulle tradizionali rivendicazioni emancipazioniste— cominciò ad occuparsi dei temi relativi alla cosiddetta «maternità consapevole» : fecondazione in provetta, coppie di fatto. Fu in quel momento che un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di far propaganda a favore del controllo delle nascite. Affiancato in ciò dall’Associazione italiana per l’educazione demografica (nata a Milano nel 1953) presieduta da Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella, al quale De Marchi aveva aderito. Nel marzo del 1971 la Corte costituzionale stabilì l’incostituzionalità dell’articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo fino a un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di tale reato. Quella sentenza determinò una svolta. Ma ancora più importante fu il risalto che il periodico dell’Udi, nel gennaio del 1973, riservò all’attività del medico di Baltimora John Money, il quale per primo aveva formulato il concetto di identità di genere. Di che si trattava? Simone de Beauvoir nel suo famoso libro Il secondo sesso (Il Saggiatore) aveva scritto: «Donna non si nasce, lo si diventa» . Money volle dimostrare scientificamente quell’assunto e ne nacque un libro dal titolo Uomo, donna, ragazzo, ragazza, edito in Italia da Feltrinelli. La dimostrazione si basava sul caso dei due gemelli Reimer, omozigoti nati in una cittadina canadese nel 1965. Che tipo di dimostrazione? Nel tentativo di circoncidere uno dei due piccoli, il medico aveva compiuto un errore e aveva provocato un danno irreparabile al pene del bambino. I genitori disperati si erano rivolti al dottor Money (che avevano visto in un programma tv nel corso del quale il medico aveva reclamizzato la propria capacità di trasformare l’uomo in donna) e gli avevano chiesto aiuto. Money era intervenuto sul neonato, gli aveva asportato i testicoli e gli aveva costruito chirurgicamente un organo genitale femminile. Gli venne anche assegnato un nome da bambina, Brenda. Da questo momento in poi Brenda, avendo un gemello con lo stesso patrimonio genetico, sarà la prova vivente che non sono i geni, bensì l’educazione e qualcosa di indotto — capelli lunghi, bambole, gonne, nastrini, vestiti di pizzo — a fare la donna (o l’uomo). «Noi Donne» scopre il «caso Money» e, per la penna di Giulietta Ascoli, dedica articoli su articoli alla questione, che acquista una valenza rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista viene attribuita al dottor Money la prestigiosa qualifica di «uomo emancipato» . La pubblicazione in Italia del libro di Money (che verrà tre anni dopo) consacrerà la tesi che l’essere maschio o femmina non è deciso dalla natura bensì dalla società. A questo punto si rende necessaria una breve digressione. Chi sia interessato a sapere come andò a finire quella storia, deve assolutamente leggere uno straordinario libretto di Giulia Galeotti (anche lei, tra l’altro, ha scritto, per Bioetica come storia, un interessante saggio; è sulla concezione dei disabili a partire dall’Ottocento: a un progressivo riconoscimento dei loro diritti è corrisposta la tentazione di disfarsi della loro costosa presenza attraverso tecniche di controllo prenatale). Il libro della Galeotti che si occupa del «caso Money» si chiama Gender Genere. Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L’alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica ed è stato pubblicato poco tempo fa dalle edizioni VivereIn. Racconta di come il ragazzo di nome Brenda, dopo un po’, si sia istintivamente rifiutato di seguire la terapia ormonale del dottor Money, che avrebbe dovuto trasformarlo «definitivamente» in donna. Di come crescendo abbia preso sempre più i tratti del maschio e del fatto che, quando il padre gli rivelò la sua storia, abbia subito un autentico shock. Brenda decise a quel punto di amputarsi il seno e di assumere un nome maschile, David. Tentò una prima volta, senza successo, il suicidio. Si sottopose poi a un intervento per la ricostruzione del pene. Iniziò a uscire con le ragazze. Sposò Mary, già madre di tre figli. Ma David non riuscì a trovare un equilibrio. A questo punto raccontò la propria storia al giornalista John Colapinto per un libro che avrà successo negli Stati Uniti, ma non sarà tradotto in Italia. Finché, all’età di 38 anni, David-Brenda si uccise. Una storia spaventosa. Ma all’epoca in cui se ne occupa «Noi Donne» quello di Money sembra un esperimento perfettamente riuscito e la vicenda di David Brenda viene presentata come un caso esemplare. Vengono poi (1978) la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza; la prima bimba concepita in provetta (Louise Brown, luglio 1978); il boom dell’ecografia (in uso al policlinico Gemelli di Roma già dal 1971). Per l’aborto, sulla rivista dell’Udi si dà grande risalto al metodo di aspirazione Karman, che viene presentato come «fisicamente poco traumatizzante» , un intervento che richiede «un’attrezzatura abbastanza semplice» e «una spesa relativamente esigua» : una tecnica «sperimentata positivamente da molte donne» , di per sé «in grado di eliminare angosce e paure» . Un articolo racconta così l’arrivo in uno spazio Aied di un «giovane ostetrico» londinese esperto di Karman: «L’annuncio della sua presenza, il sapere che avrebbe operato ininterrottamente dalle otto del mattino alle nove di sera, ha richiamato all’ospedale una grande quantità di donne che speravano, dopo tante tribolazioni e pellegrinaggi inutili, di ottenere l’aborto» . «Noi Donne» dà risalto alle ricerche dello psicanalista argentino Arnaldo Rascovsky, che «dimostrano» l’esistenza dell’apparato psichico del feto solo a partire dal quarto mese di vita. Ricerche che, provando «indirettamente» che prima del quarto mese non esiste una vita psichica del nascituro, confermano «la validità etica e giuridica della legislazione vigente» in materia di aborto. «Quello che soprattutto ci deve interessare» , scrive la rivista comunista, «è questo: la scienza ci ha aiutato a sapere con certezza che entro il terzo mese l’aborto non è un fatto così traumatico come alcuni vorrebbero indurre a pensare» . E siamo al referendum sull’aborto (17 maggio 1981). Per questa fase va menzionata un’altra rivista «più teorica» che fa capo direttamente alla sezione femminile del Pci: «Donne e Politica» , nata nel 1969 su iniziativa di Adriana Seroni che la dirige fino al 1981. Secondo Possieri, «Donne e Politica» assomigliava soprattutto nel primo periodo della sua diffusione, dal 1969 al 1977, «più a un bollettino di stampo cominternista che a una moderna rivista politica; rigorosamente in bianco e nero, con un’impaginazione a colonne, senza nessuna presenza iconografica e con alcuni interventi concepiti come dei saggi con tanto di note esplicative, non si prestava, certamente, a una larga diffusione di massa (solamente a partire dal dicembre 1977 venne inserito, per la prima volta, del "materiale illustrativo"e furono tolte le note a fondo pagina)» . Dura era la contrapposizione di questa rivista al movimento femminista e il tema dell’emancipazione femminile era strettamente collegato al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro. Nell’agosto del 1980, quando ormai si capisce che il referendum sull’aborto non può più essere evitato, «Donne e Politica» pubblica un dossier sul tema in questione, preceduto da un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali» , contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull’aborto» . «Noi Donne» , invece, si distingue per la capacità di portare in primo piano i temi bioetici. Di qui in poi il periodico dell’Udi è per circa un quindicennio «un grande incubatore di idee di valori, di esperienze umane e di progetti politici che ha avviato» , sottolinea Possieri, «un processo di inculturazione politico simbolica di issues e parole d’ordine, esterne alla tradizione del movimento operaio, che lentamente iniziano a innestarsi sul nucleo storico della cosiddetta identità comunista» . Al referendum del 1981, come era già accaduto nel 1974 per il divorzio, il fronte laico vince. «Noi Donne» esulta. Solo nell’aprile del 1982 allorché presso l’Accademia delle Scienze di Parigi il professor Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l’ovulo fecondato si impianti «nell’utero» , solo in quel momento il periodico dell’Udi solleva dubbi. Dubbi di ordine etico, perché «con questi preparati l’aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia» , quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all’aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato attraverso la legge sull’interruzione di gravidanza. Ma la rivista continua a svolgere un ruolo decisivo, una sorta di «avanguardia» politico-culturale «nella ricezione e nella diffusione dei temi bioetici rispetto ai tradizionali luoghi di elaborazione culturale dei due grandi partiti della sinistra» . Questo ruolo di avanguardia è caratterizzato da tre nomi: in primo luogo Annamaria Guadagni, poi Mariella Gramaglia e infine Franca Fossati, che dirigono «Noi Donne» a partire, rispettivamente, dal 1981, dal 1985 e infine dal 1991. «Donne e Politica» si mette sulla scia di «Noi Donne» , dapprima sotto la direzione di Lalla Trupia, che nel 1981 prende il posto della Seroni. Poi con Livia Turco che succede alla Trupia, diviene responsabile della sezione femminile del Pci (lo sarà anche nel Pds) e, dopo un vivace confronto con il Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fa approvare dal Partito comunista il documento dal titolo «Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante» che accetta il pensiero della «differenza sessuale» elaborato dal gruppo milanese della Libreria delle donne. E qui riprende la discussione sulla pillola Ru486, sulla quale erano stati avanzati i dubbi di cui si è detto. Verso la fine degli anni Ottanta, quelle obiezioni iniziali vengono considerate non più attuali. E si allargano le frontiere entro la quali la nuova etica fa proseliti. «Noi Donne» intervista la sottosegretaria alla sanità, la socialista Elena Marinucci, che dichiara di aver sollecitato la casa farmaceutica Roussel-Uclaf «a rendere disponibile in Italia la pillola per abortire» . Nel 1987 l’Udi promuove un sondaggio tra le proprie militanti nel quale il 27 per cento risponde di essere favorevole alle nuove tecniche di fecondazione assistita. Un’analoga indagine, l’anno successivo, vede salire questa propensione al 60 per cento. «In definitiva» , scrive Possieri, «quello che si delineò tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta fu l’incontro sul terreno comune dei temi bioetici tra almeno tre differenti tradizioni politiche: innanzitutto, la cultura femminista e quella emancipazionista che avevano trovato una nuova sintesi politico simbolica nella Carta delle donne; in secondo luogo, la cultura politica di marca liberal socialista che propose un nuovo patto sociale per una ridefinizione dell’etica pubblica ed elaborò un concetto di bioetica laica che includeva al suo interno molte battaglie tipiche del femminismo; e, infine, la cultura politica d’estrazione gramsciana che, dopo aver visto nascere la discussione di questi temi bioetici all’esterno del Pci, finì per essere il luogo politico che ne avrebbe ereditato le idee e i progetti, soprattutto dopo lo shock sistemico del 1989-1993» . Con il marxismo in crisi, «alla bioetica veniva affidata, dalla nostra "era delle incertezze", non solo la missione di strutturare una logica di razionalità laica che risolvesse le questioni specifiche della disciplina, ma anche il compito di proiettare le aspettative più in là, chiedendo a questa stessa razionalità laica di fungere da paradigma interpretativo per affrontare dilemmi etici di ogni tipo» . Gli interventi su «MicroMega» e su «Notizie di Politeia» di Remo Bodei e Maurizio Mori, assieme alle tesi di Umberto Veronesi (esposte nel libro Colloqui con un medico, a cura di Giovanni Maria Pace, pubblicato da Longanesi), diedero corpo dottrinale a nuove forme di pensiero laico. Nuove? Queste forme di pensiero in realtà riportavano alla luce «la forma primigenia e aggiornata del marxismo ottocentesco, ovvero lo scientismo» ; si assisteva così alla nascita di una costruzione politico-culturale che, è opinione di Possieri, «prevedeva non solo la creazione di un’opinione pubblica favorevole a ogni innovazione tecnico-scientifica, ma anche uno slittamento delle opinioni morali, che si muovevano verso una sempre maggiore apertura al relativismo» . È lo slittamento morale di cui ha efficacemente trattato Jacques Ellul ne Il sistema tecnico (Jaca Book). Cioè— come scrivono nella prefazione a Bioetica come storia Sergio Belardinelli, Edoardo Bressan e Lucetta Scaraffia— «la tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale» . Dopo un certo lasso di tempo, in genere cinque o dieci anni, «la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte» . A provocare questo mutamento «è il confronto con gli altri Paesi, dove spesso le novità sono accettate in anticipo; e se altrove hanno dato cattiva prova, nella loro attuazione, non se ne tiene conto» . È la tendenza a fare della scienza un’ideologia, forse l’unica sopravvissuta, e quindi ad affidare alle tecnica il compito di creare nuovi valori, una nuova etica del comportamento. «Una proposizione morale» , scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso» . Anche se molto spesso, dopo anni, si scopre che i sospetti della prim’ora erano più che fondati e le obiezioni iniziali resistono al tempo che è trascorso. La resistenza iniziale, sostengono i tre prefatori a Bioetica come storia, molto spesso si basava su buone ragioni, a dispetto della circostanza che poi, rapidamente, queste ragioni sono state accantonate. Ricordarle a cose fatte, quando probabilmente l’innovazione è stata accettata ed è diventata «normale» , è sempre utile, perché offre una base critica per osservare le trasformazioni che la tecnica ci impone, e un pensiero critico nei confronti delle innovazioni tecnoscientifiche è molto difficile da elaborare» . La tecnica, fa notare Ellul, proprio quando sembra che risolva problemi, ne crea ogni volta di nuovi, «e ci vuole sempre più tecnica per risolverli» . Tutto ciò nella storia dell’ex Pci è servito a dare nuova linfa alla pianta primigenia che si era essiccata. «Il progressismo etico, l’entusiasmo per le tecnoscienze, ogni tecnologia che sembri confermare e rafforzare la libertà femminile» , scrivono Belardinelli, Bressan e Scaraffia, «si sono infatti rivelati utili per riempire il vuoto ideologico con cui si è trovata improvvisamente a fare i conti la sinistra, e sono stati quindi accolti con favore dalle stesse persone che fino a poco tempo prima li guardavano con diffidenza» . E non è detto, sostengono sia pure in modo non esplicito autore del saggio e prefatori del libro, che con questo «riempimento del vuoto» la sinistra ci abbia guadagnato. paolo. mieli@rcs. it

Corriere della Sera 3.5.11
Quelle vite sospese tra fisica e fiction
di Giulio Giorello

Ginevra: «Sa-int-Pierre, ecco la cattedrale, facciata neoclassica, l’interno a pietra nuda e nervature» . Al giovane ricercatore esperto in Big Bang e buchi neri non dispiace «quella austerità spoglia di ogni ornamento, il rigore tenace di Calvino, che aveva fatto sbiancare a calce affreschi e decorazioni» . Alla sua interlocutrice, una brillante giornalista venuta da Madrid per un’inchiesta sui «segreti della fisica» , invece, «tanto rigore fa l’impressione di essere figlio di un ostinato orrore» per l’esuberanza delle forme mondane. Ben presto, però, i due saranno reciprocamente affascinati da ben altra geometria, quella dei loro corpi illuminati dal desiderio. È tutto effetto di quella bizzarra «specie di energia» che ci spinge a persistere nella fatica dell’esistenza: gli addetti ai lavori la chiamano «energia del vuoto» ! La fisica contemporanea come metafora della vita: è il tema di fondo dell’ultimo romanzo di Bruno Arpaia (classe 1957), appunto intitolato L’energia del vuoto (Guanda, pagine 264, euro 16,50), un romanzo che unisce sentimento e avventura, sociologia e fantascienza, ma non rinuncia all’intrigo poliziesco e spionistico. Arpaia, però, guarda soprattutto allo scenario dispiegato dalla fisica più recente, emerso dopo le acquisizioni di grandi del Novecento come Einstein, Bohr, Heisenberg, Pauli o Dirac. Creatori ma anche distruttori di concezioni di spazio, tempo, materia ed energia che per secoli erano state considerate intoccabili. Un’altra figura femminile del romanzo di Arpaia— questa volta una prestigiosa ricercatrice — constata che tale rivoluzione concettuale finisce col rappresentare la rivincita del filosofo greco Eraclito, per cui «l’essere ama celarsi » , su Galileo, che pensava che il Libro del Mondo fosse un volume aperto a chiunque avesse la buona volontà di leggerlo, e perfino su Einstein, per cui l’unico mistero è che… non ci sono misteri, almeno per lo scienziato. Di fronte ai paradossi della meccanica quantistica, Einstein aveva una volta dichiarato che la realtà non poteva essere così «maligna» da ingannarci sempre; ma con le nuove trovate del dopo-Einstein essa ci pare sempre più come un prestigiatore che si compiace di stupirci. Di recente il fisico Stephen Hawking ha confessato di non sentirsi di escludere che gli esperimenti col Lhc (Large Hadron Collider), il più potente acceleratore di particelle mai costruito, che abbraccia la Ginevra del protestante Giovanni Calvino e passa sotto la Fernay dell’illuminista Voltaire, possano sconvolgere la costellazione delle teorie oggi ritenute valide costringendoci a rifare tutto da capo. E concludeva: «Ne sarei davvero felice» . Non tutti i professionisti della ricerca condividono però il fascino della sfida intellettuale. Il romanzo di Arpaia è ambientato proprio nei laboratori dello Lhc; e lo stesso intreccio (che qui non riveliamo per non privare il lettore del gusto della sorpresa) è un monito contro queste forme di conservatorismo e un omaggio alla filosofia della scienza di Popper, per cui gli scienziati onesti e audaci non temono le smentite dell’esperienza, anzi le cercano. Sono anche queste un dono di un Dio «clemente e misericordioso» . Quelli che invece si imbarcano in crociate in una testarda difesa dei loro preconcetti, magari al punto di truccare i dati, commettono un vero e proprio errore politico... Non a caso nel romanzo di Arpaia questi «mestatori» vengono strumentalizzati da una forma insidiosa di terrorismo fondamentalista che non sopporta la spregiudicata indipendenza degli scienziati.
Il libro di Bruno Arpaia, «L’energia del vuoto» , Guanda editore, sarà presentato domani a Parma, ore 18, Palazzo del Governatore in piazza Giuseppe Garibaldi

Repubblica 3.5.11
Firenze, prescrizione per don Cantini. Ma i pm censurano l´inerzia della curia
"Quel prete e vent’anni di abusi coperti dai silenzi della Chiesa"

FIRENZE - Per almeno venti anni don Lelio Cantini, parroco della chiesa fiorentina Regina della pace, ha abusato di bambine e adolescenti «a lui affidate in nome della fede», spesso usando il Cantico dei Cantici come «arma di avvicinamento» per carpirne l´innocenza. Per il pm Paolo Canessa e il gip Paola Belsito le violenze sono certe, numerose e gravissime. Ma non sono più punibili perché non sono state raccolte testimonianze oltre il ‘93. E dunque i reati si sono prescritti. Non sarebbe finita così se la Chiesa fiorentina non fosse stata sorda alla richiesta di aiuto, di giustizia e verità delle vittime, una delle quali denunciò i fatti all´arcivescovo Piovanelli già nel lontano 1975. Responsabile dell´«assordante silenzio» della Curia è stato anche - secondo i magistrati - il vescovo ausiliare Claudio Maniago, già allievo di don Cantini, che non prestò ascolto ai suoi ex compagni di parrocchia e che le indagini collocano anche al centro, nel ´96, di un festino sado-maso. Solo dopo che, nel 2007, le denunce delle violenze trovarono spazio su «Repubblica», don Cantini, che oggi ha 88 anni, è stato punito dalla Chiesa con la riduzione allo stato laicale. Amaro il commento delle vittime: «Da un punto di vista giuridico è un´archiviazione, ma nella sostanza è una vera sentenza di condanna», dice Francesco Aspettati, portavoce del gruppo, sottolineando come «le vittime attendano ancora dalla Curia «un gesto pubblico di riconciliazione, che riconosca le responsabilità della Chiesa fiorentina per quanto accaduto alla Regina della pace e per non aver preso nella dovuta considerazione le nostre denunce». «All´attivo c´è solo la riduzione di Cantini allo stato laicale, ma almeno si è fatta luce su una verità terribile durata quarant´anni» commenta Mariangela Accordi, che ha raccontato la sua drammatica vicenda ad Annozero. «Mi aspettavo l´archiviazione» dice un altro del gruppo, Andrea Mancaniello, «ma almeno l´inchiesta ha certificato come vero e oggettivo tutto quello che, non creduti, avevamo sempre detto».
(f.s. - m.c.c.)


Repubblica 3.5.11
La bellezza scandalosa
Ecco perché nella bibbia la donna è superiore all´uomo
di Erri De Luca

Nel suo nuovo libro Erri De Luca rivisita il ruolo femminile nell´Antico Testamento
Eva esce con grandezza dalla conoscenza dell´albero del bene e del male
Mosè, Geremia e Giobbe, cercano di sottrarsi al compito divino che hanno ricevuto

Nella storia sacra gli uomini afferrati dalla divinità e caricati da un suo annuncio, cercano di sottrarsi.
Mosè prova a scansarsi per invalidità, è balbuziente: «O Adonai non sono uomo di parole io, né da ieri né da prima di ieri e neanche da quando la tua parola è al tuo servo: che pesante di bocca e pesante di lingua io sono» (Esodo/Shmot 4,10).
La richiesta di essere riformato è respinta: «Chi ha messo una bocca all´Adàm e chi renderà muto o sordo o vedente o cieco, non io Iod? E adesso vai e io sarò con la tua bocca e ti insegnerò ciò che dirai» (Esodo/Shmot 4,11 e 12).
Sarò con la tua bocca: ogni altra obiezione è superflua, eppure Isaia dice di avere labbra impure, Geremia di essere troppo ragazzo per andare a parlare davanti agli anziani, Giona senza neanche opporre una scusa s´imbarca per la direzione opposta a quella della missione. Infine costretti o convinti accettano, perché l´unico sbaraglio salutare è l´obbedienza.
Le donne, queste donne, non vacillano in nessun punto. Nessuna di loro, che neanche hanno avuto il conforto di una profezia, di una voce diretta, esita. Vanno contro le regole e sacrificano la loro eccezione. Il loro slancio è più solido di quello dei profeti, sono le sante dello scandalo. Non hanno nessun potere, né rango, eppure governano il tempo.
Sono belle, certo, ma per dote sottomessa a uno scopo solo appena intuito. Hanno il fascino insuperabile di chi porta la propria bellezza con modestia di pedina e non con vanto di reginetta da concorso.
Hanno un traguardo, una missione in cuore e la perseguono inflessibili. La scrittura sacra dell´Antico e del Nuovo Testamento, opera maschile, rende omaggio a loro.
La bellezza femminile è un mistero che strugge il pensiero e i sensi. È scritto che Adàm conobbe Eva/Havvà. Attraverso l´esperienza fisica del contatto e dell´abbraccio raggiunge la conoscenza di lei, della sua perfezione. Non è scritto il reciproco, lei non ha bisogno di conoscere Adàm. Lui è estratto dalla polvere, lei dal suo fianco. La natura maschile qui è fatta di materia inerte riscattata dal soffio della divinità. Eva/Havvà proviene da una lavorazione successiva, un secondo intervento della divinità. Esce dal fianco dell´uomo addormentato, ma non bell´e fatta come la dea Atena dal capoccione di Zeus. Le cose stanno invece: «E costruì Iod Elohìm il fianco che ha preso dall´Adàm per (farne) donna» (Bereshìt/Genesi 2,22). C´è il verbo costruire, opera che interviene a perfezionare la parte tolta all´uomo, per produrre Eva/Havvà. È la costruzione della bellezza. L´uomo è qui un semilavorato rispetto alla donna, il prodotto finito dell´alta chirurgia della divinità.
Il verbo "vaìven", e costruì, è un verbo di fabbrica e di figli. Ha lo stesso valore numerico di "hàim", vita. La vita nella scrittura sacra è opera di costruzione. Distruggerla è demolizione.
Donne sterili come Sara e Rachele danno la loro serva in prestito ai mariti dicendo: «Sarò costruita da lei». Il verbo "banà", costruire, dà voce alla parola figlio, "ben".
Con la fabbrica di Eva/Havvà la divinità aggiunge la bellezza al mondo. Nelle lingue che ho frequentato, meno di dieci dunque un campione insufficiente, la parola bellezza è sempre femminile.
La sua superiorità di fronte all´uomo è tale che la divinità impone alla donna di provare attrazione per l´uomo: «E verso il tuo uomo la tua piena» (Bereshìt/ Genesi 2,16): deve esserci in lei una piena, una tracimazione di acque che scavalcano argini, questo è il significato della parola ebraica "teshukà", piena. Senza questa condanna a farsi piacere l´uomo, non sussisterebbe il genere umano. Eva/Havvà esce grandiosa dall´assaggio della conoscenza del bene e del male, ma zavorrata dal peso di provare attrazione per l´uomo. È la sua imperfezione. Le donne portano la bellezza. Ogni generazione femminile si impegna a onorare la dote assegnata. Il corpo femminile si perseguita con accanimento per esaltare la qualità.
Il maschile che gliela invidia reagisce esagerando la sua differenza virile o sforzandosi all´opposto di essere femminile. Il maschile davanti al femminile sbanda.
Le civiltà si sono specializzate nei minuziosi canoni dell´attrazione fino a differenze mostruose.
Il torturato piedino giapponese, l´ingrasso o il contrario, lo scarnificato dimagrimento: il corpo della donna è sotto la pressa di uno stampo variabile, per adeguarsi all´icona prescritta. La dannazione di provare attrazione per l´uomo la sottomette al capriccio estetico maschile. Dopo aver detto: «E verso di lui la tua piena», la divinità aggiunge: «e lui governerà in te». Non su te ma in te: sarà il suo criterio e gusto a governare dentro la donna, che piegherà la sua bellezza, la torturerà per obbedire a quello.
La storia della civiltà si può ridurre alla storia dell´asservimento della bellezza femminile.

l’Unità 3.5.11
Musica & pace: Barenboim oggi suona Mozart a Gaza

Prendete uno dei più illustri direttori d'orchestra del pianeta. Aggiungete una cinquantina di musicisti provenienti da compagini di livello mondiale (Scala inclusa). E trasferite tutti nella Striscia di Gaza: ecco servita l'ultima sfida di Daniel Barenboim, bacchetta israelo-argentina celebre per il genio musicale e per l'adesione alla causa della pace. Un concerto da grand soiree teatrale in una sala attrezzata. Ad annunciarlo è stato ieri a sorpresa un comunicato dell’Onu: l’esibizione è prevista per stasera, in tarda mattinata, nella modesta sede del Museo Archeologico di Gaza. Barenboim dirigerà un'ensemble radunata per l'occasione l’«Orchestra per Gaza» della quale hanno accettato di far parte fra gli altri musicisti della Scala di Milano, dei Berliner e della Filarmonica di Vienna. Pagine di Mozart.