l’Unità 11.5.11
In un libro-intervista dell’amico scrittore Baptista Bastos, il Nobel portoghese si racconta
Dalla letteratura alla politica Il volume uscirà domani per L’Asino d’oro. Anticipiamo un brano
Saramago: «Fare di ogni cittadino un politico»
Anticipiamo
ampi stralci del libro-intervista «Josè Saramago. Un ritratto
appassionato», che esce domani per L’Asino d’oro. Nato ad Azinhaga il 16
novembre 1922, Saramago è morto a Lanzarote il 18 giugno 2010.
di José Saramago e Baptista Bastos
Baptista-Bastos Il romanzo è l’immaginario che aspira a ricondurre la «verità» del «reale» ad altre «verità» e altre «realtà»?
José
Saramago A parte il mio modesto piacere nel raccontare storie, il
romanzo credo sia per me oggi il modo di trasmettere una serie di
preoccupazioni, o se vuoi, in qualche caso, anche ossessioni. Certe
volte sono portato a chiedermi se sono davvero un romanziere o se i miei
libri siano in realtà dei trattati in cui ho inserito personaggi. Forse
non sono uno scrittore nel senso con cui lo si intende di solito, non
mi ci vedo, non mi sono mai visto a scrivere romanzi perché si deve pur
vivere, un romanzo dopo l’altro. Questo atteggiamento spiega, o almeno
dovrebbe, la ragione per cui nei miei romanzi non si trovano filoni
ricorrenti, benché in fondo le mie tematiche siano sempre quelle. Dopo
Memoriale del convento, ad esempio, non mi sono interessato
all’acquedotto di Águas Livres per scrivere un libro sulla sua
costruzione; quel filone è rimasto lì. Baptista-Bastos Hai espresso
molte volte il tuo debito verso padre António Vieira. Ma se non sbaglio
non hai mai, o quasi mai, alluso al tuo debito nei confronti di
Cervantes, soprattutto per quanto riguarda le rotture temporali e la
noncuranza per la cosiddetta cronologia del romanzo.
José Saramago
Il mio rapporto con la scrittura di padre António Vieira vorrebbe
davvero essere (e non vuol dire che lo sia) un rapporto basato sul
linguaggio. Nessuno, ne sono consapevole, ha mai scritto in portoghese
come ha fatto padre An-
tónio Vieira, e questa sorta non dico di
modello, perché non credo alla loro esistenza né alla loro validità,
questa sorta di limite, che a questo punto è il limite dell’ineffabile,
esercita su di me una certa attrazione. Sì, so quanto padre Vieira possa
perdersi in concettismi e occultismi anche esasperanti. Ma è il mio
ascendente letterario più forte e quindi forse pure la causa o la
conseguenza – me ne accorgo io e se ne accorgono lettori e critici – di
un certo mio barocchismo nella costruzione delle frasi. O forse non è
proprio barocchismo, perché ha radici molto più vicine alla narrazione
orale, alla maniera di raccontare tramite effetti di sospensione oratori
dominata dai bravi narratori, i quali non si limitano a raccontare
storie in modo lineare. Adoperano allusioni, gestualità, espressività,
sospendono, interrompono, guardano il pubblico negli occhi. È una specie
di teatro dei burattini, in cui attraverso il solo uso della parola il
narratore presenta, oltre all’azione e ai personaggi, sentimenti ed
espressioni. Esiste una manipolazione della parola secondo me affine a
quanto accade (in modo invisibile per chi assiste) dietro il piccolo
riquadro entro cui le marionette si muovono. Per quanto riguarda
Cervantes, è vero, è stato una mia lettura fin da piccolo, alcune fra le
Novelle Esemplari e soprattutto Don Chisciotte. Ma se certe mie
caratteristiche derivano da lui è per assimilazione inconscia, al limite
per induzione, penetrazione, non attraverso la mente ma attraverso la
pelle. È come se leggendo Cervantes mi rendessi conto di quanto anche
lui mi appartenga, ma non in maniera cosciente. Baptista-Bastos Sei uno
scrittore comunista o un comunista scrittore?
José Saramago Se
dicessi scrittore comunista, significherebbe uno scrittordo ancora non
ero comunista, dunque ho cominciato come scrittore, direi. Ma è anche
vero che i miei romanzi più importanti sono venuti quando ero già un
comunista militante, intento a far passare il messaggio – per usare una
parola trita – del comunismo. Se dicessi di essere un comunista
scrittore, allora sarei un comunista che ha deciso di diventare
scrittore per trasmettere lo stesso messaggio. Preferisco dichiararmi
una persona che è, allo stesso tempo, comunista e scrittore. E se
proprio devo scegliere un ordine, allora sarà necessariamente un ordine
cronologico. Ho cominciato a scrivere a 25 anni. Il mio primo libro è
uscito a quell’epoca, quando ancora non ero comunista, dunque ho
cominciato come scrittore, direi. Ma è anche vero che i miei romanzi più
importanti sono venuti quando ero già un comunista militante.
Baptista-Bastos La caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Est
europeo, lo svuotamento delle ideologie ti hanno mai spinto a chiederti
se il comunismo è morto, se è mai esistito, se ne è valsa la pena?
José
Saramago Prima di tutto, ne è valsa la pena. A prescindere dagli
errori, da tutti i crimini, ne è valsa la pena. In secondo luogo il
comunismo non è mai esistito. Quando il signor Brežnev, con il sistema
già in agonia, affermò forte e chiaro che l’Unione Sovietica era ormai
entrata nella fase del comunismo, se con il senno di poi ricordiamo cosa
succedeva allora, non viene voglia di ridere per niente. Sto cercando
di dire – è una cosa ben poco marxista e probabilmente abbastanza
idealista – che tutta questa storia mi ha insegnato (e non me lo ha
insegnato adesso, lo dicevo già prima della caduta del muro di Berlino)
che non può esistere socialismo senza socialisti. Cioè, dal momento in
cui ogni necessità materiale fosse stata soddisfatta, avrebbe dovuto
prodursi nell’essere umano un salto di qualità tale da creare l’uomo
nuovo. Ma, e lo dimostrano i fatti, tre generazioni di socialismo con o
senza virgolette non hanno formato un bel niente. Quelli che saremmo
tentati di chiamare uomini nuovi hanno tutti lo stesso nome, si chiamano
tutti Eltsin. Pertanto, quando dico che non può esistere socialismo
senza socialisti sto ragionando all’inverso, perché credo che essere
socialisti sia un atteggiamento dello spirito. Baptista-Bastos Anche se
quasi tutto scompare, rimane il terreno di coltura? José Saramago Sì,
c’è una fertilizzazione continua. Il terreno dove piantiamo il seme
perché nasca l’albero è nutrito ripetutamente dalla storia, ne è
irrigato e a volte perfino distrutto; è un tipo di suolo in costante
mutamento, in cui le idee mettono radici. Quantomeno anche qui si vede
come nulla si perde e tutto si trasforma. Baptista-Bastos Cosa si è
realizzato dei tuoi desideri politici? José Saramago Molto e poco al
contempo. Perché chi come noi è stato ridotto politicamente a mera
statistica, quando oggi si trova in una situazione in cui gode di un
certo numero di libertà, capisce quanto i propri massimi desideri di
allora, benché realizzati, fossero tutto sommato esigenze minime:
libertà di pensiero, di costituirsi in partito, di non dover andare in
giro con la paura della polizia politica... Tutto quello che ci sembrava
un bisogno assoluto si è rivelato il minimo. Il minimo cui abbiamo
diritto. Pertanto, quando ci dicono che la democrazia è un grande
traguardo, certo, lo è, ma è anche il minimo, perché a partire da qui si
comincia ad aggiungere quello che manca davvero, ossia la possibilità
per il cittadino di intervenire in ogni circostanza della vita pubblica:
fare di ogni cittadino un politico, vale a dire rendere i cittadini
come i politici che dedicano, o almeno così dicono, la propria vita al
bene del popolo e dello Stato, rinunciando quindi a soddisfazioni di
altro genere – in qualche caso magari accade davvero. Secondo me tutti i
cittadini dovrebbero sentirsi impegnati in quest’opera tanto quanto
dicono di esserlo i politici. Ecco perché le libertà di stampa e di
associazione sono il minimo, perché da lì comincia la ricchezza
spirituale e civica del cittadino autentico. Baptista-Bastos La morte
non ti fa paura?
José Saramago No, non mi fa paura. Credo di
essere guarito dalla paura della morte quando, a 16 o 17 anni, ho avuto
la rivelazione della sua ineluttabilità in un modo che non auguro a
nessuno. Sono stati mesi duri, in circostanze normalissime mi
confrontavo con l’evidenza di questo fatto e ne restavo completamente
paralizzato: devo morire, morirò. Quasi fosse stato quello il momento
della mia morte. Poi mi è passata del tutto. Alla fin fine ho avuto una
vita piuttosto lunga. Evidentemente, come ogni vita, si avvicina alla
sua fine, benché nessuno sappia quando morirà. Anche chi muore a 20
anni, si può dire, muore nella sua personale vecchiaia, pur senza
saperlo. Ma a ogni modo, lo sappiamo, esiste un limite naturale a cui mi
sto avvicinando. E per tornare alla questione del diario, è questa
coscienza, fra l’altro, a spingermi a fissare il tempo. Mi ritrovo con
un bisogno di parlarne, benché sia un bisogno niente affatto morboso.
Quasi volessi esorcizzare non una paura, perché non ne ho, ma è come se
dicessi: «Non così in fretta, ho ancora qualcosa da fare».
Corriere di Bologna del Corriere della Sera 11.5.11
Saramago mai letto Anteprima nazionale a Bologna del libro-intervista con il Nobel Appuntamento domani alla Feltrinelli con la vedova Pilar del Rìo
di Piero Di Domenico
Nel 2000 fu anche a Bologna, e incontrò Eco con il quale instaurò un rapporto di profonda stima. Josè Saramago era abituato a viaggiare. Ma il luogo più amato era quella «casa fatta di libri» dell’isola di Lanzarote, nelle Canarie, dove era solito fare lunghe camminate. È lì che il Nobel portoghese se n’è andato nel giugno scorso, all’età di 88 anni. In quel luogo pieno di angoli appartati, qualche anno fa Saramago era stato raggiunto dal collega e amico Armando Baptista Bastos. I frutti di quella conversazione, svoltasi passeggiando tra i vulcani, ora arrivano anche in Italia nel volume José Saramago. Un ritratto appassionato (L’Asino d’oro) con la traduzione di Daniele Petruccioli. In anteprima nazionale, ancor prima che al Salone del Libro di Torino, il libro viene presentato a Bologna domani alle 18 alla Feltrinelli di piazza Galvani. Sarà presente la vedova dello scrittore, la giornalista spagnola Pilar del Rìo, alla guida della Fondazione Saramago, che ogni giorno ricorda sul proprio sito l’autore di Cecità con un suo aforisma. Seconda moglie di Saramago e di lui molto più giovane, del Rìo è stata al suo fianco dal 1986, come ricorda lo stesso scrittore nel libro: «Chiamarla moglie, amante, compagna, amica, sarebbe uno sforzo riduttivo. Il nostro rapporto è un’altra cosa» . L’autore, a Bologna era stato nel 2000, per la Capitale europea della cultura, quando aveva partecipato all’incontro dell’Accademia universale delle culture dedicato alla comunicazione insieme ad altri due Nobel come Elie Wiesel e Wole Soyinka e ad altri studiosi tra i quali Umberto Eco. Curiosamente, uno degli episodi citati nel libro vede protagonista proprio quest’ultimo. Baptista Bastos racconta di come lui stesso avesse sentito Eco complimentarsi con Saramago durante un ricevimento: «Il suo Memoriale del convento è uno dei romanzi più emozionanti e uno di quelli da cui mi sono sentito più arricchito come essere umano» . E di come Saramago, orgoglioso e imbarazzato al contempo, fosse rimasto senza parole «davanti a quell’uomo robusto e radioso che non si faceva forte di prestigio ed erudizione, ma manifestava la gioia pura del comune lettore» . Una sensazione condivisa dall’ampia comunità dei sedotti da Saramago e dal suo gusto dell’avventura e della fantasia, dal piacere del sogno, dalla sensazione di non essere soli» , attratti, come scrive Baptista-Bastos, da uno scrittore che «racconta la storia, sempre rinnovata e incompiuta, di un flagrante delitto. Quel delitto monumentale che è la condizione umana. Precaria, in vendita, coraggiosa, vigliacca, innamorata, corrotta e pura nel suo resistere» . «Baptista-Bastos e Saramago— racconta la del Rìo— si erano conosciuti durante la militanza politica contro la dittatura di Salazar. Entrambi figli dell’Illuminismo, eredi di quella tradizione che mette l’essere umano al centro di tutte le cose» . Saramago, che in realtà si chiamava de Sousa ma fu registrato all’anagrafe con il soprannome della famiglia, «saramago» cioè ravanello selvatico, proveniva da una stirpe di contadini senza terra e aveva incontrato enormi difficoltà nel proseguire gli studi. Come rivela con spudorata sincerità nel colloquio con l’amico intervistatore, che lo pungola su questioni scottanti, dal comunismo all’ateismo. «Preferisco dichiararmi una persona che è, allo stesso tempo, comunista e scrittore — risponde nel merito Saramago— ma se proprio devo scegliere, allora direi che ho cominciato come scrittore» . E poi prosegue aggiungendo che «non può esistere socialismo senza socialisti» . Oltre a rivelarne l’amicizia letteraria con Calvino, Proust, Camus e Gogol, il volume ci presenta un Saramago oggettivsmente distante da quel «populista estremistico» e «ideologo antireligioso» con cui il Vaticano ha bollato le sue opere più provocatorie come Il Vangelo secondo Gesù Cristo. «non credo esistano persone senza Dio» e «Ciascuno di noi viene al mondo con un Dio e se lo tiene» fanno il paio con altre affermazioni del Nobel: «Per essere privi di Dio dovremmo essere nati in una società dove da sempre sia sconosciuto qualsiasi elemento di trascendenza» . Le testimonianze di studiosi di vari Paesi chiudono quello che la del Rìo descrive come un’opera «di Baptista-Bastos con Saramago sullo sfondo, un libro dell’umanità migliore» . «Sono voci della resistenza, della democrazia — conclude la vedova di Saramago — che per consolidarsi ha bisogno di parole tutti i giorni, impegnati in una chiacchierata tra amici che tuttavia crea un mondo in cui c’è posto per tutti» .
ANSA/ LIBRO DEL GIORNO: RITRATTO 'APPASSIONATO' DI SARAMAGO
INTERVISTA SCRITTA DAL NARRATORE E AMICO BAPTISTA BASTOS
BOLOGNA
(Di Paolo Castelli) (ANSA) - BOLOGNA, 11 MAG - BAPTISTA BASTOS: 'JOSE' SARAMAGO
UN RITRATTO APPASSIONATO' (L'ASINO D'ORO; PP.162; 15 EURO) La scrittura, la creatività, l'utopia, il rapporto con le donne, l'ateismo, il Portogallo: la statura umana e artistica del premio Nobel, scomparso quasi un anno fa, si ritrova in un libro-intervista inedito in Italia adesso pubblicato da L'Asino d'oro edizioni.
In uscita domani, il ritratto 'appassionato' di Bastos, narratore amico e compagno di lotte dell'autore di 'Cecita'', è un viaggio attraverso i 'territori' fisici e mentali dello scrittore portoghese che in una lunga e a tratti commovente conversazione rivela le angolazioni del suo carattere e della sua creatività.
"Ma in realtà qualcosa rimane: il bisogno di giustizia, l'aspirazione alla felicità - dice tra il personale e il politico Saramago all'amico - Benché non creda più, se mai ci ho creduto, alla felicità collettiva, perché secondo me la felicità è un fatto molto personale... Ma per felicità collettiva, in parole povere, si intende un'altra cosa: che nessuno soffra la fame, sia ignorante, viva in condizioni di miseria... Secondo me solo la sinistra può interessarsi a questi temi, perché nella sinistra c'é una specie di capitale di generosità spesso svenduto di cui si è pervertito ilsenso". La prima presentazione nazionale è in programma domani a
Bologna (Libreria Feltrinelli, piazza Galvani, ore 18). Il libro verrà poi presentato a Milano (13 maggio), a Torino, in occasione del Salone internazionale del libro (14), a Firenze (16) e a Roma (17).
Al racconto e alle risposte con le quali Saramago sembra quasi dipingere se stesso e la sua storia, fanno da sfondo gli scenari dell'isola di Lanzarote dove lo scrittore si era ritirato negli ultimi anni, insieme alla compagna, Pilar Del Rio, giornalista e presidente della fondazione José Saramago, che firma la premessa del libro, tradotto da Daniele Petruccioli e che parteciperà alla presentazione del volume. In quell'isola Bastos incontra Saramago, nella sua "casa fatta di libri". "José appartiene a una specie di scrittori interessati all'uomo - spiega - che insiste nell'importanza di dire no".
"Laggiù, passeggiando tra i vulcani e lasciando vagare lo sguardo su quelle isole che sorgono decise dal mare - scrive Pilar Del Rio -, questi due uomini si sono sentiti più vicini all'origine del tutto. Lasciamo a loro la parola: ci spiegheranno che senza la terra su cui posare i piedi perderemmo consistenza e senza l'amicizia ci mancherebbe la linfa vitale. Quella linfa che nutre noi e l'ambiente umano che generiamo e vogliamo rendere, giorno dopo giorno, più grande e luminoso". "Direi di aver vissuto tutto quanto ho vissuto per poter
arrvare a lei", dice Saramago della moglie. Da lui anche una convinzione sulla fine della vita: "Non mi fa paura la morte. Credo profondamente che dopo la morte non ci sia niente nel senso più assoluto".(ANSA).
Agi 11.5.11
Libri: L’Asino d’oro, Saramago inedito a Bologna e Milano
(AGI) - Roma, 11 mag. - "L'uomo piu' saggio ch'io abbia mai conosciuto non era in grado di leggere e di scrivere": con queste parole Jose' Saramago accolse il Premio Nobel alla letteratura conferitogli nel 1998, dopo il gran successo di 'Cecita'' e del controverso 'Il Vangelo secondo Gesu' Cristo'. Da domani, per iniziativa della casa editrice 'L'Asino d'oro' arriva in tutte le librerie 'Jose' Saramago. Un ritratto appassionato' di Baptista Bastos, narratore amico e compagno di lotte dello scrittore portoghese che ha incontrato alcuni anni fa a Lanzarote. La scrittura, la creativita', la letteratura, la politica, l'utopia, il rapporto con le donne, l'ateismo, il Portogallo: questi i temi toccati nella lunga conversazione ed e' "Saramago stesso - spiega una nota dell'editore - quasi a dipingere attraverso le risposte l'autoritratto inedito del grande scrittore e genio, qual e' stato". Il libro-intervista sara' presentato, con un vero e proprio 'tour de force', domani alla Feltrinelli di Bologna, il 13 alla Feltrinelli di Milano, il 14 al Salone del Libro di Torino, il 16 a Firenze e il 17 a Roma, contando sempre sulla eccezionale presenza di Pilar Del Rio, la moglie del grande scrittore ateo scomparso il 18 giugno 2010. Insomma, "il libro - continua la nota dell'editore - e' un affascinante viaggio attraverso i territori fisici e mentali del grande scrittore portoghese che in una lunga e a tratti commovente conversazione rivela le molteplici angolazioni di un carattere formidabile e di una creativita' di eccezionale qualita' umana". Ed, "al racconto, all'andirivieni di domande e di risposte con cui Saramago sembra quasi dipingere se stesso e la sua storia, fanno da sfondo gli scenari selvaggi dell'isola di Lanzarote dove lo scrittore si era ritirato negli ultimi anni della sua vita insieme a Pilar Del Rio, giornalista e presidente della Fondazione Jose' Saramago, che firma la premessa del libro tradotto da Daniele Petruccioli". E' in quell'isola tra Europa e Africa che Bastos incontra Saramago, nella sua casa fatta di libri: "Jose' appartiene a una specie di scrittori interessati all'uomo - dice Bastos - che insiste nell'importanza di dire no". La Pilar scrive: "laggiu', questi due uomini, passeggiando tra i vulcani e lasciando vagare lo sguardo su quelle isole che sorgono decise dal mare, si sono sentiti piu' vicini all'origine del tutto. Lasciamo a loro la parola: ci spiegheranno che senza la terra su cui posare i piedi perderemmo consistenza e senza l'amicizia ci mancherebbe la linfa vitale. Quella linfa che nutre noi e l'ambiente umano che generiamo e vogliamo rendere, giorno dopo giorno, piu' grande e luminoso".
Pat
l’Unità 11.5.11
Ombre sull’Italia per l’Sos ignorato del barcone in mezzo al mare
La smentita della Nato non chiude il caso dei 61 migranti lasciati morire di fame e di sete in mezzo al Mediterraneo. Il caso, rivelato da l’Unità e rilanciato dal Guardian, attende risposta. La denuncia di don Zerai.
di U. D. G.
Non ha nessuna intenzione di abbandonare la sua battaglia don Mussie Zerai, presidente dell'Agenzia Habeshia, di fronte alla smentita della Nato, durante una conferenza stampa a Bruxelles, che nega ci siano le prove del mancato soccorso di 61 migranti al largo di Lampedusa tra il 29 e il 30 marzo scorso, come denunciato più volte dal sacerdote eritreo; una denuncia ripresa da l’Unità e rilanciata l’altro ieri dal britannico Guardian. «La conferenza stampa della Nato non chiude un bel niente dice don Zerai -. Se la Nato dice che non è responsabile, allora qualcuno ci deve dire a chi apparteneva l'elicottero che ha dato acqua e biscotti ai sopravvissuti e li ha fotografati e la portaerei che li ha visti ma non li ha soccorsi». «Se non erano della Nato di chi erano?», si chiede don Zerai: «I sopravvissuti non sono in grado di dire di che nazionalità era la portaerei. Sarebbe una pretesa immensa per persone che erano disperate, allo stremo». «Qualcun altro c'era in quei giorni nel Mediterraneo e deve rispondere. conclude Spetta alle autorità competenti verificare e cercare la verità sulla nazionalità dell'elicottero e della portaerei. Andremo avanti in questa denuncia e continueremo a chiedere che venga fatta chiarezza e giustizia. Anche per sapere cosa succede nel Mediterraneo».
TROPPI INTERROGATIVI
Ci sono troppi coni d'ombra in questa vicenda: dalle ripetute segnalazioni di don Zerai, alle diverse versioni rilasciate della autorità impegnate nella zona. A prescindere dalle voci discordanti, non è accettabile che 72 persone fra cui donne e
bambini possano vagare per 16 giorni nel Mediterraneo e essere lasciate morire di fame, di sete e di stenti. Qualunque sia la verità in questa vicenda, è primario interesse della missione Nato ed in particolare dell'Italia cui è stato affidato il comando operativo sul mare portarla immediatamente alla luce»: è quanto dichiarano in una nota Andrea Sarubbi, Jean Leonard Touadi, Roberto della Seta e Francesco Ferrante, che sulla vicenda hanno presentato due interrogazioni parlamentari alla Camera ed al Senato.
L’ALLARME
Secondo la ricostruzione del Guardian, basata sulle testimonianze dei sopravvissuti e di altri che erano in contatto con con i passeggeri durante la traversata, i migranti utilizzarono il telefono satellitare di bordo per contattare a Roma don Zerai che a sua volta contattò la Guardia costiera italiana. Questa garantì a Zerai che l'allarme era stato lanciato e che tutte le autorità competenti erano state allertate, circostanza che oggi viene confermata dal Comando generale delle Capitanerie di Porto, al pari di quanto un portavoce ha dichiarato al quotidiano britannico, e cioè che venne avvisata Malta che l'imbarcazione si stava dirigendo verso la sua zona di ricerca e soccorso e che venne diramato un allerta. Il Guardian però afferma che le autorità maltesi hanno negato di avere mai ricevuto tale indicazione.
l’Unità 11.5.11
Una sessantina di tunisini reclusi in attesa di rimpatrio. «Perché? Non abbiamo fatto nulla»
Una settimana fa la rivolta Hanno appiccato le fiamme, la polizia è intervenuta manganellando
Nessun futuro oltre le sbarre I disperati del Cie di Trapani
Qualcuno di loro è lì dentro da mesi, è arrivato prima delle rivolte e ora attende senza sapere cosa ne sarà del suo futuro. «Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. ma è democrazia questa?».
di Gabriele Del Grande
Visto da fuori, il centro di identificazione e espulsione di Trapani ha la forma di una mano. Ma non di una sola. Di almeno una decina. Sono le mani dei suoi detenuti, una sessantina di tunisini recentemente sbarcati a Lampedusa e destinati al rimpatrio. Le loro mani spuntano tra i ferri della gabbia sul ballatoio del secondo piano. Alcune si aggrappano alle sbarre. Altre agitano in aria le due dita aperte a v in segno di vittoria. Mentre nel cortile rimbombano le grida della loro ennesima improvvisata protesta. «Libertà! Libertà!», gridano a pieni polmoni. E il coro di protesta si propaga lungo la strada di fronte che, ironia della sorte, si chiama proprio via Tunisi. Dentro il cortile, i carabinieri lasciano fare. Da dietro la gabbia, strillando, un ragazzo tunisino ci chiede in francese: «Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. Ma dov'è la libertà? È questa la democrazia? D’accordo abbiamo passato la frontiera senza documenti. Ma siamo persone per bene, lavoratori. Perché ci trattano come delinquenti? L'Italia per noi è soltanto un passaggio. Fateci uscire e domani partiamo per la Francia». Le sue sono parole senza volto. Escono dalle grate senza che si riesca a vedere la sua faccia. Nascosta nella penombra dietro la macchia nera dei ferri della gabbia anneriti dal fuoco dell' ultimo rogo appiccato per protesta la scorsa settimana. È successo la sera del 4 maggio, quando alcuni tunisini reclusi hanno bruciato materassini, coperte e vestiti. L'incendio è stato spento dai vigili del fuoco. Dopodiché hanno fatto ingresso nella sezione polizia, militari e carabinieri. Secondo il racconto di chi ha assistito alla scena, gli agenti avrebbero fatto disporre in fila i detenuti e ne avrebbero manganellati alcuni a scopo dimostrativo, visto che non avevano prove per identificare gli effettivi responsabili dell'incendio. E infatti ad oggi nessuno è stato arrestato. In compenso otto ragazzi sono finiti in infermeria per le bastonate ricevute.
Ne accadono spesso di roghi nei Cie. Ma al Vulpitta fa sempre uno strano effetto. Perché riporta la memoria alla notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999. Anche quella sera un gruppo di ragazzi tunisini appiccarono il fuoco ai materassi nella propria cella. La porta che dava sul ballatoio era chiusa a chiave e prima che intervenissero i soccorsi, il fuoco
divampò bruciando vivi tre detenuti. Altri tre morirono nelle settimane successive in ospedale. Sei morti per cui nessuno è mai stato ritenuto responsabile, nemmeno l'allora prefetto di Trapani, Leonardo Cerenzìa, che venne prima imputato per omissione di atti d’ufficio e concorso in omicidio colposo plurimo e poi assolto con formula piena.
Da allora è cambiato poco o niente. Se non che la capienza del Cie è stato ridotta da 180 a 57 posti. La struttura però è sempre la stessa. Con le celle una a fianco dell'altra,
affacciate in modo così claustrofobico su quell'unico ballatoio ingabbiato. I lucchetti si aprono quattro volte al giorno. Per i pasti, e per l’ora d’aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all'ingresso, costantemente sotto la stretta vigilanza degli agenti. V. di tutto questo non ne può più. Lui è dentro da più di quattro mesi. È lui che ci ha telefonato e raccontato della rivolta. Nelle sue parole, il Vulpitta non si chiama più Cie e non si chiama più nemmeno centro di identificazione e espulsione. Si chiama ferro. «Mi alzo e trovo il ferro, esco dalla camera e trovo il ferro, vado alla mensa e trovo il ferro, dormo e trovo il ferro. Tutti i giorni la stessa cosa. Non riesco più a pensare a niente». E l’ora d’aria, i 40 minuti concessi ogni giorno ai detenuti per sgranchirsi le gambe nel cortile della struttura, non servono a granché. «Giochiamo un po’ a pallone, ma sei sempre circondato dai militari e dalla polizia. Anche se vai in infermeria, sempre accompagnato dai militari e dalla polizia. Non siamo delinquenti, non siamo mafiosi, cosa abbiamo sbagliato?».
Lui l’Italia se l'immaginava diversa, migliore. É partito dalla Tunisia due anni e otto mesi fa. All’epoca c'era ancora la dittatura di Ben Ali. «Non sono partito per i soldi, ma per la libertà. Avevo un lavoro, ma nella vita la libertà è più cara di tutto, è più cara anche dei soldi. E in Tunisia non eri libero di gridare quello che pensavi. Ho attraversato il mare, pensavo di trovare la democrazia in Italia e invece è peggio che da noi». Presto V. sarà finalmente di nuovo un uomo libero. Anche se a dire il vero fino a adesso non ha la più pallida idea di cosa farà. «Non riesco più a pensare. Sei mesi rinchiuso qua dentro, ti rendi conto? Sei mesi buttati via della mia vita... Il mio cervello si è spento. Ho degli amici, li chiamerò, magari per farmi ospitare i primi giorni, poi cerco un lavoretto. Dipende tutto dalla fortuna». E dalla fortuna dipenderà anche non farsi riacciuffare dalla polizia. Esci dal Cie, non sai dove andare, ti trovi in mezzo a una strada, e magari una settimana dopo ti ferma di nuovo la polizia e ti chiede di nuovo i documenti. E tutto comincia da capo. Di nuovo il Cie, di nuovo sei mesi buttati via. E una fabbrica che oltre alla clandestinità e al consenso elettorale, genera sofferenza e emarginazione.
Repubblica 11.5.11
La Germania punge l´Italia "Basta con le lamentele"
«L´Italia non ha alcun motivo di lamentarsi per l´assenza di solidarietà europea in materia di immigrazione clandestina»: non usa mezzi termini il ministro dell´Interno tedesco, Hans-Peter Friedrich, che in un´intervista al Figaro critica l´atteggiamento delle autorità italiane. Mentre il ministro dell´Interno Roberto Maroni torna a dire che il nostro Paese è stato lasciato solo a fronteggiare l´emergenza.
Sostiene Friedrich: «Appena 25 mila immigrati sono giunti in Italia dall´inizio delle rivolte democratiche» nella sponda sud del Mediterraneo. E «gran parte di essi hanno immediatamente proseguito il loro viaggio verso nord, in particolare in Francia e in Belgio». Replica Maroni: «Siamo stati lasciati soli ad affrontare l´emergenza immigrazione: l´Europa non dà risposte e non è bello vedere gli altri Paesi dell´Unione che stanno a guardare.
il Fatto Lettere 11.5.11
La “catena umana” contro il razzismo
È
una lacrima che scorre sulla carta l’orma che lascia un bambino passato
di mano in mano dal barcone allo scoglio. “Catena umana” l’avete
chiamata ed è un ossimoro dolce quella “catena” che si unisce alla
parola “umano”. E non c’è un’altra risposta possibile ai razzisti, agli
xenofobi, agli anaffettivi: catena umana. Nella notte di onde. Nella
voce del guardacoste. Negli occhi vivi di quel neonato. Negli occhi
angosciati e fermi di quella madre che lo ritrova, lo riprende, lo
abbraccia. Non avranno scampo, gli indifferenti assassini, mentre con
tutte le nostre forze offriremo scampo a chi chiede soltanto di essere.
Umano.
l’Unità Lettere 11.5.11
La catena umana
di Paolo Izzo, risponde Luigi Cancrini
È
una lacrima che scorre sulla carta l'orma che lascia un bambino passato
di mano in mano dal barcone allo scoglio. «Catena umana» l'avete
chiamata ed è un ossimoro dolce quella «catena» che si unisce alla
parola «umano». E non c'è un'altra risposta possibile ai razzisti.
Nella notte di onde. Nella voce del guardacoste.
RISPOSTA
Si era partiti del respingimento in mare e dalle motovedette italiane
messe nelle mani degli uomini di Gheddafi. Quando una di queste sparò
su un peschereccio italiano, il ministro Maroni commentò che
probabilmente pensavano di avere di fronte a sé degli emigranti, non
dei cittadini italiani. Quello che accadeva in Libia dei respinti si
seppe, in Italia, solo da l’Unità e da pochi altri mentre il regime
italiano, la sua stampa e le sue televisioni ignoravano la deportazione e
i lager con cui il regime libico «pagava» le concessioni economiche
dell’Italia ed io vorrei dire che è proprio di fronte a tutto questo
che assume un valore particolare «la catena umana». Quella che si
riflette «negli occhi vivi di quel neonato e negli occhi angosciati e
fermi di quella madre che lo ritrova, lo riprende, lo abbraccia» è
l’idea di un’Italia diversa da quella rappresentata da Berlusconi che
bacia l’anello di Gheddafi e dalla Lega che chiede (grida) di ributtare a
mare «i clandestini». Un’Italia bella, pulita, all’altezza della sua
storia e delle sue tradizioni. Da difendere con il voto: nelle città
oggi e nel Paese domani.
Corriere della Sera
Strategie e furori elettortali
di Michele Ainis
Riassumendo: i pm di Milano sono un cancro, quelli di Napoli una discarica. I parlamentari sono altrettanti perditempo, ma l’ozio in questo caso produce un doppio effetto: quelli di destra diventano alienati, perché hanno lasciato fior di professioni per servire il Palazzo; quelli di sinistra si trasformano in alieni. Gli alieni di sinistra puzzano, avendo litigato col sapone. Ma stonano anche il Csm, il capo dello Stato, la Consulta. O comunque sa di congiura questo loro accanimento contro la volontà del popolo sovrano, espressa dal megafono del leader.
E allora basta con le lungaggini procedurali in Parlamento. Basta con le pignolerie costituzionali. Basta con questa Corte che abroga le leggi (in realtà le annulla, presidente). E già che ci siamo, basta pure con l’altro presidente: è sufficiente quello del Consiglio, l’altro ormai è di troppo. Vabbé, siamo in campagna elettorale, e si è aperta una gara a chi la spara più grossa. Vabbé, la paura fa novanta, e c’è il rischio che il voto non vada bene. Ma il guaio è che in Italia la campagna elettorale dura tutto l’anno. Ogni limite ha una pazienza, diceva Totò; e francamente li abbiamo superati entrambi, sia il limite sia la nostra pazienza. Davvero gli italiani meritano questo trattamento? Davvero gli elettori sono ormai come i tifosi? E davvero aizzando gli opposti furori delle curve Berlusconi allontanerà lo spettro dell’astensionismo? Più facile che questo spettro si gonfi come l’Aladino della lampada: dopotutto, gli attaccabrighe rimangono un’esigua minoranza. E se il menù servito in tavola diventa, lui sì, maleodorante, saranno in pochi a sedersi al banchetto elettorale. Qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo al presidente del Consiglio: la sua strategia non paga. Offende la buona creanza, ma cozza inoltre con la logica. A cominciare dalla logica giuridica, che nella patria del diritto dovrebbe pur avere un posto al sole. Vale per esempio circa l’intenzione, ripetuta come una cantilena, d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulle inchieste dei pm: l’inchiesta al quadrato. Vale quanto al progetto di dimezzare deputati e senatori, annunciato proprio mentre il governo vuole l’aumento dei sottosegretari. Vale per lo sdegno che in Berlusconi provoca la lunga mano dei partiti sui membri del Csm, quando il suo partito ha appena nominato cinque consiglieri su otto. Ma vale soprattutto per gli organi di garanzia costituzionale: Consulta e capo dello Stato. Per quale ragione? Non solo perché questi due cani da guardia intervengono con moderazione. E infatti l’annullamento delle leggi rimane un’eccezione, dato che nove volte su dieci la Corte costituzionale le lascia in vigore. Mentre fin qui Napolitano ha rifiutato di timbrare una sola legge (quella sul lavoro), un solo decreto legge (quello per Eluana Englaro), un solo decreto legislativo (quello sul federalismo municipale). Significa che in tutti gli altri casi ha detto sì, non c’è da lamentarsene. Ma ci lamenteremmo eccome, senza questi due garanti. Perché toglierli di mezzo, o comunque degradarli a figuranti senza voce, significherebbe amputare lo Stato di diritto. Sarà fin troppo banale ricordarlo, ma senza un controllore con la paletta in mano la maggioranza avrebbe i poteri d’un tiranno. E dei nostri diritti resterebbe soltanto un guscio vuoto.
Repubblica 11.5.11
La logica del padrone
di Stefano Rodotà
Le ragioni della mossa del premier sono nitide Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la fiducia crescente riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano
Le mosse di Berlusconi sono da tempo prevedibili, perché appartengono ad una logica che egli ha trasferito nel mondo della politica senza mai farsi contagiare dal "senso delle istituzioni". Non può sorprendere, quindi, l´ultimo suo proclama: «Dobbiamo cambiare la composizione della Corte costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del Presidente del Consiglio».
Proprio le ultime parole sono rivelatrici. Scompare il "Governo della Repubblica", di cui parla l´articolo 92 della Costituzione. Al suo posto viene insediato il "Governo del Presidente del Consiglio", una formula che esprime la logica proprietaria dalla quale Berlusconi non ha mai voluto separarsi. L´imprenditore è fedele alle sue origini, e nel suo modo d´agire si ritrova la vecchia e di nuovo vitale formula secondo la quale "la democrazia si ferma alle porte dell´impresa". Governare è esercizio di potere assoluto. Chi si presenta come un intralcio lungo questo cammino deve essere eliminato.
Prevedibile o no, l´ultima accelerazione inquieta, assomiglia ad un assalto finale. Gli ostacoli li conosciamo. Magistratura a parte, nell´ultima fase della storia della Repubblica le garanzie si sono concentrate in due istituzioni, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non dipende da una impropria volontà di potenza. Discende da un progressivo indebolirsi del sistema dei controlli, dei pesi e contrappesi che caratterizzano l´architettura costituzionale e dei quali non ci si è preoccupati quando è cominciata la stagione delle "spallate", delle manipolazioni delle leggi elettorali, del bipolarismo ad ogni costo, della "governabilità" senza aggettivi. Troppi apprendisti stregoni hanno lastricato la strada che oggi Berlusconi si ritiene legittimato a percorrere senza scrupoli. Così, nel deserto istituzionale, le funzioni di garanzia, ineliminabili in democrazia, si sono rifugiate nelle due istituzioni che il Presidente del Consiglio ha ieri pubblicamente rifiutato.
Mai, però, il tiro era stato alzato tanto in alto, per colpire deliberatamente il Presidente della Repubblica. Malumori, reazioni violente lasciate trapelare, senza tuttavia trasformare in conflitto aperto una relazione difficile. Cautele ormai abbandonate. Così com´è, il Presidente della Repubblica non è più accettabile. Questo, a chiare lettere, ha detto ieri Berlusconi.
Le ragioni di questa mossa sono nitide. Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la fiducia crescente riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano. Inammissibile il quotidiano rivelare le lacerazioni del tessuto istituzionale per chi vuole manipolarle impunemente. Oltraggiosa la pretesa di custodire la legalità costituzionale per chi vuole trasformare l´investitura popolare in un "lodo" che lo pone al disopra delle leggi.
Berlusconi sa benissimo che una riforma costituzionale che azzoppi in un colpo solo Presidente della Repubblica e Corte costituzionale esige tempi lunghi. Ma non gli importa. Nel momento in cui dice esplicitamente che i poteri del Presidente della Repubblica devono essere ridotti, lascia intendere che sono male utilizzati. Invita così ad una pubblica "sfiducia" a Giorgio Napolitano, facendo divenire asse della sua politica il copione che già l´informazione di rito berlusconiano aveva cominciato a scrivere. Vuole demolire l´immagine del Presidente super partes, mostrarlo non come un garante, ma come l´espressione di una parte.
Napolitano parla anche perché troppi sono silenziosi, o ridotti al silenzio. Ma la voce delle istituzioni non può spegnersi. Da esperto della comunicazione, Berlusconi è inquieto perché sa che quella non è una voce che parla nel deserto, ma trova ascolto perché dice verità e così concentra sulla Presidenza della Repubblica l´attenzione dei cittadini consapevoli della gravità di una situazione che Berlusconi e i suoi gabellano come il migliore dei mondi.
Una relazione non populista con i cittadini insidia lo stesso modo d´essere di Berlusconi. Ma questo manifestarsi d´una opinione critica diffusa appare monco, perché rivela gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì d´essere parte di una difficile discussione pubblica, di testimoniare almeno quelle "ingenue idealità etiche" alle quali, contro il realismo politico, si richiamava nel 1929 Benedetto Croce votando contro il Concordato.
Repubblica 11.5.11
L’autoconservazione della classe politica
di Guido Crainz
È inutile sfogliare corposi libri di storia, arguti pamphlet, sferzanti pagine di cronaca. È inutile rievocare i tempi di Depretis o le peggiori vicende dell´Italia repubblicana. Da nessuna parte, in nessuna pagina si troverà qualcosa di lontanamente paragonabile all´apoteosi dell´indecenza sancita dall´ingresso dei "responsabili" nel sottogoverno (dal primo ingresso: è prevista una seconda ondata). Non si troveranno neppure parole adeguate: trasformismo è termine che gronda nobiltà e dignità, al paragone. E i voltagabbana del passato, in fondo, avevano pur avuto una gabbana. Eppure gli storici del futuro dovranno un granello di gratitudine anche a questo coacervo impresentabile e indefinibile di eletti: un "documento" prezioso del degrado ultimo cui la politica è giunta nel nostro Paese. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht: ma che dire di un governo che ha bisogno dei "responsabili"?
Non ci si fermi però alle accidentate biografie e all´improntitudine dei promossi, o alle rancorose rivendicazioni degli esclusi ("c´è ancora un´iradiddio di nomine da fare", si consola elegantemente uno di essi). E non si dimentichino altri casi in cui il premier ha utilizzato, o tentato di utilizzare, incarichi pubblici per uso privato. O per aggirare la legge e la giustizia: si pensi al tentativo di salvare in extremis l´imputato e condannato Aldo Brancher inventando per lui un ministero di cui era incerto sin il nome. Si vada al cuore del problema, cui questa vicenda per più versi rimanda. Da un lato i "responsabili" sono il corollario di una concezione della politica che il Pdl ha progressivamente imposto e che comprende al suo interno anche il "sistema" illustrato a suo tempo da Denis Verdini. O la filosofia della cricca, che ci è stata ricordata anche ieri dalle cronache giudiziarie. Dall´altro lato il premier ha potuto perseguire anche in questo caso quella "diseducazione civica" cui si dedica da sempre con grande impegno: dopo aver legittimato l´evasione fiscale e delegittimato l´istruzione pubblica non poteva perdere l´occasione per premiare gli sfregi più vergognosi e dichiarati alla politica come servizio, allo Stato come bene comune. Certo, siamo giunti alla farsa ma nella storia le farse non allontanano le tragedie. Spesso aprono loro la via.
Vent´anni fa, nell´agonia della "prima repubblica", Edmondo Berselli osservava che il ceto politico italiano era ormai attraversato e scosso: «Da due spinte esattamente opposte: l´istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». L´«immobilità parossistica» della scena politica mascherava però male – aggiungeva Berselli – il crescere di una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma pericolosamente vicino al collasso del sistema».
Fa impressione rileggere a distanza d´anni un´analisi così lucida, che ebbe di lì a poco probanti conferme. E vale la pena tenerla presente anche oggi, perché illumina meglio molte vicende delle ultime settimane. Anche in esse è stato molto difficile distinguere i drammi reali dalle parodie di quart´ordine messe in scena in loro nome. Ad Aldo Capitini e a Danilo Dolci, per fortuna, è stato risparmiato il "pacifismo" dei leghisti, apertamente motivato con la necessità di arginare il dilagare degli immigrati e di affermare il proprio peso politico nel governo (cioè il proprio non clandestino dilagare in molteplici enti e istituzioni). Dopo l´approvazione di una mozione grottesca Bossi ha rispolverato il "celodurismo" e ha aggiunto: la Nato dovrà tenerne conto. "Mamma mia che impressione", avrebbe detto Alberto Sordi. Per non parlare del nostro ministro della Difesa, che da tempo non sembra più padrone di sé. Basta qualche contestazione in Parlamento, o semplicemente a "Ballarò", per trasformarlo nella inquietante caricatura del La Russa che nei primi anni Settanta capeggiava i giovani missini milanesi (non troppo raccomandabili, a leggere le cronache di allora). All´equilibrio e alla saggezza di quest´uomo è affidato il nostro esercito.
Anche in precedenza non ci era stato risparmiato proprio nulla: l´irrilevante che sostituisce l´essenziale, l´interesse privato che soppianta quello pubblico, la menzogna più sfacciata che irride a ciò che le persone normali vedono e sanno. In qualunque altro Paese non sarebbe rimasto al suo posto neppure per un secondo un ministro dell´ambiente capace di dichiarare: "non possiamo rischiare le elezioni amministrative per il nucleare". Né è immaginabile altrove un premier che ammetta (o rivendichi, come nel nostro caso): ci siamo inventati un bell´imbroglio per confermare la scelta nucleare. Tutto nel giro di pochi giorni, e all´indomani di una sciagura immane. Per più versi però la deriva del governo chiama in causa il Paese nel suo insieme: «Gli italiani non sembrano capire il disastro in cui si trovano. Il nostro è un curioso destino, abbiamo la libertà delle catastrofi, la libertà degli irresponsabili, la vacanza che coincide con l´anarchia». Lo scriveva Corrado Alvaro sessant´anni fa, e ci sembrano parole terribilmente attuali.
La difficoltà di cogliere lo spessore del dramma sembra attraversare anche le opposizioni. Solo così si spiegano le troppe assenze inspiegabili (come quelle che hanno permesso l´approvazione del documento economico del governo) e i troppi conflitti interni, solo parzialmente sopiti negli ultimi tempi. Di qui l´urgenza di quel colpo d´ala, di quella capacità di invertire la tendenza cui si è riferito il Presidente Napolitano. Difficile dir meglio: è necessaria un´alternativa di governo «credibile, affidabile e praticabile». È necessaria una sinistra capace di "togliersi di dosso ogni sospetto di volersi insediare al potere come alternativa senza alternativa". Capace, insomma, di mettere in campo proposte concrete e convincenti, connesse a un´idea generale di futuro
È un passaggio obbligato: non solo e non tanto per smuovere orientamenti elettorali stagnanti quanto per rimettere in moto il Paese. Per arrestare un declino. Per dare voce e fiducia a quella parte dell´Italia che non si è arresa, che ha ancora voglia di rimettersi in gioco. «L´Italia con gli occhi aperti nella notte triste», come cantava Francesco De Gregori. Di tempo, forse, non ne è rimasto moltissimo.
l’Unità 11.5.11
Gli alunni lasciano in bianco i test, i prof si rifiutano di correggerli
Lo spreco spesi 8 milioni e in alcune scuole plichi spediti due volte
Studenti e docenti boicottano le prove Invalsi della Gelmini «Sono un imbroglio»
L’epicentro della protesta sono state le scuole romane. Prove lasciate in bianco, astensioni in massa. E all’Istituto d’Arte di via del Frantoio è scattata la sospensione per gli studenti che hanno deciso di rifiutare il test.
di Mariagrazia Gerina
L’inviata dell’Invalsi, da Brunetta dei “piccoli”, li ha già etichettati: «Fannulloni». «Ci ha dato degli idioti solo perché abbiamo deciso di boicottare il test», racconta una studentessa del liceo Virgilio di Roma. La sua, il quinto ginnasio, è una delle “classi pilota” per la valutazione dei livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti italiani. Due milioni e duecentomila test distribuiti agli alunni delle seconde classi di ogni ordine e grado. Ieri il debutto, con le scuole superiori, è stato un disastro.
«Il test in sé era anche troppo banale», spiega la studentessa del Virgilio, che chiameremo «Ti con Zero», in omaggio a Calvino e al sistema di codici adottato dall’Invalsi che permette di fatto di associare ogni test al singolo studente e alla scuola che frequenta. Anche se le scuole assicurano che quei dati non saranno trasmessi all’Invalsi. «Ci siamo sentiti presi in giro: non possono dirci che il test è anonimo e poi assegnarci un codice che ci rende identificabili” e un questionario per sapere “che lavoro fanno i tuoi genitori, com’è la tua casa, se sei nato in Italia, se i tuoi sono immigrati», spiega «Ti con zero», che prima di riconsegnare la prova, volutamente lasciata in bianco, ha reso irriconoscibile il codice identificativo che le era stato assegnato. Nella sua classe, su 26 alunni, 10 erano assenti e gli altri hanno fatto tutti come lei.
Agli studenti dell’Istituto d’Arte di via del Frantoio, periferia Est di Roma, è andata decisamente peggio. Anche loro, per gli stessi motivi, si sono rifiutati di compilare i test, solo che la preside ha deciso di sospenderli in blocco. «Abbiamo visto che l’insegnante aveva un foglio con i nostri nomi associati ai corrispettivi codici, gli abbiamo chiesto di distribuire casualmente i test, ci ha detto che non poteva e noi allora ci siamo rifiutati di riempirli», spiega una delle studentesse sospese. Roma è stata l’epicentro della protesta. Al liceo Socrate i codici li hanno strappati. All’Orazio su 130 studenti 108 hanno consegnato in bianco. Al liceo Giordano Bruno, gli studenti si sono rifiutati di entrare in classe. «E ovunque i presidi hanno minacciato misure disciplinari», spiega il Collettivo Senza Tregua, che rivendica i risultati del boicottaggio romano. Parallelo a quello messo in atto dai professori. In alcuni licei, il collegio docenti aveva votato contro i test. Ma i presidi non ne hanno tenuto conto. In altri, hanno impedito che i docenti si esprimessero. E molti insegnanti, in risposta, si sono rifiutati di correggere le prove. «Si tratta di una valutazione imposta scavalcando la scuola con una circolare», protesta Valerio Gigante, uno dei tanti insegnanti “obiettori”.
La risposta del ministro Gelmini è piccata: «Solo in tre classi non si è svolto il test». In percentuale: a non prendere parte al test è stato solo lo 0,13%, assicurano dal Miur, vantando una statistica al netto delle prove in bianco e dei codici strappati.
L’ansia per il successo del test è stata tanta che in alcune scuole i pacchi con le prove da somministrate sono stati distribuiti due volte. Nei primi scatoloni consegnati mancavano proprio le etichette con i codici identificativi. Ma dopo poche ore è arrivato il secondo invio: altri scatoloni con i doppioni delle prove stavolta completi delle etichette identificative. È accaduto nelle scuole del viterbese, dove il test al ministero è costato il doppio e dove presidi e insegnanti ieri si interrogavano sui chili di carta inutilmente sprecata e ora da mandare al macero. Il grande test è costato circa 8 milioni. E se davvero il boicottaggio è riuscito come dicono gli studenti difficilmente i risultati prodotti potranno avere validità.
il Fatto 11.5.11
Gli studenti rifiutano i test Invalsi ma il ministro: avanti a testa bassa
Le scuole boicottano le prove. Idv: sprecati 8 milioni
di Caterina Perniconi
Gli striscioni davanti alle scuole. La protesta, il boicottaggio. E poi la sospensione. È quello che è successo ieri a Roma agli studenti dell’Istituto d’Arte Roma II, incorsi nella sanzione da parte del Dirigente scolastico per essersi rifiutati di fare i test Invalsi. In realtà nella Capitale sono stati molti i ragazzi delle scuole secondarie che hanno ostacolato il regolare svolgimento dei quiz proposti dall’Istituto per valutazione del sistema educativo. Secondo il collettivo studentesco “Senza Tregua”, al liceo classico Orazio il boicottaggio ha toccato la percentuale più alta di Roma, circa l’83%: su 130 studenti presenti nelle classi dell’istituto, 108 hanno consegnato in bianco. E alcuni hanno strappato i codici di riconoscimento. Sempre secondo quanto riferito dal collettivo, al liceo Machiavelli oltre il 60% dei questionari è stato consegnato in bianco. Al Visconti i ragazzi hanno parlato di 90 schede in bianco o non conteggiabili su 130 presenti. All’Albertelli sono 90 su 130, al Virgilio 125 su 169, mentre al Socrate, dove i ragazzi di due classi “hanno strappato tutti i codici di riconoscimento, minacciati di denuncia da parte degli ispettori esterni e di provvedimenti disciplinari dalla scuola”. Infine, in uno dei licei campione, il Giordano Bruno, gli stessi commissari dell’Invalsi hanno deciso di far saltare i quiz perchè gli studenti delle classi speri-mentali hanno deciso di boicottare in massa.
Le ragioni della protesta
MA QUALI SONO le ragioni? Allo storico liceo Giulio Cesare di Roma, proprio in polemica con i questionari personali somministrati ai partecipanti ai test, i ragazzi hanno esposto lo striscione: “Prove Invalsi? Meglio non fidarsi”.
“La nostra è una preparazione umanistica–spiegaunalunno di quinta – le crocette non ci piacciono, i prof ci insegnano ad argomentare e noi quello vogliamo fare”. Mentre i genitori del liceo Virgilio, che protestano da settimane, gli stessi che si erano opposti all’orientamento “cattolico” proposto dal presidente della Regione Renata Polverini, con tanto di gitaalsantuario,hannoscritto ediffusounvolantino“Noalle prove Invalsi” invitando i ragazzi a consegnare in bianco dopo aver reso illegibile il loro codice identificativo “per impedire ogni schedatura”. I genitori hanno chiesto anche aglialunnidelleclassicampione di non entrare e di non avere“contatti”congliosservatori Invalsi.
La contestazione dei genitori nasce dal questionario allegato ai test che offre informazioni sensibili sulla vita dei ragazzi. Mentre i docenti temono che le loro scuole possano essere valutate in base a test a crocette, molto diffusi in Europa, ma piuttosto banali rispetto ai metodi di studio adottati nel nostro paese e apprezzati anche all’estero. Secondo il sindacato dei Cobas intuttaItaliailboicottaggioda parte degli insegnanti che oggi si sono rifiutati di far svolgere le prove con il metodo Invalsi ha riguardato il 20% delle scuole, mentre a Roma ha raggiunto il 30%.
La polemica non si è fermata nelle aule scolastiche, ma ha raggiunto i palazzi del potere. Se per il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, “sui test non si torna indietro”, il senatore Fabio Giambrone, chiede che il ministro riferisca in Commissione e il suo collega Stefano Pedica ha chiesto addirittura ai ragazzi di scendere in piazza “contro una buffonata che allo Stato costa 8 milioni”. Contrario al boicottaggio il Pd: '”Non condivido il boicottaggio delle prove Invalsi promosse dai Cobas, in quanto è una forma di lotta controproducente che valorizza la posizione di chi, come la Gelmini, fa della valutazione una sorta di ideologia, di cui non chiarisce le finalità, se non un generico collegamento con la premialità. Le criticità dei test Invalsi sono tante, ma possono essere corrette nel futuro”.
il Fatto 11.5.11
Sul caso Thyssen Confindustria non sa cosa dire
Imbarazzo e versioni contrastanti sull’applauso al manager condannato
di Giorgio Meletti
“Non conosco la dinamica dell’incidente”. Questa frase apparentemente banale l’ha pronunciata ieri, in un’intervista a La Repubblica Salomone “Samy” Gattegno, manager dal curriculum prestigioso, da tre anni responsabile del Comitato per la sicurezza della Confindustria. É lui la massima autorità confindustriale in tema di morti sul lavoro. E non sa come sono morti i sette operai della Thyssen bruciati vivi la notte del 6 dicembre 2007.
Gattegno, che in tre anni e mezzo non si è preso la briga di andare a Torino a chiedere ragguagli, è l’immagine plastica dell’imbarazzo della Confindustria e del modo all’apparenza scoordinato con cui sta gestendo il clamoroso infortunio di sabato scorso a Bergamo.
Le critiche all’assurda ovazione innocentista delle Assise confindustriali sono state unanimi. Partiti di opposizione e di governo, ministri, sindacalisti di tutte le sigle, hanno trovato la mossa quantomeno di dubbio gusto. La presidente Emma Marcegaglia, ideatrice della passerella trionfale per Harald Espenhahn, l’amministratore delegato della Thyssen Krupp condannato a sedici anni e mezzo per omicidio volontario, è rimasta senza parole.
L’IMPRENDITRICE di Mantova ha cercato di uscire dall’imbarazzo mettendosi privatamente in contatto con Antonio Boccuzzi, unico operaio sopravvissuto alla strage e oggi deputato Pd, e chiedendogli di poter incontrare i familiari delle vittime. Dalle indiscrezioni fatte filtrare con arte su qualche giornale pare che voglia spiegare come effettivamente sono andate le cose a Bergamo.
Sferzante la replica di Graziella Rodinò, madre di Rosario, morto bruciato a 26 anni perché Espenhahn aveva ritenuto più conveniente rinviare l’installazione del sistema antincendio automatico lungo quella linea di laminazione dell’acciaieria: “Se desidera incontrarci, va bene. Vogliamo che ci ripeta in faccia che le condanne sono troppo alte”.
La Confindustria ha cercato di fronteggiare le critiche sostenendo che è stato tutto un fraintendimento. Tesi complicata da sostenere per la presidente che ha voluto la brillante operazione di sostegno alla Thyssen Krupp, la multinazionale tedesca che praticamente tiene in piedi da sola la Confindustria dell’Umbria, e che all’indomani della sentenza di Torino aveva chiesto in modo perentorio di essere difesa dall’organizzazione.
Così Marcegaglia ha fatto un passo indietro e il gioco del cerino ha designato Gattegno che a Bergamo non c’era. É stato costretto ad arrampicarsi sugli specchi raccontando cose che non ha visto, ma molto convinto della linea innocentista della sua organizzazione. “Ha perfettamente ragione la presidente – ha dichiarato – Non c'è alcun paese europeo che abbia condannato per omicidio volontario un manager di un'azienda in cui si è verificato un incidente mortale. Quando tutti noi comuni mortali parliamo di omicidio volontario pensiamo a qualcuno che tira fuori la pistola e ti spara”.
SE GATTEGNO, anziché fare il comune mortale, si fosse informato come i doveri del suo ufficio imporrebbero, avrebbe scoperto che c’è una giurisprudenza (sicuramente opinabile) per cui non c’è bisogno di estrarre la rivoltella per commettere un omicidio volontario . Può bastare addirittura il taglio di un budget, hanno stabilito i giudici di Torino.
L’imbarazzo confindustriale ha comunque prodotto almeno tre versioni dei fatti di Bergamo, che per completezza vanno riferite.
Prima versione, consegnata da Gattegno a la Repubblica: “Espenhahn ha detto che il suo gruppo continuerà a investire in Italia, paese nel quale vive con la sua famiglia. I suoi figli – ha detto – parlano meglio il dialetto ternano che il tedesco. Su questo punto è scrosciato l'applauso”.
Seconda versione, data a caldo dalla Marcegaglia: il problema della sentenza Thyssen è che “se una cosa di questo tipo dovesse prevalere potrebbe allontanare gli investimenti esteri dall’Italia e mettere anche a repentaglio, in qualche modo, la sopravvivenza del nostro sistema industriale”. Curioso che avesse detto queste cose subito dopo le rassicurazioni di Espenhahn sul punto (vedi prima versione).
TERZA versione, data dal giornalista Oscar Giannino che dirigeva i lavori di Bergamo. Presentando il manager condannato ha commentato la sentenza che l’ha colpito: “É un unicum sinora in Italia, un unicum in Europa. E a quel punto ho aggiunto: la mia personale opinione è che questa svolta giudiziale della volontarietà omicidaria apra una strada per la quale, cari imprenditori, vi sarà sempre più difficile trovare manager in grado di accettare l’idea di esporsi a vent’anni di galera come se volessero assassinare i vostri e loro dipendenti. É a quel punto che si è scatenato un fortissimo applauso”.
Corriere della Sera 11.5.11
Il giudice Usa «Il Vaticano apra gli archivi»
Città del Vaticano. Un prete può essere considerato «dipendente» del Vaticano? Un tribunale americano dell’Oregon, per la prima volta, ha chiesto alla Santa Sede di fornire «entro il 20 giugno» documenti sulla gestione dei sacerdoti. La vicenda risale agli Anni 60 e riguarda un prete irlandese accusato di pedofilia, Andrew Ronan, morto nel ’ 92. L’avvocato della vittima, Jeff Anderson, chiama in causa il Vaticano, che ha sempre ribattuto: i preti dipendono dalle singole diocesi.
Repubblica 11.5.11
Fede, patria e solidarietà la Quarta via del Labour per riconquistare il potere
Miliband archivia Blair e la sinistra si tinge di "blue"
Il colore allude alla tradizione "Senza però nostalgie del passato"
di Enrico Franceschini
LONDRA - Qualcuno lo ha già soprannominato la Quarta Via. Il suo vero nome è Blue Labour e la sua aspirazione è riformare il Partito laburista, naturalmente per riportarlo al potere. Come? Con una politica di destra o di sinistra? «Con una politica radicale e conservatrice, innovativa e tradizionalista al tempo stesso», risponde Maurice Glasman, l´accademico che l´ha ispirata, "guru" del nuovo leader laburista Ed Miliband. «Una politica che vada oltre il liberalismo economico degli anni del blairismo, risvegliando l´associazionismo democratico e la solidarietà, tenendo a bada gli eccessi del capitalismo, combinando fede e patriottismo, libertà e internazionalismo, sicurezza e armonia sociale».
Può sembrare un cocktail con troppi ingredienti. Eppure dal Guardian alla Bbc, dalla Fabian Society alla rivista Progress, dai corridoi del parlamento di Westminister agli uffici di Policy Network (la fondazione fondata da Peter Mandelson), il Blue Labour è l´argomento del giorno nel Regno Unito. L´ultima volta che il Partito laburista si è rinnovato, nel 1994, quando Tony Blair lo ribattezzò "New" Labour imponendogli una svolta riformista, nel giro di tre anni la sinistra britannica vinse le elezioni e in breve tempo i partiti progressisti che adottarono la stessa linea andarono al governo in tutta Europa. Era il risultato della Terza Via, il riformismo pragmatico indicato dal sociologo Anthony Giddens come il metodo per portare avanti una politica di sinistra nell´era in cui i colletti bianchi sono più numerosi degli operai. La formula di Glasman, elogiato pubblicamente da Miliband in un recente discorso, è una "Quarta Via" in grado di rilanciare il centro-sinistra, non solo in Gran Bretagna, dove giusto un anno fa ha perso le elezioni, ma anche in un´Europa in cui ha perso il potere quasi ovunque?
"Blue" allude al colore tradizionale del Labour, dunque a un ritorno alle origini, e secondo alcuni alla nostalgia di qualcosa che non c´è più. Ma il suo ideatore non è d´accordo. «Questa non è una politica della nostalgia», spiega Maurice Glasman. «È la riscoperta di abitudini e valori cruciali per il laburismo, che sono stati dimenticati o considerati poco importanti. Non è nemmeno una difesa della evanescente classe lavoratrice. È la riscoperta che la visione etica di una società umana, che spinse uomini e donne a fondare il Labour nel 1900, è ancora rilevante e vitale oggi. Blue Labour non ha nostalgia del vecchio Labour e nessuna illusione sui difetti del New Labour. Sia Blair che Brown sono stati pericolosamente ingenui su banche, finanza e libero mercato. Non a caso l´economia tedesca, con i lavoratori rappresentati nei consigli d´amministrazione e un più alto livello di interferenza democratica nella gestione dell´economia, è emersa dalla recessione con una crescita più forte e un settore industriale più moderno di quelli del mondo anglosassone».
È questa la via che il centro-sinistra europeo cerca vanamente da anni? Chissà. Ma di sicuro Londra conferma ancora una volta di essere il laboratorio del progressismo riformista: il luogo dove si coltivano nuove idee della politica, andando oltre gli slogan e la propaganda.
Repubblica 11.5.11
Non è xenofobia. Eccessi liberisti
Il guru della Terza via giudica la svolta: "Manca di proposte ambientali, lo sviluppo sostenibile è una chiave del futuro"
Giddens: "È un ritorno alla socialdemocrazia ma sull´immigrazione cerca risposte nuove"
Certe resistenze non sono frutto della xenofobia ma di preoccupazioni economiche legittime
Il New Labour ha avuto talvolta una visione troppo semplicistica della modernizzazione
di E. F.
LONDRA - «Il Blue Labour è un primo passo per rinnovare i partiti progressisti, riscoprendo qualcosa delle sue tradizioni più nobili, innovando in altri campi, ma c´è ancora molto lavoro da fare». Così lo giudica Anthony Giddens, il sociologo che ha inventato la Terza Via, l´idea riformista che portò al potere Tony Blair in Gran Bretagna. Ex-rettore della London School of Economics, membro della camera dei Lord, autore di saggi tradotti in tutto il mondo, Giddens analizza in questa intervista a Repubblica gli elementi positivi e le lacune della nuova svolta.
Professor Giddens, il Blue Labour è l´evoluzione della sua Terza Via? È la Quarta Via?
«È un programma ancora vago, che contiene al suo interno diverse istanze e risposte incomplete. Da un lato punta a conservare o meglio a recuperare alcune tradizionali forme dell´identità socialdemocratica: in questo senso rappresenta un collegamento con la base laburista del passato, che si sente minacciata in un mondo di trasformazioni troppo radicali e in parte dimenticata dal proprio partito. D´altro canto è anche uno sguardo verso il futuro, alla ricerca di nuove formule, mettendo in discussione sia il mantra del liberismo che risolve tutti i problemi, predicato dal New Labour di Blair, sia quello che debba essere sempre e comunque lo stato a risolvere tutto».
È un atto di accusa verso il blairismo, e di conseguenza anche verso la Terza Via di cui lei è stato l´ispiratore?
«Attenzione, perché il New Labour di Blair e la Terza Via non sono la stessa cosa, non coincidono perfettamente. La Terza Via ha influenzato in particolare la prima fase del blairismo, tra il ‘94 quando Blair diventò leader del Labour e il ‘97 quando vinse le sue prime elezioni, in cui il Partito laburista cominciò a cambiare, a togliersi di dosso slogan e concetti del socialismo vecchia maniera per guardare con occhi nuovi una società che si era trasformata. Poi, nella seconda fase, il New Labour ha avuto talvolta una visione troppo semplicistica della modernizzazione, per esempio ritenendo che il capitalismo possa autoregolarsi da solo con effetti comunque positivi».
Un altro punto chiave del Blue Labour sembra una diversa lettura del problema dell´immigrazione.
«È il riconoscimento che certe resistenze o paure davanti all´immigrazione, al fenomeno che sta trasformando il mondo globalizzato, non sono frutto di pregiudizi, discriminazioni razziali, xenofobia, ma di una perdita di identità e di una preoccupazione economica che sono legittime e a cui un partito progressista deve saper rispondere».
È anche una risposta alla "Big Society", il progetto dei conservatori di David Cameron per rispondere con il volontarismo ai tagli al welfare imposti dal deficit, dalla crisi, da un mondo avviato ad avere troppi pensionati e non abbastanza lavoratori?
«Sicuramente sì. C´è dietro l´idea che il partito laburista, anche negli anni di Blair, abbia dato troppa importanza allo stato come risolutore di tutti i problemi e che proprio la sinistra possa ritrovare nella sua tradizione di solidarietà sociale, di cooperazione, di mutue e associazionismo, una risposta ai limiti imposti dalla crisi allo stato assistenziale. Ma non è un concetto che io condivido in pieno. Se vuoi regolare il mercato, innanzi tutto, hai bisogno dello stato. E in secondo luogo sarebbe ingenuo o ipocrita pensare di sostituire il welfare con il volontarismo e lo spirito di solidarietà. È vero, questi sono valori importanti della tradizione della sinistra ed è un bene se si possono recuperare, ma non possono diventare una risposta a tutti i mali della società».
In conclusione cosa manca al Blue Labour per diventare davvero una nuova via capace di riportare al potere i progressisti?
«Per cominciare manca di proposte sulle questioni ambientali e energetiche: non si può pensare al futuro senza considerare il cambiamento climatico e le questioni dello sviluppo sostenibile. Più in generale, l´idea del Blue Labour è un primo passo, un tentativo di rinnovare il centro-sinistra, ma ancora incompleto, parziale. A mio parere bisognerà continuare a lavorarci».
(e. f.)
l’Unità 11.5.11
Pacifisti italiani verso Gaza: «Colmeremo il vuoto di Vik»
Dal 12 al 18 maggio partirà alla volta di Gaza un convoglio chiamato CoRum (convoglio restiamo umani): singoli, associazioni e movimenti. Per colmare il vuoto causato dall’uccisione di Vittorio Arrigoni.
di Roberto Arduini
«A Gaza. Per Vittorio». È l'annuncio dei pacifisti italiani, riuniti nel CoRUM, il “convoglio restiamo umani” nato dopo la morte di Vittorio Arrigoni, attivista ucciso nella Striscia il 15 aprile scorso. Più di ottanta tra attivisti, blogger e videomaker, partiranno oggi per l'Egitto. L’obiettivo è attraversare il valico di Rafah nella mattina del 12 maggio. Il convoglio umanitario ha assunto in poche settimane una valenza internazionale, con le moltissime adesioni giunte dall'estero. Il contesto geopolitico intanto sembra sorridere all'iniziativa. Sul piano interno la riconciliazione tra Hamas e Al Fatah, siglata la scorsa settimana al Cairo, mentre in Egitto il nuovo governo egiziano ha annunciato, a quattro anni di distanza, la riapertura del valico di Rafah.
«Vogliamo colmare l'enorme vuoto causato dalla scomparsa di Vittorio», dicono gli organizzatori. «Era la voce di Gaza e della sua popolazione. Dalla Striscia difficilmente giungono notizie, infatti, e quando avviene sono spesso distorte». Il 15 mag-
gio «celebreremo l’anniversario della Nakba, il “giorno della catastrofe”, ma anche quello del trigesimo della scomparsa di Vik». Presente all'iniziativa anche il palestinese Abdullah Abu Rahmah, membro del Comitato popolare contro il Muro di Bil’in, tenuto in prigione in Israele per due anni. «La presenza internazionale è fondamentale per testimoniare la nostra lotta di resistenza non violenta», dice, «perché non solo ci aiutano a testimoniare al mondo la realtà, ma anche perché l’esercito è costretto a diminuire i suoi metodi violenti. Basti pensare che in questi anni i nostri morti sono stati 28 contro le migliaia della seconda e terza Intifada».
La carovana, che rientrerà in Italia il 18 maggio, ha un programma denso di appuntamenti e si pone tra i traguardi più importanti la costituzione di un media center indipendente. Sono previsti un convegno all'Università di Kar Younis, visite a ospedali in cui presteranno servizio alcuni infermieri del convoglio, incontri con l'associazionismo locale come Gazzella Onlus, che si occupa dell’assistenza ai bambini palestinesi feriti da armi da guerra. Gli attivisti accompagneranno i pescatori e i contadini alle loro terre nella zona cuscinetto. A giugno salperà poi la Freedom Flottilla. Che però è un'iniziativa indipendente, anche se parallela a questa carovana.
Corriere della Sera 11.5.11
Il treno israeliano nei Territori Le ferrovie tedesche si ritirano
Ma l’azienda italiana Pizzarotti resta partner del progetto
di Francesco Battistini
Scendete da quel treno. Se la diplomazia è la via più lunga fra due punti, come diceva Decourcelle, a Berlino hanno deciso che i due punti, certe volte, è meglio non congiungerli proprio. Il governo Merkel ordina, le ferrovie tedesche eseguono: non parteciperanno più ai lavori della linea israeliana ad alta velocità che nel 2017 dovrà collegare Gerusalemme a Tel Aviv, scavalcando la Linea Verde e attraversando per 6 km i Territori palestinesi. Troppe proteste, ha chiuso la questione il ministro dei Trasporti, Peter Ramsauer: il progetto vìola la Convenzione di Ginevra, perché passa in una zona occupata dai militari, e mette in imbarazzo la politica europea che, quelle zone, vuole siano restituite. Al diavolo le commesse per la rete elettrica e per le comunicazioni: la ritirata di Deutsche Bahn arriva dopo mesi di pressioni di Ong europee e israeliane, e dopo che a chiudere i cantieri avevano già provveduto i parigini di Veolia e un gruppo austriaco. «Un’opera politicamente problematica » , la definiscono i tedeschi. Un’opera cominciata nel 1995, con la promessa di trasportare in meno di mezz’ora 7 milioni di persone l’anno (praticamente tutto Israele), e subito contestata. Nessuno dubita della sua utilità, in un Paese soffocato dal trasporto su gomma, mentre qualcuno dubita della sua legittimità: la ferrovia tocca l’enclave di Latrun, la Valle dei Cedri e i villaggi arabi di Beit Surik e di Beit Iksa, a ridosso d’insediamenti israeliani. «Un percorso inaccettabile — dice Merav Amir, che guida le proteste — perché il treno non sarà mai usato da palestinesi, eppure userà i loro terreni confiscati illegalmente. I cantieri, una volta rimossi 530mila metri cubi di terra palestinese, la rivenderanno agl’israeliani per costruire nuove colonie illegali» . Venti chilometri di gallerie, cinque di ponti, due miliardi di dollari investiti. E più d’una perplessità per la fretta imposta ai lavori: qualche settimana fa, racconta Haaretz, decine d’operai hanno rischiato di morire nel crollo d’un tunnel e ora qualche impresa israeliana vorrebbe mollare. I francesi, gli austriaci, i tedeschi, gl’israeliani... E gl’italiani? Un appalto per 4 km di gallerie è toccato alla Pizzarotti di Parma, colosso delle costruzioni famoso per avere trivellato il San Gottardo. Fonti diplomatiche ricordano che il rischio di contestazioni era stato segnalato. Un alto dirigente Onu suggerisce che «è meglio togliersi, prima d’avere problemi» . E’ partita una campagna online: «Chiederemo a ogni sindaco italiano di non dare appalti a queste società» , dice l’ex eurodeputata di Rifondazione Luisa Morgantini, fra le animatrici. Da Parma, trasecolano: «Siamo stupiti d’essere coinvolti in questa protesta — dice Michele Pizzarotti, figlio del presidente Paolo —. Non siamo l’impresa leader, siamo entrati nell’alta velocità israeliana come meri esecutori d’un progetto fatto da altri, peraltro già modificato dalla Corte suprema israeliana. Non avevamo la minima idea che ci fossero complicazioni col processo di pace. Anche perché la ferrovia potrebbe toccare Ramallah, per essere utilizzata dai palestinesi, e nei nostri cantieri diamo lavoro a tecnici e a operai arabi» . La ritirata tedesca non cambia i programmi: «Andarcene? Non solo per noi sarebbe un disastro, perché abbiamo 70 milioni di macchinari già investiti, ma sarebbe pure inutile: il cantiere andrebbe avanti lo stesso col nostro socio israeliano» .
La Stampa 11.5.11
Il G2 a Washington
Usa -Cina la guerra semifredda
di Marta Dassù
Per la prima volta dall’insediamento di Barack Obama, Washington discute con Pechino da una posizione di relativa forza e non di debolezza. Non perché la situazione economica degli Stati Uniti sia sostanzialmente migliorata: il problema del debito resta lì, con i dilemmi che pone anche al Paese, la Cina appunto, che più ha investito negli anni scorsi in buoni del Tesoro americani. Ma Obama è politicamente più in forma di quanto sia mai stato dal 2008 in poi; e l’America è psicologicamente più solida. Almeno a breve termine, l’uccisione di Bin Laden ha cambiato il clima: per gli Stati Uniti e per la potenza sfidante del XXI secolo.
La Cina lo sa. Il gruppo dirigente comunista/capitalista sa che l’uccisione del capo di Al Qaeda in Pakistan cambia qualcosa anche per Pechino. Che ha applaudito alla morte di Bin Laden (la Cina ha una propria guerra interna contro il terrorismo islamico); ma che teme per il futuro del Pakistan, suo storico alleato nella competizione con l’India. C’è però qualcosa di più.
La preoccupazione della Cina che la morte di Bin Laden permetta a Washington di scrollarsi più in fretta di dosso le sabbie dell’Afghanistan per dedicarsi alle vere priorità di questo secolo: le priorità sul versante asiatico, dall’Oceano Indiano verso l’Asia orientale. Non più il Grande Medio Oriente, insomma; ma il Grande Oriente, con la Cina al centro. Questo riequilibrio strategico degli Stati Uniti chiuderebbe più rapidamente del previsto la finestra di opportunità di cui Pechino ha goduto dal 2001 in poi. Gli anni in cui l’America, invischiata fino al collo nelle bolle dell’economia e nelle due guerre medio-orientali, ha lasciato spazio al grande ritorno dell’Impero di Mezzo.
La Cina non è nella situazione ideale per vivere questa accelerazione: è in una campagna elettorale in stile confuciano (la successione da una generazione all’altra della leadership, che si compirà a fine anno), guarda agli effetti indiretti della primavera araba (comunque vada a finire) e soprattutto teme i riflessi politici e sociali dell’inflazione - ormai conclamata. Sono fattori che contribuiscono a spiegare la stretta politica interna degli ultimi mesi; in modo più esplicito del solito, l’amministrazione americana sta sollevando in questi giorni, nel Dialogo bilaterale, il nodo dei diritti umani. Anche sul piano economico c’è qualche difficoltà. E’ vero che la Cina ha retto bene, meglio di tutti, alla crisi finanziaria, aumentando il suo vantaggio competitivo sulle economie occidentali; ma è vero anche che Pechino è alle prese con una revisione obbligata e non semplice del proprio modello di sviluppo. Una fase è finita: la globalizzazione pre-2008, così vantaggiosa per la strategia di crescita degli ultimi decenni, sta esaurendo i suoi margini.
In politica estera, la Cina ha in parte abbandonato la politica di «basso profilo» teorizzata dal grande architetto del miracolo economico, Deng Xiaoping. E ha scelto, soprattutto nel Mar Cinese meridionale, una maggiore assertività, combinata all’aumento del Bilancio della Difesa. L’espansione della Marina militare è uno dei segni di questo raggiustamento; i cui risultati, tuttavia, non sono chiari. Per il momento, è aumentata la preoccupazione dei vecchi alleati asiatici degli Stati Uniti, in cerca di rassicurazioni. In un’Asia orientale temporaneamente senza Giappone, l’America è vista, ancora più che in passato, come una potenza indispensabile del Pacifico.
La tesi esplicita di Washington (e quella implicita di Pechino) è che la partecipazione dell’Esercito cinese al tavolo del dialogo bilaterale - la maggiore novità di questo round - potrà ridurre il tasso di «incomprensioni» reciproche. Se si giudica dalla gestione della crisi nucleare coreana, è un punto vero; che non elimina, tuttavia, le divergenze di interessi sulla sicurezza asiatica.
Un’America più fiduciosa - ma ancora fragile economicamente - e una Cina più preoccupata - in transizione - possono dar vita a un «G/2» stabile ed efficace? La risposta è per ora negativa. Invertendo i fattori rispetto a pochi mesi fa, infatti, il risultato non cambia: la realtà è ancora più vicina a una specie di «G/0» - a una rischiosa insufficienza di leadership globale - che a un duopolio capace di governare un mondo quanto mai complicato. Magari come nucleo duro di un G/20 che ha già dimostrato i suoi limiti. Basta pensare ai discorsi, per ora rimasti tali, sulla riforma del sistema monetario.
Tutto questo non significa affatto che fra Cina e Stati Uniti si prepari necessariamente la guerra fredda del futuro. Nel suo nuovo libro, «On China», Henry Kissinger spiega i rischi ma anche le possibilità di evitare uno scenario che sarebbe catastrofico per le prossime generazioni.
L’idea del G/2 ha sempre irritato l’Europa, che si sente esclusa dal «rapporto bilaterale più importante al mondo» (espressione iniziale dell’Amministrazione Obama, invisa agli europei); ma rischia anche di funzionare da alibi, per un’Europa incapace di assumersi responsabilità internazionali. Proprio mentre si svolge il nuovo round del Dialogo Strategico ed Economico Usa-Cina, e quando si riaccende la crisi greca, è bene che l’alibi cada.
La Stampa 11.5.11
Pechino-Vaticano, un passo verso il dialogo
di Andrea Tornielli
Quello sulla Cina è uno dei dossier che più stanno a cuore alla Santa Sede, a motivo della difficoltà dell’ultimo anno e delle possibili nuove consacrazioni episcopali illegittime dei prossimi mesi. In questo contesto è importante la stretta di mano che potrebbe avvenire il prossimo 2 giugno al Quirinale tra il «primo ministro» vaticano Tarcisio Bertone e il presidente in pectore della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, attuale numero due del presidente Hu Jintao. Quel giorno, sul Colle, si terrà il tradizionale ricevimento per la festa della Repubblica italiana, preceduto da un concerto e reso particolarmente solenne a motivo delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. Vi parteciperanno una settantina di capi di Stato stranieri, tra i quali il vicepresidente americano Joe Biden e il suo omologo di Pechino.
Si è parlato anche di questo nel corso dell’incontro di ieri mattina in Vaticano tra il segretario di Stato Tarcisio Bertone e il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini. L’udienza tra il titolare della Farnesina e il Segretario di Stato è iniziata con dieci minuti di colloquio a tu per tu, per poi continuare per oltre tre quarti d’ora in presenza del capo gabinetto di Frattini, Pasquale Terracciano, dell’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Francesco Maria Greco e del sottosegretario vaticano per i Rapporti con gli Stati Ettore Balestrero.
Il ministro ha aggiornato Bertone sull’allarme terrorismo dopo l’uccisione di Bin Laden e sull’impegno del governo italiano per la salvaguardia dei cristiani nei Paesi in cui vivono situazioni di rischio. Si è parlato della guerra in Libia e delle rivolte in Siria, ma anche dell’Egitto, dove l’imprenditore copto Naguib Sawiris, magnate delle telecomunicazioni, vuole far nascere un partito che difenda i cristiani. Si è accennato con preoccupazione alla situazione in Pakistan. Per quanto riguarda l’Iraq, il governo ha comunicato alla Santa Sede l’intenzione di favorire investimenti per la ricostruzione in zone nelle quali sono presenti anche i cristiani, per evitare che emigrino dal Paese.
Vista la situazione oggettivamente complicata dei rapporti tra Cina e Vaticano, dopo la crisi dello scorso anno, gli interlocutori d’Oltretevere si sono dimostrati molto interessati alla presenza, tra gli ospiti del presidente Giorgio Napolitano al Quirinale, di Xi Jinping, l’uomo che nel giro di due anni dovrebbe essere eletto alla guida del Partito comunista cinese e quindi Presidente della Repubblica cinese. Si farà in modo che Bertone, anch’egli invitato al ricevimento, possa salutarlo e scambiare qualche battuta con lui.
Ieri intanto il Papa ha cambiato il suo «ministro degli Interni», nominando come nuovo Sostituto al posto dell’arcivescovo Fernando Filoni il nunzio a Cuba Giovanni Becciu. Filoni, promosso Prefetto di Propaganda Fide, dovrà occuparsi del dossier Cina, dato che la sua nuova Congregazione è competente sulle Chiese delle terre di missione. Filoni, che si trova ad avere come numero due l’arcivescovo cinese Savio Hon Tai-Fai, conosce già bene la situazione per aver prestato servizio nella nunziatura delle Filippine.
Corriere della Sera 11.5.11
«Le mie operaie ora sono dirigenti»
Leslie T. Chang: in Cina la crisi metabolizzata con la mobilità sociale
di Marco Del Corona
Il telefonino è sempre lì. Totem, feticcio, ancora di salvezza, casa, proiezione del futuro e delle sue infinite possibilità. La Cina corre rapida, certi dettagli di un libro pubblicato nel 2008 non sono inevitabilmente più gli stessi, ma alcuni pilastri non si spostano. E allora, se in «Operaie» Leslie T. Chang mostrava come il cellulare fosse il perno dell’esistenza e della scommessa di riscatto delle lavoratrici di Dongguan, oggi — un pugno d’anni e una crisi economica dopo— è ancora così. Esattamente così. «Tutto passa dal telefonino. È ancora uno strumento di sopravvivenza essenziale» , racconta al Corriere la scrittrice: in questo la Cina delle sue operaie non è cambiata. Neppure i destini delle ragazze di cui la scrittrice americana divenne amica durante la sua frequentazione di Dongguan — la città che più di tutte è diventata il simbolo del lavoro dei migranti e del modello produttivo del «made in China» — hanno subìto sterzate vertiginose: sono evoluti, certo, ma la traccia è quella segnata. «Siamo sempre rimaste in contatto. Di loro due, una ha cambiato sei o sette lavori; oggi dirige l’ufficio vendite di un’azienda di piatti di plastica. Cene coi clienti, quella vita lì, cose tremende. L’altra vive col marito in un villaggio a un’ora da Changsha» , il capoluogo dell’Hunan. La loro vita, però, non sanno ancora come Leslie l’ha raccontata. «Ho firmato un contratto per una traduzione di "Operaie"a Taiwan. Finalmente le "Operaie"potranno leggersi...» . Leslie T. Chang ora vive in Colorado, ha due gemelli piccoli. Suo marito è lo scrittore Peter Hessler, a sua volta autore di libri d’argomento cinese. La Cina li bracca fin dentro le loro vite. Lo stesso «Operaie» incrocia il reportage-racconto con il «memoir» familiare, con le sue radici cinesi: «Il focus del mio lavoro erano le lavoratrici migranti, ma le ricerche sulla mia famiglia mi hanno aiutato a capire Dongguan e a creare un contesto storico» . Nel frattempo, però, la Repubblica Popolare non è già più quella di quando la Chang pubblicava le sue corrispondenze per il Wall Street Journal, e neppure Dongguan è la stessa: «La crisi del 2008-2009 ha avuto un impatto forte su quella città. Fabbriche che si svuotavano, che chiudevano, lavoratori che rientravano ai villaggi. Gli operai sono stati assunti in fabbriche dell’interno. Le loro esistenze materiali non sono mutate, la gente continua a guadagnare, e così via. Certo, sono meno lontani da casa rispetto a quando si spingevano fino a Dongguan» . La leadership cinese, intanto, ha varato il nuovo piano quinquennale che dà enfasi al consumo interno. Ma per la Chang, «senza entrare nello specifico, le decisioni del governo non hanno effetto sui lavoratori migranti. Non se ne occupa, semplicemente. E la produzione industriale, se anche mira ai consumatori interni, non riguarda certo i migranti» . I risultati del censimento, diffusi a fine aprile, mostrano che la popolazione cinese è ormai divisa a metà fra città e campagne, «tuttavia il trend degli spostamenti dalle aree rurali a quelle urbane non cambierà, perché i villaggi presentano tuttora pochissime opportunità» . La Cina non è la mecca del lavoro a basso costo. «Non lo è da anni. Quando parli con i dirigenti di uno stabilimento, te lo spiegano bene» , dice la Chang. In altri Paesi, dal Bangladesh al Vietnam, «la manodopera è più a buon mercato. Ma in Cina gli operai sono più efficienti e affidabili, dunque più convenienti anche se più cari che altrove » . Gli scioperi nel Guangdong, ma non solo, che nel 2010 hanno suscitato attenzione ed (eccessive) speranze sui media internazionali, si collocano in questo quadro. «Erano manifestazioni genuine. E il governo è entrato agendo come mediatore fra azienda e lavoratori, secondo un modello sperimentato da almeno 5 anni. La leadership sa che se gli operai si lamentano hanno ragione a farlo» . La Cina dispiega dinamiche tutte sue, «in virtù della velocità della sua crescita e della scala dell’impatto sociale» , aggiunge la scrittrice, e «si assiste a una grande mobilità sociale. In città un migrante sa che in 5-6 anni può accedere alla classe media. Chi vive in Cina lo sa: le storie dei ricchi sono spesso storie di gente che non aveva nulla» .
l’Unità 11.5.11
L’individuo e l’economia
Rileggere Marx per capire la psicologia
di Maurizio Mori
Prendendo spunto da uno studio sull’individualismo economico come “mentalità” tipica degli ultimi secoli elaborato nel cuore della produzione capitalistica, la Ibm del 1980, Luigi Ferrari ha scritto un libro impegnativo (quasi mille pagine) ma di estremo interesse e sul quale varrebbe la pena di riflettere. Ferrari, infatti, osserva come per riuscire a capire un gran numero di fenomeni socio-psicologici si debba ripensare lo status delle scienze sociali, ed in particolare della psicologia. Contro l’idea che la scientificità rimandi di per sé a prospettive astoriche, Ferrari propone una “psicologia storica” basata su alcune tesi della scuola delle Annales che mette al centro la long durée integrata da apporti marxiani che, svincolati ora dalle gabbie mentali derivanti dai rapporti col “socialismo reale”, possono essere ripresi con maggiore libertà. Il risultato, come detto, è un libro imponente (L’ascesa dell’individualismo economico, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza, pp. 962, € 31,00) ma che si legge bene e che propone una robusta teoria generale della mente umana come mente storica frutto della sommatoria incoerente di sedimentazioni storicamente determinate.
L’obiettivo è spiegare come può avvenire un cambiamento di “mentalità”, aspetto decisivo per capire la presenza delle diverse psico-patologie e di altri disagi sociali, frutto dell’incapacità di mantenere in equilibrio le diverse stratificazioni culturali. Riprendendo la tesi paretiana delle azioni non-logiche e dei residui, Ferrari conduce il lettore in un’attraente galleria di affreschi che illustrano meandri poco frequentati e reconditi dell’animo umano: le analisi di nozioni chiave nel nostro “inconscio collettivo”, come quella di “onore”, “lealtà”, “operosità”, “altruismo” ed “egoismo”, ecc., mostrano come l’ascesa o il declino di questi concetti in una cultura informino gli orizzonti culturali di una data epoca, ponendo le basi concrete della mentalità generatrice dei quadri mentali sia “normali” che “patologici”.
I disagi psichici vanno visti e curati tenendo conto di questa prospettiva ampia e allargata del processo, senza lasciarsi ammaliare dalle sirene che cantano un’astratta e astorica “natura umana”. Al centro del discorso stanno le nozioni di individualismo/collettivismo, i cui rapporti declinano la socialità umana e danno origine a una serie di paradossi e di dilemmi che possono essere chiariti e studiati coi metodi dell’analisi economica. Senza cedere a mode passeggere e di maniera, il libro offre una teoria solida, meditata e ampia che mostra come in Italia ci siano ancora studiosi attenti e capaci di proporre un pensiero non settoriale, robusto, rigoroso e profondo. Stona però la presenza di passi dai toni negativi e cupi (es. l’individualismo come una storica, «immane, lunga, dolorosa distruzione di relazioni»), che sembrano alludere ai soliti rimpianti per i tempi passati, tesi che in realtà è diametralmente opposta a quella sostenuta nel libro.
il Fatto 11.5.11
Orrore capitale
Musei privati, pubblici sprechi Le mostre secondo Alemanno
di Carlo Tecce
Ormai è una massima di Gianni Alemanno: “Cultura, basta con i tagli”. Il sindaco di Roma, coerente, mica vuole scippare soldi ai musei. Peggio: pensa di regalarli ai privati. Di cedere in gestione per (almeno) dieci anni il palazzo delle Esposizioni, le scuderie del Quirinale e la Casa del Jazz, le tre strutture controllate dall'azienda speciale Palaexpo di proprietà del Campidoglio. L’ex banchiere Emmanuele Emanuele è la figura centrale di un'operazione di Alemanno che va oltre le regole e il buon senso. Che il sindaco nasconde ai cittadini e ordina nel silenzio di una Giunta spaesata. Con un'investitura celebrata a destra e ben tollerata a sinistra , quasi due anni fa, Emanuele fu nominato presidente di Palaexpo: al professore la prestigiosa carica, al Comune 4 milioni attraverso la sua Fondazione Roma. L'esperimento pubblico-privato funziona, i turisti gradiscono le mostre, le casse del Campidoglio respirano. Ma i 4 milioni di Fondazione Roma, sborsati per investire sul cartellone dei palazzi, servono al Comune per risparmiare: i 9 milioni destinati al Palaexpo nel 2009 diventato 8 nel 2010. E così Emanuele annuncia le dimissioni e l'addio ai 4 milioni di euro di Fondazione Roma: non ci sta più senza comandare, o decide lui o niente soldi. Il Comune corre ai ripari stanziando 10 milioni di euro per il 2011 con coperture dubbie (tipo la nuova tassa di soggiorno), una voce aggiunta in fretta nel bilancio di previsione che è soltanto una stima e pure con tanto ottimismo, visto che nessuno può calcolare in anticipo quanti turisti visiteranno la capitale. C'è una scena che va aggiunta al racconto, forse un gioco a incastri tra milioni di euro, potere e politica. A metà aprile Alemanno incontra Emanuele per ascoltare le sue proposte, mentre in Campidoglio appare e scompare una bozza di delibera per liquidare l'azienda Palaexpo con 65 dipendenti pubblici e affidare il palazzo delle Esposizioni, le scuderie del Quirinale e la Casa del Jazz ai privati. E come? Un appalto tradizionale non è obbligatorio, men che meno il bando europeo. Si può provare, quindi, con una gara a invito, a chiamata. Convocare quattro-cinque società, cucire una concorso su misura (in prima fila Emanuele) e liberarsi di un patrimonio pubblico che per Alemanno è soltanto una voce di spesa. Che vinca il preferito del sindaco e non il migliore. Tanto la scusa è già pronta: anche se l'amministrazione sarà privata, il Comune sorveglierà la qualità del servizio con un posto nel comitato scientifico. Che vale come un coltellino in guerra.
Il berlusconiano Dino Gasperini, assessore alla Cultura, fa un panegirico politico per evitare l’argomento: “Noi abbiamo previsto 10 milioni di euro per il Palaexpo, prima parliamo con Emanuele, poi vedremo cosa fare. Non discuto le ipotesi”.
Ma il tempo è poco e i soldi ancora di meno: Alemanno, entro maggio, dovrà approverà il bilancio con i 10 milioni di incerta provenienza e dovrà convincere il Quirinale a confermare la convenzione che ha con il Comune per l’uso delle Scuderie nonostante l'arrivo dei privati.
E c'è un errore passato che il sindaco potrebbe pagare oggi. La presidenza di Emanuele fu benedetta dalla Commissione cultura del Campidoglio che, però, avvisò i naviganti: mai i musei ai privati. Forse Alemanno non c’era, e se c’era, non ricorda.
il Fatto 11.5.11
E la giunta regionale “polverinizza” la cultura
di Cristina Cosentino
Annunci rassicuranti per la cultura nel Lazio da parte della presidente della Regione Renata Polverini, almeno sino a tre mesi fa. Oggi la situazione è tutt'altro che chiara ed i lavoratori del settore affatto rassicurati, a partire del comparto dell'audiovisivo. Il 1° febbraio di quest'anno ha smentito ogni voce che la vedeva come protagonista dello smantellamento dei festival istituiti negli anni precedenti dal centrosinistra, in particolare del RomaFictionFest, ideato dall'APT, sostenuto dalla Camera di Commercio e voluto dal predecessore Mar-razzo. “Non è assolutamente vero che il FictionFest o che, per quello che riguarda la nostra quota, il Festival del cinema di Roma saranno penalizzati. Tutt’altro, cercheremo di investire di più e meglio''. Quelle voci, però, non erano infondate. Dopo aver partecipato alla scorsa edizione del RFF la neoeletta governatrice proclama : "in termini economici è un'attività che va sostenuta". Ma ad agosto, a festival già concluso, durante l'assestamento di bilancio opera un taglio di 1,9 milioni di euro sul capitolo del 2010 che prevedeva 5,9 milioni di stanziamento, “e – aggiunge Francesco Alicicco, presidente del Collegio dei revisori della Fondazione Rossellini - storna 1,1 milioni come residui del 2009, fondi in realtà inesistenti perché già corrisposti alla Fondazione”, che gestisce il festival. “La contabilità regionale al momento dell'assestamento del bilancio non era in linea. È ovvio se il provvedimento storna residui passivi del 2009 per una somma inesistente perché già corrisposta nel gennaio 2010. Questa – conclude Alicicco - è una cosa ancora da chiarire da parte dell'assessorato al bilancio della regione”.
IN REALTÀ non è l'unica cosa da chiarire sul comparto cultura. “Sono stati cancellati, con una delibera illegittima, 35 milioni di fondi europei – spiega Giulia Rodano, consigliera regionale IdV e assessore alla cultura nella precedente giunta - già assegnati, con bando pubblico e atto di determina regionale, e destinati alla valorizzazione e promozione dei Grandi Attrattori Culturali. Ed è scomparso – prosegue - un milione di euro per il sostegno allo sviluppo di progetti cinematografici.” Mentre si tagliano i fondi e si cancellano finanziamenti alla cultura, nel dicembre 2010 viene deliberata dalla giunta la proposta di legge “Interventi regionali per lo sviluppo del cinema e dell'audiovisivo” che prevede lo smantellamento della Fondazione Rossellini, della Film Commission del Lazio e del Centro Audiovisivo, per accorparli in un unico ente, “puntando a eliminare gli sprechi, la dispersione e l’inefficienza” spiega, durante la presentazione della Legge quadro, Fabiana Santini, assessore alla Cultura, arte e sport e già segretaria dell'ex ministro delle attività produttive Claudio Scajola. “Il provvedimento – aggiunge l'assessore con una punta d'orgoglio - comporterà un taglio complessivo di 45 ‘poltrone’ fra dirigenti e cda.” Ma l'intero cda della Fondazione Rossellini aveva già rassegnato le dimissioni il 9 dicembre, lasciando vacante il ruolo di organizzatore del Roma Fiction Fest. A tutt'oggi l'iter della legge è ancora in alto mare e fino all'approvazione finale del testo non si potrà dare il via libera alla costituzione del nuovo ente, bloccando , di fatto, qualunque iniziativa, compresi il nucleo di valutazione di 50 progetti cinematografici e la programmazione del RFF. Intanto per la fondazione Rossellini sono stati nominati ieri i commissari liquidatori, Cinzia Felci e Roberto Marraffa, che ne opereranno l'estinzione e che dovranno gestire i debiti, di più di 5milioni, contratti con i fornitori e mai liquidati a causa del mancato pagamento, da parte della Regione, del finanziamento previsto nel bilancio 2010. Nel frattempo la Regione, che sponsorizza una massimizzazione degli sforzi e la contestuale riduzione di sprechi, ha deliberato 800 mila euro per gli stipendi e le spese correnti della Fondazione per il 2011 e stanziato 3 milioni e mezzo di euro per la nascita della Fondazione Franco Zeffirelli. Insomma, una grande confusione sotto il cielo laziale, dove l'audiovisivo diviene caso emblematico delle politiche culturali operate dalla giunta Polverini.
Corriere della Sera 11.5.11
Sindone e Templari, un’ipotesi alla prova dei documenti
di Antonio Carioti
La sconfessione suona clamorosa. Porta infatti la firma di Ian Wilson, l’autore inglese che ipotizzò per primo un legame tra i Templari e la Sindone di Torino, una dichiarazione assai critica verso il lavoro compiuto sull’argomento dall’archivista vaticana Barbara Frale. Wilson scrive di aver visionato il manoscritto medievale da cui la studiosa fa discendere l’identificazione tra il famoso lenzuolo e l’idolo che i Templari furono accusati di adorare. E conclude che «il documento in questione non possiede il senso che Frale gli ha attribuito, e non è di alcuna utilità in favore dell’ipotesi della proprietà templare» . Il testo è riportato dallo storico Andrea Nicolotti nel saggio I Templari e la Sindone. Storia di un falso (pp. 186, € 12,50) edito da Salerno nella nuova collana Aculei, che va in anteprima al Salone di Torino ed esce in libreria il 18 maggio. Un’indagine a tutto campo, molto severa anche nei riguardi di Wilson, che punta a confutare, sulla base di ricerche certosine, la tesi che il lenzuolo con impressa l’immagine di Cristo crocifisso, prima di apparire nella seconda metà del Trecento nella chiesa del villaggio francese di Lirey, fosse stato custodito dall’ordine dei cavalieri Templari, perseguitato dal re di Francia Filippo il Bello e soppresso dal papa Clemente V mezzo secolo prima, nel 1312. Bersaglio principale della polemica è appunto Barbara Frale, cui si devono due discussi volumi editi dal Mulino (I Templari e la Sindone di Cristo e La Sindone di Gesù Nazareno), ma Nicolotti non risparmia bordate a molti altri «sindonologi» , di cui definisce gli studi «dilettanteschi, imprecisi e partigiani» . Al suo fianco, con un’elogiativa prefazione, si schiera il medievista britannico Malcolm Barber, docente dell’università di Reading nonché autore dei libri La storia dei Templari (Piemme) e Processo ai Templari (Ecig). Il lavoro di Nicolotti, sostiene Barber, costituisce «un antidoto essenziale» , perché smaschera molte «storie inventate» e «mostra quali sono i metodi impiegati dagli storici veri» . La controversia non riguarda in questo caso le rilevazioni scientifiche, come la datazione con il carbonio 14, contestata da più parti, che ha collocato il lenzuolo in epoca medievale, escludendo quindi che abbia potuto avvolgere il corpo di Gesù. Qui il problema è tutto storico: quali tracce vi sono di un’eventuale esistenza della Sindone prima delle notizie risalenti al XIV secolo? Si può colmare lo spazio temporale di oltre 1300 anni che intercorre tra quelle attestazioni documentate e la passione di Cristo? Il tentativo di spiegare dove si trovava la Sindone nei tredici secoli mancanti, secondo Nicolotti, non ha dato risultati apprezzabili, in particolare per quanto riguarda la pista templare. Se i cavalieri processati avessero posseduto davvero il sacro lenzuolo, scrive l’autore, «non avrebbero esitato a mostrarlo ai loro accusatori o a rivelarne l’identità» , quanto meno per scagionarsi dall’imputazione di idolatria. Invece le ricostruzioni dei sindonologi presentano vistose contraddizioni: «Da una parte si dice che il possesso della Sindone era tenuto in stretto segreto, che non fu mai confessato e rimase ignoto persino al re e al papa; poi la si vuole ritrovare in ogni dove, descritta nelle cronache regali, riprodotta in numerosissime copie, su sigilli, castelli e pannelli sparsi ovunque» . Allo stesso modo Nicolotti giudica «strampalata» l’ipotesi, spesso ripetuta, che un piccolo panno su cui era impresso il solo volto di Gesù, il cosiddetto mandylion di Edessa, si possa identificare con la Sindone (lunga oltre quattro metri) ripiegata e chiusa in un reliquiario. In effetti bisogna considerare i possessori davvero sprovveduti per pensare che non sapessero «riconoscere ciò che avevano per le mani» e non avessero mai guardato, «neppure in occasione dell’acquisto» , dentro il contenitore dell’oggetto sacro. Al contrario, aggiunge l’autore, si sa che le reliquie venivano sottoposte a periodiche ispezioni. Se il mandylion, la cui esistenza è nota dal VI secolo, fosse stato in realtà la Sindone ripiegata, lo si sarebbe scoperto senza lasciar passare centinaia e centinaia di anni. Il libro si chiude con un auspicio riguardante l’attività degli storici accademici. Visto che circolano tanti libri inaffidabili sulle vicende del passato, l’impegno contro il sensazionalismo e per una «corretta divulgazione» dovrà rientrare sempre più, afferma Nicolotti, tra i doveri primari di chi è chiamato a esercitare la storiografia secondo i canoni del metodo scientifico.
l saggio di Andrea Nicolotti I Templari e la Sindone è la terza uscita degli «Aculei» , vivace collana di storia dell’editore Salerno diretta da Alessandro Barbero. In contemporanea, sempre il 18 maggio, va in libreria per gli «Aculei» Luxuria. Eros e violenza nel Seicento, un testo in cui lo storico Oscar Di Simplicio riflette sull’uso delittuoso del potere a partire dalle vicende di un curato senese. Seguiranno nei prossimi mesi Fare la pace di Sergio Valzania, sui grandi trattati europei da Westfalia a Versailles, e Caccia alle streghe di Marina Montesano, oltre a un libro di Renata De Lorenzo sulle condizioni del Sud prima dell’Unità d’Italia.
Corriere della Sera 11.5.11
Dopo il successo di «Indignatevi!» il diplomatico narra il suo secolo
Sono in trappola: mi hanno venduto
di Stéphane Hessel
Il testo che segue è tratto dall’appendice al libro di Stéphane Hessel, Dalla parte giusta. Un secolo di passione civile raccontato con la collaborazione del giornalista Jean-Michel Helvig. Il volume è in libreria da oggi, tradotto da Valeria Pazzi e Giovanni Zucca, edito dalla Bur-Rizzoli (pp. 250, e 15). Dopo il successo di Indignatevi!, ecco uscire un secondo libro nel giro di pochi mesi scritto dal diplomatico che, classe 1917, scampato a Buchenwald, non ha mai smesso di partecipare alla vita pubblica e di indignarsi.
Corriere della Sera 11.5.11
L’autobiografia di Emanuele Severino
Quegli attimi di vita che diventano eternità
La moglie Esterina e i ricordi di Parenti e Testori
di Armando Torno
L’autobiografia di Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli, pp. 168, e 18,50), da oggi in libreria, è stata scritta dopo molte resistenze. Il filosofo si è convinto lentamente, poi le pagine sono nate di getto. In un primo tempo non voleva parlare di Esterina, la moglie scomparsa nel settembre 2009, perché riteneva che non fosse il caso di svelare una cosa così personale e intima qual era il rapporto con lei. Ma, mentre continuavano le insistenze, si è persuaso che l’autobiografia poteva trasformarsi in un omaggio a Esterina. Il libro ha per questo avuto un carattere di intimità. Posta in un canto la cronaca, che in diverse occasioni lo ha coinvolto, Severino ha anche scelto di tralasciare i nomi di molti cari amici. Perché «ricordo degli eterni» ? Nota Severino: «Perché sono rimasto attratto dalla presenza di mia moglie, ossia dalla sua morte che è insieme l’eternità di ogni momento della sua vita» . L’eternità è propria di tutte le cose e di tutti gli stati e istanti del mondo, di tutte le situazioni «esterne» e «interne» ; siano esse terra, mare, viventi, galassie, pensieri, amori, impulsi. «La filosofia è ciò che libera queste affermazioni dal loro aspetto mitico, dalla loro apparenza di fedi o di fantasia arbitraria» , aggiunge l’autore. Questa autobiografia contiene il Severino non conosciuto, quelle parti della sua vita che non aveva mai scritto. Per esempio la sua infanzia, gli anni dell’università passati al collegio Borromeo di Pavia, la vita con i figli Federico (divenuto un noto scultore) e Anna (si è laureata in matematica). E ancora: eventi come la discussione con il grande filologo Károly Kerényi sulla radice greca da la sera prima di incontrare i giudici dell’ex Sant’Uffizio, il rammarico di non aver dedicato la Struttura originaria, il suo primo libro fondamentale, a Gustavo Bontadini, pensatore «che vale tre Maritain» (come ama ripetere), lo scambio di vedute con Hans-Georg Gadamer. E ancora: i viaggi con Esterina, in particolare quelli a Teheran, a Mosca a Cuba, dove il filosofo venne continuamente invitato per tenere lezioni e conferenze. C’è poi la sua vita «normale» , i giorni fatti di studio e di silenzio. A volte quelle ore le ha trascorse nella sua casa di Madonna di Campiglio, davanti al Brenta; oppure riaffiora il periodo a Ca’ Foscari, a Venezia, dove, dopo aver lasciato la Cattolica di Milano, insegnò per oltre trent’anni. Oggi, professore emerito, ripensa quel tempo e ricorda momenti, situazioni, volti, ma anche le carriere brillanti di allievi, le lezioni (sempre molto affollate). Nel libro ci sono altri significativi incontri, persino uno con Giovanni Testori, il quale, dopo aver visto le sculture del figlio Federico, disse— per Severino «sbagliando clamorosamente» — di scorgervi quell’inquietudine che era dovuta a un certo pessimismo non cristiano. C’è, tra l’altro, la lunga amicizia con Franco Parenti, occasionata soprattutto dall’invito che l’attore gli fece per tradurre l’Orestea di Eschilo, poi messa in scena negli anni 80 con lo stesso Parenti e Lucilla Morlacchi. «Il grande problema nella stesura di questo libro è stato l’identificazione dell’autore della scrittura. Noi crediamo di sapere che un tale sia l’autore dei propri libri, ma quando lo sguardo è quello della filosofia c’è qualcosa che impedisce di identificare l’autore con Severino» : sono parole che ci ha confidato ripensando all’autobiografia che ora vede la luce. Egli suggerisce di cercare nella filosofia, non tanto nell’individuo che scrive in questo tempo; e noi tentiamo di aggrapparci a talune pagine, mentre stanno naufragando opere e parole, per capire, per guardare oltre. Severino ha scelto, come anticipazione di quest’opera, alcuni momenti della sua fanciullezza, passati nella casa della nonna a Bovegno, in Val Trompia (riprodotti qui accanto). Dettagli, luci, figure, sensazioni di estasi perdute. O forse di eterni, abbracciati dal ricordo.
Corriere della Sera 11.5.11
Nella casa di Brescia, cercando la natura
In primavera, le farfalle e le api a danzare sui fiori bianchi della siepe
di Emanuele Severino
Avrei voluto che la cucina di casa assomigliasse il più possibile a quella di mia nonna, nella sua casa di Bovegno, su in montagna, in Val Trompia. La casa che per me era la meraviglia delle meraviglie. Dopo luglio al mare, ci stavamo in agosto e in settembre fino a che si ritornava a scuola. All’arrivo a Brescia, mio padre addolciva la malinconia portandoci tutti a cena al ristorante «Magenta» — che ora non c’è più. Il nostro tavolo era in fondo al salone, su un pavimento rialzato e delimitato, come un palcoscenico, da due tendoni di velluto, raccolti ai lati. Era appoggiata al monte, la casa di mia nonna. Dalla porta che dava sull’acciottolato della strada in salita si facevano due rampe di scale e si entrava nella spaziosa cucina col grande camino rustico dentro al quale ci si poteva sedere; poi una porta dava sulle scale che conducevano alla terrazza coperta (tre o quattro pilastri quadrangolari la rendevano ancora più protetta, sorgendo dalla balconata coperta da vasi di gerani) e dalla terrazza si entrava, da porte separate, nelle camere da letto. Quella dove dormivamo noi ragazzi (ai miei genitori spettava la stanza col lettone coperto da un baldacchino) aveva un finestrino, in alto, e quando si andava a dormire mia nonna batteva sul vetro; vedevamo il suo volto (la cuffietta orlata di pizzo e legata sotto il mento) incorniciato, e sentivamo la sua voce: «Felice notte!» . Ma dalle camere da letto, un’altra scaletta portava in un ripostiglio quasi buio. In fondo, aveva una porta chiusa da un gran catenaccio. Fu una delle estasi della mia infanzia scoprire che, dopo tutte quelle scale che dalla strada conducevano fin lì — e la penombra cresceva man mano —, aprendo quella porta, appena sotto il tetto, si usciva alla luce piena di un prato verdissimo: l’erba alta e le piante di ciliegio e quelle con le bacche rosse, gli arbusti, gli uccelli e il sole e l’azzurro del cielo— e il prato poi si allargava e saliva verso la cima del colle San Martino. E se, salendo per tutte quelle scale, sembrava di allontanarsi dall’erba, ci si avvicinava invece al prato splendente che circondava il tetto come una corona. Poi, quando morì mio fratello, la nonna non rimase più a Bovegno e venne ad abitare con noi. Nel giardino della casa di Brescia credevo di trovare qualche riflesso di quel prato. Non era grande, ma d’inverno la neve era così alta che dopo pochi passi dovevo fermarmi perché mi arrivava fin quasi alla cintola. Mi sembrava di essere un viandante diretto per chi sa dove. In primavera, le farfalle e le api a danzare sui fiori bianchi della siepe. E soprattutto i maggiolini. Stavano fermi a centinaia per ore e per giorni sui rami dei deodara, uno sopra l’altro, immobili, le zampine dell’uno sul dorso dell’altro. Più tardi ho capito che si accoppiavano. Il maschio stava sopra. I deodara! In sanscrito: devadaru, che significa «albero degli dèi» . Ma dal muro di cinta del giardino — ormai ero già un ragazzo — avevo visto avanzare lungo il viale, il giorno dopo L 8 settembre, la colonna di autoblindo tedesche che prendevano possesso della provincia di Brescia. Sulla camionetta di testa, in piedi, un ufficiale salutava col braccio alzato. Ma, guardando attorno, la strada appariva deserta. Forse salutava me.
La Stampa TuttoScienze 11.5.11
Senza le parole l’uomo avrebbe colonizzato il Pianeta?
In Africa la culla delle lingue
Lo studio su “Science”: dai fonemi gli indizi di un’origine comune, tra 50 e 100 mila anni fa “I modelli matematici hanno svelato come i suoni obbediscano alla stessa logica dei geni”
Le origini C’è una radice comune alla Babele delle parole di oggi?
di Gabriele Beccaria
Sono voci speciali quelle che risuonano nel Kalahari, tra i boscimani sempre più rari. Racchiudono come preziosi fossili i suoni arcaici della lingua primigenia, prima che l’umanità si condannasse alla deflagrazione babelica delle parole.
Sembra troppo bello per essere vero, eppure Quentin Atkinson, antropologo della University of Auckland, in Nuova Zelanda, sta mettendo sottosopra il micromondo dei linguisti con la sua teoria appena pubblicata sulla rivista «Science». Squarciando il velo su uno dei maggiori interrogativi di sempre, sostiene che è possibile andare indietro nel tempo e recuperare le tracce di ciò che si pensava irrimediabilmente perduto. Abbiamo inventato un idioma comune una sola volta - sostiene - e da quello, a cascata, sono sbocciati tutti gli altri, figli dei millenni e delle migrazioni.
Sapevamo di essere figli dell’Africa, dopo le prove multiple raccolte con le ossa e con il Dna, ma adesso appare non meno clamorosa la nuova ipotesi: la mitica «lingua dell’Eden» è esistita davvero e ha inventato il proprio vocabolario nell’area sudoccidentale del continente, tra 100 mila e 50 mila anni fa, poco prima dell’«uscita» dei sapiens e dei loro avventurosi spostamenti nell’attuale Medio Oriente.
L’arma segreta La colonizzazione del resto del Pianeta - ragiona Atkinson - non avrebbe potuto essere tanto veloce ed efficace senza la nuova arma segreta, appena messa a punto nelle pianure e sugli altopiani africani: è il linguaggio ad averci trascinato verso l’ignoto, trasformandoci nella specie più invasiva e anche pericolosa, capace di moltiplicare quasi all’infinito abilità e risorse, nonostante le deficienze dell’organismo. Applicando le logiche matematiche e statistiche (non particolarmente gradite dai colleghi), il professore neozelandese ha dedotto un modello da 504 lingue parlate oggi nel mondo. Al centro ci sono i fonemi - i suoni-base che costituiscono le unità specifiche di ogni parlata e che permettono di costruire parole distinte - e le loro fluttuazioni: obbediscono tutti a una stessa legge e si riducono progressivamente tanto più ci si allontana dalla culla della nostra specie. Se la grande famiglia antica del khoisan (a cui appartengono anche i dialetti dei boscimani) si articola su un centinaio di «mattoncini» sonori - i fonemi, appunto - l’inglese e il tedesco ne hanno soltanto la metà, mentre il mandarino si ferma a 32, il filippino scende a 23, il giapponese cala a 20 e l’hawaiano si deve accontentare di appena 13.
La «diversità decrescente legata alla distanza» (è questa la formula gergale) sembra sovrapporsi alla perfezione a un altro criterio, riconosciuto dai biologi e dai genetisti: è quello della diminuzione della variabilità del Dna rispetto alla distanza dall’Africa. Il processo è noto tra gli specialisti come «effetto del fondatore». Una popolazione che si origina da un piccolo gruppo di individui, fuoriuscito da uno più grande, paga lo scotto della separazione con un evidente assottigliamento della complessità genetica. E, di conseguenza, anche della ricchezza evolutiva. Geni e fonemi - nell’interpretazione di Atkinson - conducono così un balletto in parallelo, soggetto a rigide regole di arricchimento e di impoverimento.
«Una delle questioni più controverse è se ci sia stata una singola origine del linguaggio oppure se questo sia emerso in parallelo in aree differenti - osserva Atkinson -. Adesso abbiamo raccolto una serie di evidenze che sia esistita un’unica fonte». Mentre gli altri studiosi del settore si arrovellano sull’idea (che - com’è evidente - è parecchio provocatoria) e in molti l’hanno già contestata (c’è chi ritiene irrealistico che un’archeologia delle parole possa indagare un’era più antica di 10 mila anni fa), lo studioso neozelandese insiste e suggerisce che dai mucchi di parole delle 6 mila lingue attuali sarà possibile ricostruire anche i percorsi della colonizzazione dei continenti: una provvisoria conclusione è che l’Asia sia stata visitata molto prima dell’Europa, mentre nelle Americhe le tribù dei progenitori sarebbero approdate in tempi decisamente recenti.
L’organo virtuale La capacità di esprimerci è rapidamente diventata il nostro «organo virtuale», quello che ha scatenato, tra le altre, le rivoluzioni dell’arte rupestre e di sofisticate tecniche di caccia, e - spiega con enfasi Atkinson - è l’unica e autentica innovazione culturale che ci contraddistingue. «Gli umani moderni sono un’unica e vasta famiglia genetica con un singolo antenato comune - scrive -. Uno degli aspetti che più mi piace delle mie ricerche è che, se il linguaggio rappresenta una peculiare forma di identità, allora tutti apparteniamo anche a un’unica e vasta famiglia culturale».
La Stampa TuttoScienze 11.5.11
C’è un avatar per la psiche
La realtà virtuale trasforma le terapie contro stress e shock
di Paola Mariano
Gli scienziati sono al lavoro per costruire l'interrealtà, un mondo ibrido - metà virtuale e metà concreto - in cui realtà e finzione si manipolano a vicenda e che servirà a guarire molte ferite della psiche. La sua creazione è affidata a un progetto europeo, coordinato da un team dell’Università Cattolica di Milano, e promette una via d’uscita a chi soffre di fobie, traumi e disturbi d'ansia.
Il progetto triennale - «Interstress: Interreality in the Management and Treatment of Stress-Related Disorders» - coinvolge anche il Virtual Reality&Multi Media Park di Torino, il Cnr e l'Università di Pisa, oltre al Create Net di Trento: la prima fase del progetto - spiega il coordinatore Andrea Gaggioli - consiste nel creare una piattaforma in grado di realizzare il concetto di interrealtà e di permetterne l'applicazione in ambito psicologico.
L'architettura è divisa in due un sistema di realtà virtuale «immersivo» da usare nello studio del terapeuta - e un terminale mobile, come un iPhone, per tenere il paziente connesso. Una volta realizzato il sistema - aggiunge - ci saranno due sperimentazioni, una di controllo su soggetti sani e una su pazienti con disturbo da stress post-traumatico.
«Abbiamo terminato con successo il primo anno di progetto sottolinea Gaggioli -. Una versione della piattaforma è stata realizzata e i primi test inizieranno in autunno. I test pilota coinvolgeranno persone sane, mentre la fase successiva prevede una sperimentazione su un campione di soggetti a rischio».
Ma come funziona? «Entrando» nel corpo dell’avatar, il paziente si immerge nel mondo virtuale e, muovendosi in un ambiente protetto, modifica i propri atteggiamenti verso particolari eventi o situazioni che lo destabilizzano o gli fanno rivivere un trauma, cominciando ad affrontare vari tipi di disturbi. L'ambiente virtuale, a sua volta, si trasforma in risposta alle reazioni del paziente e queste vengono trasferite all'avatar in modo da renderlo sempre più simile all' individuo che impersona.
L’intreccio tra due mondi - sottolinea Gaggioli - dovrebbe rendere la terapia molto efficace. L'idea è che, se si fa rivivere la situazione traumatica in un contesto protetto, l'individuo può imparare a vincere la fobia che lo perseguita.
L’efficacia della terapia è stata provata da uno studio clinico, durato sei anni, su un gruppo di superstiti di alcuni terremoti avvenuti in Turchia e condotto da ricercatori del King's College di Londra: il simulatore ha catapultato i pazienti in un sisma virtuale, con il risultato che nella maggior parte dei casi è stato rimosso l'80% dei sintomi dello stress.
I ricercatori dell'Istituto Medico di Realtà Virtuale di Bruxelles, invece, hanno usato la cura per trattare un gruppo di individui reduci da incidenti stradali che non riuscivano più a mettersi al volante. Facendoli guidare su strade virtuali attraverso il loro avatar e riaccendendo la memoria del trauma simulando un incidente, i pazienti hanno ridotto l’ansia e hanno ricominciato a guidare.
«Anche se la realtà virtuale è già stata utilizzata a scopo terapeutico - spiega Giuseppe Riva, docente di Psicologia e Nuove Tecnologie della Comunicazione all’Università Cattolica e direttore scientifico di Interstress - il limite, finora, era la separazione dalla vita reale del soggetto. Il nostro obiettivo, invece, è creare un ponte tra le due dimensioni».
Ecco perché è così importante la definizione della «piattaforma»: si comincia con la messa a punto di biosensori che registrano il contesto in cui si trova la persona, traslandolo al mondo virtuale. Sono previsti, in particolare, quelli fisiologici per registrare le reazioni del sistema nervoso: misuratori del battito cardiaco e della pressione, di sudorazione e della temperatura, oltre che l’elettroencefalogramma. Poi ci saranno sensori ambientali e fisici, per esempio un Gps per localizzare la persona, e altri per vedere in diretta come si comporta. Infine, si farà uso di «rilevatori» dello stato psicologico.
Aggregando i dati e inserendoli nel mondo virtuale, sarà possibile rispecchiare in modo «iper-realistico» la vita quotidiana del soggetto anche grazie - dice Gaggioli alla realizzazione di ambienti 3D avanzati. Ma sarà un software per smartphone che permetterà al paziente di portare sempre con sé il suo mondo virtuale, accedendo a contenuti con cui gestire in autonomia improvvise situazioni stressanti. La piattaforma nello studio del terapeuta, invece, servirà a cancellare in modo permanente (o quasi) il trauma che lo perseguita.
La Stampa TuttoScienze 11.5.11
Fisica. Nuovi colpi di scena sullo spazio-tempo sono attesi dalla prossima missione dell’Asi: perché l’universo accelera?
Bravo Einstein, avevi ragione
Test della Nasa e uno italiano confermano la teoria della Relatività
di Barbara Gallavotti
Sono passati 52 anni da quando alcuni ricercatori cominciarono a sognare sfere perfette, con le quali verificare la correttezza della Relatività di Albert Einstein. Juri Gagarin non era ancora andato nello spazio, Fidel Castro aveva appena preso L'Avana e la Barbie era una bambolina appena messa in commercio. Dopo oltre mezzo secolo, la Nasa ha annunciato che il sogno si è realizzato: i ricercatori hanno concluso l'analisi dei dati dell'esperimento «Gravity Probe B» e le ipotesi di Einstein risultano confermate. Missione compiuta, dunque, alla modica cifra di 760 milioni di dollari, i cui ultimi spiccioli si devono a una compagnia privata e alla nuova università dell'Arabia Saudita. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista «Physical Review Letters».
In 52 anni, però, possono accadere molte cose, non solo alle bamboline, ma anche agli interrogativi della fisica. Così le risposte arrivate da «Gravity Probe B» hanno perso molto dello smalto che avrebbero avuto 50 anni fa. Perché nel frattempo un piccolo Davide italiano ha battuto il vetusto Golia con un esperimento a costo quasi zero, e perché le frontiere della conoscenza si sono spostate più avanti, trascinando con loro alcuni dei grandi interrogativi posti da Einstein. Così l'annuncio della Nasa non riesce a far battere i cuori. Eppure, la storia di «Gravity Probe B» non manca di un lato eroico, perché ci ricorda che la Grande Scienza è costellata di imprevisti e non sempre tutto va come ci si aspetterebbe, ma questo non è un buon motivo per non tentare...
Il cuore dell'esperimento sono quattro sfere perfette, grosse quanto palline da ping pong e poste in orbita intorno alla Terra. Sono state pensate per essere giroscopi estremamente precisi, in modo tale che, una volta messe in rotazione, mantenessero inalterato il loro asse. Gli unici eventuali cambiamenti di direzione avrebbero dovuto essere quelli dovuti agli effetti della teoria della Relatività che si volevano verificare, in particolare quelli dati dalla deformazione dello spaziotempo dovuta alla presenza della Terra (cioè di un corpo dotato di massa) e dal fatto che questa gira su se stessa e ciò fa sì che lo spazio-tempo subisca una minuscola torsione.
Una volta in orbita, «Gravity Probe B» ha preso dati per 17 mesi dal 20 aprile 2004. Si poteva sperare di avere i risultati in breve tempo, se non fosse sorto un imprevisto: le sfere erano perfette dal punto di vista geometrico, ma accumulavano sulla superficie cariche elettriche e questo rovinava le loro prestazioni, introducendo nelle misure un errore tre volte più grande di ciò che si voleva verificare. Come misurare la lunghezza di una formica con un righello che porta segnati i centimetri invece che i millimetri. «Gravity Probe B» è incorso insomma nella bestia nera degli esperimenti destinati a svolgersi in orbita: un evento non calcolato, dovuto al fatto che non possono essere provati qui sulla Terra e, quando arrivano lassù, è troppo tardi per eventuali modifiche. I ricercatori quindi sono stati costretti a un laborioso lavoro di «pulizia» dei dati che li ha tenuti impegnati fino ad oggi.
Nel 2004, però, il Davide italiano scoccava i micidiali tiri della sua fionda. La quale era una sorgente di luce laser diretta verso due satelliti «Lageos», posti in orbita negli ultimi decenni del '900 per eseguire alcune misure sul comportamento della crosta terrestre. I due satelliti hanno una superficie riflettente e i ricercatori italiani, guidati da Ignazio Ciufolini dell'Università di Lecce, hanno utilizzato la misura del tempo che la luce laser impiega per tornare indietro in modo da localizzare con precisione la loro posizione. Grazie a questa informazione hanno poi stimato la deformazione dello spazio-tempo dovuta alla Terra in rotazione. È l’effetto gravito-magnetico, proprio uno degli aspetti della Relatività che «Gravity Probe B» si proponeva di verificare. «Le nostre conclusioni sono state poi confermate da diverse analisi indipendenti dei dati orbitali dei “Lageos”, grazie alla collaborazione di gruppi dell'Agenzia Spaziale Tedesca e delle Università del Maryland e del Texas», spiega Ciufolini.
Oggi, quindi, i risultati di «Gravity Probe B» non fanno altro che confermare qualcosa che già in larga parte conoscevamo. E nella scienza le conferme sono fondamentali, ma non hanno l'impatto della prima scoperta. Nel frattempo i ricercatori guardano avanti, verso analisi sempre più precise: «Entro pochi mesi partirà la missione “Lares”, sotto la responsabilità dell'Agenzia Spaziale Italiana, che consentirà di eseguire nuove e sempre più precise misure dell'effetto gravito-magnetico», aggiunge Ciufolini. Perché, se nel corso dei decenni la Relatività ha trovato innumerevoli conferme, restano aperti molti grandi quesiti ai quali non riusciamo a rispondere. Ad esempio perché l'Universo sembra accelerare la sua espansione. Oppure come si concilia la teoria della Relatività con la meccanica quantistica, che descrive ciò che accade nel mondo dell'infinitamente piccolo.
Grandi domande la cui risposta potrebbe essere nascosta in impercettibili pieghe dello spazio-tempo. Pieghe che forse non sfuggiranno al prossimo esperimento.
La Stampa TuttoScienze 11.5.11
Il sogno dell’energia infinita. Un procedimento nuovo e brevettato «A ottobre la prima centrale elettrica». Pronti a ogni verifica
Fusione fredda, secondo strike. Due italiani: “Ci siamo riusciti”
Ventidue anni dopo l’annuncio-bufala di Fleischmann e Pons
Serie di Test a Bologna
di Luigi Grassia
È una notizia da prendere con le molle, perché 22 anni fa la «fusione fredda» si rivelò una balla spaziale, e adesso il sistema dei mass media si mostra, a sua volta, un po’ freddino di fronte a un nuovo esperimento che vanta pieno successo. Ma intanto all’Università di Bologna l’ingegner Andrea Rossi e il fisico Sergio Focardi dicono di essere riusciti a generare energia con un procedimento di fusione fredda tutto nuovo, brevettato e già pronto a passare alla fase operativa, addirittura fin dal prossimo autunno. I due italiani hanno pubblicato i loro risultati nel Journal of Nuclear Physics. Rossi e Focardi immettono nel sistema un chilowattora di energia e ne ricavano 200, il tutto operando a temperature paragonabili a quelle delle uova fritte in padella anziché all’esplosione di una bomba H. Se tutto funziona davvero, è un fatto straordinario, destinato a cambiare il panorama dell’energia mondiale, eppure i giornali e le tv finora ne hanno trattato ben poco, forse anche perché la necessità di proteggere i segreti brevettati ha creato un alone di mistero e limitato la diffusione delle informazioni, ma lo scetticismo deriva soprattutto dalla falsa partenza del 1989.
La prima volta assoluta della fusione fredda fu negli Stati Uniti, università dello Utah, protagonisti Martin Fleischmann e Stanley Pons: era il 1989, quando due professori di chimica annunciarono di aver replicato in laboratorio il procedimento di fusione nucleare, quello che genera energia all’interno del Sole. Spiegarono di averlo fatto in modo controllato e a bassa temperatura; da qui il nome di fusione fredda. Fredda in senso relativo (qualche centinaio di gradi appena) e in quanto tale teoricamente utilizzabile anche per ricavare energia in una centrale elettrica.
Operare a basse temperature consente di manipolare i combustibili e gli strumenti in modo sicuro ed economico. Ma la fusione fredda non è facile da ottenere e, infatti, a una più attenta verifica da parte della comunità scientifica internazionale risultò che Fleischmann e Pons non erano sulla strada giusta; avevano sì ottenuto un po’ di energia, ma in quantità trascurabile. Dopo di allora il filone di ricerca non si è esaurito. Un comitato internazionale diretto dal Premio Nobel italiano Carlo Rubbia è arrivato a una conclusione piuttosto severa: la fusione fredda di per sé è interessante e promette risultati, però bisogna essere molto rigorosi nella misurazione delle energie in entrata e in uscita (che alla fine è l’unico vero criterio di valutazione del successo). Da evitare come la peste la faciloneria in cui incorsero Fleischmann e Pons e in cui sono incappati, a ripetizione, anche altri team internazionali, negli anni dal 1989 in poi, nel fare annunci avventati su presunti successi nella fusione fredda, sempre sfociati in delusioni.
Un ventennio abbondante Che cos’ha di diverso il nuovo esperimento bolognese di Rossi e Focardi dalle svariate bufale «fredde» che si sono succedute in un ventennio abbondante? Spiega Focardi: «Gli altri ricercatori hanno mirato al risultato con l’elettrolisi, usando per lo più il palladio o il deuterio. Noi invece fondiamo nuclei di nichel e di idrogeno, ottenendo del rame e liberando energia utilizzabile».
Un po’ più in dettaglio, il rame contenuto in un tubo metallico viene inizialmente riscaldato con l’immissione di energia, che però diventa superflua non appena la fusione è partita; da quel momento il processo si alimenta da sé, anzi emette energia a sua volta. L’idrogeno viene iniettato a forte pressione nel tubo e alcuni nuclei di idrogeno (che poi altro non sono che protoni) vengono catturati dai nuclei di nichel; ne segue la trasformazione dell’atomo di nichel nell’elemento che ha un protone in più nella tavola periodica, cioè il rame.
«L’energia così liberata - spiega ancora Focardi - può essere usata come si fa con il carbone, con il metano eccetera, per scaldare dell’acqua, e il vapore ottenuto può far girare delle turbine». E il gioco è fatto. Andrea Rossi, che detiene il brevetto, sta già realizzando in America una mini-centrale elettrica della potenza di un MegaWatt. Niente vieta in futuro di arrivare ai 1600 MW di un grande impianto nucleare.
Processo pulito Ma la fusione fredda è pulita? Focardi assicura di sì: «Il fatto notevole è che non viene rilasciato neanche un neutrone. La radioattività che viene emessa è in forma di raggi gamma e si può facilmente schermare con lastre di piombo. Comunque è pochissima, pari a 1,5 volte quella naturale». Il procedimento non produce alcuna scoria di quelle che fanno ticchettare i contatori Geiger.
Troppo bello per essere vero? Può darsi che sia questo elemento psicologico, più ancora che le delusioni degli annunci passati, a frenare i troppo facili entusiasmi. Eppure Rossi e Focardi hanno già fatto molte dimostrazioni con gruppi scientifici, che hanno portato i loro strumenti di misurazione e hanno certificato la produzione di energia; fra questi l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e la svedese università di Uppsala. Allora potremo fare a meno delle centrali nucleari, del gas russo, del carbone inquinantissimo eccetera, per produrre tutta l’elettricità che ci serve in modo economico e pulito? Di nuovo: è troppo bello per essere vero?
La Stampa TuttoScienze 11.5.11
L’Italia risparmia in ricerca e sta perdendo il futuro
E’ il sapere il motore dello sviluppo
di Guido Martinelli
Dopo la rivoluzione agricola e quella industriale, siamo entrati ormai da qualche decennio nel pieno dell'era della conoscenza e dell'informazione, una nuova rivoluzione che segnerà per sempre il futuro dell'umanità. Per la prima volta nella storia dell'uomo, il valore dei «prodotti» non è più determinato dalle materie prime o dal lavoro fisico necessari alla loro produzione, ma dalla «quantità» di conoscenza che il prodotto racchiude: basti pensare allo straordinario sviluppo delle scienze biomediche e ai nuovi medicinali che ne sono il derivato.
Da questa rivoluzione deriva il fatto che la ricchezza di una nazione non si misura più esclusivamente in fabbriche, auto o macchinari, ma è costituita, nei Paesi più sviluppati, dal capitale «immateriale», come università, centri di ricerca e servizi di diffusione dell' informazione.
L'economia della conoscenza, basata più di qualunque altra sull'innovazione, ovvero sulla capacità di produrre e condividere sapere, è pertanto il settore più dinamico e, in alcuni Paesi, sta diventando il settore dominante in assoluto. Ecco perché si assiste in tutto il mondo a una crescita vertiginosa degli investimenti in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie.
In questo scenario l'Italia si distingue per scarsi investimenti e basso numero di personale qualificato impegnato nella ricerca, ben al di sotto della media europea.
La distanza dagli altri Paesi europei è addirittura in aumento, perché gli investimenti, già insufficienti, sono addirittura in calo, in netta controtendenza a quello che accade nel resto del mondo.
Siamo arrivati al paradosso che perfino le università considerate come le migliori nella valutazione ministeriale effettuata alcuni anni fa hanno visto diminuire in maniera massiccia i fondi a disposizione e hanno dovuto subire il blocco delle assunzioni, con conseguenze spesso drammatiche per le attività formativa e di ricerca. E le prospettive sono, se possibile, peggiori.
Per esempio, se oggi Harvard, l'università americana in vetta a tutte le classifiche mondiali, fosse in Italia, vedrebbe le proprie risorse e il proprio personale ridursi drasticamente e sarebbe condannata inevitabilmente, nei prossimi anni, a peggiorare le proprie prestazioni e a perdere lo scettro di migliore università.
Non a caso assistiamo quotidianamente a un'emorragia di «cervelli», personale di altissima qualificazione scientifica che, per mancanza di prospettive, ogni anno, emigra dall'Italia in prestigiosi enti di ricerca o università di altri Paesi europei o nordamericani.
Le ragioni per le quali l'Italia ha un «tasso d'innovazione» al di sotto della media europea sono dunque gli scarsi investimenti in ricerca e la debolezza del capitale umano. E la mancanza di innovazione, e dunque della capacità di produrre beni ad alto contenuto tecnologico, comporta inevitabilmente la perdita di competitività e, dunque, anche di quote di mercato.
In tale contesto è ancora più impressionante l'assoluta assenza di dibattito sulle questioni fondamentali legate al sistema della formazione e della ricerca scientifica. Riflessione ancora più urgente, visto che nel dibattito sviluppatosi negli ultimi tempi risultavano praticamente assenti le questioni fondamentali attorno a cui costruire una politica per l'università e la ricerca: quale è il ruolo della ricerca scientifica e tecnologica nello sviluppo nel nostro Paese, quali obbiettivi possiamo raggiungere nei prossimi anni, quale pianificazione delle risorse dobbiamo prevedere per conseguirli, quali provvedimenti si impongono per migliorare l'attuale sistema delle università e degli enti di ricerca, quale politica e, soprattutto, quali investimenti per l'alta formazione sono necessari?
Da questo discende che un aumento dell'investimento di risorse in ricerca e università non è solo auspicabile ma necessario per garantire all'Italia un posto tra le nazioni più sviluppate e metterla in grado di competere con i paesi emergenti. Non a caso le nazioni più sviluppate, come per esempio Usa, Germania e Giappone, e quelle emergenti, con tassi di sviluppo altissimi, come per esempio Cina e India, sono quelle che più investono in ricerca e università.
Repubblica 11.5.11
L´uomo impara l´amore dagli animali, non viceversa È la tesi del nuovo libro dello studioso Jeffrey Masson
Così Fido ci addestra a provare emozioni
di Cristina Nadotti
Non siamo noi ad addestrare i cani, sono loro ad addestrare noi. E ciò che ci insegnano, anzi, ciò che ci hanno inculcato in oltre 30 mila anni di sguardi adoranti e scodinzolamenti frenetici, è l´amore disinteressato. Jeffrey Moussaieff Masson, lo psicanalista e studioso di sanscrito americano dedicatosi all´osservazione del comportamento animale, dopo aver asserito che I cani non mentono sull´amore - uscito nel 1999 - ora ci dimostra che questa capacità incondizionata di dare affetto i cani ce l´hanno insegnata con la loro presenza costante al nostro fianco nel momento cruciale della nostra evoluzione di homo sapiens. Masson è uno degli scrittori di culto sull´argomento negli Stati Uniti e Il cane che non poteva smettere d´amare, in uscita oggi per Tropea, non ha deluso gli appassionati del genere. Così come nei suoi libri precedenti Masson riesce nel gioco tanto caro agli amanti degli animali di raccontare aneddoti sul suo cane, arricchendoli però di fondate teorie scientifiche. Lo aiuta il poter ambientare le sue descrizioni di corse sfrenate con orecchie fluttuanti e lingua fuori in quel paradiso terrestre che è la Nuova Zelanda, dove Masson vive in una casa sulla spiaggia diventata una sorta di comune di cani, gatti, galline, ratti, pony e - ma sembrano personaggi secondari - umani.
Il punto di partenza di Masson per la sua teoria dei cani "docenti d´amore" è una tesi assai dibattuta in etologia e cioè la natura delle emozioni degli animali. Lo psicanalista americano si spinge oltre, fino ad affermare che «i cani potrebbero sentire alcune emozioni più intensamente di quanto facciamo noi» e che osservandoli «potremmo avere una conoscenza maggiore di emozioni di cui difettiamo». Tra queste la «pura gioia di vivere», che consente ai cani di «godere del momento», capacità emotiva che, per Masson, governa la loro propensione ad amare. Altro punto fondante del libro è la capacità di comunicazione dei cani, utenti di un linguaggio affinato e adattato proprio in funzione della vicinanza con l´uomo. Basta osservare il lupo, da cui il cane addomesticato discende, per notare come il movimento della coda o la postura del corpo si siano modificati per essere più accentuati, più leggibili dall´uomo quali segnali di interazione. Anche in questo, Masson si spinge fino a ipotizzare un adattamento reciproco del linguaggio umano e arriva a dire - pur precisando che si tratta di un´ipotesi di difficile dimostrazione - che «attraverso l´associazione con i cani ci siamo trasformati da ominidi primitivi in membri della specie homo sapiens». Parrebbe un´affermazione da esaltato animalista, se non fosse che per provare la relazione speciale tra cane e uomo Masson cita, e non a sproposito, Kant, Lévinas, oltre alle più recenti ricerche mondiali nel campo della psicobiologia, etologia e psicologia cognitiva, tanto che le venti pagine di bibliografia finale sono tra le più preziose del libro. Restano un po´ delusi gli amanti dei gatti, pur se Masson lascia aperta una possibilità di emancipazione anche per loro, forse capaci di diventare altrettanto adoranti tra qualche migliaio di anni. O forse Masson si lascia la porta aperta per provarci in seguito che i felini sono in grado di insegnarci come si diventa indipendenti.
l’Unità 11.5.11
Un terremoto da basso impero E Roma trema (solo) di paura
Una città intera vittima della psicosi per una profezia, smentita dagli stessi studiosi di Bendandi
E in un Paese che vive di emergenze, la previsione è trasformata in rito. Il medioevo de’ noantri
di Chiara Valerio
Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro». Le uniche centurie dalle quali mi sono fatta sempre indicare una certa idea di futuro sono quelle di Giorgio Manganelli (Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Rizzoli, 1979). Le centurie di Nostradamus, che sono poi l’icona di quasi ogni previsione moderna, pure e bizzarramente scientificamente fondata – ma chi può verificarlo in un paese dove pochi fortunati conoscono la risoluzione di una equazione di secondo grado –, non mi hanno mai affascinato. Forse perché non mi è mai interessato sapere che cosa accadrà domani, forse perché vivo di ombre più che di proiezioni, non so. Fatto sta, che pur abitando a Roma, non mi sono preoccupata del terremoto annunciato, come la cronaca di una morte, collettiva, o se non di una morte, della fine incrinata di un universo conosciuto.
Io non sono un sismologo, non ho strumenti da consultare sui cui dati azzardare ipotesi, ma, dopo aver studiato matematica tanti anni, so che la scienza incompresa, mal studiata, temuta per le ragione condivisibili della fatica necessaria sempre a comprendere e a riprodurre le cose, assume in una Italia catodica, e catastrofista, connotazioni religiose. Io credo che ci sarà o non ci sarà il terremoto, io credo che questa manovra finanziaria ci farà o non ci farà uscire dalla crisi, io credo che un’applicazione iPhone da 1.99 dollari esegua un riconoscimento impronte digitali. D’altronde se c’è una catastrofe, nessuno di noi, da singolo elettore a rappresentante della Repubblica, deve occuparsi del domani e, in una qualche misura pianificare, giustificare. Se domani tutto finisce o comunque tutto si incrina, oggi possiamo consumare, rubare, saccheggiare. Possiamo non avere cura delle persone, delle cose, delle istituzioni. Leo Longanesi osservava che “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l'inaugurazione” (La sua signora. Taccuino, Rizzoli, 1957). Che significa poi che alla costruzione di normali, o speciali metodi di gestione del panico – spero che la Protezione Civile che in queste ore fa funzione di call-center non si offenda –, l’Italia preferisce la gestione dell’emergenza (e.g. la spazzatura a Napoli da dodici anni).
La gestione del terremoto eventuale dell’11 maggio a Roma, che il sismologo Raffaele Bendandi (1893 – 1979) avrebbe predetto, faccenda comparsa pare in una puntata di Voyager ma smentita sicuramente e da Paola Pesciarelli Lagorio, presidente dell ́Osservatorio Bendandi, colonizza l’informazione, centralizza l’attenzione di una fetta consistente di popolazione, e di elettori, li costringe in un medioevo dove la scienza – anzi l’ossessione predittiva etero attribuita alla scienza – fa funzione di Dio. Io spero che non ci sia il terremoto, ma credere è un verbo diverso. Sperare è lecito, è umano, credere, se si tratta di questioni misurabili è un verbo fuori posto, è un verbo che maschera, come per l’Aquila, la parziale inefficienza o la disattenzione. Credere ha a che far e con la verità e la scienza è il posto del dubbio. Così me ne torno al mio Manganelli, alle sue centurie che sono storie ed esercizi di stile, che hanno un anno più di me e sono più romantiche, più sagge, più esatte. E che se crolla tutto, comunque mi saranno consolazione. «Ha sonno, ma sa che non è il sonno notturno, dei sogni e fantasmagorie e del riposo. (...) Scuote il capo, come a dire: Se ne dicono, di cose».
Repubblica 11.5.11
La leggenda del terremoto come nell´anno Mille
di Marino Niola
Una volta il nostro incubo era il day after. Adesso succede tutto nel day before. Così la profezia di Bendandi ha provocato un terremoto emotivo in buon anticipo su quello reale. O meglio presunto. Spingendo ieri i romani a chiedersi prima di tutto se crederci o no. E poi dove andare. Cosa fare. Come mettersi al sicuro. Provocando una sorta di esorcismo collettivo.
Una reazione all´insegna del più classico dei non è vero ma ci credo. Contro il quale non hanno potuto granché le dichiarazioni della Protezione civile, le rassicurazioni dell´Istituto nazionale di geologia e vulcanologia. E nemmeno la clamorosa smentita alla fonte, quella della direttrice dell´Osservatorio "Raffaele Bendandi", che ha dichiarato a chiare lettere che negli archivi del profeta dei terremoti non c´è una sola riga che parli di una possibile distruzione di Roma, tanto meno per oggi. Facendo implodere così la profezia dall´interno. Eppure in molti non hanno dormito sonni tranquilli. D´altra parte, diceva Sofocle, per chi ha paura tutto fruscia. E questo è particolarmente vero in una società come la nostra costretta ad uno stato di accelerazione costante e che a forza di vivere tutto in extremis, finisce per scambiare il last minute per l´ultimo momento. E corre così veloce da proiettare le paure del domani sul giorno prima. Anticipando tutto, gli eventi come le news. E perfino i pericoli potenziali che diventano certezze da consumare ansiosamente.
A peggiorare le cose, a moltiplicare le ansie e i timori c´è il fatto che viviamo in un mondo ipercomunicante, dove tutto è connesso con tutto. Così siamo continuamente inondati di notizie e immagini di cataclismi, sciagure, allarmi. Tsunami, inondazioni, terremoti, attentati, global warming, scioglimento dei ghiacci, pandemie. Tutto questo viene rovesciato nelle nostre case dalla televisione e da Internet. Ma siamo anche noi a cercare avidamente ogni indizio di apocalisse che dia un volto alle nostre inquietudini. Che ci fornisca volta per volta un nuovo gancio cui appendere le nostre paure.
E per di più in questi giorni le voci su una probabile vendetta di Al Qaeda hanno messo in agitazione un immaginario collettivo che la fibrillazione ce l´ha di default. Siamo decisamente un pianeta sull´orlo di una crisi di nervi. Non abbiamo nemmeno bisogno dei picchi apocalittici che scuotevano di tanto in tanto le società del passato. Non ci servono più i Nostradamus e altre Cassandre che annuncino la fine del mondo. Ci basta la rete a diluire l´apocalisse in dosi omeopatiche e a spalmarla sul nostro quotidiano. Siamo sempre in attesa di un millennio light. Non la fine del mondo, ma casomai di un angolino di mondo, e il timore è quello che possa toccare proprio al nostro angolino.
E molti si difendono fuggendo, come per infilare la sorte in contropiede. Non a caso Fuga in origine era il nome di una divinità, parente stretta di Fobos e Deimos, cioè il terrore e la paura. Come dire che la fuga è un antidoto contro i timori.
La scienza conferma del resto che la paura non è solo una reazione irrazionale. Ma, come diceva il premio Nobel Konrad Lorenz, fondatore dell´etologia moderna, è uno dei più geniali espedienti inventati dall´evoluzione animale e umana per sfuggire ai pericoli, o per diminuirne l´impatto. Chi non ha mai paura di nulla e di nessuno vede drasticamente ridotte le sue chance di sopravvivenza. Anche per questo la storia è punteggiata di grandi paure, di apocalissi prossime venture, di millenarismi, di psicosi, di big bang temuti quanto improbabili.
Sono forme di training simbolico, esercitazioni all´emergenza. Prove generali per scongiurare il terremoto della nostra emozione.