l’Unità 10.5.11
Il 7 aprile l’Unità descrisse la tragedia di un barcone colato a picco vicino a Tripoli. Ora il quotidiano «Guardian» racconta la vicenda con nuovi particolari
Libia, il naufragio che la Nato ignorò Conferme inglesi al nostro racconto
di Umberto De Giovannangeli
L'Unità ne aveva parlato per prima rompendo un silenzio (mediatico) assordante. Ora a rilanciare è The Guardian. «Decine di africani sono stati lasciati morire nel Mediterraneo dopo che unità militari europee e della Nato hanno apparentemente ignorato le loro richieste di aiuto», scrive il quotidiano britannico. «Sos disperati e senza risposte nel Medi-
terraneo militarizzato» titolava l’Unità il 7 aprile.
IL FATTO
Secondo la ricostruzione del Guardian, l’imbarcazione che trasportava 72 migranti, tra loro molte donne, bambini e rifugiati politici, ha avuto difficoltà dopo la sua partenza dalla Libia per Lampedusa alla fine di marzo. Tutte le persone a bordo del barcone, tranne 11 due dei quali morti successivamente sono morti di sete e di fame dopo 16 giorni alla deriva. «Ogni giorno ci svegliavamo e trovavamo più corpi senza vita, li lasciavamo stare per 24 ore prima di gettarli in mare», racconta Abu Kurke, uno dei 9 sopravvissuti. «Alla fine non ci riconoscevamo più, tutti pregavano o morivano». Il Guardian ha appurato che la barca trasportava 72 immigrati ed era partita da Tripoli il 25 marzo. A bordo 47 etiopi, 7 nigeriani, 7 eritrei, 6 ghaniani e 5 sudanesi. Vi erano venti donne e due bambini piccoli, uno dei quali aveva appena un anno. Erano diretti a Lampedusa ma dopo 18 ore in mare si erano manifestati i primi problemi e l'imbarcazione aveva iniziato a perdere carbu-
rante. La barca, hanno ancora raccontato i sopravvissuti citati dal giornale aveva solo 20 litri di carburante ma per il capitano potevano farcela sino a Lampedusa. Un errore fatale: il 27 marzo ormai avevano perso la direzione, finito il carburante ed erano in balia delle correnti. Ad un certo punto, il 29 o 30 marzo, la nave è passata vicino ad una portaerei,
così vicino che sarebbe stato impossibile non vederla, ha riferito ancora uno dei sopravvissuti. Due caccia si sono levati in volo e avrebbero sorvolato bassi la barca, mentre i migranti indicavano i due bambini. Da allora in poi, nessun aiuto. Il Guardian riferisce di aver condotto un’indagine accurata per capire quale portaerei si trovasse in quel punto ed ha concluso che si dovrebbe trattare della francese «Charles de Gaulle». Inizialmente le autorità navali francesi hanno negato che la portaerei si trovasse nella regione, in un secondo momento hanno preferito non commentare. I migranti hanno contattato tramite satellitare Mussie Zerai, sacerdote eritreo e fondatore dell’ong Habeshia,che a sua volta ha contattato la Guardia costiera dove lo hanno rassicurato sul fatto che l'allarme era stato lanciato e tutte le autorità competenti erano state avvisate.
L’ELICOTTERO
Poco dopo un elicottero con le insegne militari ha sorvolato l'imbarcazione che si trovava a 60 miglia da Tripoli circa e i piloti, che indossavano uniformi militari, hanno fatto scendere sulla barca acqua e biscotti avvertendo i passeggeri di mantenere la posizione in attesa dell'arrivo dei soccorsi. L'elicottero quindi si è allontanato, ma non è arrivata nessuna barca dei soccorsi. Nessun Paese al momento ha ammesso di aver inviato l'elicottero che ha preso contatto con i migranti. Un portavoce della Guardia Costiera italiana dice: «Abbiamo avvisato Malta che l'imbarcazione si stava dirigendo verso la loro zona di search and rescue ed abbiamo lanciato un allarme alle imbarcazioni in navigazione perché prestassero attenzione alla barca». Le autorità maltesi hanno negato ogni coinvolgimento con la barca, così come la Nato. «Per 16 giorni 72 persone sono state abbandonate in mare. Oltre 60 sono morte. È una storia crudele che noi vogliamo denunciare». Così don Zerai commenta a Radio 24. le rivelazioni del Guardian.
«È una storia terribiledice Don Zerai, che per primo aveva denunciato la scomparsa dell’imbarcazione, denuncia rilanciata da l’Unità -. Quella gente ha chiesto aiuto, io stesso ho chiesto più volte che li si aiutasse, nessuno ha fatto niente per giorni e ora non può passare la logica dello scarica barile. Quanto accaduto è un crimine. Si chiama omissione di soccorso. È un crimine che non può rimanere impunito solo perché‚ le vittime sono migranti africani».
Sono almeno tre le imbarcazioni partite dalla Libia negli ultimi mesi con a bordo migranti dirette in Italia, ma che non sono mai arrivate: a riferirlo è Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Su quelle carrette del mare c’erano almeno 800 persone. Di loro non si hanno notizie. E nessuno si chiede che fine abbiano fatto. Un richiamo alle responsabilità dell’Europa, che trova un autorevole sostenitore in Giorgio Napolitano: L'Ue «non è riuscita a esprimere una posizione comune specie di fronte alla crisi libica», avverte il presidente della Repubblica, in un videomessaggio indirizzato al festival dell'Europa in corso a Firenze.
La Stampa 10.5.11
Strage in mare, Nato sotto accusa
“Decine di migranti lasciati morti di fame e sete da una portaerei”. La replica: “Non era nostra”
di Francesco Grignetti
Onore al giornalismo investigativo del Guardian», quotidiano inglese. I suoi giornalisti hanno approfondito una storia passata tra le brevi alcune settimane fa: nel corso di un’odissea in mare, un barcone partito dalla Libia il 25 marzo scorso è incorso in un’avaria ed è andato alla deriva per sedici giorni. Dei settantadue profughi a bordo, sessantuno sono morti di fame e di sete. I cronisti del «Guardian» hanno voluto approfondire la storia e hanno scoperto che l’imbarcazione era stata regolarmente avvistata, che un elicottero militare di nazionalità sconosciuta li ha avvicinati al secondo giorno di navigazione e li ha persino riforniti di acqua e cibo, ma quando si sono trovati in serie difficoltà, tra il 29 e il 30 marzo, una grande portaerei della Nato li ha ignorati. Secondo la denuncia dei sopravvissuti, e per quanto verificato dal quotidiano inglese, molto probabilmente era la portaerei francese «Charles de Gaulle» da cui partivano i raid sulla Libia. I francesi però smentiscono. Denuncia seria, drammatica, ben circostanziata. Ufficiali della Guardia costiera italiana hanno riferito di essere stati allertati e di avere girato la segnalazione a Malta. Lì, però, a loro volta negano tutto.
Un indegno scaricabile internazionale. Ed è subito scandalo. Il presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il turco Mevlut Cavusoglu, chiede di aprire un’inchiesta: «L’Europa - dice - che è anche capace di grandi atti di solidarietà, come il salvataggio di oltre 400 persone da parte della Guardia Costiera italiana aiutata dagli abitanti dell’isola di Lampedusa, deve smettere di esagerare l’impatto di questi arrivi». Si fa sentire anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: «Mi aspetto che la Nato chiarisca se è vero che una sua nave non ha soccorso un barcone di migranti che poi è affondato: sarebbe grave se ciò fosse avvenuto». «Se corrispondesse al vero, ci troveremmo di fronte ad una inaccettabile violazione dei diritti umani», dichiarano quattro parlamentari del Pd.
La Nato, per parte sua, si tira fuori. Una portavoce ha spiegato che l’accusa è «sbagliata». «Una sola portaerei era sotto il comando Nato in questa data, la portaerei italiana Garibaldi, e si trovava a più di 100 miglia nautiche al largo. Di conseguenza, ogni affermazione che una portaerei della Nato ha individuato e ignorato l’imbarcazione in difficoltà è sbagliata». La Nato aggiunge che durante la notte del 26-27 marzo, a 50 miglia nautiche da Tripoli sono state portate in salvo oltre 500 persone. Attenzione alle parole, però: dato che la «Charles de Gaulle» a quella data non era ancora sotto il comando dell’Alleanza atlantica, la Nato può legittimamente sfilarsi. Resta il fatto che una grande portaerei non si è accorta, o ha fatto finta di non accorgersi, che di una barchetta alla deriva con decine di disgraziati agonizzanti a bordo.
«Il Mar mediterraneo non può trasformarsi in una terra di nessuno, un Far West senza regole», insorge Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu. «Le carrette che partono da Tripoli, sempre più grosse e più cariche, con gente inesperta al timone, malandate, a volte rimesse in mare solo per questo ultimo viaggio, vanno considerate in pericolo per definizione. Occorre maggiore cooperazione internazionale per aiutare questa gente che fugge. Non è accettabile che si faccia una guerra per proteggere i civili in Libia e poi lasciarli morire in mare».
Di questo disastro in mare, però, molti sapevano. Basta leggere gli accorati comunicati dell’associazione umanitaria «Everyone», in collegamento con il sacerdote eritreo don Moses Zerai. Un giornalista della Radiotelevisione svizzera nei giorni scorsi ha anche intervistato un sopravvissuto, l’eritreo Abu Kurkek, che si trova a Tripoli. «Il giorno dopo la partenza - racconta Kurkek - ci ha avvistati un elicottero militare. Si è avvicinato moltissimo a noi e ci ha lanciato acqua e biscotti. Ci ha indicato una rotta e ci ha detto che ci avrebbero soccorso, ma non è arrivato nessuno. Poi la nave si è rotta, siamo rimasti senza acqua. Molti di noi morivano ogni giorno. Abbiamo visto la portaerei. I suoi jet sfrecciavano sopra di noi. Ma non ci hanno aiutato».
E c’è un altro caso raccapricciante. Un barcone carico di eritrei in fuga da Tripoli a fine marzo è stato mitragliato in mare. Sara, eritrea, la mamma di un giovane di 28 anni rimasto ucciso insieme a 365 connazionali, è ancora sconvolta: «Ogni volta che vedo in televisione le immagini di un barcone a Lampedusa e sento notizie di morti o feriti è come se Tekie morisse un’altra volta. Mi hanno detto che i resti dei corpi sono stati seppelliti in una fossa comune sulle coste libiche. Neppure la dinamica dei fatti è chiara. Libici e francesi si accusano a vicenda».
l’Unità 10.5.11
Intervista a Christopher Hein
«Corridoi umanitari
per aiutare i disperati in fuga dalla Libia»
Secondo il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati l’Italia e l’Europa devono organizzare l’evacuazione delle persone scappate in Tunisia
di U. D. G.
Di fronte ai drammatici avvenimenti di questo fine settimana, e anche alla luce di quanto denunciato dal Guardian, l’impegno prioritario dell’Italia e degli altri Paesi dell’Unione Europea dovrebbe essere quello di realizzare in tempi rapidi una evacuazione umanitaria per tutti i rifugiati presenti in Tunisia, ai confini della Libia». A chiederlo è Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati), autore del libro «Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia». «Ormai è chiaro, per evitare che i rifugiati continuino a mettere a rischio la loro vita per arrivare in Europa, dobbiamo dare loro delle alternative di ingresso protetto rileva Hein altrimenti l’unica alternativa che offriremo loro è quella di attraversare un mare che continua a inghiottire vite. E non credo che questa sia una posizione più sostenibile per Paesi democratici e civili». Barconi affondati, soccorsi mancati, carrette del mare alla deriva.. Il Mediterraneo si sta trasformando in un mare infernale...
«Da molte settimane, precisamente dal 28 febbraio, come Cir abbiamo sollecitato non solo il Governo italiano ma tutti i governi degli Stati membri della Ue e le istituzioni dell’Unione -la Commissione europea e la presidenza del Consiglio europeoa procedere con l’evacuazione umanitaria immediata dei rifugiati subsahariani presenti in Libia, Perché già allora era prevedibile che queste persone non potevano rimanere in Libia e non potevano rimpatriare. E quindi non restava loro che un’alternativa...». Quale?
«Mettersi sui barconi, rischiando la vita, oppure cercare di raggiungere la Tunisia. L’altro elemento che sapevamo già era che Gheddafi avrebbe fatto il possibile per spingere, anche con la violenza, queste persone a imbarcarsi verso l’Europa...».
È la «guerra dei barconi» raccontata da l’Unità... «Tutti sapevano di questa situazione, ma solamente l’Italia, in due piccole operazioni durante il mese di Marzo, ha evacuato un totale di 115 rifugiati eritrei...».
Ben poca cosa rispetto alle dimensioni del fenomeno... «Indubbiamente si è trattato di un aiuto molto limitato. Si tenga presente che non si tratta di un numero molto elevato di persone, considerando che i cittadini subsahariani in Libia sono una piccolissima minoranza all’interno della stima di 1,5 milioni di stranieri presenti nel territorio libico. Oggi, di fronte all’ennesima tragedia che si è consumata questo fine settimana a poca distanza dal porto di Tripoli e a quella evitata in extremis nelle acque di Lampedusa, dobbiamo affermare con forza che quella tragedia era evitabile e che ci sono precise responsabilità politiche per non aver permesso l’arrivo protetto di questi rifugiati». Un altro tema scottante è quello dei soccorsi in mare...
«Già quando è iniziata l’operazione “Hermes” di Frontex, abbiamo detto e oggi ribadiamo che Frontex dovrebbe coordinare le operazioni di salvataggio in mare e mettere a disposizione le sue capacità, anche di intelligence, quanto meno per ridurre il rischio dei naufragi...». Ma questo impegno, visto che con la guerra in Libia il Mediterraneo è un mare militarizzato, non dovrebbe riguardare anche la Nato?
«Certo che sì. Va sempre ricordato che anche le navi militari, alla pari di quelle commerciali e ai pescherecci, hanno l’obbligo di prestare soccorso in mare».
Cosa fare nell’immediato?
«Dalla Tripolitania oggi difficilmente si può pensare ad una evacuazione umanitaria. Una evacuazione pos-
sibile dovrebbe essere fatta per i subsahariani presenti in Tunisia, al confine con la Libia. Questo darebbe anche un segnale di speranza ai rifugiati tuttora presenti nel territorio della Tripolitania (controllato dalle milizie fedeli a Muammar Gheddafi, ndr) per cercare di raggiungere la Tunisia...».
È questa la richiesta più pressante da rivolgere all’Unione Europea? «Direi proprio di sì. È un impegno che richiede la massima urgenza nella sua attuazione se si vuol davvero prevenire altre tragedie del mare».
il Fatto 10.5.11
Lampedusa, quelli che restano umani
Dall’appuntato al commissario: si sono tuffati per salvare i migranti. “Non pensi al pericolo, ma solo a tirarli fuori”
di Enrico Fierro
“Davanti a te ci sono donne con gli occhi sbarrati su quel mare nero che si agita sotto di loro e sbatte violento contro rocce appuntite come lame. Non ti chiedono di essere salvate, ma allungano le braccia per mostrarti il loro bambino. È lui che devi strappare dalle onde, è lui che devi portare a riva. Questo implorano in una lingua che non conosci. E allora che fai, pensi ai tuoi di figli, alla tua di famiglia, alla tua di casa?”. C'è un’Italia che l'altra notte a Lampedusa ha stracciato il motto nazionale del "tengo famiglia" e ha gettato cuore, corpo e anima sulla scogliera di quel lembo d'Europa vicinissima ai dolori dell'Africa. Sono uomini che indossano una divisa (finanzieri, poliziotti, carabinieri), volontari e persone comuni che le divise le vedono nelle serie tv, nessuno di loro ha avuto bisogno di ordini. Tutti hanno capito subito quello che bisognava fare: lanciarsi nelle acque fredde sotto la scogliera del Cavallo bianco e salvare quell’umanità naufraga. L'appuntato scelto della Guardia di finanza Cristian Scuderi ai suoi di figli non ha pensato neppure per un attimo. "Diciamo che ci ho pensato dopo e il freddo che avevo addosso per gli abiti bagnati da ore è diventato insopportabile". Come gli altri suoi colleghi era lì, nella notte tra sabato e domenica. A un passo dalla tragedia. "Non avrei mai immaginato che nella mia vita avrei contribuito a salvare 500 vite. Ero sul peschereccio assieme a un mio collega, lui tentava di governare un timone sfasciato, quando c'è stato l'impatto con le rocce è stato terribile. La barca si è incrinata tutta su un lato, la gente si muoveva disordinatamente, vedevo donne che stringevano bambini piccolissimi tra le braccia. Il terrore aveva preso tutti. Alcuni si erano nascosti sotto coperta, il posto più insicuro in caso di naufragio, e non volevano muoversi. Sono caduto in una botola, mi sono rotto il mento, ed è proprio vero che quando l'adrenalina è a mille non senti neppure più il dolore. Ai miei figli ho pensato dopo, quando ho visto quei bambini terrorizzati dal mare. Li abbiamo salvati ma per ore non hanno sorriso, avevano lo sguardo fisso nel vuoto". Quando sul radar si avvista un "obiettivo" (così vengono chiamate le barche dei boat-people), una motovedetta della Guardia di finanza lo avvicina, se ci sono le condizioni di vento e di mare si cerca di trainare l'imbarcazione in porto, ma quella notte il mare era forza 4 e il vento di scirocco soffiava forte. È in momenti come questi che entrano in azione i "saltatori", li chiamano così i finanzieri addetti a saltare sulla barca e a pilotarla in acque sicure. Il nocchiere Giuseppe Cappuccio è uno di loro. "Quando ti avvicini alla barca non devi avere esitazioni. Sei sulla motovedetta, le onde puntano a sbatterti contro la fiancata dell'imbarcazione che devi abbordare. Ci vuole massima sincronia fra te e il comandante della motovedetta, ti devi concentrare e scegliere il momento giusto per saltare. Se sbagli finisci in acqua e rischi di essere schiacciato tra le due fiancate o di annegare e risucchiato dalle eliche". Così è morto uno dei tre profughi della scogliera del Cavallo bianco. Schiacciato. "Quando sono salito sul peschereccio mi sono messo subito al timone. Sembrava l'inferno, la gente urlava impaurita. Li tranquillizzavo dicendogli ship, ship, sta arrivando la nave, siete salvi. Quando ho capito che i comandi non rispondevano più e il peschereccio era fuori controllo e stavamo andando a sbattere sulle rocce ho urlato a tutti di abbracciarsi. Ho usato i gesti e quel poco di inglese che so. Si stringevano tutti. L'impatto è stato tremendo. Un tonfo che non dimenticherò mai". Divise e taccuini. Elvira Terranova è una cronista dell'agenzia AdnKronos, da mesi fa la spola tra Palermo e Lampedusa, la notte del naufragio era anche lei sugli scogli. "Quando ho visto quella scena il cuore mi è arrivato in gola: 500 persone rischiavano di annegare a pochi metri dalla salvezza. Ho chiuso il taccuino e l'ho messo in tasca, ho appoggiato a terra la digitale e d'istinto mi sono gettata in acqua per diventare un anello di quella grande catena umana. Mi passavano i bambini fradici d'acqua, infreddoliti, impauriti. Un piccolo l'ho preso in braccio, era nudo, solo una croce al collo, un pezzo di ghiaccio. Ricordo un ragazzo che è uscito dall'acqua salvato dai sub, mi ha vista e mi ha abbracciata. Che Dio ti benedica, mi ripeteva in continuazione". Corrado Empoli è un Commissario di polizia, dirige gli uffici di Canicattì, ma è da mesi a Lampedusa. Per la sua umanità lo chiamano il "Montalbano dei migranti". "Avevamo appena concluso uno sbarco con 800 persone, tutto era andato bene, quando intorno alle 4 abbiamo sentito le sirene di una motovedetta, alle nostre spalle, verso la collina, sentivamo delle urla. Ci siamo andati e abbiamo visto l'inferno. È stata durissima, ho visto uomini delle forze di polizia, civili e volontari, dare il massimo, senza risparmio". Accanto al commissario il giovanissimo tenente della Finanza Miserendino, 28 anni appena. Si è buttato in acqua vestito, ha allungato le braccia con le mani aperte senza sosta per prendere bambini da passare ai volontari sugli scogli. Sempre così per ore. Quando tutto è finito, tutta la gente era in salvo, i suoi uomini tornati sulla terraferma ad asciugarsi, è sparito. Lo hanno visto su uno scoglio, la testa fra le mani. Libero di piangere, finalmente.
il Fatto 10.5.11
Samir: “La mia prigionia nelle tende blu del Cie”
Due settimane fa la rivolta nel centro
Chi non è scappato sopravvive così
di Ferruccio Sansa
Chiuso in un campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci persone. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia.
Per fare questa fine Samir ha dato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. “Sarai ospitato in un centro di accoglienza”, gli hanno detto portandolo a Santa Maria Capua Vetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione.
DIFFICILE accertare come siano trattati gli “ospiti” del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all’ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall’altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende.
Lo chiamano Cie, ma ricorda un po’ le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: “Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C’erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo”, racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: “Ci hanno portato qui il 18 aprile. Da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fossimo avvertiti. Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero”, raccontano gli immigrati nei verbali.
Già, il primo punto è questo: “Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati a noi raccontano di aver firmato per ottenere i vestiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro”, sostiene Mimma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati, a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono – e vengono uccisi – come bestie.
I ragazzi dell’Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: “Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l’assistenza in detenzione”.
Ma in mezzo all’ondata di decine di migliaia di immigrati, i 102 ospiti di Santa Maria Capua Vetere sono stati dimenticati. È Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: “Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno due volte al giorno... dobbiamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie. E non possiamo nemmeno andare in infermeria...
siamo trattati come animali. Di notte c’è freddo, ci hanno dato solo una coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non c’è la luce”. Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: “Sarebbe una tragedia. Ben Alì se n’è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso”.
Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici.
IL RACCONTO di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca, senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: “Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone addirittura per sei mesi. Non si può stare così… nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti… ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici”. Non basta: “Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore... gente che vive ignorando che cosa li aspetta”.
Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: “Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C’è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro”. Gli immigrati dicono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli… “Hanno firmato di loro spontanea volontà”. Gli agenti del campo, però, sussurrano: “Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall’altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo”.
La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: “Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così. Chissà... parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?”. Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l’orizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: “Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così”.
Repubblica 10.5.11
Bersani: "Il candidato premier? Io ci sono"
A Veltroni: discussioni sì, verifiche no. "Tv, pronto a salire sul tetto dell'Agcom"
Il leader rilancia l'alleanza larga e definisce "non verosimile un'Opa di Vendola sul Pd"
di Giovanna Casadio
ROMA - Non si tira indietro, Pier Luigi Bersani: «Il candidato premier del centrosinistra? Io ci sono. Da statuto e anche personalmente». Affermazione non nuova, ma alla vigilia delle amministrative il passo avanti del segretario del Pd - e la conferma della strategia di alleanza allargata o costituzionale - hanno ben altra risonanza. Il leader democratico ne parla in un´intervista con Bruno Vespa per "Porta a porta", ma registrata nel suo ufficio al partito, in largo del Nazareno. «Come si fa per Berlusconi», ironizzano i collaboratori. E comunque, Bersani (che minaccia: «Sono pronto a salire sul tetto dell´Agcom» se non ci saranno misure contro «lo scandalo» della sproporzione nei tg di presenze della destra rispetto all´opposizione) spiega rotta e mosse future: «Siccome parliamo di un progetto e di una convergenza di forze, io ci sono per la premiership ma voglio discuterne con gli altri. Mi interessa una nuova coalizione di governo e non metto me stesso davanti a questo».
Ce n´è un po´ per tutti, per Nichi Vendola, per Pier Ferdinando Casini e anche per il compagno di partito Walter Veltroni. L´ex segretario vuole una verifica? No, non ci sarà se con questa s´intende una resa dei conti post test-amministrative: «Non facciamo verifiche ma discussioni in cui ognuno dice quello che vuole. Il mio compito è far sì che le discussioni non finiscano sulla punta delle nostre scarpe ma riguardino l´Italia e penso che su questo Veltroni sia d´accordo». Lo è. I veltroniani rimarcano: «Walter e Pier Luigi hanno la stessa idea». A Vendola poi, offre «un patto di governo serio perché non vogliamo ripetere quanto successo con l´Unione». Mentre il rischio di una Opa sul Pd da parte del leader di Sel, la ritiene «non verosimile, un compito francamente impegnativo». Sulla domanda se è disponibile invece a farsi da parte per lasciare strada libera a Casini verso Palazzo Chigi, risponde indirettamente con la proposta ai moderati di «una decina di riforme comprensibili a tutti», tra cui legge elettorale e conflitto di interessi, su cui chiamare le forze disponibili del centrosinistra e del centro moderato alla ricostruzione per il dopo Berlusconi.
La prima tappa però sono le amministrative. Guardando fisso le telecamere, il segretario lancia un appello agli elettori di Lega e Pdl: «Si parla della successione di Tremonti, ma in nessun paese democratico si ragionerebbe così. La realtà è che nel centrodestra sono prossimi alla rissa, Berlusconi sarà sempre lui con una maschera davanti. Mi rivolgo agli elettori del centrodestra: è tempo di fare un riassunto e di chiedersi che cosa è migliorato in Italia. Più che della successione nel Pdl mi occuperei di una vera alternativa perché è ora di occuparsi dei problemi dell´Italia e non di quelli di Berlusconi». «Ottimista» sui risultati di Torino, Bologna e anche di Milano («Andrà bene a cominciare dal primo turno») e di Napoli («Berlusconi ha fallito il miracolo. Morcone è una figura splendida»). Un commento anche sull´incitamento critico del presidente Napolitano all´opposizione perché sappia essere credibile: «Una frase "tirata" molto, ma io sono d´accordissimo. Del resto se non riuscissi a proporre un´alternativa di governo credibile mi riposerei. Io ho sempre governato, noi non siamo degli avventizi. Se non ci fossimo stati noi, oggi non avremmo in mano l´euro. La stessa figura del presidente della Repubblica è la testimonianza della credibilità della sinistra». Infine. Si voterà di nuovo la fiducia in Parlamento? «Il governo faccia quello che vuole, tanto è chiaro che c´è stato un ribaltone da vecchia politica e adesso c´è un esecutivo Berlusconi-Bossi-Scilipoti».
il Riformista 10.5.11
L’intervento di Napolitano
1 e 15
http://www.scribd.com/doc/55073321
il Riformista 10.5.11
“Toghe rosse” ieri e oggi
di Emanuele Macaluso
1 e 6
il Riformista 10.5.11
In Siria stadi come prigioni E in piazza crescono le donneLa repressione s’intensifica. Le forze armate a Banias, Homs e Muadamiy vanno a cercare gli oppositori casa per casa, senza distinguere tra un capo ribelle e un bambino. Dama- sco incassa l’appoggio di Teheran. E anche i Paesi sunniti non fanno mancare la solidarietà dovu- ta ad un autocrate in difficoltà. Ma il regime somiglia sempre più a una tigre di carta
di Antonio Manero
9
il Fatto 10.5.11
Scuola, parte male il test Invalsi
Valutazione in salsa italiana
Infuria la polemica sui quiz per gli studenti Il direttore dell’istituto si dimette, dipendenti in agitazione
di Caterina Perniconi
Cominciano oggi nelle scuole italiane i test Invalsi. Un milione e centomila alunni della primaria, 570 mila studenti delle medie e 530 mila ragazzi delle superiori saranno sottoposti nei prossimi tre giorni ai quiz elaborati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo. L’intenzione è quella di equiparare l’Italia agli altri paesi europei, che sono dotati di strutture per l’analisi dello stato di salute dei loro sistemi d’istruzione.
MA INTORNO ai test Invalsi si sono scatenate numerose polemiche. L’ultima è quella dei dipendenti dell’istituto di ricerca, finanziato dal Ministero dell’Istruzione, che dopo le dimissioni del presidente Piero Ci-pollone, economista proveniente dall’ufficio studi della Banca d’Italia, volato a Washington per andare a occupare uno dei 24 posti di direttore esecutivo alla Banca Mondiale, hanno denunciato “una situazione di forte criticità economica e di incertezza di governo”. Infatti i dipendenti stabili dell’Invalsi sono solo 22, più del doppio i precari con contratti in scadenza.
Le controversie, però, non sono soltanto interne. Dato lo scarso numero di dipendenti, i test nelle scuole saranno somministrati e corretti dagli insegnanti. Ma in regime di totale volontariato: la verifica, infatti, non rientra nelle loro mansioni e non sarà retribuita.
Chiusa la partentesi “difficoltà finanziarie”, le polemiche non sono però esaurite. I Cobas stanno boicottando le prove da molti mesi: “Il Miur – ha dichiarato il portavoce Piero Bernocchi – e i presidi-padroni proveranno con minacce, imbrogli e blandizie a far svolgere nelle scuole gli ignobili, grotteschi e distruttivi quiz Invalsi, che insultano la scuola pubblica, ogni didattica di qualità, la professionalità dei docenti e qualsiasi serio apprendimento da parte degli studenti”.
La contestazione dei sindacati è relativa alle modalità di svolgimento delle prove, che prevedono un mero esercizio di compilazione di test che risultano più vicini ad una schedatura dei risultati che ad una valutazione. Il Miur è corso ai ripari con una nota che prevede che ogni decisione sui quiz Invalsi “deve essere deliberata dal Collegio dei docenti”, ma da queste scelte naturalmente emergeranno istituti “buoni” e istituti “cattivi”. Eppure molte scuole, a partire dalla Capitale, boicotteranno l’iniziativa.
“Il criterio di un serio sistema di valutazione – spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil – non può essere solo quello dell’apprendimento finale. Serve un organo indipendente, non un ente finanziato dal Ministero stesso per valutare il funzionamento del sistema, come nei paesi anglosassoni. I test di questi giorni sono improvvisati, i docenti non sono preparati a farli e i ragazzi a riceverli. Un investimento di risorse sproporzionato al risultato che verrà ottenuto”. Tra l’altro, le classi campione saranno quelle dove le prove verranno distribuite e corrette dai tecnici dell’Istituto. Quindi un numero molto limitato.
I RAGAZZI sono chiamati ad affrontare una prova di italiano e una di matematica della durata di 90 minuti ciascuna per le secondarie, 45 per le primarie. “Il tempo per risolvere i quesiti è pochissimo – spiegano un gruppo di genitori di una scuola elementare del Veneto – facciamo fatica anche noi in 40 secondi a dare le risposte. É inevitabile che i bambini dovranno essere aiutati dalle maestre che altrimenti rischiano di vedere declassata la loro scuola”. Dopo i test gli alunni sono chiamati a riempire un questionario in cui sono chiamati a parlare della loro giornata, del tessuto sociale in cui vivono, di quanto tempo dedicano allo studio e quanto allo sport, se fanno altre attività, se nelle loro case ci sono dei libri, se sono stati vittime di episodi di bullismo e di emarginazione. Proprio su quest’ultimo questionario l’Italia dei valori ha presentato un’interrogazione “per le gravi lesioni della privacy che comportano i test Invalsi”. Del resto, se in futuro le scuole dovessero ricevere i finanziamenti rispetto a questo genere di prove, è chiaro che gli istituti nelle zone svantaggiate del paese, o quelli che hanno molti iscritti stranieri, saranno inevitabilmente penalizzate.
La Stampa 10.5.11
La prova Invalsi
Troppi test banalizzano la scuola
di Luca Ricolfi
Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.
Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.
Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.
Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice.
Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.
Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.
Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.
Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.
Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.
Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.
Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.
Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.
Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.
Corriere della Sera 10.5.11
Via ai test Invalsi nei licei «Un prof su dieci li rifiuta»
di Lorenzo Salvia
ROMA — I Cobas promettono battaglia e il loro leader storico, Piero Bernocchi, dice che «è contrario il 10-15%degli insegnanti» . Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ribatte che a «contestare è solo una parte marginale dei docenti» . E rilancia, confermando che il sistema sarà «esteso dal prossimo anno agli esami di maturità» ed «allargato ad altre materie con l’inglese per l’esame di terza media e le scienze alle elementari» . Si avvicina l’estate e nella scuola comincia la stagione degli esami. Si parte oggi con la settimana dei test Invalsi, prove uguali in tutte le scuole d’Italia che hanno l’obiettivo di misurare la preparazione degli studenti in italiano e matematica a prescindere dal variabilissimo metro di giudizio dei loro insegnanti. Per la prima volta i test riguardano anche le superiori, al debutto proprio oggi con le seconde classi. E sempre per la prima volta, dopo anni di mugugni più o meno sotterranei, è scontro aperto sull’opportunità delle prove. Ci sono genitori e insegnanti che accusano i test di essere troppo difficili, specie quelli per i bambini delle elementari. Ma il nodo è tutto politico e riguarda la delicata questione degli stipendi. Dice Bernocchi, il leader dei Cobas: «Le prove saranno utilizzate per classificare le scuole, i docenti, gli studenti, e per differenziare le buste paga degli insegnanti» . Una lettura che il ministro Gelmini respinge: «La valutazione non serve per punire o premiare gli insegnanti. Ma per migliorare il livello degli studenti, come si fa in tutti i sistemi avanzati» . Proprio per questo i tecnici del ministro dell’Istruzione e dello stesso Invalsi stanno mettendo a punto i nuovi test che dovrebbero arrivare già il prossimo anno: quello per l’esame di maturità che riguarderà italiano e matematica pesando anche sull’ingresso nelle facoltà a numero chiuso, quello d’inglese per l’esame di terza media e quello di scienze per la quinta elementare. I Cobas dicono che con i test Invalsi i «docenti sono stati costretti in modo umiliante a trasformarsi in addestratori da quiz, con pratiche da scuola-guida per la patente» . Qualche eccesso c’è stato, in Italia come all’estero. Ma anche la variabilità del metro giudizio degli insegnanti è un dato di fatto. La Calabria ha il record di 100 e lode alla maturità ma poi i suoi studenti sono agli ultimi posti nella classifiche internazionali, che usano test standard molto simili a quelli Invalsi. Cosa succederà oggi nelle scuole italiane? Dal punto di vista disciplinare gli insegnanti che si rifiutano di distribuire le prove non rischiano nulla. Ma sono gli stessi Cobas a dire che «non tutti gli insegnanti contrari alla fine parteciperanno al boicottaggio, anche perché i presidi stanno facendo forti pressioni» .
Repubblica Roma 10.5.11
"Quiz Invalsi, una schedatura illegale" Le scuole della capitale guidano la protesta
Gli studenti:" Così boicotteremo i test ministeriali"
Le prove verranno consegnate in bianco. E molti genitori terranno i figli a casa
di Sara Grattoggi
I test Invalsi dividono il mondo della scuola che si accinge a somministrare agli studenti le prove dell´Istituto nazionale per la valutazione del sistema d´istruzione. I primi ad affrontare i quiz, oggi, saranno gli alunni di seconda superiore, seguiti da quelli di medie e elementari, ma in molte scuole romane è scattato il boicottaggio da parte di alcuni studenti, docenti e genitori.
«In più di cento scuole d´Italia, di cui il 40 per cento a Roma, i collegi docenti hanno deliberato di non aderire allo svolgimento dei quiz - riferiscono i Cobas - Ma da quanto ci risulta molti presidi hanno diramato ordini di servizio» per spingere gli insegnanti a collaborare. Alla base del rifiuto, secondo il sindacato, «c´è la contrarietà alla logica di attribuire finanziamenti alle scuole e di valutare i professori in base ai risultati delle prove». Mentre il portavoce dell´Idv Leoluca Orlando parla di «violazione della privacy» perché con i test «che non sono anonimi, dato che sono riconducibili attraverso un codice ai nominativi dei singoli alunni, verranno chieste a minorenni informazioni personali, dati sensibili, senza l´autorizzazione dei genitori».
«Le scuole dove si segnalano iniziative contro le prove Invalsi sono Giulio Cesare, Socrate, Virgilio, Cavour, Albertelli, Orazio, Giordano Bruno, Aristotele, Visconti, Ripetta, Pinturicchio, Margherita di Savoia, Aristofane Augusto, Rusell, Kant, Lombardo Radice, Pasteur» informa il collettivo Senza Tregua, che ribadisce «l´invito agli insegnanti a non discriminare gli studenti che sceglieranno di rifiutare i test».
Al liceo Cavour, ad esempio, i ragazzi hanno deciso di «consegnare in bianco i quiz - spiega Valerio Carocci, rappresentante d´istituto - Mentre per le classi campione c´è l´alternativa dell´assenza di massa». Anche la maggioranza dei docenti, in un documento, aveva espresso la propria contrarietà ai test a crocette standardizzati, ma la preside assicura che la loro somministrazione si svolgerà regolarmente.
Simile il caso del Mamiani, dove la maggior parte degli insegnanti si era dichiarata contraria alle prove, che però si terranno comunque perché, informa il preside, «sono obbligatorie per l´istituto». Per questo, alcuni genitori hanno deciso di tenere i propri figli a casa: «La cultura non si misura con i quiz - spiega una mamma, Alessandra Carnicella - Scriverò sulla giustificazione di mio figlio che sono contraria ai test Invalsi».
Alla scuola elementare Maffi, invece, il collegio docenti si è spaccato: la maggioranza aveva deliberato «la non adesione» alle prove «anche nei termini della collaborazione attiva», ma una minoranza ha invece chiesto di poterle somministrare. La preside, Renata Puleo (che aveva espresso il proprio «dissenso di natura epistemologica, educativa, professionale sull´operazione Invalsi»), ha dunque lasciato libertà individuale agli insegnanti, ma spiega: «Alcuni genitori mi hanno diffidata dal somministrare le prove ai loro figli e in quei casi li farò uscire dalle classi».
Repubblica Firenze 10.5.11
Scuole in rivolta contro i quiz "Sospesi i prof che si rifiutano"
Oggi la prova Invalsi. Linea dura al Miche
di Maria Cristina Carratù
Al via da oggi il test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), per studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari. E la scuola torna sulle barricate contro il ministero che la impone.
La Scuola torna sulle barricate, e questa volta tocca al test Invalsi, la prova scritta di matematica e italiano, più un Questionario dello studente (con domande sulla sua famiglia e le sue condizioni di vita), che da oggi vedrà impegnati, anche in Toscana, studenti di seconda e quinta elementare, di prima media, e del secondo anno di tutti gli istituti superiori, statali e paritari. Scopo dell´iniziativa ministeriale (già da qualche anno «somministrata» in elementari e medie, ma all´esordio alle superiori) è di «fotografare» sia la capacità di apprendimento degli alunni (e la sua evoluzione nel tempo), sia - come spiega la lettera alle famiglie inviata dall´Invalsi, l´Istituto nazionale per le valutazione del sistema educativo, titolare della rilevazione - il «valore aggiunto» prodotto da ogni scuola, nonché «i risultati dell´apprendimento al netto dei fattori di contesto socio economico culturale». Ma dopo mesi di battage sindacale - Cobas e Cgil lo contestano come «non scientifico», «fonte di valutazione surrettizia degli insegnanti» e di «discriminazione fra scuole», e «solo apparentemente anonimo», come invece garantito dal ministero - il test di oggi si preannuncia al calor bianco. Al classico Michelangelo gli insegnanti, alcuni dei quali volevano rifiutarsi di sottoporre i test alle quinte ginnasio, si sono visti «obbligati, pena un provvedimento disciplinare che potrebbe anche portare alla sospensione del servizio», da un ordine del giorno del preside Massimo Primerano. A rischio anche gli studenti (ieri pomeriggio riuniti per decidere se lasciare la prova in bianco, o collaborare): «E´ come rifiutarsi di fare un compito in classe» dice Primerano, convinto che la protesta «sia solo ideologica: il test serve alle scuole per autovalutarsi, è una vergogna che qualcuno si sottragga, a meno di non voler confermare che la categoria degli insegnanti è ormai completamente autoreferenziale». Sul piede di guerra è anche l´intero Iti Leonardo da Vinci: «Il collegio dei docenti ha deciso di non collaborare» annuncia il vicepreside Giuseppe Bagni. Gli insegnanti «somministreranno» i test ma non registreranno i risultati e «al ministero andranno i test allo stato grezzo», a meno di non trovare volontari disposti a lavorare gratis: «E´ un impegno in più che andava concordato con noi, non imposto dall´alto, oltretutto non pagato» ricorda Bagni, «e il ministero non può obbligarci a usare i nostri fondi già al lumicino». E perfino alla Paolo Uccello, media ed elementare dove il test non è una novità, quest´anno si protesta: «I docenti non sono disposti a trascrivere i test» dice il preside Carlo Testi, «l´anno scorso l´hanno fatto gratis, non possiamo più obbligarli». «Mi chiedo se sia il modo più corretto per valutare» osserva il preside di Scuola Città Carlo Dogliani, «ed è difficile ottenere collaborazione in una scuola dove il clima non è dei migliori». Al Castelnuovo il preside Giuseppe Di Lorenzo ha riunito ieri il collegio dei docenti, per decidere come affrontare eventuali contestazioni, mentre la Cgil sosterrà gli insegnanti che si rifiuteranno di trascrivere le prove: «Uno svilimento della professione» secondo il segretario Alessandro Rapezzi, «che le scuole devono rifiutarsi di pagare. Il quadro di tagli in cui si colloca la prova Invalsi ne fa lo strumento per valutare i docenti in vista di una ristrutturazione alla Brunetta, con premi solo alle scuole migliori».
il Fatto 10.5.11
Confindustria, nessuno li può giudicare
Con l’applauso al manager Thyssen le imprese rivendicano l’impunità
di Giorgio Meletti
Non è stata una gaffe. Il fortissimo applauso che sabato pomeriggio, durante la convention confindustriale di Bergamo, ha salutato l’amministratore delegato ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, recentemente condannato a 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario, è stato cercato dalla presidente Emma Marcegaglia. E la platea dei seimila imprenditori ha risposto con entusiasmo.
C’è una continuità nella linea della Confindustria sulla sicurezza del lavoro, che risale almeno al predecessore di Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo, che sabato scorso era in prima fila ad applaudire il manager condannato per omicidio. Ieri anche un altro ex presidente degli Industriali, Luigi Abete, è accorso in difesa della presidente attuale con un’argomentazione precisa: “Non si può applicare a situazioni purtroppo tragiche delle normative che vanno oltre l'effettiva responsabilità delle persone”. Il che significa appunto che i giudici di Torino avrebbero punito Espenhahn per un fatto non commesso.
Il 6 marzo 2008, quando il governo Prodi varò un nuovo decreto più severo in materia, Montezemolo tuonò: “Inasprendo le pene e basta non si salvano vite”. Il 21 maggio seguente, all’indomani della morte nella sua fabbrica dell’operaio 32enne Girolamo Di Maio, e mentre veniva eletta presidente di Confindustria, Marcegaglia ripetè : “La sicurezza sul lavoro non si ottiene inasprendo le pene”.
LA SENTENZA THYSSEN
è considerata da molti imprenditori italiani una ferita, un colpo alla libertà d’impresa. Per questo Marcegaglia e i suoi strateghi hanno voluto fare di Espenhahn l’attrazione emotiva delle assise di Bergamo, il simbolo di una ribellione contro l’applicazione rigorosa del codice penale. Incurante del rischio di essere accomunati alla campagna anti-toghe di Silvio Berlusconi, e soprattutto del pericolo di indebolire le buone ragioni di Espenhahn accompagnandolo al processo di appello con l’etichetta di eroe dell’illegalità, come uno stalliere Mangano qualsiasi, Marcegaglia l’ha voluto invitare sul palco degli oratori. Lui ne ha approfittato per ricordare che la sua condanna per omicidio volontario (per aver provocato la morte di sette operai nel rogo del 6 dicembre 2007 alla ThyssenKrupp di Torino) mette in dubbio l’interesse dei capitali tedeschi per l’Italia. Ma soprattutto ha materializzato, davanti agli occhi di una platea spaventata, il pericolo di finire in galera per pagare ingiustamente la fatalità che ha ucciso qualche suo dipendente in azienda.
La questione è complessa, e sicuramente la sentenza Thyssen si presta a qualche seria discussione. Non prima però di aver letto le motivazioni, che ancora non sono state depositate. Nell’attesa, la Confindustria ha favorito una campagna d’opinione contro l’apparente incongruenza di condannare Espenhahn per omicidio volontario, che suona come se egli avesse deciso scientemente di uccidere i sette operai. La questione è giuridicamente complessa, ma viziata da una voglia di propaganda. Infatti nessun esponente del mondo imprenditoriale ha detto una parola sugli altri quattro manager della Thyssen (Gerald Priegnitz, Raffaele Salerno, Marco Pucci e Cosimo Cafueri) condannati per lo stesso incidente e nello stesso processo a 13 anni e mezzo ciascuno per il classico omicidio colposo. Giustizia ingiusta anche quella? Nessuno commenta.
A BERGAMO la linea l’ha data il giornalista Oscar Giannino, incaricato di condurre i lavori a porte chiuse. É’ stato lui a scatenare l’ovazione per Espenhahn, presentandolo con queste parole: “La mia personale opinione è che questa svolta giudiziale della volontarietà omicidiaria apra una strada per la quale, cari imprenditori, vi sarà sempre più difficile trovare manager in grado di accettare l’idea di esporsi a vent’anni di galera come se volessero assassinare i vostri e loro dipendenti”.
Dopo la reazione dello stesso ministro leghista Roberto Calderoli (“Sono i morti che vanno ricordati, non chi ha violato le norme e ha fatto morire i suoi operai”) e delle famiglie delle vittime, secondo le quali quell’applauso “dimostra un cinico disprezzo verso la vita dei lavoratori”, la polemica è stata deviata. Giannino, dal suo blog ( www.chicago-blog.it ), ha chiarito che il rispetto per gli operai morti nel rogo della Thyssen non è in discussione, e che obiettivo dell’operazione Espenhahn era rimarcare che “per la prima volta in Italia è stata accolta da un giudice di primo grado la richiesta di una Procura di applicare agli incidenti sul lavoro la fattispecie dell’omicidio volontario”. La replica gli è arrivata da un suo lettore, Giuseppe: “Se liberismo deve essere, che lo sia fino in fondo, e le aziende si assumano in pieno la responsabilità dei danni che provocano”.
In realtà, per la Confindustria il liberismo è che i giudici non si impiccino troppo di quel che accade dentro le fabbriche. L’offensiva contro le leggi sulla sicurezza del lavoro è in corso da tre anni, e la beatificazione del condannato a 16 anni e mezzo ne è solo una nuova tappa.
il Fatto 10.5.11
Micromega. Giallo Mondadori
Lo strano caso di un best-seller mondiale scomparso dalle librerie
I due specialisti avrebbero scoperto documenti troppo imbarazzanti per il Vaticano
di Giovanni Perazzoli
Il numero monografico di “MicroMega” dal titolo “Crimini d'establishment” da oggi in libreria pubblica in esclusiva l’incipit di “Secretum”, romanzo della coppia Monaldi & Sorti, autori molto apprezzati e venduti all’estero, ma misteriosamente censurati in Italia. Anticipiamo uno stralcio dello scritto in cui Giovanni Perazzoli ricostruisce questo “giallo nel giallo”.
“Secretum”, il libro di cui avete letto l’inizio, non si può leggere in italiano, sebbene sia stato scritto in italiano. È il secondo di una serie di thriller storici ambientati verso la fine del Seicento, che hanno avuto un grande successo commerciale e di critica in tutto il mondo. Benché siano stati tradotti in 60 paesi, nessuno di essi è disponibile in italiano, ad eccezione del primo, “Imprimatur”, pubblicato da Mondadori nove anni fa, ma poi scomparso dalle librerie. Oggi l’Imprimatur italiano viene stampato in Olanda, presso l’editore De Bezige Bij. Ed è alla sesta edizione. Gli autori della saga sono due scrittori italiani, marito e moglie nella vita. Si firmano Monaldi & Sorti. (...) Sono ormai considerati due autori classici del thriller storico. Hanno aperto per due volte la fiera del libro di Francoforte. Grandi quotidiani come The Independent, Le Monde, Die Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Le Figaro hanno dedicato ai due autori ampi servizi. Il regista Peter Greenaway ha dichiarato di volere realizzare una versione cinematografica dei loro romanzi. (...)
Un tempo i libri proibiti venivano distrutti, spesso insieme ai loro autori. Oggi, tutti sono contro la censura. Le logiche del potere, in democrazia, hanno bisogno della maschera (...)
Ma Monaldi & Sorti hanno voluto sfidare questa nebbia postmoderna . Prima di diventare giallisti, erano giornalisti e di formazione sono filologi, con una vocazione ottocentesca ai fatti positivi. La risposta credono di averla trovata. Alquanto suffragata, visto che la stampa internazionale la riprende ogni volta che si parla di loro: il libro è stato boicottato dall’editore che lo ha pubblicato. Su pressione del Vaticano.
NEL 2007 le televisioni nazionali tedesche 3SAT e Deutsche Welle, nonché la televisione pubblica austriaca ORF, hanno mandato in onda – così riporta Simone Berni nel suo “Il caso Imprimatur” (Biblohaus 2008) – un documentario dedicato ai libri di Monaldi & Sorti. La giornalista Imogena Doderer, autrice del documentario, costernata per aver trovato durante la sua indagine in Italia solo porte chiuse, non indugia in un’ermeneutica «debole»: «Nonostante la forte richiesta di mercato, durante il governo Berlusconi “Imprimatur” è scomparso dagli scaffali delle librerie italiane senza un commento della casa editrice, dell’editor, dell’agente. Anche il tentativo della nostra tv di ottenere una dichiarazione dalla Monda-dori o un’intervista con critici letterari italiani è andata a vuoto. L’impenetrabile azienda letteraria italiana è manovrata da logiche mafiose, e questo lo pensano non solo i due autori Monaldi & Sorti» (...).
ANDIAMO CON ORDINE
e raccontiamo quello che all’estero si scrive sull’esilio di questi gialli storici e dei loro autori. Il primo dei libri di Monaldi & Sorti, “Imprimatur”, esce nel 2002 per Mondadori. Il libro scala inaspettatamente le classifiche delle vendite. La prima edizione va subito esaurita; “Imprimatur” si piazza al quarto posto dei 10 libri più venduti della classifica stilata dal “Corriere della Sera”. Senonché, esaurite le copie, le ristampe ritardano di settimane e le vendite si fermano. Monaldi & Sorti, però, che sono ancora in possesso dei diritti per l’estero, pubblicano il libro in traduzione e, di nuovo, scalano le classifiche. Il libro scavalca, per alcune settimane, “Il Codice da Vinci”. Vende bene in Francia come nella lontana Corea; in Bulgaria come in Olanda. Livres Hebdo (25 ottobre 2002) gli dedica la copertina e titola: «Imprimatur. Un successo mondiale». (...)
Il boicottaggio è un fatto. A questo punto, però, manca ancora il movente. In due ampie pagine, sul britannico “The Independent” (13 maggio del 2008), il movente ci viene raccontato sotto il titolo: «Un mistero papale. La vendetta del Vaticano». Due fotografie, che non ci aspetteremmo di trovare in un articolo su un romanzo storico, corredano il testo: una è di Silvio Berlusconi, l’altra di papa Ratzinger. Monaldi & Sorti, scrive “The Independent”, hanno scoperto, nell’archivio segreto vaticano, documenti in grado di comprovare un fatto imbarazzante per la Chiesa di Roma...
l’Unità 10.5.11
Agenzia delle Entrate Il direttore scrive al personale perché non effettui verifiche vessatorie
Meno controlli sulle imprese già con il ddl Sviluppo. La Cgil: si tutela la sensibilità dei furbi
Evasione fiscale, una circolare per redarguire i funzionari zelanti
Una circolare della direzione per redarguire funzionari troppo zelanti, che sembra suggerire un allentamento nei controlli fiscali. Combinato disposto con il ddl sviluppo, che riduce i controlli per le imprese.
di Laura Matteucci
Non bastava il contenuto del «ddl sviluppo», con cui Tremonti giovedì scorso ha ulteriormente allentato i controlli fiscali per le imprese, ponendo un freno alla «persecuzione» della Guardia di finanza. Di quella norma, peraltro, ieri il collega Brunetta ha orgogliosamente rivendicato «il copyright» («l’idea gliel’ho data io», ha dichiarato il ministro della p.a, «d’ora in avanti, ci saranno controlli programmatici e la prassi istituzionale farà sì che ci saranno solo i controlli che servono e chi sbaglierà pagherà»). Anticipando i desiderata tremontiani, di fatto più realista del re, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera (che lo stesso Tremonti ha voluto su quella poltrona) già il giorno prima del ddl sviluppo, il 5 maggio, aveva divulgato al personale dell’Agenzia una circolare interamente dedicata a tutelare la sensibilità dell’evasore.
VERIFICHE ED ESTORSIONI
Un po’ più di due pagine per esortare i funzionari a non effettuare controlli vessatori, tanto più se non sussiste «un solido fondamento», per evitare il rischio di far «apparentare l’attività di verificatori a quella di estorsori». «Devono invece valere sempre scrive tra l’altro Befera modalità di relazione» quali «disponibilità, cortesia, capacità di ascolto, chiarezza nelle spiegazioni, attenta valutazione senza preconcetti di problematiche complesse». Tutte indicazioni che il direttore considera «obblighi precisi di condotta».
Forse che la circolare faccia riferimento a precisi comportamenti di qualche funzionario dell’Agenzia un po’ troppo zelante? Macchè. Befera parla solo di generiche «segnalazioni» di qualche contribuente alla base di tanta reprimenda, segnalazioni che peraltro lui stesso ammette non essere tutte affidabili. «Il messaggio della circolare è chiaro: allentate i controlli spiega Luciano Boldorini, coordinatore nazionale Cgil delle Agenzie fiscali Oltre a questo, c’è il fatto che i lavoratori si sono sentiti offesi, umiliati: non si può criminalizzare una categoria, se si accertano comportamenti sanzionabili da parte dei funzionari Befera deve intervenire, ci mancherebbe, noi non facciamo sconti a nessuno. In caso contrario, non è giusto mettere in dubbio serietà e professionalità dei dipendenti dell’Agenzia». «Senza contare continua Boldorini che, da quella circolare, sembra che i funzionari abbiano
piena autonomia nei piani di accertamento, che invece sono già predisposti in tutto e per tutto dai vari organismi dirigenti».
Tutto questo in un paese dove l’evasione supera i 120 miliardi l’anno di gettito, dove solo l’1% denuncia più di 100mila euro, i dipendenti e i pensionati insieme producono l’80% del reddito dichiarato e pagano l’85% delle tasse incamerate dallo Stato.
In realtà, quella del 5 maggio non è nemmeno la prima circolare sul tema: i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate ne avevano ricevuto un’altra analoga pochi mesi prima. Evidentemente non sufficiente. «Con il direttore commenta Antonio Crispi, segretario Fp-Cgil condividiamo una preoccupazione: il sistema di autotassazione ha bisogno di un rapporto di fiducia tra cittadino e istituzioni. A differenza sua però, crediamo che a incrinare questo rapporto siano i condoni tombali, le sanatorie e le ingiustizie perpetrate da un sistema che opprime il lavoro dipendente, non l’operato di dipendenti che andrebbero puniti solo in caso di violazioni delle norme e non certo per aver urtato la sensibilità di quelli che, ai nostri occhi, restano pur sempre evasori fiscali».
il Fatto 10.5.11
“Ora Netanyahu costretto a decidere”
Lo scrittore israeliano Keret e la pace palestinese
di Alessandra Cardinale
Scettico sulla “riconciliazione” tra Hamas e Fatah, soddisfatto per la decisione di Obama di non mostrare la foto di Bin Laden morto, nostalgico per la politica dei big israeliani di una volta – “non esistono più personaggi come Golda Meir, Peres, Begin e, Netanyahu assomiglia al vostro Berlusconi”. Così Etgar Keret, tra i più autorevoli scrittori israeliani, il cui ultimo libro Suddenly a knock at the door è diventato un best
seller in Israele e presto sarà pubblicato in Italia da Feltrinelli, spiega quanto sia importante, prima di tutto, la pace tra le due anime della Palestina.
Sembrava impossibile ma alla fine Fatah e Hamas hanno messo in calce una firma storica al Cairo. Credi alla “riconciliazione” ?
Sono un po’ sospettoso al riguardo. Mi è difficile credere che improvvisamente Hamas vada d’accordo con Fatah e viceversa . Dobbiamo aspettare per vedere quanto sia seria questa riconciliazione perché i contrasti tra le due fazioni sono stati sempre sostanziali: Hamas vuole uno stato teocratico mentre Fatah sostiene una Palestina secolare e democratica. Queste diversità non scompaiono in un giorno o con una stretta di mano.
Prima di tutto, dunque, il “processo di pace” tra Gaza e Ramallah?
Esattamente. Hamas rispetterà l’autorità di Abu Mazen o la manipoleranno? È la domanda da porsi. Se si dovesse trattare di un accordo serio, allora Netanyahu – a cui piace evitare ogni opportunità di uscire dalla stagnazione politica – dovrà guardare in faccia la realtà. Hamas è in un momento difficile e questa riconciliazione ne è la prova; se si fosse trovata veramente in una posizione di forza rispetto a Fatah non avrebbe mai avvicinato Abu Mazen.
La rivolta araba ha favorito la perdita di consenso di Hamas?
Il fatto che Assad e Ahmadinejad, forti alleati di Hamas, abbiano perso potere è un segnale importante. Inoltre si tratta di una ribellione laica che nulla a che fare con il fondamentalismo. Mentre prima i giovani arabi che volevano dire “io non sono d’accordo” si univano a Hamas o Hezbollah, ora scoprono di avere un’alternativa. Grazie a Facebook e Twitter che non hanno inventato l’ideologia ma ne hanno aiutato la diffusione, la rivolta è diventata un passa-parola e Hamas si è sentita minacciato.
A proposito di nuove generazioni, i giovani israeliani sono descritti – lo hanno fatto Time e Newsweek – come un popolo annoiato dalla politica.
Sono parzialmente d’accordo. Non penso che i giovani israeliani siano annoiati dalla politica. Prima la sinistra liberale in Israele era ricca di iniziativa e sostenuta dai ragazzi. Ma dopo la vittoria di Hamas a Gaza, ha perso la sua forza. Da noi c’è un grande vuoto di leadership, a destra e a sinistra: non ci sono più personaggi come Golda Meir, Rabin, Peres, Begin, lo stesso Netanyahu appare un leader fiacco e senza un programma preciso. Assomiglia al vostro Berlusconi.
Cosa hai pensato della decisione di Obama di non mostrare la foto di Bin Laden morto?
Penso sia stata una delle decisioni più difficili che Obama abbia preso dall’inizio del suo mandato e si è voluto tirar fuori dal circo mediatico. La prima decade del 21esimo secolo è stata dominata dal terrorismo. Lo scopo del terrorismo, lo dice la parola stessa, non è di conquistarti ma di spaventarti e i terroristi sfruttano i media per i loro obiettivi. Il Presidente americano non si è voluto prestare a questo gioco. Al Qaeda ha dichiarato che Bin Laden è morto. Hanno fatto l’esame del Dna. Penso sia sufficiente. Se poi qualcuno a San Francisco vuole scriverci sopra un libro complottista è affar suo.
Corriere della Sera 10.5.11
Il Codice Moscovita di Giordano Bruno
Tra gli scrittori e artisti che celebreranno la Russia Paese ospite del Salone internazionale del libro di Torino (12-16 maggio) si può annoverare anche Giordano Bruno. Nel padiglione russo, infatti, si potrà vedere una copia museale, preparata per l’evento torinese, dell’unico manoscritto al mondo (il cosiddetto «Codice Moscovita» ) autografato da Giordano Bruno, conservato nella Biblioteca di Stato russa.
Repubblica 10.5.11
Una nuova traduzione del "Finnegans Wake"
Se amate le parole rileggiete Joyce
La bellezza dell´opera sta nell´invenzione di una lingua e di neologismi
di Nadia Fusini
Joyce era fatto così. Era uno sfrontato, e non scherzava affatto quando affermò: «cosa chiedo ai miei lettori? che dedichino la vita a leggermi». Ho l´impressione che Luigi Schenoni l´abbia fatto davvero: ha passato la vita a leggere l´illeggibile Finnegans Wake. A leggerlo, e a tradurlo – impresa straordinaria di cui ora cogliamo postumo l´ultimo frutto: la traduzione dei capitoli tre e quattro del secondo libro del Finnegans Wake appena uscito da Mondadori (pagg. 339 di testo a fronte e altre 400 circa di glossario, euro 11). La domanda tanto inevitabile, quanto pertinente è: si può ricreare in un´altra un testo che sfida la lingua in cui nasce, e la lingua in generale, e la comunicazione stessa; anzi, direi, addirittura l´espressione?
Joyce è un genio – non v´è chi ne dubiti. E il suo particolare genio è linguistico; gioca con la lingua come nessuno. O come pochi altri. Per ricchezza e originalità è incomparabile la sua destrezza da giocoliere che lancia e riprende le parole, traffica con la loro intrinseca doppiezza e ambiguità… Sì che qui, come già al cuore del suo libro più famoso, la vera ordalia non è tanto la vicenda del pover´uomo Leopold Bloom, novello sfigato Ulisse, né la veglia funebre di Tim Finnegan, quanto l´odissea dello stile. È il dramma dello stile che possiede Joyce, è il dramma dello stile la sua passione. Di stile Joyce vive e di stile perisce.
In particolare, tale dramma è in scena in questo inclassificabile libro che non a caso per tutto il tempo che lo scrive – quindici anni – ebbe per titolo work in progress. Mentre per Stanislaus, fratello di Joyce, era un delirio, «l´ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione».
Ora, da che mondo è mondo, la prima cosa che il lettore cerca è la storia. È sempre com´era da bambini; si legge per quello, per la storia… E che storia si racconta in questo libro? Io lettore lo apro e in inglese come in italiano subito mi disoriento, perché mi accolgono parole e frasi perlomeno strane, forme linguistiche inusitate, mostruosità, ma anche meraviglie! Mi sgomento, ma anche fiuto una libertà, una danza metamorfica, che a volte si imbizzarrisce in una ridda di significati che implodono in fuochi d´artificio che spesso fanno cilecca, e io povero me lettore travolto, ammaliato, ne esco però anche frustrato, sono troppe le possibilità di senso. E la mia mente ricade imbambolata da difficoltà che non si attendeva. Chi poteva pensare che le frasi si dovessero sfogliare come cipolle? Che esistessero portmanteau-word, mot-valise, parole-macedonia?
Come faccio a capire, se qualcuno non mi insegna come leggere questo tipo di scrittura? Ecco l´importanza della scuola! Perché, vedete, c´era una volta una scuola in cui si insegnava a leggere opere come Ulisse, come Finnegans Wake. C´era una scuola pubblica e c´erano professori e maestri, non per forza comunisti, ma abbastanza rivoluzionari da educare a comprendere che l´essere umano, ovvero parlante, può stare in molti modi dentro al suo elemento naturale, che è la lingua; e farci molte cose, anche giocarci, e giocando scoprire magari la propria vocazione poliglotta. Joyce, irlandese di tendenze rivoluzionarie almeno in letteratura, amava e rispettava Sua Maestà l´Inglese, ma era ben consapevole già ai suoi tempi che nelle isole britanniche erano ben più di una le lingue che si parlavano – il manx, l´irlandese, il gaelico, il gallese, e l´inglese era una delle tante… Sapeva che la lingua non è un sistema chiuso; anzi, se mescola le lingue, quelle vive e quelle morte, se le contamina coi dialetti, se inventa neologismi, è perché per lui la lingua è come la vita, e da vero scrittore, da fedele amante, ne difende la vocazione segreta, e cioè la versatilità, la tendenza all´amalgama. Segreto ben noto prima di lui a Shakespeare, a Rabelais, a Sterne, e negli stessi anni suoi condiviso da Leiris, Breton, Gertrude Stein – che come lui lottano per una concezione dinamica della lingua, capace di rinnovare il sentimento del mondo.
Nel Finnegans Wake non è soltanto Tim Finnegan, il muratore morto cadendo sbronzo da una scala, che bisogna vegliare, ma il linguaggio, perché si apra a una internazionalizzazione quasi da esperanto, perché non si provincializzi in usi proprii, stereotipati. È a quest´invito che bisogna rispondere leggendo questo libro, che è ormai una leggenda. Leggenda che la versione del poeta-traduttore Luigi Schenoni rinsalda, anzi amplifica; all´epica della creazione del capolavoro illeggibile aggiungendo l´epica della traduzione impossibile.
Agli audaci che si apprestano a leggere prometto una cosa certa: dalla lettura usciranno più intelligenti di prima, più vivi, più accorti, più ricchi… Ne ho la prova con i miei studenti.
Repubblica 10.5.11
Spirito, natura e ragione. Ecco il credo di un laico
Se decidessi di avere un solo Signore e Salvatore questo sarebbe l'Uomo o l'Umanità
Il saggio del matematico è una lettera a Benedetto XVI
Una introduzione all´ateismo rivolta al pontefice teologo
di Piergiorgio Odifreddi
Anticipiamo un brano da Caro Papa ti scrivo in uscita da Mondadori
Alla fine del nostro confronto, lei, caro papa Ratzinger, sa ormai che il suo non è un Credo che possiamo condividere, né che io possa professare. Ma cosa dunque potrei professare, se proprio volessi pregare? In conclusione, prima dei commiati, cercherò brevemente di riassumere la mia posizione, sfrondandola degli argomenti che ho portato a suo sostegno, e cristallizzandola appunto in una forma il più possibile parallela al suo Credo, benché opposta nella sostanza.
Così facendo manterrò, da un lato, un legame formale con la tradizione occidentale, che ha aderito fino al Medioevo e al Rinascimento alle formule della professione di fede che abbiamo appena finito di commentare. Ma, dall´altro lato, opererò una cesura sostanziale col contenuto di quelle stesse formule, che a partire dall´Era Moderna e Contemporanea sono state sempre più identificate come l´espressione di una fede sorpassata filosoficamente, inadeguata storicamente e sbagliata scientificamente.
Nello stilare il mio Credo mi schiererò allo stesso tempo a favore del realismo scientifico e storico, che accetta tutto ciò che c´è, o è accaduto, e contro l´illusionismo fantascientifico e fantastorico, che indulge in ciò che non c´è, o non è mai accaduto. Anche se, come d´altronde non fa neppure il Credo originale, non tenterò di completare il mio Credo positivo con un suo complemento negativo, che pretendesse di enumerare e specificare in dettaglio ciò in cui non credo. (…)
Se dunque proprio volessi adattarmi a parlare il suo linguaggio e decidessi di professare anch´io la fede in un solo Dio, che mi trascende e mi sovrasta, ai voleri del quale volessi e dovessi inchinarmi, e che potessi adorare e amare, questo sarebbe la Natura, che tutto genera da sé e per sé.
Così come, se decidessi di avere un solo Signore e Salvatore, questo sarebbe l´Uomo o l´Umanità. Da ritenere non il metaforico primogenito della Natura, col diritto biblico di "soggiogare la terra e dominare su ogni essere vivente" (Genesi, 1, 28), ma il letterale ultimogenito, col dovere naturale di rispettare e preservare l´ambiente e tutte le altre forme di vita. E, soprattutto, da considerare come un´entità superiore agli individui che la compongono, e della quale gli uomini dovrebbero chiedersi costantemente che cosa possono fare per essa, invece di limitarsi a pretendere soltanto che l´Umanità e la Natura facciano qualcosa per loro.
Ma questo duplice "materialismo umanistico" e "umanesimo materialista" sarebbe un ben misero sostituto della religione, se non fosse accompagnato da una fede non solo nella Natura e nell´Uomo, ma anche nello Spirito che si manifesta nella coscienza che noi abbiamo del mondo e di noi stessi.
Uno Spirito puramente immanente, che procede dalla Natura e dall´Uomo, e che noi giustamente consideriamo una nostra caratteristica tanto costitutiva, da arrivare a commettere spesso due complementari errori di sopravvalutazione al suo riguardo. Ritenendolo, da un lato, trascendente, invece che emergente. E, dall´altro lato, necessariamente umano, invece che legato soltanto alla complessità di un sistema: in particolare, già attualmente presente in altri animali superiori, e potenzialmente anche nelle macchine in generale, e nei computer in particolare.
Come uomini, però, a noi interessano soprattutto il nostro Spirito e le sue conquiste: prima fra tutte, la sorprendente scoperta che la Natura non è caotica, come ci si sarebbe potuto aspettare, bensì ordinata. E che il suo ordine non appare soggettivamente imposto dall´Uomo, come quello alfabetico delle parole di un linguaggio. Bensì risulta oggettivamente intrinseco alle cose, come quello matematico degli oggetti aritmetici o geometrici, o quello logico dei ragionamenti.
Nella Natura si manifesta dunque un ordine universale, che si chiama Logós in greco, Ratio in latino e Ragione in italiano. Il che ci permette di dare un senso letterale al versetto metaforico del Rig Veda, poi annesso dal versetto 1,1 di Giovanni: "in principio era la Ragione, e la Ragione era presso Dio, e Dio era la Ragione". Intendendo, naturalmente, per "Dio" la Natura.
Analogamente possiamo interpretare il versetto 1,14: "la Ragione si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi", intendendolo nel senso che la ragione umana è uno dei modi in cui la Ragione cosmica si manifesta nell´ordine della Natura. Essendone una manifestazione, essa partecipa della Sua essenza. E può percepirne altre analoghe manifestazioni, che esprime in quelle leggi di Natura, la cui ricerca e scoperta costituiscono gli scopi primi e ultimi dell´impresa scientifica. Ma essendone appunto soltanto una manifestazione, la ragione umana trova nella Ragione cosmica una trascendenza che la sovrasta, e al cospetto della quale non può che percepire la propria limitatezza.
Il cerchio aperto dalla mia riformulazione laica del Credo si chiude dunque con la scoperta che non soltanto le parole della sua professione di fede possono essere reinterpretate sensatamente. Ma che anche l´esperienza religiosa trova una sua sublimazione nel sentimento che l´Uomo arriva a provare di fronte alla Natura attraverso la mediazione dello Spirito, e più specificamente di quella sua quintessenza che è la Ragione.
Si arriva così a una "vera religione", profonda e intellettuale, che gli scienziati da Pitagora ad Einstein hanno da sempre professato, e di cui le religioni istituzionali costituiscono soltanto superficiali caricature. Di qui i motti che esprimevo, forse in maniera un po´ provocatoria, fin dagli inizi della mia opera divulgativa in Il Vangelo secondo la scienza. Da un lato, che la matematica e la scienza sono l´unica vera religione, il resto è superstizione. E, dall´altro lato, che la religione è la matematica, o la scienza, dei poveri di spirito.
Anche questa "vera religione" ha i suoi misteri, che si manifestano anzitutto nell´astratta e stupefacente constatazione che l´Uomo può comprendere qualcosa della Natura. E poi, nei concreti e stimolanti problemi scientifici che ancora non hanno trovato soluzione definitiva: primi fra tutti, le origini dell´universo dal vuoto, della vita dalla materia inanimata, e della coscienza dai primati superiori.
Al confronto di questi veri misteri, ancora una volta quelli delle religioni, dai dogmi ai miracoli, non appaiono che misere caricature, buone soltanto per coloro che credono appunto che "beati sono i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei Cieli" (Matteo, 5,3). Io preferisco credere invece che beati siano i ricchi di Spirito, perché di essi è la repubblica della Terra.
Quanto alla mia professione di fede, è dunque così che enuncerei il mio Credo laico. Come promesso, sulla falsariga del suo: "Credo in un solo Dio, la Natura, Madre onnipotente, generatrice del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, l´Uomo, plurigenito Figlio della Natura, nato dalla Madre alla fine di tutti i secoli: natura da Natura, materia da Materia, natura vera da Natura vera, generato, non creato, della stessa sostanza della Madre. Credo nello Spirito, che è Signore e dà coscienza della vita, e procede dalla Madre e dal Figlio, e con la Madre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti dell´Intelletto. Aspetto la dissoluzione della morte, ma non un´altra vita in un mondo che non verrà".
Repubblica 10.5.11
Ansia, fobie e dolore il revival dell´ipnosi
È boom negli Usa, e in Italia viene utilizzata su 5 milioni di pazienti Una tecnica che può essere insegnata per contenere le emozioni negative Gli ultimi studi confermano l´efficacia nel controllare la sofferenza
Lo stesso Freud l´aveva usata ma l´abbandonò per riapparire intorno al 1950
di Luciana Sica
A leggere il New York Times, negli Stati Uniti il ricorso all´ipnosi clinica interessa un numero sempre più crescente di pazienti. A quanto sembra, è un "boom". Del resto, nella cultura anglosassone di segno pragmatico, non è certo l´aura magica ad aleggiare sulle tecniche ipnoterapeutiche e lo scetticismo non è un deterrente per chi sta male e cerca un sollievo rapido al dolore, quello fisico innanzitutto. Neppure incoraggiano la diffidenza i risultati di uno studio serio come quello dell´Harvard Medical School: chi si sottopone a ipnosi dopo un intervento chirurgico reagisce meglio e spende meno in farmaci.
«È una conferma dell´efficacia dell´ipnosi nella terapia del dolore», dice Camillo Loriedo, il docente di psichiatria della Sapienza di Roma da un paio d´anni alla presidenza dell´Associazione internazionale di ipnosi. «Non c´è dubbio che serva a ridurre l´uso di analgesici e a "controllare" lo stato di sofferenza». Ma in che consiste, esattamente? Loriedo: «L´ipnosi è uno stato psico-fisiologico che tende a restringere il campo della coscienza e ad aumentare la concentrazione, focalizzando un contenuto della mente. È una terapia riconosciuta dal sistema sanitario nazionale, e seppure non ancora diffusissima nei servizi pubblici conta su diecimila psicoterapeuti specializzati e quattro scuole di formazione riconosciute dal ministero, oltre a centri di eccellenza come quello milanese diretto da Giuseppe De Benedittis... Nel privato, mediamente si fanno una decina di sedute che costano ognuna intorno ai cento euro, ma può cambiare caso per caso. Per noi è importante l´ascolto del paziente e la conoscenza della sua storia».
L´ipnosi ha conquistato gli americani, ma si potrà parlare di un boom anche italiano? Quanti di noi avrebbero "scoperto" un mezzo così rapido e poco costoso di cura? «Certamente negli ultimi dieci anni la richiesta è molto aumentata e riguarda - secondo una stima attendibile - almeno 5 milioni di persone».
Curioso il revival dell´ipnosi, una cura che rappresenta la preistoria della psicoanalisi. Freud abbandonò questa tecnica per il suo carattere suggestivo, l´improbabile durata degli effetti terapeutici, la frequente comparsa di nuovi sintomi, la mancanza di un´analisi delle "resistenze" del paziente. Più tardi, negli anni Cinquanta, fu Milton Erickson a indicare i criteri dell´ipnosi "moderna", ma oggi gli ipnoterapeuti cosa riescono a curare?
Loriedo fa un elenco: «È con ottimi risultati che curiamo i disturbi d´ansia, gli attacchi di panico, le fobie. E poi quelle paralisi che una volta si definivano isteriche come la perdita improvvisa di sensibilità, di udito, di capacità verbale, tutti "disturbi di conversione" legati spesso ad episodi traumatici.. Più problematiche sono le patologie ossessivo-compulsive e dei disordini alimentari, mentre raramente si utilizza l´ipnosi per le schizofrenie, le personalità borderline, l´eccitamento maniacale. Tutti casi in cui sono indispensabili i farmaci integrati a psicoterapie molto accurate».
Il New York Times parla diffusamente anche di "autoipnosi", e con testimonianze che sembrano convincenti. Lei, professor Loriedo, insegna l´autoipnosi? «Abbastanza spesso, come tanti colleghi. È uno strumento di cui è possibile servirsi in momenti particolarmente difficili... Prima si fa un´induzione ipnotica, poi si istruisce il paziente su come riproporla a se stesso nei casi di necessità, per ritrovare la calma o contenere le emozioni negative».
Repubblica 10.5.11
Quando l’autismo è una risorsa per tutti
Luisa Di Biagio, persona con sindrome di Asperger, svela con delicatezza e ironia il proprio mondo, gli avvenimenti che ne riempiono la quotidianità, il suo diverso sentire. Il libro che ha scritto è prezioso per genitori, insegnanti, per chi conosce l´autismo (Una Vita da regina … dei cani, Erickson 2011). Di fronte a sesso, denaro, lavoro, la percezione di ciascuno è così diversa da indurre comportamenti opposti. Chi vende la propria esistenza per soldi, appiattendo l´etica personale per il successo, trarrebbe dalla lettura gran vantaggio. Comincerebbe a pensare che esistono altri modi e mondi, chiamati "folli", che hanno più saggezza del suo. Neuro diversi e neuro tipici hanno cervelli dissimili e sono ricchezza sociale se utilizzati al meglio. Educare alla diversità dall´asilo significa costruire una società nella quale modi di pensare e comportamenti "strani" non sono malattie da normalizzare, ma arricchimento culturale, elemento identificativo essenziale di persone che non vogliono trasformarsi in numeri di letto.
Repubblica 10.5.11
Dal laboratorio nasce l’occhio dotato di retina
Scienziati giapponesi hanno "guidato" lo sviluppo di cellule embrionali di topo È l´organo più complesso sinora realizzato
di Eugenio E. Müller
Una retina creata in laboratorio in Giappone potrebbe aprire la strada al trattamento di malattie dell´occhio, incluse alcune forme di cecità.
La notizia, appena pubblicata su Nature, si riferisce alla possibilità che, creata aggregando cellule staminali embrionali di topo in una precisa struttura tridimensionale, la retina in provetta rappresenti il più complesso tessuto biologico sinora ingegnerizzato. Le reazioni degli addetti ai lavori sono state di stupefazione, incredulità.
Se la nuova tecnica potrà essere adattata alle cellule umane e si dimostrerà sicura per il trapianto - un evento che richiederà anni - essa potrà fornire quantità illimitate di tessuto per sostituire le retine lesionate. Sino da ora, tuttavia, la retina sintetica potrebbe aiutare i ricercatori nello studio delle malattie dell´occhio e a identificare nuove terapie.
Precedenti studi suggerivano che in presenza di adatti segnali, le cellule staminali potessero formare tessuto oculare spontaneamente. Un insieme di geni è sufficiente a indurre embrioni di rana a formare occhi su altri parti del corpo, e cellule embrionarie staminali umane poste in provetta possono essere indotte a formare le cellule pigmentate che sostengono la retina, strati di cellule simili a lenti e cellule retiniche sensibili alla luce.
Ma le strutture oculari create dai ricercatori giapponesi sono molto più complesse.
La "coppa ottica" è una struttura particolare che ha due distinti strati cellulari. Lo strato esterno - il più vicino al cervello - è formato da cellule retiniche pigmentate che danno nutrimento e sostegno alla retina. Lo strato interno è la retina stessa, e contiene diversi tipi di neuroni sensibili alla luce, cellule gangliari che veicolano l´informazione luminosa al cervello, e cellule di sostegno. Per formare questa struttura, i ricercatori giapponesi hanno coltivato le cellule embrionarie di topo in una "zuppa nutriente" arricchita di proteine che hanno stimolato le cellule staminali a trasformarsi in cellule retiniche. Ulteriore aggiunta, un gel di proteine per sostenere e tenere insieme le cellule.
Dapprima le staminali formavano "bolle" di precoci cellule retiniche. Nella settimana successiva le bolle crescevano e generavano una struttura che si osserva precocemente nello sviluppo dell´occhio, la vescicola ottica. Quello che è più sorprendente è che, come in un embrione, anche in laboratorio la vescicola ottica dava origine a una coppa ottica.
Non è ancora noto se le coppe ottiche possano percepire la luce o trasmettere gli impulsi al cervello di topo. Questo rappresenta il più immediato traguardo dei ricercatori giapponesi.
In una prospettiva futura, la disponibilità di retine sintetiche umane prodotte dalle staminali del paziente riprogrammate sarà utile per rimuovere i difetti molecolari alla base delle malattie degli occhi, e trovare trattamenti utili per esse.
* Professore di Farmacologia, Università Statale di Milano
Corriere della Sera 10.5.11
«Non votate Vendola, è gay». Bufera sull’imam a Milano
di G. San.
MILANO — Sabato pomeriggio, riunione nei locali della moschea di Segrate, alle porte di Milano. Le prossime elezioni amministrative sono uno dei temi di discussione e il «padrone di casa» , Ali Abu Shwaima, affronta il tema parlando dell’etica islamica, spiegando che, nel decidere a chi dare il proprio voto, «i musulmani milanesi dovrebbero tener presente la condotta di vita dei candidati e la consonanza con i princìpi dell’islam» . L’agenzia Adnkronos International, nel dare conto dell’incontro, riporta una frase con un riferimento specifico: «I musulmani di Milano non devono votare i candidati della lista di Sinistra, Ecologia e Libertà perché il suo leader, Nichi Vendola, in quanto omosessuale, ha una condotta non in accordo con l’etica islamica» . Al Corriere, nel pomeriggio, Shwaima assicura di non aver parlato «né di una specifica parte politica, né di particolari candidati» . In poche ore si moltiplicano però le critiche e le polemiche. Le posizioni più dure sono proprio di Sel e di altri rappresentanti della comunità musulmana. Al centro della discussione finisce Davide Piccardo, figlio di Hamza, fondatore e storico rappresentante dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Davide è nato nel 1982; ha studiato e lavorato tra Francia, Egitto e Colombia; nel 2010 è ritornato a Milano per poi candidarsi con la lista di Vendola al consiglio comunale. Qualche giorno fa ha creato un po’ di scompiglio davanti al Tribunale per gli insulti rivolti a Silvio Berlusconi. «Trovo scorretto — spiega Davide Piccardo — che l’imam di Segrate emetta una sorta di fatwa nei nostri confronti. Ritengo che la mia comunità non possa rimanere in questo stato di arretratezza culturale» . Shwaima è una personalità di altrettanto storico rilievo: fu lui a fondare, nel 1988, la mosche di Segrate, la prima con cupola e minareto costruita in Italia nell’epoca moderna. Cerca di smorzare le polemiche: «Ho fatto solo un discorso generale. Come dire: se una persona ha rapinato una banca, non la voto» . L’imam ammette però che anche l’omosessualità rientra tra gli elementi da «tenere in considerazione» . Il direttore del centro islamico di Monza e membro dell’Ucoii, Fouad Selim, prende subito le distanze: «Sosteniamo chi dimostra sensibilità per la nostra causa. Quella di Ali Abu Shwaima è una posizione isolata. La sua fatwa non vale» . Critiche durissime dalle organizzazioni gay e dalla lista di Vendola. Daniele Farina, coordinatore milanese di Sinistra, Ecologia e Libertà, spiega che «Sel abbraccia con fierezza il suo presidente, tutti i suoi candidati e con loro Davide Piccardo, che è portatore oggi di un’idea maggioritaria e di futuro contro certi fondamentalismi che provengono dal mondo delle religioni, musulmana quanto cattolica, o della politica»