l’Unità 9.5.11 prima pagina
Il Leone a Bellocchio
«Un ruggito per il futuro»
«Mi hanno bocciato Italia mia, servirebbe un produttore senza paura per raccontare il potere in questo Paese».
«È un Leone in fieri. Arriva in un momento pieno di progetti»
Il regista sarà premiato alla Mostra del cinema con il Leone alla carriera: «Ho dovuto mettere da parte “Italia mia” per mancanza di produttori. Per raccontare il nostro paese bisognerebbe fare “Il Maestro e Margherita”»
di Alberto Crespi
Mentre mancano due giorni alla partenza di Cannes, arriva da Venezia una bella notizia: il Leone alla carriera della Mostra 2011 sarà Marco Bellocchio. Lo ha deciso il Cda della Biennale, naturalmente su proposta del direttore Marco Müller. L’annuncio, comunicato ieri alla stampa, è stato di grande tempismo e di non poca astuzia: alla vigilia del festival più importante del mondo perché tale è Cannes, piaccia o no Venezia è riuscita a «rubare» la scena al rivale e, al tempo stesso, a confermare come simili premi abbiano una loro primogenitura. La Mostra assegna Leoni alla carriera da decenni (lo stesso Bertolucci ne ha ricevuto uno pochi anni fa), Cannes arriva buon’ultima. Nell’occasione la Mostra dedicherà a Bellocchio un omaggio molto originale, la proiezione di una nuova versione di Nel nome del padre, film del 1971. Attenzione: non un restauro, ma un vero e proprio «nuovo» film, un director’s cut insolito perché Nel nome del padre durerà meno che in passato, 90 minuti contro i 105 attuali (per amor di precisione, non è vero quel che sostiene la Biennale: non è la prima volta che accade una cosa del genere, il director’s cut di Blood Simple, opera prima dei fratelli Coen, è pure più corto dell’originale). A proposito il regista ha dichiarato: «In tutti questi anni mi è tornata in mente, a intervalli vari, l’idea che Nel nome del padre non avesse ancora trovato la sua forma definitiva. Per una necessità (che in passato non vedevo, per paura di essere politicamente ambiguo o soltanto per un difetto di visione di insieme?) di liberare le immagini, nel senso di alleggerirle di quella pesantezza ideologica che le schiacciava, le soffocava... Immaginare liberamente era allora inconcepibile». Come si dice in questi casi, partiremo per Venezia sereni: almeno un bel film, al Lido, ci sarà.
Il motivo per cui ieri pomeriggio, letta la notizia, abbiamo comunque voluto disturbare Marco Bellocchio è un altro. Questo Leone alla carriera viene annunciato in felice e astute coincidenza con altre due notizie bellissime: la suddetta Palma ad honorem per Bernardo Bertolucci Cannes gliela consegnerà mercoledì sera, durante la cerimonia d’inaugurazione e i numerosi David vinti da Noi credevamo, di Mario Martone. Insomma, c’è ancora spazio in questo paese per i grandi registi! Bellocchio non svicola, commenta volentieri: «La coincidenza con il premio a Bernardo è stata la prima cosa che mi è venuta in mente e mi ha reso doppiamente felice. Mi sono molto riavvicinato a lui negli ultimi anni e anche il fatto che stia per girare un nuovo film mi riempie di gioia. Il film di Martone mi piace molto, è l’esempio di come si possa parlare di una ricorrenza storica senza essere retorici; e mi piace ancora di più perché, anche qui, c’è una felice coincidenza: so che Mario pensava al film da molti anni, l’uscita in occasione del 150esimo dell’unità d’Italia è stata casuale e fortunata. Si vede che è un film concepito in modo libero e realizzato tra mille difficoltà, si vedono la fatica e la libertà».
Ma un premio alla carriera, a Bellocchio, fa piacere? In generale cosa pensa, questo regista così appartato, dei premi? È competitivo, come alcuni suoi grandi e meno grandi colleghi? «Nella vita non sono competitivo. Lotto per le mie idee e le mie convinzioni, ma quella è un’altra cosa. Se vado in gara accetto le condizioni della gara, ma non sgambetterei mai un avversario per vincere. La gara richiede anche astuzia, autopromozione, e in questo sono un totale sprovveduto. Non ho nemmeno un sito internet! I premi ai festival dipendono dalla qualità del film che tu presenti, e da fattori esterni, a cominciare dalla composizione delle giurie». Qui Marco non può dirlo, per cui lo diciamo noi: quando andò a Cannes con Vincere doveva... vincere, appunto, ma trovò la giuria sbagliata, a cominciare da una presidente (Isabelle Huppert) che aveva deciso di premiare Haneke prima ancora che il festival iniziasse. «Comunque Il nastro bianco di Haneke è bellissimo ci risponde Bellocchio, molto sportivamente e nonostante la Palma non ha avuto successo in Italia. Una volta Palme e Leoni, per i film d’autore, erano un grande aiuto. Oggi almeno in Italia non bastano più. La distribuzione è tutta basata sui grandi numeri, sulla velocità, sugli incassi da rastrellare nel primo weekend. È dura, per chi fa un cinema come il nostro». Tanto dura che l’agognato progetto dal titolo provvisorio Italia mia non trova, in Italia, finanziatori. Le dure dichiarazioni di Bellocchio al proposito risalgono allo scorso gennaio, e la loro sostanza non è cambiata di una virgola: «Ho dovuto mettere Italia mia da parte... è un progetto da 6-7 milioni di euro e nessun produttore italiano ne vuole sentir parlare. Doveva essere un film sul potere, ma certo non un pamphlet sull’attualità, e nemmeno una commedia, perché nell’Italia di oggi c’è ben poco da ridere. Niente, se ne riparlerà. Melania Mazzucco mi ha detto una cosa molto vera: per raccontare l’Italia di oggi bisognerebbe fare Il Maestro e Margherita. Nel senso che bisogna andare sulla fantasy, stravolgere la realtà. Bulgakov ha fatto arrivare il diavolo a Mosca, ed è riuscito a scrivere un capolavoro sullo stalinismo senza mai nominare Stalin. Ci vuole quel tipo di fantasia, di visionarietà, di forza. Anche perché se ti attieni ai fatti che succedono, nella cronaca e nella politica, fatti assurdi e a loro modo strabilianti, sei sempre un passo indietro». E quindi, in attesa di un produttore coraggioso? «Cerco di focalizzare altre idee. Ce ne sono sempre, nei cassetti di ogni regista. Magari meno costosi. Vincere era un film costoso, e per fortuna pure senza Palma d’oro ha avuto un suo riscontro anche commerciale. Sorelle Mai non è costato nulla e sono molto felice che sia stato, sia pur minimamente, distribuito e visto. Troveremo una via di mezzo fra questi due
estremi». A Venezia, allora. Sapendo che questo Leone alla carriera è un Leone in fieri. «Sì, l’unica cosa buffa di questi riconoscimenti è che in qualche modo implicano una carriera conclusa... Invece, nel mio caso, arriva in un momento estremamente attivo, pieno di progetti. Insomma, il premio lo accetto, e ringrazio di cuore tutti coloro che, in Biennale, hanno pensato di assegnarmelo. Però sia chiaro, continuo a lavorare. Ho ancora molte cose da fare e spero di avere il tempo sufficiente per farle».
La Stampa 9.5.11
Venezia premia Bellocchio con il Leone alla carriera
Il regista: il problema è continuare a fare dei buoni film
di Fulvia Caprara
«Sorelle mai»:« Sorellemai èunfilm amatissimoche compendia tuttalamiavita. Unnessocol riconoscimento venezianoc’è, anchequesto filmèperme come un premio alla carriera»
Parallelo con Bertolucci: «Lui premiato a Cannes Abbiamo seguito vie simili Ci legano affetto e stima»
Marco Bellocchio sorride. Il Leone d’oro che gli verrà assegnato durante la prossima Mostra di Venezia, su proposta del direttore Marco Muller, in accordo con il CdA della Biennale, lo fa felice per tanti, diversi motivi. Il primo non riguarda se stesso, e già questo basterebbe a descriverne la personalità: «Mi piace la coincidenza, forse laterale, con il fatto che Bertolucci stia per ricevere a Cannes la Palma alla carriera. Ci siamo sempre mossi su due linee parallele, e a Bernardo mi legano affetto, amicizia e grande stima». La storia tra Bellocchio e la rassegna veneziana inizia nel 1965 e si apre con un rifiuto: «Non vollero I pugni in tasca , il direttore era Chiarini, e così il film andò al festival di Locarno. Poi ci fu una specie di recupero, 2 anni dopo presero La Cina è vicina e lo premiarono, forse per ricompensarmi di quel primo no». Da allora, senza mai fare un passo indietro, Marco Bellocchio ha conservato intatto il suo stile di vita e di pensiero: «Ho sbagliato tante volte, ma ho sempre continuato a seguire quello che pensavo».
Un credo che lo ha reso autore innovativo, dissacrante, mai conformista, mai accomodante: «Seguire il cinema di Marco Bellocchio - scrive Muller nella motivazione del Leone porta ogni volta verso altre destinazioni da quelle che ci sembrava di aver raggiunto e scoperto. Camminatore instancabile, traghettatore di idee, esploratore del confine instabile tra se stesso, il cinema, e la storia, ha utilizzato come mappa per orientarsi il mondo che comincia oltre i confini della realtà visibile.... E così ha trovato i modi più vitali e giusti per raccontre l’urgenza di saperi, individuali, collettivi, indeboliti, o svaniti».
La cerimonia veneziana sarà arricchita dalla presentazione di una nuova versione del film Nel nome del padre (1971), ambientato in un collegio cattolico. Anche stavolta l’operazione è spiazzante. Nei restauri, di norma, si aggiungono brani tagliati, sequenze sacrificate, qui accade l’esatto contrario. Dando prova di rara capacità autocritica, Bellocchio ha sforbiciato la vecchia pellicola che durava 105 minuti e ora ne dura 90: «Si, in totale controtendenza, ho deciso di alleggerire il film. Mi piace l’idea di ripresentarlo in una forma che abbia più respiro, con immagini alleggerite, senza quella pesantezza ideologica che le schiacciava, le soffocava... Allora immaginare liberamente era inconcepibile, molta cultura, figlia di quegli anni, magari irrisa, in quest’ultima versione è stata almeno contenuta a favore della storia, dei personaggi, degli affetti più semplici e diretti». Mentre riceve il Leone carriera, Bellocchio fa autocritica, anche questo dice di tutto di lui: «....Evidentemente ancora in quegli anni mi sentivo in obbligo di non tradire una sinistra rivoluzionaria in cui avevo brevemente militato... Liberare le immagini è stato privilegiare sempre quanto di lieve, di caldo, di paradossale, di surreale, di crudele, anche, senz’essere gratuitamente sadico, di sarcastico, di irridente l’ipocrisia delle istituzioni...». Nel nome del padre , conclude l’autore, non è stato nè addolcito nè semplificato, «diciamo solo che in questa versione definitiva fa pensare un po’ meno a Brecht, e un po’ più a Vigo».
Adesso Bellocchio pensa al futuro, al progetto di Italia mia , che ha incontrato difficoltà produttive, ma anche ad altre cose: «Se non riusciamo a fare quel film, ne faremo un altro. Forse, con tutto quello che sta succedendo oggi nel nostro Paese, Italia mia andrebbe ancor di più metaforizzato, trasfigurato». Il Leone è un ulteriore stimolo ad andare avanti: «E’ bello ricevere un premio adesso, in piena attività, in un periodo, anzi, di particolare vivacità».
Corriere della Sera 9.5.11
«Leone d’oro ma inseguo il nuovo film»
Bellocchio: più difficile lavorare anche se ho abbandonato le vecchie ideologie»
di Giuseppina Manin
MILANO — «A 71 anni i premi fanno bene» , assicura Marco Bellocchio. Forse fanno bene sempre. «Forse. I premi servono, anche quelli che non si ricevono, per corroborare una certa resistenza ad andare avanti. Alla mia età anche di più» . Ben venga quindi questo Leone d’oro alla carriera che la Mostra del Cinema di Venezia gli consegnerà a settembre. Un riconoscimento massimo, destinato alle grandi personalità. Un albo d’oro che comprende registi come Chaplin e Fellini, Bergman, Coppola, Eastwood, Tim Burton... Tra gli italiani incoronati di recente, Bernardo Bertolucci ed Ermanno Olmi. «Una buona compagnia, niente da ridire» , scherza Bellocchio. Leone alla carriera dunque. Il premio dei premi. Quasi un risarcimento per un Leone d’oro mancato... Buongiorno notte, presentato nel 2003, sembrava in predicato ma vinse solo un premio speciale. «Mai l’oro. Tanto argento, sì... E’ il mio destino» , sospira. D’argento era il Leone che vinse la prima volta al Lido nel 1967, quando a 28 anni sbarcò con La Cina è vicina, il suo secondo lungometraggio. «Il primo, I pugni in tasca, l’avevano rifiutato e lo presentai a Locarno» . Andò meglio con la Cina. «La giuria presieduta da Moravia lo premiò pari merito con Godard . La mia Cina e la sua Chinoise incoronate insieme» . Chissà che emozione. «Lì per lì mica tanto... Me ne sono reso conto molto dopo. Era la vigilia del ’ 68, i premi stavano andando fuori moda, come tutto il resto. Difatti subito dopo, sbagliando clamorosamente, rinnegai anche la mia identità di regista. Una professione "borghese"per chi come me aveva scelto la militanza maoista» . Una parentesi rivoluzionaria, breve e intensa. «Poi però tornai al cinema, a una ricerca più personale e meno politica. Nel 1971 girai Nel nome del padre» . Che andò a Venezia? «Sì, ma al controfestival di "sinistra", nato in alternativa a quello istituzionale. E poiché il produttore Cristaldi non era d’accordo, trafugammo la copia del film e la presentammo a sua insaputa nella rassegna indipendente. Cristaldi la prese male e ci denunciò» . Proprio quel film, sovversivo della trinità famiglia-stato-chiesa, tornerà sugli schermi veneziani, stavolta ufficialissimi della Mostra, in una nuova versione. «Più volte negli ultimi 40 anni mi era venuto in mente che il film non avesse trovato la sua forma definitiva -svela Bellocchio -. L’idea di un dvd, l’anno scorso, mi ha convinto a rimetterci le mani. Di sfrondare quella storia di una certa pesantezza ideologica che allora sembrava necessaria per non passare per politicamente ambigui» . Così, anziché rimpinguare il film di «tagli» , come di solito si usa, Bellocchio l’ha sfrondato di un quarto d’ora: 90 minuti contro i 105 dell’originale. «Ho sfrondato a favore della storia, che peraltro non risulta nè meno violenta nè addolcita. Ho solo liberato le immagini. Questa nuova versione "redux"corrisponde di più a quello che sono oggi» , assicura. E com’è oggi Bellocchio? «Un uomo più libero. L’ideologia intrappola l’artista, lo fa entrare in conflitto con se stesso. La fede incondizionata in un’utopia, religiosa o politica, acceca. Dopo quella militanza sono subentrate tante altre esperienze. C’è stato il lungo periodo della psicoanalisi... Oggi sono più agnostico, mi permetto di seguire la mia imaginazione, di compiere scelte svincolate da tutto» . A proposito di scelte, quale sarà la prossima? «Da un lato vorrei occuparmi della Monica di Bobbio, un progetto legato al mio luogo natale, al laboratorio "Fare Cinema"da cui è uscito anche Sorelle Mai. Dall’altro sto pensando a un film più complesso, sull’Italia di oggi. Non è facile in un momento in cui lo stato ha deciso di non partecipare più alle produzioni, le tv, Rai e Mediaset, sono più che prudenti, i privati temono di perdere i loro soldi. C’è l’accordo con un produttore, Riccardo Tozzi, ma il film è ancora da definire. Il mercato sembra sensibile solo alla commedia, un genere che non è mio. Piuttosto penso a una farsa. Che però richiede cattiveria. Non so quanto sia possibile nell’Italia di oggi» .
Repubblica 9.5.11
Bellocchio, Leone d´oro alla carriera "Un premio alla mia libertà di pensiero"
di Silvia Fumarola
ROMA. «Camminatore instancabile, traghettatore di idee, esploratore del confine instabile tra se stesso, il cinema e la storia»: così il direttore della Mostra di Venezia Marco Muller definisce Marco Bellocchio che a settembre riceverà il Leone d´oro alla carriera. «I premi servono, anche quelli che non si ricevono» commenta il regista «E poi a 71 anni fanno bene». Arrivano le congratulazioni del ministro della Cultura Giancarlo Galan. «L´altro ministro era una specie di autoflagellante che quasi si dispiaceva» ironizza Bellocchio «Galan mi sembra molto pratico. Non posso che ringraziare Muller e il Consiglio della Biennale».
Regista di I pugni in tasca, L´ora di religione, Buongiorno notte fino a Vincere e al suo film più "familiare" Sorelle mai, Bellocchio in mezzo secolo di cinema ha esplorato politica e sentimenti. «Il Leone entra in una lunga carriera ancora piena di progetti, non è una medaglia di pensionamento. Mi sembra il riconoscimento alla scelta di aver sempre messo al primo posto le idee in cui credo». Venezia premia la sua carriera, Cannes quella di Bertolucci. «È una strana coincidenza, è vero. A Bernardo mi sono riavvicinato e gli voglio bene. Sono premi alla carriera che scandiscono due vite». Riflette a voce alta sullo strano destino dei film: «L´ultimo, Sorelle mai è amatissimo e compendia tutta la mia vita. Se pensa che I pugni in tasca fu rifiutato da Venezia ma vinse a Locarno nel 65.... Poi tornai nel 67 alla Mostra con La Cina è vicina che ottenne il premio speciale della giuria, il presidente era Moravia...». Vincere non ha avuto fortuna Cannes ma ha trionfato ai David. «I premi dipendono in gran misura dalle giurie, non sono mai stato favorito da nessuno. Il nastro bianco, ad esempio, era un bellissimo film che meritava la Palma, ma la presidente della giuria, la Huppert, aveva lavorato con Haneke. Io ho avuto Asia Argento che non è mai stata mia attrice, e penso non abbia capito nulla del mio film. Fa parte del rischio di partecipare a un concorso».
In occasione del Leone alla carriera porterà a Venezia la nuova versione del suo film del 71 Nel nome del padre. «Di solito quando viene riportato un film si ripristinano tagli della censura o del perfido produttore. Questa invece» racconta Bellocchio «è una versione più corta di un quarto d´ora, quello era un film ideologico in modo soffocante. Nel 71 ero fuori della politica, ma essere di sinistra creava al regista conflitti molto forti. Quando immaginavi qualcosa ti chiedevi: va nella giusta direzione o può essere reazionaria? Restavo un artista che non voleva tradire, se non a una classe, a un´idea. Oggi ho sempre le mie idee, ma mi sento più libero e diffido di certe conflittualità moralistiche. Sarò romantico, ma un artista deve difendere la libertà delle proprie idee: citando Shakespeare "La coscienza ci rende codardi" come dice Amleto. Vincere era una rappresentazione libera». Che pensa del duello Sorrentino-Moretti a Cannes? «Preferirei astenermi».
Corriere della Sera 9.5.11
Quell’istinto indelebile di umanità nella notte di Lampedusa
dI Isabella Bossi Fedrigotti
Spesso votano Lega, non raramente si uniscono al coro di chi grida «fuori gli immigrati» , ma la pietà nei confronti di questi ultimi poi, un po’ a sorpresa, dopotutto prevale, come fosse un istinto di umanità insopprimibile nonostante sia stato fatto e detto molto, negli ultimi anni, per avallare i peggiori sentimenti di uomini contro uomini. Succede a nord, nelle regioni a più fitta densità leghista, dove poi paradossalmente gli immigrati risultano meglio integrati che altrove, e succede a sud dove gli sbarchi si succedono in continuazione, minacciando seriamente di compromettere la stagione turistica, ma dove nell’emergenza, per salvare uno che sta per annegare — anche nel caso che sia nero— si buttano in acqua non soltanto sommozzatori di esercito, carabinieri e polizia ma anche cittadini qualunque, magari perfino alcuni tra quelli che in tv avevano sbraitato la loro rabbia contro i boat people. In questo modo ne hanno salvati cinquecento l’altra notte a Lampedusa, neoarrivati finiti in acqua a poca distanza da riva, bambini, uomini e donne, molte delle quali incinte. Tra i salvatori non solo forze dell’ordine e volontari, ma anche lampedusani senza divisa né targa accorsi nella notte; perfino alcuni giornalisti— segnalano le cronache— motivo di soddisfazione per la categoria di solito non particolarmente amata. È probabile che nessuno tra i soccorritori abbia rischiato la vita bensì, al massimo, un vestito bagnato; però tra le tante occasioni di costernazione cui l’attualità quotidianamente costringe, un poco consola sapere che quei cinquecento immigrati finiti in acqua e inmaggioranza incapaci di nuotare, in acqua sarebbero rimasti se non fosse stato per quell’istinto di correre in aiuto di esseri umani in pericolo che nel cuore della notte ha svegliato e fatto affrettare verso la riva un gran numero di altri esseri umani. E consola anche l’idea che quei naufraghi, per certo ormai informati del fatto che nessuno di qua dal mare li aspetta a braccia aperte, devono aver pensato, alla vista dei tanti accorsi a salvarli, di essere dopotutto approdati in una terra dove speranza è ancora permessa.
l’Unità 9.5.11
I morti e la giustizia
Se Confindustria segue Berlusconi contro i giudici
Gli applausi della platea e le parole di Marcegaglia rappresentano il desiderio di impunità, la convinzione degli interessi superiori dell’impresa. Ma in realtà sono il segno di arroganza e di grande povertà culturale
di Rinaldo Gianola
L’altro ieri mentre Silvio Berlusconi arringava i suoi al Palasharp di Milano sostenendo che certi «pm sono un cancro da estirpare», a Bergamo la platea di seimila imprenditori convocati da Emma Marcegaglia tributava un convinto applauso a Harald Espenhahn, il top manager della ThyssenKrupp condannato a 16 anni per la strage della fabbrica di corso Regina Margherita a Torino dove persero la vita sette operai. La coincidenza è probabilmente solo fortuita, forse non c’è relazione tra le parole di Berlusconi e gli applausi degli industriali, non vogliamo nemmeno sospettare che il presidente Marcegaglia convivida i giudizi del premier sulla magistraura italiana.
Eppure quanto è avvenuto a Bergamo, in un incontro sapientemente organizzato dai vertici di Confindustria (l’amministratore delegato della ThyssenKrupp non passava di lì per caso...), non può esser derubricato come un semplice tributo di «umana solidarietà» da parte di migliaia di industriali a un manager condannato per omicidio volontario da un tribunale italiano dopo un regolare processo che seguiva un’inchiesta precisa e approfondita. La solidarietà è comprensibile e la giustizia offre a tutti gli imputati la possibilità e la speranza di veder corretti i giudizi di primo grado. Il manager della ThyssenKrupp può difendere le sue ragioni nel processo di appello e puntare a un ribaltamento della sentenza ritenuta ingiusta. Si vedrà.
Però, in attesa che la giustizia faccia il suo corso, non si può far finta di niente su quanto è successo alle Assise confindustriali. Quello di Bergamo non è stato un incidente. Quello che allarma non è solo l’applauso convinto al manager condannato, che fa trasparire un desiderio di impunità e di prevalenza degli interessi dell’impresa su tutto il resto, ma sono le parole del presidente Marcegaglia che ha giustificato quella manifestazione di vicinanza sostenendo che «dalle Assise c’è stato un grande applauso all’amministratore delegato di Thyssen perchè la condanna a 16 anni e mezzo per omicidio volontario rappresenta un unicum in Europa. Se dovesse prevalere questo allontanerebbe gli investimenti esteri dall’Italia».
Che dire? Come commentare le parole del leader degli imprenditori privati che richiama le stesse argomentazioni di Berlusconi sulla magistratura che sarebbe responsabile di allontanare gli investitori stranieri? Ma si rende conto la signora Marcegaglia di cosa sta dicendo? La sentenza di un tribunale italiano contro i responsabili di una fabbrica di una multinazionale in cui sono arsi vivi sette operai sarebbe la causa dello scarso appeal del nostro tessuto economico. E allora cosa dovremmo dire di Calisto Tanzi, che finanziava le Assise di Parma della Confindustria, del crac Cirio, del Banco Ambrosiano, delle performance di certi gruppi privati come Ferruzzi, Montedison, Ligresti, delle schedature degli operai alla Fiat, dei 3000 morti della Eternit di Casale Monferrato, dello scippo della Mondadori da parte di Berlusconi, della commistione indebita tra politica, pubblica amministrazione e imprese? Episodi di una lunga storia che il presidente Marcegaglia avrà avuto modo di conoscere sui giornali e sui libri e che certo non si possono definire come fattori di attrazione di capitali stranieri.
L’applauso di Bergamo e la giustificazione di Emma Marcegaglia sono un segnale preoccupante, testimoniano che, al di là del merito e delle ragioni della sentenza su una tragedia che ha segnato la vita di una comunità intera, c’è qualcuno nella classe dirigente, o che si ritiene tale, poco disponibile alle regole, alla giustizia, al riconoscimento di interessi generali superiori a quelli dell’impresa, capace di difendere l’etica e la morale solo in ridondanti e inutili convegni in riva al mare. E per questo che Confindustria, proprio come Berlusconi, vorrebbe cancellare l’articolo 41 della nostra bella Costituzione.
Le parole di Emma Marcegaglia e gli applausi di Bergamo sono, infine, il segno di una profonda insensibilità, di una grande povertà culturale, di un’arroganza tipica di chi è abituato a dare ordini e a esercitare un potere incontrastato. Nessuno di loro ha letto gli atti dell’inchiesta e la sentenza di primo grado della strage di Torino. Alla signora Marcegaglia preoccupata per gli investimenti esteri in Italia vorremmo suggerire di leggere qualche passo: «Non è un caso che i lavoratori siano morti a Torino, non potevano che morire lì in uno stabilimento che rientrava nella categoria di industrie ad alto rischio ma sprovvisto di certificato antincendio, in stato di grave e crescente insicurezza. (...) Harald Espenhanh aveva decretato la morte dello stabilimento di Torino e aveva abbandonato lo stabilimento e gli operai a se stessi». Ora applaudite, signori della Confindustria, applaudite.
l’Unità 9.5.11
Ogni popolo dovrebbe vivere sulla sua terra
Moni Ovadia si racconta «Prima o poi scoppierà la pace e allora...»
Anticipiamo le prime pagine del libro-intervista di Moni Ovadia, «Il popolo dell’esilio» (Editori Riuniti), dove l’attore parla della questione mediorientale con voce ironica e commossa, intrecciando presente e passato...
Io sono cresciuto in un momento in cui l’ebraismo era molto diverso da quello attuale. L’ebraismo del dopoguerra era davvero differente. Naturalmente per la grande maggioranza delle famiglie ebraiche, nell’immediato dopoguerra, Israele aveva un valore immenso: bisogna considerare che gli ebrei sopravvissuti erano appena usciti dal più tragico evento della loro travagliata storia: la Endlösung, il piano di sterminio totale dell’intero popolo ebraico fino all’ultimo embrione.
Io, nel tempo della Shoà, non ero ancora nato, essendo dell’aprile 1946. I miei genitori e mio fratello maggiore, Samuil, loro sì, vissero in quella temperie. Si trovavano in Bulgaria. In quella terra gli ebrei sono stati salvati dal popolo bulgaro. Per essere precisi si salvarono i quarantottomila ebrei della Bulgaria dell’interno, la Bulgaria vera e propria, fra questi i miei familiari. I bulgari nel corso della guerra balcanica e della Prima Guerra mondiale avevano perso alcuni territori, la Dobrugia, parte della Tracia e la Macedonia, e aspiravano a recuperarli. La Germania nazista sosteneva le aspirazioni dei bulgari i quali, per queste ragioni e in parte per timore della potenza tedesca, passarono da una neutralità disponibile verso i nazisti ad un’alleanza vera e propria, che nei territori esterni portò l’esercito bulgaro a collaborare nel rastrellamento dei circa dodicimila ebrei che in quelle aree furono deportati e finirono quasi tutti annientati. Ma, come dicevo, i quarantottomila ebrei dell’interno furono salvati grazie all’azione determinata di Dimitâr Pešev, vicepresidente del parlamento, un ultraconservatore favorevole all’alleanza con la Germania nazista, ma che si oppose con tutte le sue forze alla deportazione degli ebrei. Decisiva fu anche l’opposizione della Chiesa ortodossa guidata dall’eroico metropolita Stefan, che in occasione della più solenne festività bulgara, il giorno dei santi Cirillo e Metodio, arrivò a lanciare in pubblico, di fronte a centocinquantamila persone, un anatema contro i nazisti, minacciandoli di irreparabili conseguenze se avessero osato alzare un dito contro i cittadini ebrei di Bulgaria.
Ovviamente la Bulgaria ha avuto anche un importante movimento di resistenza antifascista. Io, proprio di recente, ho incontrato Angel Wagenstein, ebreo bulgaro di Plovdiv, come me. Angel è uomo di cinema, sceneggiatore, documentarista e scrittore. (...) Angel Wagenstein è stato un partigiano comunista, ha combattuto nella resistenza antifascista. È stato arrestato dai nazifascisti e condannato a morte in un processo farsa. Alla lettura della sentenza Angel è scoppiato a ridere in faccia ai suoi aguzzini. È stato rinchiuso in una minuscola cella della morte insieme a otto altri compagni, anch’essi condannati a morte. In quella cella ha trascorso ottantasette giorni e ha passato gran parte della detenzione raccontando storielle ebraiche con cui provocava continui scoppi di risa nei suoi compagni, sconcerto e rabbia negli sbirri. Con lo humour ebraico ha protetto la sua salute mentale e quella di chi condivideva con lui quella dura esperienza. Nel frattempo l’Armata Rossa, dopo la vittoria di Stalingrado sui nazisti, avanzava travolgente e veniva a liberarlo. Quando ci siamo incontrati a Milano per presentare il suo libro ci siamo immediatamente riconosciuti come due vecchi amici, abbiamo brevemente chiacchierato in bulgaro e in russo, poi siamo passati al francese per condividere con l’editore il piacere di quell’incontro magico.
Repubblica 9.5.11
Scuola, prof verso il boicottaggio "Quei test un´inutile schedatura"
Domani al via i quiz di valutazione in 100mila classi
Cresce la contestazione contro il sistema Invalsi: "Una violazione della privacy dei ragazzi". Iniziative di protesta anche di studenti e genitori
di Salvo Intravaia
Al via tra le polemiche le prove Invalsi 2011. Da domani mattina, per tre giorni, oltre due milioni di bambini e studenti italiani saranno chiamati a cimentarsi con i questionari di Lettura e Matematica predisposti dall´Invalsi: l´Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione. L´obiettivo è quello di saggiare il livello di preparazione degli alunni italiani in due aree scandagliate anche dai test Ocse-Pisa che ci vedono tristemente nelle zone basse della classifica internazionale. Ma su questa tornata di Rilevazione degli apprendimenti incombe la protesta degli insegnanti e di interi collegi dei docenti. Quest´anno, anche presidi, genitori e studenti mostrano di non gradire troppo il "censimento" che passerà in rassegna le competenze in Lettura e Matematica dei bambini delle seconde e quinte elementari, dei ragazzini delle prime medie e, per la prima volta, degli studenti del secondo anno delle scuole superiori: in totale 2 milioni di alunni. E alla fine potrebbero mancare all´appello parecchie delle 100 mila classi italiane previste dall´indagine. Uno scontro di quelli duri che ha richiesto l´intervento della ministra dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, che qualche giorno fa, nel corso di una presentazione, ha fatto capire che non intende fermarsi. «Dall´anno prossimo - rilancia - potremo applicare il test Invalsi anche all´esame di maturità».
Per comprendere i motivi di questa levata di scudi, lanciata dai Cobas un paio di mesi fa, basta leggere uno dei tanti volantini che si passano i docenti italiani in questi giorni. In dodici punti i comitati di base della scuola spiegano perché bisognerebbe dire No alle prove Invalsi, di cui mettono in discussione perfino la «scientificità» e la «validità statistica». «Sono la premessa - spiega Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas - alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti, esasperano la competizione e non servono neppure a migliorare la qualità della scuola». Inoltre, «le prove non sono affatto anonime e permetteranno una tracciabilità delle performance dai 7 anni in su: di fatto una schedatura delle competenze di massa e prolungata nel tempo». Tutte motivazioni che hanno convinto migliaia di insegnanti, visto che i collegi dei docenti che hanno deliberato di boicottare le prove sono parecchi.
Del resto, l´impresa non era difficile. Da mesi si discute sulla obbligatorietà o meno per i docenti di partecipare alla somministrazione e alla successiva correzione dei questionari: mansione che non rientra negli obblighi contrattuali dei docenti. Anche un gruppo di presidi - Giancarlo Della Corte e Gian Pietro Demurtas, entrambi di Cagliari, Roberto Cogoni di Oristano e Renata Puleo di Roma - hanno deciso di rompere il ghiaccio, inviando una lettera-appello ai colleghi perché «si astengano da iniziative unilaterali che non tengano in conto della complessità della "macchina scuola", a scapito di un dibattito serio e condiviso». Insomma, evitino di imporre le prove ai docenti. Anche gli studenti promettono battaglia. Nella Capitale, il gruppo studentesco Senzatregua, cui aderiscono diversi licei della città, boicotterà le prove «disertandole o consegnando in bianco».
Corriere della Sera 9.5.11
Saturno e Mercurio nell’ultimo Scalfari
di Pierluigi Battista
La scrittura dello Scalfari giornalista e commentatore è solitamente assertiva e perentoria. Quella dello Scalfari che si cimenta con le domande ultime (o prime) del vivere umano è invece esitante, spiraliforme, refrattaria alla linearità di risposte conclusive troppo drastiche. Leggendo Scuote l’anima mia Eros (pp. 130, € 17), il libro appena pubblicato da Einaudi che nel titolo riprende un verso di Saffo destinato a riaffiorare nelle nostre reminiscenze scolastiche, si ha la fondata impressione che a Eugenio Scalfari non dispiaccia questa constatazione. In fondo è proprio su questa esitazione che, secondo Scalfari, si annida il fascino triste dei brani al pianoforte di Chopin, la «prevalenza dei semitoni» , appunto l’hesitation, la malinconia, la «fantasia della vita che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto» , la strada scelta a costo di «abbandonare le altre» e alimentare il «rimpianto di non averle percorse» . Il rimpianto: ecco il sentimento decisivo che pervade e motiva queste pagine. Il ricordo di un bivio imboccato escludendo l’altra via alternativa, o le molteplici vie alternative, quelle lasciate alle spalle. Per questo Scalfari rievoca una figura centrale della sua adolescenza, l’amico più assiduo della «stagione in cui si forma la mente» , dell’adolescenza in cui il viaggio della vita è appena cominciato: Italo Calvino. È nell’incontro con Calvino che si riflette la radice di un dualismo fatale, e centrale nel libro di Scalfari. Il dualismo di Calvino si riverberava piuttosto nello scontro tra il temperamento influenzato da Saturno, «melanconico, contemplativo, solitario» , e quello influenzato da Mercurio, «portato agli scambi, ai commerci e alla destrezza» . Diceva Calvino di sé: «Sono un saturnino che sogna d’essere mercuriale» . E Scalfari, simmetricamente e di rimando: «Sono stato un mercuriale che sognava d’essere un saturnino» . Una vita intera spinta da due influenze contrapposte: quella del «mediatore di scambi, di commerci e di conflitti» nello stesso tempo scossa («scuote l’anima mia Eros» ) dal desiderio «di abbandonarmi alla melanconia e alla solitudine» . L’ultimo libro di Scalfari è appunto il compendio di questa compresenza e di questo scontro. Ogni sua pagina è attraversata dal conflitto, o meglio da uno dei tanti conflitti che costellano la vita personale e quella dell’umanità. Da una parte «la caverna degli istinti» , dall’altra la chiarezza della mente. La passione e la ragione. L’esprit de finesse e l’esprit de géométrie. L’apollineo e il dionisiaco. Ma anche l’amore e il potere. Per conciliare principi così diversi corre in soccorso la mitologia, con le sue multiformi figure che abbracciano tutt’intero il registro dell’esperienza umana. Ma per rappresentarli nel loro dramma occorre essere dotati della complessità geniale di William Shakespeare. «Nessuno meglio di lui ha compreso e raccontato la violenza del potere, l’amorosa melanconia, l’allegria e la gagliardia e la giovinezza» , scrive Scalfari, perché nella sua genialità si esprime «una padronanza senza pari della storia, della psicologia, delle passioni, dei vizi, della fragilità, della durezza. Un talento artistico eccezionale. E insieme la capacità di cercare le corde profonde che esprimono il canto, il lamento e l’inno alla gioia» . Per descrivere il conflitto tra il buio degli istinti e delle pulsioni e la misura chiara della mente raziocinante, Scalfari chiama a raccolta i personaggi che affollano il palcoscenico della mitologia classica, ma poi ciò che sul concetto della persona e della sua libertà hanno elaborato il cristianesimo e l’Illuminismo (stavolta, pare di capire, non in una reciproca posizione di antagonismo irriducibile), la poesia che stavolta viene condensata dai versi di Federico García Lorca, il mondo del romanzo e in particolare quello della Recherche proustiana, la pittura, le sinfonie di Beethoven, la musica romantica. E tutto riletto attraverso il prisma di un’esperienza di vita che Scalfari denuda con una certa franca spudoratezza che solo chi è toccato da una vecchiaia felice e densa di affetti, come l’autore rivendica con orgoglio e tenerezza per chi lo circonda di ogni bene, può rappresentare come il tratto emotivo fondamentale del «consuntivo» di una vita. Un «consuntivo» a tappe, o a puntate, che Scalfari snoda da alcuni anni e di cui questo libro rappresenta un passo ulteriore. Non il passo finale, però. Il viaggio scalfariano verso la «caverna degli istinti» mette in luce ogni volta un nuovo contrasto, un nuovo conflitto, un nuovo dualismo. Due anime che battono in un petto, che non bastano gli anni e un’intera esistenza per ricomporre e per portare a unità e sintesi. E se lo Scalfari giornalista modella la sua scrittura per raggiungere conclusioni chiare ed univoche, lo Scalfari che riflette sulla filosofia della vita può solo interrogarsi sull’enigma racchiuso nei versi di Saffo su Eros. E l’incertezza, che nell’universo del giornalismo è un difetto, qui, nella penombra di una biblioteca, diventa un dono.
Corriere della Sera 9.5.11
Il silenzio sui «prestiti» del filosofo viandante
di Pierluigi Battista
Ma insomma, nel suo libro-intervista autobiografico Il viandante della filosofia Umberto Galimberti avrebbe potuto pur dedicare una parola, una parola soltanto al suo modo di scrivere, di riprendere i pensieri altrui, di (non) usare le virgolette regolamentari nelle citazioni, di (non) menzionare le fonti cui generosamente attinge per confezionare libri di grande successo. E nelle sue numerose partecipazioni ai talk show televisivi, impartendo lezioni di etica con l’obbligato disgusto per una contemporaneità volgare e corrotta, il viandante filosofico avrebbe potuto precisare il proprio pensiero sui limiti che dovrebbero necessariamente vincolare la logica dei prestiti culturali, affinché i prestiti non si trasformino in indebite appropriazioni. Avrebbe potuto, ma non ha voluto. Silenzio. Silenzio abissale, profondo, carico di destino. Non che Galimberti avrebbe dovuto sottoporsi all’odioso e umiliante rito dell’autocritica, come pure intimano i suoi più implacabili detrattori, nonché gli innumerevoli pensatori comprensibilmente irritati nel vedere i loro pensieri trasferiti pari pari e senza virgolette sulle pagine di libri firmati da un altro. Ma qualcosa un filosofo giustamente stimato, ricercato per la spietata diagnosi dei mali moderni, apprezzato per le sue sottili indagini nei cavernosi meandri dell’anima umana, dovrebbe pur dire per rispondere ai giornali, in primis Il Giornale e Avvenire, che hanno puntualmente documentato, con puntigliosa e incontrovertibile precisione, una serie impressionante di «prestiti» . Prestiti, che grossolanamente potrebbero definirsi esercizi di «copia-e-incolla» o, più elegantemente, esercizi di immedesimazione mimetica nei concetti e nelle parole altrui. Prestiti molteplici, reiterati e multiformi che sono stati addirittura crudelmente elencati, con inoppugnabili prove e testimonianze raccolte con minuziosa acribia dall’autore Francesco Bucci, in un libro che porta il titolo oltraggioso Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale. E invece, perché il silenzio così ostentato? Forse Galimberti ritiene che siano veniali le accuse di «plagio» che molti autori, tra i quali uno studioso prestigioso come Salvatore Natoli, hanno mosso ai libri firmati dal «viandante della filosofia» ma costruiti con l’assemblaggio di testi partoriti da altri e non riportati, come si dovrebbe, con le apposite virgolette? Si capisce l’imbarazzo, certo. Ed è esteticamente sgradevole l’accanirsi su un intellettuale in difficoltà, stritolato da documentatissime accuse che rischiano di compromettere una reputazione intellettuale costruita nei decenni. Ma chi si impanca a maestro di etica dovrebbe essere in grado di superare difficoltà e imbarazzi. Rispondere umilmente alle domande più feroci e non assumere l’aria di chi ritiene quelle domande un oltraggio al proprio piedistallo. Questo sì, che sarebbe moralmente «superiore» .
Repubblica 9.5.11
Un brano tratto dal nuovo libro di Michela Marzano sui rapporti sentimentali
Perché il vero amore ha bisogno di fedeltà
di Michela Marzano
È una promessa tacita e fragile mai al riparo dalla delusione fondata sulla prossimità amorosa che permette a due individui di trovarsi continuamente
Anticipiamo un brano da "La fedeltà o il vero amore" della Marzano (Il nuovo melangolo, pagg. 160, euro 13)
L'amore è la preferenza esclusiva accordata a un uomo o a una donna rispetto a tutti gli altri, dice una signora su un treno, all´inizio del romanzo di Lev Tolstoj, La sonata a Kreutzer. «Preferenza per quanto tempo? Per un mese? Per due giorni, per mezz´ora?», ironizza Vasja Pozdnysev che ha appena ucciso la moglie. «A lungo, a volte per tutta la vita», risponde allora la donna. Vasja però ha smesso di ascoltarla. La donna parla di qualcosa che, per lui, esiste solo nei romanzi, perché, nel mondo reale, una predilezione del genere dura solo poche ore: «Amare per tutta la vita una donna o un uomo è lo stesso che dire che una stessa candela possa ardere tutta una vita».
Tolstoj è ossessionato dal progressivo disincanto che segna la vita coniugale. A una prima occhiata, La sonata a Kreutzer non non è altro che la confessione di un uomo geloso che uccide la moglie, sospettata, a torto o a ragione, di tradirlo. Il problema, però, per lo scrittore russo, è costituito dall´inferno coniugale al quale nessun uomo riesce a sfuggire: l´illusione romantica porta a credere che esista davvero qualcosa che è possibile condividere con l´altro. Quello che viene chiamato "amore", per Tolstoj, è una forma di entusiasmo irragionevole, un nome utilizzato per nascondere quello che spinge davvero gli uni verso gli altri: il desiderio carnale. Appena si esaurisce, in effetti, niente tiene più legati gli sposi, eccetto l´obbligo.
Fidarsi dell´altro e accettare la differenza, aprirsi e lasciare che le cose accadano, scendere a patti con le ferite del tempo e meravigliarsi ancora e sempre della stessa presenza e degli stessi gesti, esprimere all´altro la propria disponibilità e accoglienza senza obbligarlo a occupare un posto già costruito: tutto questo manca nella coppia formata da Vasja e la moglie. Tolstoj mette in scena un incontro impossibile che si disgrega e va in frantumi, fughe che impediscono ai personaggi di ritrovarsi. Vasja e la moglie non si capiscono. Il tempo peggiora ancora di più la situazione: con il passare degli anni ognuno si trova solo con le proprie recriminazioni. La relazione si cristallizza in uno spazio-tempo carcerario dal quale non riescono a evadere se non con la morte violenta di uno dei due.
La fedeltà è in un certo senso una tacita promessa che si apre all´avvenire ma non pretende di determinarlo, appare in modo discreto, talvolta addirittura impercettibile, non è qualcosa che si trova, che esiste già nella semplice attesa di essere scoperta, ma affiora nella presenza, nel miracolo che si verifica ogni volta che si riesce a essere presso di sé e accanto all´altro. È la prossimità a dare origine alla fedeltà: richiede lo sforzo dell´avvicinamento. Non è infatti possibile all´interno di una relazione cristallizzata e statica, ma là dove la presenza è frutto di un movimento verso sé e verso l´altro: «Essere presenti significa avvicinarsi da un altro luogo o da un´altra situazione. Sono davvero qui solo perché ci sono arrivato e vado da un posto a un altro solo perché sono venuto al mondo e alla luce e quindi non perché ci sono sempre stato» (J. L. Chrétien, Promesses furtives). Chi va verso l´altro ha sempre in sé qualcosa di misterioso, di segreto e di sepolto, arriva con una mancanza che cerca di colmare, con una ricchezza che vuole condividere, viene da un "altrove".
Fragile, perché mai al riparo dalla delusione, la fedeltà si alimenta di questa presenza vulnerabile: al suo interno il vicino e il lontano si mescolano, per suo tramite è possibile avvicinarsi all´altro e lasciarsi avvicinare. Si fonda sulla scelta di una prossimità amorosa che si è portati a ripetere ogni giorno, una presenza forse mancante e mai totale ma che, quando serve, è solida e permette a due individui di trovarsi, continuamente. La ripetizione è dunque il suo fondamento, ma non si tratta della ripetizione meccanica e obbligatoria che porta a fare e rifare sempre gli stessi gesti, a dire e ridire sempre le stesse parole. Il senso della fedeltà risiede in questo: un progetto che si dispiega nello spazio dell´incontro, che rende possibile l´intimità della coppia e si radica nel presente, senza rinchiudersi nel rifiuto del richiamo del futuro per paura del cambiamento.
Repubblica 9.5.11
Da Fellini a Oblomov la dolce vita della pigrizia
di Salman Rushdie
Tra i peccati capitali è ritenuto il peggiore di tutti, il massimo del disonore
Esce il primo numero della rivista "Granta" per l´Italia. Con uno scritto del grande autore dedicato all´accidia
Goncarov scrive un omaggio a una parte che c´è in noi: quella che vuole restare a languire
Eppure esistono cose molto più gravi: per esempio il razzismo che tanti esprimono
Me la immagino come una grottesca figura felliniana, pletorica e
formosa, che quando ride tremola da capo a piedi. La cinepresa si
abbassa su di lei che protende un seno immenso. Ha brutti denti e
capelli neri e unti, raccolti in una crocchia. Se fosse una scultura,
l´artista sarebbe senz´altro il colombiano Fernando Botero. Terrorizza i
ragazzini adolescenti di… diciamo Rimini, o una città simile, ma
insieme inesorabilmente li attira, con il profumo e il seno prorompente.
È lei che li inizia ai misteri della carne e le sue sorelle sono
Cabiria, Volpina e le altre. Spalanca le braccia verso di noi, e siamo
perduti. Nata probabilmente nel XIII secolo, compare a stampa nel 1271,
nella Summa Hostiensis, opera di un certo Enrico Bartolomei vescovo di
Ostia, la città portuale in cui di notte, secoli dopo, la prostituta
Cabiria avrebbe cercato clienti nel film di Fellini.
Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia: ecco, secondo
l´Ostiense, la sequenza che ne decifra il codice genetico. Superbia,
Avaritia, Luxuria, Invidia, Gula, Ira, Accidia: l´acronimo rende Saligia
vivida e palpabile.
Saligia. Tutti e sette i peccati capitali condensati in uno. Nel più
grande e peggiore di tutti, cui va il diritto di chiudere lo spettacolo -
all´ultimo posto, il posto di massimo disonore -, l´Accidia. Altrimenti
detta Acedia o Pigritia, con le sue umili ombre, Tristitia e Anomia,
un´erosione dell´anima. Fellini certamente è il maestro assoluto
dell´accidia inerte. Il protagonista dei suoi film è quasi sempre, in un
modo o nell´altro, un vitellone: un perdigiorno, a volte povero, a
volte benestante, ma sempre uno sperperatore, la cui incarnazione
suprema è il Mastroianni della Dolce vita e di 8½, alienato,
malinconico, alla deriva, passivo, perduto.
Eccolo, il Marcello dagli occhi stanchi, bello e fragile, la sigaretta
in mano e una donna al fianco, una donna che è in procinto di perdere.
Ciondola lungo via Veneto, poi per sudici vicoli e poi ancora nel mondo
della dolce vita, nelle case dei ricchi. Vaga tra feste mosce e
decadenti, sopraffatto dall´inerzia, dall´incapacità di operare una
scelta o di dare un impulso alla propria vita, come per una paralisi
dello spirito. Una stella del cinema ubriaca, pneumaticamente
desiderabile, sguazza accanto a lui nella Fontana di Trevi, e Marcello
prova a riemergere dagli abissi della sua apatia per sedurla, ma
fallisce, cavandone soltanto un (meritato) pugno in faccia dal
fidanzato. Attorno a lui, in salotti e ristoranti, e nella città
notturna battuta dal rapace fotografo Paparazzo, vagano gli abitanti del
suo mondo senza emozioni, annoiate bellezze con espressioni vitree e
perfette acconciature. Queste incarnazioni di Accidia non sono
semplicemente dannate. Sono già all´inferno, a ballare con Saligia tra
le fiamme (...).
L´ESITAZIONE DI ELSINORE
È l´accidia che paralizza Amleto: una disperata apatia, la depressione
patologica che annichilisce la volontà e può essere indotta da un trauma
esistenziale. Come scoprire che tuo zio ha ucciso tuo padre, e tua
madre dopo lo ha sposato.
E se l´accidia fosse da intendersi come un peccato, allora forse ne
seguirebbe che Amleto, il peccatore, ha meritato di morire. Ma non è
questa la sensazione che Shakespeare desta in noi. Da scrittore non
troppo devoto quale era, rifiuta la condanna religiosa dei suoi
personaggi e, anzi, ci consegna una tragedia molto terrena.
ACCIDIA: I PRO E I CONTRO
La letteratura, in genere, non è stata gentile nei riguardi dell´accidia
(...). In Montaigne e Conrad, così come in Dante e Catullo, l´accidia è
invariabilmente condannabile. L´azione è il bene, l´accidia è il male.
Questo è tutto. E arriviamo a De Quincey. Lui, l´inglese mangiatore
d´oppio, del tutto a suo agio nella sfrontata indolenza in cui
galleggia, che ci descrive il consumo d´oppio e le allucinazioni da esso
provocate, dichiarandole «utili e istruttive». De Quincey si definisce
con modestia «filosofo», nonché «creatura intellettuale», e non ammette
nessuna colpa. Racconta i sogni causati dall´oppio, abbastanza belli e
fantasmagorici da appagare anche il gusto più goticheggiante. Però poi
quando parla del subcontinente indiano, mia terra natale, dice che è
«crudele», che le sue culture gli fanno venire i «brividi», che «in
quelle regioni l´uomo è una gramigna». E qui a parlare non è la droga,
ma la persona. «Sono terrorizzato dai modi di vivere e di comportarsi e
dalla barriera di totale avversione ed estraneità alzata fra noi da
sentimenti troppo profondi perché io possa analizzarli. Vivrei meglio
tra i pazzi o gli animali selvaggi» ci dice De Quincey – cioè, dice a
me. Dopo questa confessione, i discorsi sulle sue allucinazioni mi
sembrano stranamente poco interessanti malgrado tutte le scimmie, i
pappagalli e le divinità che vi compaiono, per non parlare del
coccodrillo famelico che lo perseguita, simbolo di tutto ciò che trova
ripugnante in Oriente. Il problema non sta nell´oppio, ma in chi lo
mangia. Come dice il vecchio marinaio Singleton nel Negro del Narciso,
«le navi vanno bene. Ma non gli uomini che ci stanno sopra!». Ci sono
peccati più gravi di quelli capitali. Il razzismo è il primo della
lista.
OBLOMOVSCINA
Di certo l´argomento migliore, più forte, più divertente, più profondo a
favore dell´accidia, senza il quale nessuna indagine sul tema sarebbe
completa, può riassumersi in un´unica parola: Oblomov.
Oblomov, il più accidioso della pur indolentissima nobiltà terriera
russa dell´Ottocento, e l´eroe - sì, l´eroe! - dell´omonimo romanzo di
Goncarov, è l´esatto contrario dell´insonne Marcel di Proust. Se
infatti, come è noto, per un lungo periodo Marcel andò a letto presto,
poi però prima di riuscire a prendere sonno gli occorrevano un tempo
spropositato e decine di pagine soporifere e di interminabili frasi.
Oblomov invece sta a letto tutto il giorno, a volte sveglio, a volte
sonnecchiando; gli occorrono centocinquanta pagine non per
addormentarsi, bensì per alzarsi. E quando poi è costretto a farlo, non è
avvolto dalle cadenze carezzevoli della prosa proustiana; non è
contemplativo, ma arrabbiato, e il perché è abbastanza chiaro. È colpa
di Zachàr, il suo servitore che ha fatto spazientire quel padrone
orizzontale; la rabbia di Oblomov nei suoi confronti si esprime in frasi
secche e dirette, in urla, e in un confuso abbozzo di castigo
corporale. Ovviamente noi possiamo intendere l´accidia di Oblomov, la
sua oblomovscina, la sua oblomovite, il suo oblomovismo, come il
prodotto di un´infanzia viziata e molle, o una metafora della decadenza e
del torpore della classe che rappresenta - e ci sarebbe del vero - ma
un´esegesi così limitata non centra il punto: perché in ognuno di noi
vive un piccolo Oblomov che implora di essere lasciato languire per il
resto della vita, affrancato da preoccupazioni e responsabilità, libero
di essere - sì! - un felice parassita. Oblomov sa che i suoi lontani
possedimenti non stanno prosperando, che le loro risorse finanziarie
meriterebbero più attenzione e che lui dovrebbe, letteralmente,
viaggiare mille miglia per affrontare i problemi. E invece no! Come
Bartleby, il suo predecessore americano, preferisce di no. Non solo:
benché sia innamorato, e la fanciulla – Olga – sia deliziosa, e benché
voglia davvero sposarla, rimanda la decisione finché non è lei a
decidere rompendo il fidanzamento. Lui è l´Amleto procrastinatore, è
Bartleby, ed è anche tutti noi. Guardiamo lo stato in cui versa il mondo
e vorremmo poterci nascondere. Oblomov si nasconde per noi. Guardiamo
l´altro sesso e ne veniamo sopraffatti. Oblomov si nasconde al nostro
posto. Sappiamo di avere dei problemi e vorremmo che fossero lontani
mille miglia. Oblomov li spedisce laggiù, si rifiuta di affrontarli:
proprio come noi non possiamo fare, ma ci piacerebbe. L´oblomovismo
giustifica e legittima la nostra accidia.
LINDA EVANGELISTA
Linda è una supermodella. No, Linda è la supermodella. Ecco le
principali curiosità su di lei: è nota nell´industria della moda come il
Camaleonte, ma non è un rettile; si diceva che fosse la fondatrice
della Supermodel Union, ma una simile associazione non esiste; nel 1990
disse a un giornalista di «Vogue», Jonathan Van Meter: «Noi
[supermodelle] non ci svegliamo neppure per meno di 10.000 dollari al
giorno». Frase spesso riportata in modo errato: «Non mi alzo neanche dal
letto per meno di 10.000 dollari al giorno»; in entrambe le versioni di
questa frase si combinano tre dei sette vizi capitali – Superbia,
Avarizia e Accidia – mentre una normale reazione a essa, e in verità
alla stessa signora Evangelista, potrebbe combinare elementi di
Lussuria, Invidia e Ira. Solo la Gola è assente. Niente male!
OBLOMOV E LINDA EVANGELISTA
Me li immagino in letti separati ma attigui, in una camera rococò, piena
di luce e profumata di fiori. Oblomov, inquieto, cerca di non leggere i
messaggi sulle sue difficoltà finanziarie che il maggiordomo gli porta.
Linda finge di dormire, in attesa che squilli il telefono con
un´offerta superiore ai 10.000 dollari per potersi alzare. Il telefono
squilla. L´offerta è per Oblomov. 10.000 dollari se accetta di scendere
dal letto. L´offerta è abbastanza alta per consentirgli di liquidare
tutti i debiti e restare felice a pancia all´aria, senza un patema al
mondo.
Lui declina. «Preferirei di no.»Rimangono a letto. Oblomov è soddisfatto
e assonnato. Linda è infelice, agitata, incredula. Ma «il carattere è
destino dell´uomo», come diceva Eraclito, ed entrambi sono in preda alla
terribile sorte di essere loro stessi. Il giorno langue. «Eccoci
sdraiati», dicono silenziosamente, quasi echeggiando Martin Lutero alla
Dieta di Worms. «Non possiamo fare altro.» Non si muovono.Il maggiordomo
Zachàr porta da mangiare su un vassoio d´argento ammaccato. Ma sia
l´uno sia l´altra, per ragioni diverse, sono nella morsa dell´accidia,
del peccato di accidia – Linda perché non ha ricevuto telefonate,
Oblomov malgrado quella che ha ricevuto –, e non mangiano.
© Salman Rushdie, 2009. All rights reserved
© Granta Publications 2009
© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano
Repubblica 9.5.11
Intervista della Roberts al segretario di Stato americano per una
trasmissione di Oprah Winfrey sulle mamme moderne L´attrice: le donne
sentono il peso di dover essere perfette. La Clinton: diventare genitore
cambia inevitabilmente la tua vita
Hillary e Julia "Il nostro segreto tra figli e carriera"
"Io e Bill abbiamo protetto Chelsea dai media, abbiamo creato un modello Ora è diverso"
di Hillary Clinton e Julia Roberts
HILLARY CLINTON. Vorrei dirlo subito: io oggi lavoro duro ma non avrei
mai potuto fare questo lavoro quando Chelsea era piccola perché non
avrei mai potuto mancare alle mie responsabilità per causa sua.
JULIA ROBERTS. Cominciamo col rapporto con sua madre: classe 1919...
CLINTON. E oggi ha 91 anni, vive con noi a Washington ed è una delle
persone che continuano a ispirarmi di più. Cominciò a lavorare a 13 anni
a servizio a casa d´altri e quando diventò madre fu la più bella
benedizione che potesse immaginare: avere una casa propria e crescere i
propri bambini. Che grande. Era una mamma con cui potevi giocare a
baseball o cucire. E comunque ti imprimeva il senso del servizio e della
responsabilità: andare a messa, sentirsi parte di una comunità. Ma
sempre insistendo sul concetto di responsabilità e autosufficienza. Che
ha continuato a guidarmi.
ROBERTS. Una volta, quando era a scuola, a Wellesley, lei chiamò casa:
"Forse non sono abbastanza preparata per poter stare qui". Suo padre
rispose: "Allora torna pure...". Ma sua madre: "Non puoi essere così
arrendevole!". Mi ha ricordato di quando, a 17 anni, anch´io chiamai mia
madre da New York: "Penso che dovrei tornarmene...". E lei: "Eh no: tu
sei lì. E lì adesso rimani!".
CLINTON. Sì, è verissimo. Bisogna perseverare.
ROBERTS. E invece che tipo di mamma è diventata con Chelsea? Ha detto che la sua nascita è stato l´evento più miracoloso...
CLINTON. E il secondo è stato il matrimonio...! Beh, mia figlia è stata
una dei miei migliori insegnanti: ogni domanda e ogni sfida venuta fuori
crescendola mi ha spinto a fare sempre meglio. Anche perché io non
ricordo di aver letto molto quei libri tipo come si diventa mamma ecc.
Ricordo quando era appena un bebè, l´avevo riportata a casa
dall´ospedale e non la smetteva di piangere... Mi sentivo così
sopraffatta. Ricordo di averle detto: guarda, tu non sei mai stata una
bambina prima e io neppure ho mai fatto la mamma. Mi sa che dobbiamo
lavorarci su un bel po´, insieme...
ROBERTS. Lei ha scritto: "Vi capiterà di perdere vostro figlio almeno
una volta nella vita magari per dieci minuti: e vi sembrerà
un´eternità". Ma davvero s´è persa Chelsea?
CLINTON. Oh sì. Può succedere, soprattutto nei grandi magazzini o nei
parchi di divertimento. E ti prende quel panico... Perché sai di esserti
voltata appena per un secondo e tutt´a un tratto: dov´è? Senso di
disperazione totale. E per fortuna non dura molto, se sei fortunato. Ma
ho avuto anche amici i cui i figli si sono fatti male davvero. E davvero
quando senti certe storie pensi come alla fine sia tutta una questione
di fortuna.
ROBERTS. Quando succede scatta anche quel sentimento di colpevolezza. A
proposito: viviamo nell´età in cui tutto dev´essere ok, tutto fatto al
meglio. Cosa risponde a quelle mamme che vivono questo senso di
colpevolezza verso i figli?
CLINTON. È uno di quei discorsi che capitano spesso, perché un sacco di
giovani donne lavorano per me, e anche perché sento tante amiche di mia
figlia. Spesso comincia così: posso continuare a essere io? Posso
continuare a fare tutto? Ormai io sono convinta che quando arrivano i
bambini non puoi più continuare a fare tutto quello che facevi prima.
Devi apportare qualche correzione. Che non è né compromesso né
concessione: è che adesso c´è qualcosa di davvero nuovo e meraviglioso
nella tua vita.
ROBERTS. L´altra cosa di cui parlava era l´equilibrio.
CLINTON. E qui ci vogliono un bel po´ di sforzi. Non è stato facile. E
io e Bill non eravamo in nessun modo preparati a ritrovarci
nell´ambiente in cui ci ritrovammo quando fu eletto presidente. Ma anche
prima, quando era governatore dell´Arkansas, abbiamo sempre cercato di
conservare un po´ di routine, disciplina... Una volta - Chelsea aveva 3
anni - avevamo questo bellissimo salone e una signora si mise al piano e
cominciò a suonare anche se non sapeva farlo. Chiesi: ma che combini? E
lei: Chelsea voleva che suonassi... E io: ricordatelo bene: tu sei
l´adulto e lei la bambina. Ed è lei che deve seguire te.
ROBERTS. È stato difficile prendere la decisione di farla viaggiare con lei quando era la First Lady?
CLINTON. Era lì perché era nostra figlia. Ed era giusto voler
condividere con lei quest´esperienza: il problema era non esporla. E
così - poi è successo ai Bush e oggi agli Obama - credo che abbiamo
creato una sorta di modello, con quella specie di zona protettiva. E
credo che oggi anche per questo ci sia maggiore attenzione dei media
verso i figli dei presidenti.
ROBERTS. È vero che scambiò le sue esperienze di mamma alla Casa Bianca con Jackie Kennedy?
CLINTON. Quando Bill fu eletto, stiamo parlando del ´92, avemmo un paio
di incontri. Era incredibile. Così alla mano. Voglio dire, così bella e
piena di stile e divertente. Parlammo di come crescere i figli in quel
contesto. E mi raccontò naturalmente di come aveva continuato a farlo
anche dopo che il presidente era stato assassinato: e lei cercava di
conservare per loro una via normale. Una volta John stava correndo in
bici al Central Park e i servizi segreti, preoccupatissimi, lo
circondarono. E lei: no, lasciategli fare le sue esperienze... Ma una
volta un altro ragazzino lo buttò giù dalla bicicletta e tutti questi
omoni con la pistola cominciarono a correre intorno. E lei, ancora: ma è
un bambino, lasciate che si comporti da bambino.
ROBERTS. Rimpianti?
CLINTON. Quella volta che mi chiamò - doveva essere il ´93 o il ´94,
prima che si ammalasse - e mi chiese se io e Chelsea volevamo volare a
New York a vedere un balletto, sapeva che a Chelsea piaceva la danza. Ma
io non volevo che saltasse la scuola, mai voluto che passasse come chi
se ne approfittava... Così dissi: non ce la facciamo, facciamo magari in
un weekend. E non accadde mai più.
La Stampa 9.5.11
I nuovi diritti alla prova della democrazia
Ma possiamo aspettarci anche la realizzazione della felicità? Sul libro-dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky
di Gian Enrico Rusconi
Dopo l’impietosa analisi della situazione italiana Il rischio è la fuga utopica
Perché nelle ultime pagine di una lunghissima, complessa analisi della democrazia in Italia e nel mondo, improvvisamente appare il tema La felicità della democrazia , che dà addirittura il titolo al libro appena pubblicato di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Laterza, pp. 244, 15)?
I due autori non sono ingenui. Conoscono benissimo il ruolo orientativo che nella comunicazione - non solo editoriale - possiede il titolo di un libro. Nulla da dire sulla loro diagnosi severa del nostro tempo. Ma c’è una straordinaria sproporzione tra il fluire di un discorso che tocca praticamente tutti gli argomenti di interesse pubblico (dal terrorismo alla bioetica, dal caso Fiat al caso Englaro, dal dibattito su fede e laicità all’immigrazione, dall’Iraq alla Libia ma anche Wikileaks e l’egemonia culturale, il potere carismatico, l’azionismo storico e via discorrendo) e il tema della felicità della democrazia che conclude l’analisi e le dà il titolo.
È curioso che fra tutte le importanti considerazioni sulla democrazia in generale e con puntuali riferimenti all’Italia, che costituiscono la parte più consistente del libro, gli autori alla fine si siano polarizzati in poche dense battute su questo tema. Una inconscia confessione dell’incapacità di governare concettualmente l’enorme problematica sollevata con tanta passione e puntigliosità? Una fuga in avanti vagamente utopica?
Il mio non è affatto un rimprovero, di fronte a tante ricette distribuite ogni giorno sul mercato editoriale. Ma la scelta degli autori mi lascia perplesso. L’abuso del nome della democrazia per una malintesa ricerca ed esibizione di felicità non dovrebbe portare automaticamente a ricercare o restaurare tra esse un rapporto autentico positivo e univoco.
Mauro invece appassionatamente vuole estrarre la felicità dalla democrazia come tale, o meglio dal suo dover essere ordinata, solidale, serena. Nel nostro Paese assistiamo alla doppia patologia della democrazia e della felicità che «è cercata solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il regolamentarismo». A prescindere dal fatto che questa doppia patologia sia legata o no al berlusconismo, ciò che conta è contrapporle il convincimento che «c’è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti e la possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento».
È molto bello questo modo di esprimersi di Mauro, quasi da religione della democrazia - lo dico senza ironia. Ma milioni e milioni di bravi cittadini («i dispersi della democrazia», in un «orizzonte repubblicano che si restringe») si accontenterebbero di molto di meno dalla nostra democrazia. Dopo la impietosa analisi della condizione italiana è naturale sentire il bisogno di un discorso in positivo di ampio respiro. Ma collegare con pathos «democrazia e felicità» non rischia di presentarsi come una fuga utopica, di cui proprio non sentiamo il bisogno?
Zagrebelsky, che non sembra condividere a pieno l’impostazione di Mauro, pur comprendendone lo spirito, cerca di tradurla elegantemente in un altro codice. «La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica invece la felicità era la “vita buona” e la pratica della virtù». Siamo alla «virtù democratica» dunque. Tema scabroso.
Viene in aiuto la promessa di happiness scritta nella Costituzione americana e in generale dell’età dei Lumi. Ma bastano poche riflessioni storiche per misurare l’incolmabile distanza tra quella stagione e quell’ambiente di gentiluomini illuminati, farmer laboriosi, comunità cittadine, e la miseria del nostro tempo.
Forse la felicità non dovrebbe essere nominata in democrazia. So che questa affermazione può apparire sospetta: qualcuno potrebbe scoprirvi un residuo di moralismo vecchia maniera - di quando la felicità sapeva di «peccato». È stato così anche nella cultura del nostro Paese. Ma da quel tempo sono passate ormai tre, quattro generazioni nel nostro Paese, accompagnando la cosiddetta rivoluzione del costume. A un certo punto «la felicità» venne fraintesa con «consumismo», mettendo d’accordo i moralisti cattolici con quelli comunisti. Poi il consumismo si è rivelato un benefico indicatore socio-economico. Oggi la felicità, o meglio la ricerca, l’esibizione della felicità, assume forme così volgari e corrosive da richiedere energiche azioni di contrasto che non devono neppure più chiamarla per nome.
Corriere della Sera 9.5.11
Incertezze pubbliche e cautele. Lo stile di un Paese senza identità
di Ernesto Galli della Loggia
Che cosa possono avere in comune le nozze reali di William e Kate e la folla americana in festa dopo l’annuncio dell’uccisione di Bin Laden? Apparentemente nulla. Ma si dà il caso che sia dell’uno che dell’altro avvenimento abbiamo visto le immagini in televisione, e la televisione semplificherà sì la realtà, come si dice, ma al tempo stesso, attraverso la quantità di cose che la simultaneità alluvionale delle sue immagini ci porta sotto gli occhi, produce anche accostamenti imprevisti, associazioni, suggestioni, che talvolta consentono di cogliere della realtà significati profondi che forse altrimenti si perderebbero. Quale significato comune per noi interessante, dunque, racchiudono le immagini del Royal wedding e quelle, pressoché concomitanti, del giubilo americano? Questo, direi: entrambe ci fanno capire che cosa sono le società democratiche, che cos’è la democrazia là dove— come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, appunto — essa è nata e funziona da un tempo molto più lungo che da noi. Nel caso inglese non si tratta della cerimonia in quanto tale (analoga a tante altre di quel tipo) ma di un suo particolare. Il fatto cioè che tutto il suo corso è stato punteggiato dal canto di inni religiosi.
Ma a cantare— e qui sta il punto— non era solo il coro ufficiale della cattedrale o il clero, bensì la grande massa degli spettatori. Che però, come si sa, non erano spettatori qualsiasi: erano né più né meno che i ranghi compatti della classe dirigente inglese. Ebbene: l’immagine che suggeriva quel canto comune, a cui tutti partecipavano convinti, e di cui tutti sembravano in effetti conoscere le parole (pochissimi erano coloro che le leggevano) era quella di un gruppo sociale straordinariamente compatto e unito nei valori di fondo. È presumibile che anche lì increduli e miscredenti non mancassero, naturalmente, e di sicuro c’erano conservatori e laburisti, ma lo spettacolo offerto testimoniava di qualcosa capace di superare ogni diversità d’idee: e cioè la conoscenza e l’identificazione in una storia divenuta tradizione. Una tradizione costruita a partire da cose ormai spaventosamente fuori moda come Dio e il Re (o la Regina), ma che ancora dura e si mostra a suo modo vitale servendo a dare identità, a tenere insieme, a fornire il necessario sfondo simbolico a questo stare insieme, a dargli un’adeguata consistenza stilistica insegnando ai suoi membri i comportamenti ogni volta adeguati. Per capire quel che significhi tutto ciò basta ricordare lo spettacolo che solitamente offre l’élite italiana (politica ma non solo) allorché è obbligata ad assistere a una qualunque cerimonia pubblica. Nessuna forma, nessuna etichetta, noia trattenuta ma evidentissima sul volto di tutti, nessuno sa che cosa deve fare, come deve muoversi, e se magari ci si trova in chiesa per un funerale di Stato, nessuno, neppure i cattolici, osa aprire bocca in una preghiera; dovunque, infine, molti non si trattengono mai dallo sbirciare gli sms sul cellulare, e tutti, in ogni circostanza, mostrano chiaramente di non vedere l’ora che sia finita per poter tornarsene agli affari propri. Il ritratto perfetto, insomma, di un Paese che fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate, la cui classe dirigente non si considera vincolata a nessuna regola, muovendosi così sempre sull’orlo della catastrofe stilistica: tra la fuga a Pescara e i quadri nascosti in cantina del cavalier Tanzi. E vengo alla seconda immagine di questi giorni: gli americani in festa per la morte di Bin Laden. È l’immagine eloquente di una società che non si fa scrupolo di cercare con ogni mezzo la vendetta, quando la vendetta è su chi aggredisce a tradimento i suoi cittadini con il proposito di farne strage. Di una società orgogliosamente sicura di sé e della bontà dei suoi principi, che ha l’audacia di rallegrarsi apertamente della morte dei propri nemici. Ancora una volta, che differenza rispetto a noi. Rispetto alla cautela perbenistica del nostro discorso pubblico, alla nostra ostentazione di umanitarismo legalitario ogni piè sospinto, alla nostra eterna incertezza morale nel riconoscere il bene e il male sulla scena del mondo. Il sistema politico è lo stesso, certo, ma qui da noi la democrazia è costretta a vivere priva di una classe dirigente tenuta insieme da valori comuni; si mostra incapace di suscitare qualunque sentimento forte d’identità e d’appartenenza in grado, per esempio, di misurarsi anche con l’ostilità assoluta; è l’espressione in una società civile che perlopiù non crede in nulla e si vergogna del proprio Paese, ed è retta da un sistema di partiti che oltre le elezioni e Montecitorio non riescono a pensare e a trasmettere più nulla. È in tutto ciò che stanno le ragioni per cui alla fine l’Italia si ritrova sospinta sempre più ai margini, conta sempre meno, suscita sempre minore fiducia e ormai, mi pare, anche sempre minore simpatia. Ogni giorno di più diamo l’impressione di non sapere che cosa ci stiamo a fare, non riusciamo a consistere più in nulla. Incapaci di rappresentare una vera democrazia del popolo, delle élite e dei valori, ci stiamo rassegnando ad essere, miserevolmente, una «democrazia in mancanza di meglio» .
Corriere della Sera 9.5.11
Gramsci e Togliatti interventisti democratici
risponde Sergio Romano
L’interventismo di gran parte della sinistra massimalista italiana, guidata da Mussolini, in favore di un’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale a fianco di Francia e Gran Bretagna, è piuttosto noto. Molto meno noto è che ad esso parteciparono anche Togliatti, volontario negli alpini, e Gramsci. Lei può dare qualche dettaglio in più circa l’interventismo di questi due personaggi? Luca Cremaschi lucacremaschi@inwind. it
Caro Cremaschi, Sull’interventismo di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti le due maggiori biografie del secondo (quella di Giorgio Bocca pubblicata da Laterza nel 1973 e quella di Aldo Agosti pubblicata da Utet nel 2003) sono sostanzialmente d’accordo. I due principali esponenti del comunismo italiano furono indubbiamente interventisti. Gramsci ne dette una prima dimostrazione quando Mussolini, il 24 ottobre del 1914, pubblicò sull’Avanti!, di cui era direttore, l’articolo che preannunciava la svolta con il titolo «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante» . Mentre Angelo Tasca (anch’egli fondatore del Pc d’I. a Livorno sette anni dopo) lo criticò aspramente, Gramsci scrisse per il «Grido del popolo» un commento in cui, sia pure con qualche riserva, approvava l’intervento di Mussolini nel dibattito sulla guerra. Scrisse ironicamente che la neutralità assoluta era una «comoda posizione» e aggiunse di temere che avrebbe indotto i socialisti «ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti» . Secondo Bocca, «Gramsci, Togliatti e i giovani rivoluzionari torinesi, specie quelli del Borgo San Paolo, resteranno mussoliniani anche dopo la cacciata del direttore dell’Avanti! dal giornale» . Togliatti decise di trasformare l’impegno morale in impegno concreto. Quando i medici militari lo dichiararono inabile (era molto miope), si arruolò nella Croce Rossa e prestò servizio, come ricorda Agosti, anche in un ospedale da campo della valle dell’Isonzo. Più tardi, quando la soglia dell’idoneità medica venne alquanto abbassata, fu arruolato, prestò servizio dapprima in un reggimento di fanteria, poi in un reggimento di alpini e chiese infine di essere ammesso alla Scuola ufficiali di Caserta da cui uscì con il grado di sotto-tenente di complemento. I suoi biografi non hanno notizie sui suoi spostamenti successivi, ma sanno che soffrì di una brutta pleurite, passò da un ospedale all’altro ed ebbe infine una lunga licenza di convalescenza. Questo è tutto quello che sappiamo, caro Cremaschi, del «buon soldato Togliatti» . Aggiungo che i suoi sentimenti di allora possono sorprendere soltanto coloro che hanno predatato, per ragioni agiografiche, la sua scelta socialista. Fino al 1918 fu liberista, con una forte predilezione per gli intellettuali— Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini — che avevano cominciato a dibattere negli anni precedenti la questione meridionale. È vero che Togliatti dichiarò ripetutamente di essersi iscritto al Partito socialista italiano nel 1914, ma l’incendio che nel dicembre del 1922 distrusse gli archivi della sezione di Torino non permette di accertarlo. La questione, del resto, non ha grande rilevanza. Soltanto i fedeli più devoti e bigotti possono credere che la carriera di un uomo pubblico sia sempre lineare. Cambiare idea può essere in molti casi indice di opportunismo. Ma può essere anche un segno di curiosità e d’intelligenza.
Repubblica 9.5.11
Ungheria
Processo al boia di Novi Sad
di Andrea Tarquini
Sandor Kepiro, ex gendarme ungherese, è l´ultimo nazista chiamato a rispondere della strage nella quale morirono più di 1200 tra ebrei, serbi e rom. A 97 anni si è presentato in aula: "Ho solo eseguito ordini". I parenti delle vittime protestano ma per l´ultradestra è diventato un simbolo
Il 23 gennaio 1942 Budapest invase la Jugoslavia al grido "pulizia etnica e politica"
"Io ubbidii ai miei capi, non ho ucciso nessuno", dice alla Corte tremando e con un filo di voce
All’sterno i cartelli degli attivisti: "Ma come fai a dormire tranquillo?"
Budapest. (...) È cominciato così, l´altro giorno nella bella Budapest illuminata dal sole di tarda primavera, l´ultimo processo a un presunto criminale nazista. Kepiro era il primo nella lista del centro Wiesenthal, solo le indagini del suo dirigente, Efraim Zuroff, hanno portato alla sua cattura e al processo. E oltre sessant´anni dopo la disfatta dell´Asse, è qui nella magnifica capitale sul Danubio inondata dal sole di primavera che, come in una post-Norimberga, l´Europa rifà per l´ultima volta i conti con la sua Storia di complice dell´Olocausto.
Sala austera, scranni in vecchio legno come in un´università decaduta, e per l´imputato una semplice sedia in legno con braccioli e il microfono davanti. Comincia così l´appendice di Norimberga. Kepiro arriva portato a spalla da parenti e amici, sembra non farcela a camminare. Quando entra in aula (la seduta è pubblica), una ventina di neonazisti ungheresi in uniforme scattano sull´attenti, vogliono salutarlo come il loro eroe. Fuori, attivisti della comunità ebraica lo accolgono in un altro modo: le stelle gialle sul petto, e cartelli: "Come fai a dormire tranquillo?". Due visioni della Memoria si confrontano, nella vecchia aula numero uno di Fo Utca.
La Memoria tramandata dai rapporti dell´Intelligence service britannico è atroce. Era il 23 gennaio 1942, l´Ungheria del dittatore antisemita Miklos Horthy era dall´inizio alleata entusiasta dell´Asse. Partecipò all´aggressione contro la Jugoslavia, occupò territorio jugoslavo e lo annesse, come "parte millenaria del suolo magiaro". C´era anche la città di Novi Sad, melting pot balcanico della convivenza tra serbi, croati, magiari, ebrei. All´attiva, efficace resistenza dell´Avnoj, l´esercito partigiano di Tito, gli occupanti ungheresi reagirono con una rappresaglia brutale. «Pulizia etnica e politica, ripulire Novi Sad da rifiuti e spazzatura», era l´ordine venuto dall´alto. Gendarmi e soldati pattugliarono ovunque, Kepiro era capitano della Csendorség. «Mi arruolai volontario per dovere patriottico, non per soldi», assicura. In aula è stanco, sbadigliante ma attento e sveglio. Sul vecchio vestito grigioverde spuntano sul bavero i distintivi e le decorazioni della Gendarmeria, guadagnati sul campo.
«Imputato, può sentirmi? Le leggerò i capi d´accusa», scandisce il giudice Varga. «Sì…sì, la sento», risponde il vecchietto alla sbarra. Con una mano si spinge il microfono auricolare nell´orecchio, con l´altra si stringe il pannolone anti-incontinenza tipico degli anziani arrivati a un´età cui le vittime di Novi Sad non giunsero. Tossisce, serra i braccioli della sedia con le mani rugose, ha un tremito ai piedi coperti da vecchie belle scarpe fatte a mano, l´ex capitano Kepiro, mentre il giudice legge i resoconti. Zsolt Falvai, il giovane pubblico ministero, ascolta impassibile. «Voi gendarmi e i militari arrivaste a Novi Sad decisi a eseguire gli ordini. Chiedeste ordini scritti ma agiste comunque», dice il giudice. «Sì, la sento", replica Kepiro grattandosi il naso rugoso.
L´operazione iniziò all´alba. Gendarmi e soldati ungheresi rastrellarono ogni strada, avevano in tasca liste nere stilate con precisione, da Budapest e dalla Gestapo. «Io ubbidii semplicemente agli ordini, io non uccisi nessuno», assicura Kepiro parlando tremante. Testimoni lo accusano di aver fatto caricare di persona almeno 30 civili su un camion, verso il Centro di raccolta e interrogatori. Là venivano portati, anche se identificati prima dai gendarmi. Poi si proseguiva verso le rive del Danubio. «Era un inverno duro, venti o trenta gradi sotto zero», legge ancora il giudice. «Mi sente, imputato?». «Sì, a fatica», mormora il vecchietto con i distintivi nazionali sul liso abito elegante.
Vennero in corsa granatieri e artiglieri magiari ad aprire falle sul Danubio ghiacciato, come in memorabili sequenze raccontò il grande Miklos Jancso, il padre del cinema ungherese moderno, in Hideg Napok, i giorni freddi: buchi nel ghiaccio per gettare nell´acqua gelida donne, vecchi e bambini. Moribondi dopo un colpo alla nuca ma spesso ancor vivi, milleduecento e oltre.
«Io fui solo un patriota, non uccisi mai nessuno, salvai anche persone come una famiglia intera», si difende il vecchietto tremando sulla sua sedia d´imputato. Alcuni suoi seguaci, vecchi nostalgici, lo attorniano nella pausa, gli portano da bere, gli regalano vecchi giornali d´epoca della gendarmeria di Horthy. Una giovane bionda sexy dell´ultradestra, jeans aderenti, stivali tacco a spillo e t-shirt che lascia l´ombelico scoperto, si avvicina e lo carezza. Il difensore, avvocato Zsolt Zétényi, ci parla: «Lui è innocente, non ci sono prove. La gendarmeria era un´istituzione rispettata. E la Vojvodina era storicamente ungherese da secoli. E poi combattevamo contro i bolscevichi di Tito. Zuroff dovrebbe capire che il suo accanimento contro il mio cliente può danneggiare i rapporti tra ebrei e non ebrei».
L´avvocato Zétényi parla duro e chiaro, sotto la toga da seduta indossa un costume tradizionale, simbolo nazionalista come le uniformi nere che i giovani ultrà sfoggiano sui banchi del pubblico con addosso badge delle croci frecciate, della Guardia magiara e della "Resistenza nazionale magiara". In strada quando ti riconoscono come giornalista si fanno avanti minacciosi, ti chiedono «da dove vieni a parlar male della nostra patria», e devi rispondere loro God save the Queen o God bless America per fermarli, non puoi aspettare una polizia assente.
«Lei eseguì ogni dettaglio dell´operazione», insiste il giudice. «Eseguii solo gli ordini», replica l´imputato tremando. «Poi lo stesso governo ungherese ci processò perché in cambio d´un processo sul massacro offrì trattative a Londra». Troppo tardi: armi e istruttori del Regno Unito consentirono a Tito di resistere all´Asse. Nel 1945 Budapest cadde in mano all´Armata rossa. L´Ungheria non ebbe né un Badoglio né un congiurato anti-Hitler come von Stauffenberg a Berlino. Kepiro riuscì a scappare in Austria, poi in Argentina. Nel 1996, sentendosi sicuro, tornò a Budapest. «Finalmente rividi la patria», disse. Era un vecchietto tranquillo, dicevano i vicini, «cucinava così bene il pollo alla paprika per tutti». Abitava in un appartamentino davanti a una sinagoga. Efraim Zuroff che l´ha scovato riceve ogni giorno e-mail minatorie da neonazisti amici di quei giovanotti in nero all´entrata del tribunale: «Zuroff, non mettere più piede sul sacro suolo magiaro se tieni alla tua pelle». E l´altro giorno, manifestanti dell´ultradestra hanno bruciato in piazza bandiere israeliane. La polizia del governo nazionalconservatore di Viktor Orban, sempre vigile contro media e magistrati, non ha mosso un dito contro quel rogo.
Repubblica 9.5.11
Un segnale importante nel paese più reazionario d´Europa
È giusto giudicarlo anche se è un vecchio
L’ultimo nazista
di Efraim Zuroff
Se mai occorreva una prova di quanto fosse importante il processo al dottor Sandor Kepiro per la società ungherese contemporanea, questa è arrivata venerdì scorso, il secondo giorno del procedimento giudiziario contro il novantasettenne ex ufficiale della gendarmeria accusato di crimini di guerra commessi nel corso di uno sterminio di massa attuato dai soldati ungheresi il 23 gennaio 1942 nella città serba di Novi Sad, allora sotto occupazione ungherese. La prova è arrivata quando gli ultranazionalisti ungheresi, rispondendo all´invito di un sito web dell´estrema destra locale, si sono radunati per assicurare sostegno all´anziano "patriota" ungherese, oggi alla sbarra per il ruolo ricoperto nel massacro di almeno 1.246 abitanti di Novi Sad, ebrei, serbi e rom. Questo è il succo del dramma in corso nella corte distrettuale di Buda, dove Kepiro è il primo criminale di guerra/collaboratore locale nazista a essere processato in Ungheria dai tempi della transizione alla democrazia seguita alla caduta del comunismo.
Gli opposti schieramenti, nell´attuale dibattito politico in Ungheria, considerano questo caso in modo diametralmente opposto. Kepiro non nega di essere stato di servizio come ufficiale della gendarmeria ungherese di Novi Sad, quel giorno. Dentro di me non ho mai dubitato che Kepiro dovesse rispondere del ruolo avuto nel massacro di Novi Sad ed espiare la sua colpa. Tuttavia c´è anche chi crede che giacché egli ha 92 anni, è in ogni caso troppo tardi per fare giustizia. Non manca poi chi ritiene che in fondo il suo ruolo si sia limitato semplicemente a quello di un patriota ungherese, impegnato a svolgere un´operazione per proteggere le truppe degli occupanti dalle minacce dei partigiani o dei terroristi.
Le mie risposte a queste argomentazioni potrebbero essere di due tipi: il primo ha a che vedere con le circostanze specifiche del massacro di Novi Sad; il secondo si riferisce a tutti i casi di ex criminali di guerra nazisti o collaboratori. Nel primo caso è evidente che il massacro di Novi Sad non aveva niente a che vedere con una palese minaccia proveniente dai partigiani, in quanto in pratica tutti gli assassinati furono bambini piccoli, uomini anziani, donne e altri civili senza alcun rapporto con le attività della resistenza. Per quanto riguarda l´età di Kepiro e gli anni trascorsi da quando quel genocidio fu commesso, la penso così: 1) il tempo trascorso da allora non diminuisce in alcun modo la colpa degli assassini; 2) l´età molto avanzata non dovrebbe costituire una protezione per chiunque abbia commesso crimini così esecrabili contro civili indifesi; 3) ogni vittima dei nazisti e dei loro alleati merita che si faccia lo sforzo di cercare di individuare coloro che trasformarono in vittime uomini, donne e bambini innocenti, e che essi siano costretti a rispondere dei loro crimini; 4) Il fatto che questi criminali siano assicurati alla giustizia oggi, manda un messaggio molto potente: se si commettono crimini così esecrabili, lo sforzo di assicurare alla giustizia i responsabili proseguirà anche per molti decenni.
La vera questione, pertanto, non è l´età di Kepiro, bensì il suo attuale stato di salute fisica e mentale. Da questo punto di vista egli è sicuramente in grado di affrontare l´iter giudiziario. Se la sua salute sarà a tal punto buona da potermi citare per diffamazione (tutto sommato gli ho dato del criminale di guerra/collaboratore nazista) come per altro ha fatto, e di concedere interviste nelle quali afferma la propria innocenza, allora non esistono presupposti legittimi di ordine legale o etico per ignorare il fatto che egli stesse vivendo da colpevole impunito a Budapest.
Considerata la situazione attuale in Ungheria, e specialmente l´irritante successo elettorale alle ultime consultazioni del partito di ultra-destra Jobbik - che ha un´evidente agenda antisemita e anti-rom, e che ha espresso ufficialmente forti simpatie e nostalgia per il passato fascista dell´Ungheria nella Seconda guerra mondiale - il caso Kepiro lancia un messaggio molto potente: antisemitismo e xenofobia possono portare a violenze dalle conseguenze terribili. È questo ad aver portato decine di giovani membri della Faith Church ungherese a indossare la stella gialla e a presentarsi davanti al tribunale a sostegno di chi sta processando Kepiro il giorno dell´inizio del dibattimento. Ed è ancora questo a spiegare perché i loro antagonisti dell´estrema destra si siano precipitati a prendere le difese di Kepiro il giorno successivo, quando il futuro politico dell´Ungheria era, per così dire, sospeso.
Non possiamo che auspicare che la giustizia prevalga e che il tribunale non soltanto condanni e punisca Kepiro, ma infligga anche un colpo mortale alle forze dell´intolleranza, del razzismo e dell´antisemitismo che minacciano il futuro democratico dell´Ungheria.
Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 9.5.11
Stregoni e spiriti maligni il nuovo incubo degli ayatollah
di Bijan Zarmandili
I cieli del mondo islamico sono da sempre popolati da eserciti di angeli e demoni
In Iran un fedelissimo di Ahmadinejad è stato arrestato con l´accusa di praticare riti magici Il presidente è sparito dalla scena. E sullo sfondo lo scontro con la Guida suprema Khamenei
Non più i filo-occidentali Gharbi, i riformisti Reformi, oppure i non-intimi Nakhodi: i nuovi nemici dell´Ayatollah Ali Khamenei, la Guida della rivoluzione, sono i Khorafati, cioè i superstiziosi, in altre parole, gli stregoni. Con l´accusa di aver stabilito contatti con i Ginn, con gli spiriti e con le creature soprannaturali, sono stati arrestati i più stretti collaboratori di Mahmud Ahmadinejad, tra cui il consuocero e candidato a succedergli, Esfandiar Rahim-Mashei. Gli endemici scontri tra le opposte fazioni in seno della Repubblica islamica assumono dunque valenze metafisiche e rischiano di produrre caos e melodrammi farseschi.
Intanto va detto che i cieli del mondo islamico sono da sempre popolati da eserciti di angeli e demoni, di Ginn e di spiriti di ogni genere. La metafisica e il soprannaturale sono stati e sono parte integrante dell´islam sunnita e in particolare di quello sciita, da secoli in attesa dell´arrivo dell´Imam-e-Gheib, cioè del dodicesimo imam scomparso, il Mahdi, che con la sua apparizione porterà sulla terra il regno della pace. L´ultima setta dei Mahdion, degli adoratori di Mahdi, è nata in Iran negli anni Cinquanta per opera di un certo Ahmad Kafi, morto pochi anni prima della rivoluzione khomeinista. Probabilmente lo stesso Ahmadinejad è un suo seguace.
Nulla di straordinario, insomma, se con la Repubblica islamica si sono moltiplicate le associazioni che pretendono contatti con il soprannaturale. Gli sciiti credono che nella battaglia nel deserto di Karbala, dove fu ucciso il terzo imam, Hussein (626 a.c), un esercito di 4000 angeli era pronto a combattere al suo fianco. L´Ayatollah Khomeini più di una volta ha affermato che la sua impresa rivoluzionaria è stata aiutata da creature venute dall´aldilà. In ogni angolo dell´odierno Iran si svolgono decine e decine di riunioni di ghostbusters, dove vengono convocati i Ginn e si svolgono cerimonie non troppo lontane dalla stregoneria. Akbar Ganji, il dissidente islamico in esilio, racconta la sua partecipazione ad alcuni riunioni di Ginnghir, di "acchiappaginn", ritenendo che fossero perfettamente in linea con i dettami della religione.
Ci sono tuttavia anche delle polemiche teologiche assai complesse nell´islam sciita circa il soprannaturale e, in primo luogo, su chi sarebbe autorizzato ai contatti con il «mondo assente» e con le sue creature. Tale privilegio, sostengono i fondamentalisti, è monopolio assoluto del Faghih, del Dotto che rappresenta l´Imam scomparso Mahdi. Fuori dalla casta degli ayatollah, qualsiasi tentativo di contatto autonomo con quel mondo è Khorafat appunto, è superstizione, è stregoneria. Ed ecco la genesi del dissenso tra Ahmadinejad e Khamenei, ora trasformato in palese scontro politico. L´adorazione esibita e enfatizzata del presidente nei confronti del Mahdi spesso ha creato del malcontento negli ambienti dei fondamentalisti. Khamenei ha letto progressivamente dietro alla ripetuta rievocazione di Mahdi da parte di Ahmadinejad qualcosa di insidioso per il proprio ruolo di Velayate-Faghih, l´articolo della Costituzione che gli attribuisce il potere di veto sulla totalità delle decisioni degli organi dello Stato.
Ma la nuova generazione dei rivoluzionari, nati e cresciuti nei fronti di otto anni di guerra, quella generazione che ha trovato in Ahmadinejad la sua espressione politica, era destinata a sentirsi in una camicia di forza cucita dalla vecchia casta degli ayatollah e dall´aristocrazia del clero sciita. Lo scontro tra Ahmedinejad e Khamenei ha avuto nel corso di questi ultimi sei anni diverse tappe, in cui il presidente ha rafforzato le proprie posizioni, mentre Khamenei ha cercato di non perdere terreno, accettando compromessi, ma anche resistendo all´ascesa di Ahmadinejad. Gli equilibri si sono rotti a distanza di due anni dalle prossime presidenziali, quando Ahmedinejad ha tentato d´imporre la candidatura del consuocero Rahim-Mashai, noto per il suo nazionalismo e per le sue idee non conformi con la Guida, in particolare in materia di politica estera. A quel punto si è capito che in ballo c´è l´autorità del Velayat-e-Faghih e la mutazione della stessa geografia politica del paese. Con Ahmedinejad che si oppone all´autorità di Khamenei, l´intera opposizione, quella riformista e quella nata dal movimento verde, sarà costretta a prendere posizione, polarizzando l´intera dialettica politica. In questa nuova ingarbugliata situazione non possono che essere coinvolte anche le forze armate, i Pasdaran e i Basiji, come la borghesia nazionale e i bazari, insieme ai ceti e alle classi meno abbienti rurali oppure urbane: una prospettiva caratterizzata da parecchie incertezze per un paese, considerato fondamentale per i rapporti di forza nella regione mediorientale, già scossa dalle rivolte delle masse arabe.
Repubblica 9.5.11
Dal terremoto di Lisbona a Fukushima, le difficoltà di un´idea
Quel che resta del progresso
di Massimo L. Salvadori
In Giappone è stata colpita la presunzione della tecnologia che si riteneva infallibile
Il 1° novembre 1755 un terribile terremoto distrusse gran parte di Lisbona. I morti ammontarono a varie decine di migliaia. Di fronte a una tale catastrofe l´emozione nell´Europa del tempo fu enorme, e non si limitò alla pietà per le vittime innocenti e al rammarico per le distruzioni materiali. La catastrofe, infatti, pose inquietanti interrogativi alla cultura europea dove, nel contesto dell´Illuminismo, era aperto il dibattito sulle condizioni della vita umana e sulla capacità di percorrere le vie di un via via maggiore progresso morale, civile e politico.
All´interno delle correnti filosofiche coloro che invocavano il diritto dei lumi della ragione di ergersi a guida del cammino degli uomini e della società si contrapponevano a quanti consideravano una simile pretesa una pericolosa manifestazione di orgoglio. Poco dopo i fautori e gli ideologi del progresso trovarono nelle meraviglie della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra, nelle nuove invenzioni e nelle nuove macchine un ulteriore potente motivo per credere nelle «magnifiche sorti e progressive» aperte dall´unione di scienza, tecnica e incremento produttivo. Parve che spirito e materia, scienze morali e scienze naturali si dessero la mano nell´aprire il primo capitolo della storia dell´idea moderna di progresso.
Tra coloro che dal terremoto del 1755 furono sconvolti vi era il grande Voltaire, che nel dicembre di quello stesso anno si diede a farne l´argomento del suo Poema sul disastro di Lisbona e poi vi tornò in Candido o dell´ottimismo, pubblicato nel 1759. Voltaire credeva convintamente nel progresso, nella possibilità degli uomini di migliorare se stessi e la loro vita, ma detestava i beati ottimisti, che immaginavano il mondo come il migliore tra quelli possibili. Per lui la ragione era uno strumento tanto importante quanto delicato, non però un bene garantito e i lumi che venivano da un uso opportuno di essa dovevano essere costantemente protetti dalle potenziali minacce. Quindi il progresso si presentava incerto, e solo possibile. In un verso del Poema disse che ritenere che «tutto è bene oggidì» costituiva una mera «illusione»; e nel Candido, ancora con riferimento al terremoto, satireggiò Pangloss il quale ripeteva che in ultima analisi tutto è destinato a risolversi per il meglio.
L´idea problematica che gli illuministi avevano del progresso venne letteralmente capovolta dallo scientismo sia positivistico sia marxistico, il quale, nella presunzione di essersi impadronito delle leggi dello sviluppo umano, predicò che il progresso, divenuto necessario e irresistibile, consentisse la pianificazione del futuro dell´uomo. L´incarnazione estrema ed ultima di queste correnti ideologiche fu il mondo comunista crollato alla fine del secolo scorso. Ma, caduto il mito che la conoscenza delle leggi della società desse alla politica i mezzi per creare finalmente il «mondo nuovo», era sopravvissuta l´altra componente dell´ideologia del progresso necessario e irresistibile: quella dello sviluppo senza sosta prodotto dall´unione felice tra scienza e tecnologia. E in effetti in questo campo i risultati sono stati strabilianti, fino a generare un senso di onnipotenza. Il disastro di Cernobyl fu una immane tragedia, ma non scosse la fiducia dominante, poiché venne archiviato come il risultato di una colpevole inadeguatezza tecnologica.
Ma eccoci di fronte alla torcia nucleare di Fukushima. Credo che la catastrofe che ha colpito il Giappone abbia un significato simbolico paragonabile a quello del terremoto di Lisbona del 1755. Allora quello ebbe il valore di ammonimento circa la connaturata fragilità dell´esistenza umana, soggetta ad essere in ogni momento colpita dalla presenza e dagli effetti di un male ineliminabile con cui ogni uomo era tenuto a fare i conti. Oggi l´ammonimento che viene dal Giappone ha ancor sempre quel significato, ma unito ad un altro: il crollo del mito dell´onnipotenza scientifico-tecnologica, spazzato via da un terremoto unitosi ad uno tsunami. Alla vigilia dell´immane disastro che lo ha messo in ginocchio, umiliato e gettato in preda alla paura, il Giappone, uno dei paesi massimamente avanzati del globo, presentava le proprie centrali nucleari come le più progredite e assolutamente sicure e in quanto tali le offriva sul mercato mondiale. Sennonché l´immaginabile ha bussato bruscamente alla porta.
La natura resta quella che Voltaire vedeva e temeva e la presunzione di una tecnologia che riteneva di poter resistere ad ogni sfida è stata colpita come mai prima. Al punto che il governo giapponese, spaventato dalle tante centrali che popolano il suo paese, ha pronunciato le parole che mai aveva pensato di poter e dover pronunciare: occorre seguire senza ritorno la strada dell´energia pulita, e cioè sì la via del progresso, ma quella che non minaccia la vita umana, quella dell´uso prudente e accorto delle risorse offerte dalla ragione. Poiché, come diceva Voltaire, non "tutto è bene": neppure quando offerto dalla marcia trionfale della scienza e della tecnologia.