l’Unità 8.5.11
Affondato poco dopo la partenza a causa del peso eccessivo
Era partito assieme al battello arrivato ieri a Lampedusa
Sciagura in Libia A picco barcone con 600 migranti
La carretta del mare cala a picco, spezzata dal peso di centinaia di persone costrette a forza a imbarcarsi. Decine i morti, tra cui donne e bambini. È la guerra dei barconi scatenata da Gheddafi. La denuncia dell’Unhcr
di Umberto De Giovannangeli
Costretti con la forza ad imbarcarsi su quella «carretta» del mare. Ammassati a centinaia, uomini, donne e bambini, su un barcone che non poteva contenerli. Il loro destino è segnato. Un destino di morte. Una morte orribile: inabissati. Un barcone con oltre 600 migranti è naufragato all'alba dell’altro ieri mattina davanti alle coste libiche, nei pressi di Tripoli. Nell'incidente sarebbero morti decine e decine di migranti; altri si sarebbero salvati raggiungendo a nuoto la riva. L'imbarcazione sarebbe infatti colata a picco subito dopo la partenza, a poche decine di metri dalla spiaggia, perché sovraccarica. Secondo le testimonianze raccolte dal giornalista somalo Aden Sabrie, che collabora con la Bbc, sarebbero stati recuperati 16 cadaveri di suoi connazionali, tra cui alcune donne e tre neonati, mentre altri 32 risultano ancora dispersi. Ma il numero complessivo delle vittime, provenienti anche da altri Paesi dell'area sub sahariana, sarebbe di gran lunga superiore.
TRAGEDIA IMMANE
La notizia del naufragio è confermata al giornalista della Bbc anche dall'ambasciatore somalo in Libia, Mohamed Abdiqani. Secondo una prima ricostruzione, attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti, il barcone con oltre 600 migranti sarebbe partito un'ora dopo un'altra «carretta» che aveva un numero analogo di persone a bordo. Quasi certamente si tratta dell' imbarcazione con 655 profughi approdata in nottata a Lampedusa dopo essere stata soccorsa a circa venti miglia dall'isola dalle motovedette della Guardia Costiera. La notizia si è subito diffusa nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, provocando commozione e sgomento. Una donna somala giunta l’altro ieri scoppia ia piangere dopo avere appreso telefonicamente da alcuni parenti che il figlio, partito con il secondo barcone, sarebbe tra le vittime.
LA DENUNCIA DELL’UNHCR
Questa ennesima tragedia dimostra come il regime libico sia senza scrupoli e non esiti a mettere a rischio la vita di centinaia di persone facendole partire con imbarcazioni assolutamente fatiscenti e non adatte alla traversata allo scopo di creare pressione migratoria sui Paesi della sponda Nord del Mediterraneo». Co-
sì Laura Boldrini, portavoce italiano dell'Unhcr, commenta la notizia dell'affondamento di un barcone con 600 persone a bordo. «Gli operatori dell'Unhcr spiega Boldrini stanno raccogliendo testimonianze di profughi giunti in nottata a Lampedusa che confermano l'avvenuto naufragio di una seconda imbarcazione partita poco dopo dalla costa libica, ma che si è immediatamente spezzata perché troppo carica». Come Unhcr, aggiunge ancora Boldrini, «siamo molto preoccupati sia che ci possa essere questa modalità, ma anche che poi una volta partite queste imbarcazioni non vengano automaticamente soccorse. una barca stracolma di gente è di fatto già a rischio e dovrebbe essere soccorsa». Boldrini snocciola alcuni dati spiegando che sono state fatte delle stime dal 26 marzo e «includendo i 250 morti nel naufragio del 6 aprile ci sono circa 800 persone che sono partite e non sono mai arrivate. a questo numero vanno ad aggiungersi questi ultimi che ancora non sappiamo quanti sono con certezza». «Si tratta conclude di una contabilità macabra che denota la necessità di fare uno sforzo aggiuntivo nel mediterraneo sia da parte dei mezzi commerciali che da parte di quelli militari che devono salvare queste vite umane, serve un sistema di coordinamento per salvare la vita a queste persone». È la «guerra dei barconi» scatenata da Muammar Gheddafi. Una sporca guerra.
IL «GIALLO DELLE ARMI»
L'Italia «ci fornirà le armi» e noi «le riceveremo molto presto», rivela da Bengasi il vicepresidente del Consigluio nazionale di transizione (Cnt) Abdel Hafiz Ghoga. Ghoga ha anche spiegato che rappresentanti militari degli insorti sono stati in Italia ed hanno raggiunto un accordo per la fornitura delle armi con i responsabili italiani. Armi pesanti, di attacco, conferma a l’Unità una fonte vicina a gli insorti che ha seguito la trattativa. Da Roma, fonti della Farnesina smentiscono, ricordando che l'Italia fornisce «materiali per l'autodifesa» secondo gli accordi Doha nel quadro della risoluzione 1973, ma nessun materiale d'attacco. Una smentita imbarazzata. Sospetta.
l’Unità 8.5.11
Da Tripoli a Bengasi
donne libiche in lotta per i diritti
Nella capitale la protesta si affida al web. Nella città della Cirenaica la partecipazione femminile alla rivolta è palese Parità fra i sessi affermata nelle leggi e negata nella pratica
di Cristiana Cella
Oggi è il nostro giorno, aquile della Libia! Sorelle, dite ai vostri uomini: esci e non avere paura! Vendicate i vostri martiri! Dite a questo tiranno corrotto: vattene! Dio è più grande dei tiranni!». Avvolta in una sciarpa viola, una donna di Tripoli incita il popolo alla lotta. Gesticola, grida, nel crescendo appassionato dell’invettiva. Il colonnello diventa Gardafi, dove gard significa scimmia. Ha affidato il suo violento appello a un video messo in rete. È questo il suo strumento di lotta, nella città blindata dalle forze del colonnello.
A Bengasi invece le donne, rimaste sole nelle case, allestiscono enormi cucine, dove preparano pasti caldi e 3000 sandwich al giorno per i combattenti, i cellulari a portata di mano, per le notizie dal fronte, per sapere se figli e mariti sono ancora vivi. È’ questa la loro prima linea: il sostegno materiale e le armi psicologiche per i loro uomini male armati. Nelle prime dimostrazioni le donne restavano nelle retrovie, preparavano le bandiere della Libia, se le dipingevano sul viso, raccoglievano gli slogan popolari e scrivevano manifesti. Poi hanno cominciato a comparire in strada, accanto agli uomini, a rischiare con loro. Fino alla decisione di scendere in piazza da sole, in una grande manifestazione a Bengasi, per sostenere la lotta nel momento più disperato, prima dell’intervento Nato. Non era mai successo. Una rivoluzione nella rivoluzione per le donne libiche, tradizionalmente escluse dallo spazio pubblico.
«La resistenza delle donne libiche si esprime all’interno dello spazio circoscritto dalle norme sociali tradizionali», dice Francesca Di Pasquale, da poco rientrata da Tripoli, dove ha lavorato per anni all’Archivio di Stato. «È lo spazio delle mura domestiche ma anche quello delle Università e dei luoghi di lavoro, socialmente accettati, per insegnanti e impiegate». Un mondo a parte nel quale le donne realizzano la loro ricca crescita individuale, all’interno di una solida rete di solidarietà: un esercito di donne pronte a intervenire per i problemi di ciascuna. Anche economici, grazie a un fondo comune di mutuo soccorso. «Le donne sanno -dice Di Pasqualeche la maggior parte delle restrizioni che le riguardano non sono frutto della religione ma di un conservatorismo sociale che favorisce gli uomini». Imposto da Gheddafi, che della famiglia tradizionale faceva la base del suo Stato. Nel suo Libro Verde, la disuguaglianza sessuale è teorizzata “scientificamente”. Uguali i diritti ma non i doveri, altrimenti perché Dio ci avrebbe fatti diversi? Codici tradizionali in apparente contrasto con le norme giuridiche a favore delle donne, di cui il raìs si è fatto promotore, tra le più avanzate dell’area arabo islamica, utili a mostrare all’Occidente un’immagine credibile del regime. Le donne libiche possono rivolgersi a tutti i tribunali, è vietato il ripudio, il divorzio è un diritto ed è garantita la custodia dei figli. Al divorzio le donne ricorrono sempre più spesso e nelle grandi città si fa strada la decisione, finora inconcepibile, di non sposarsi affatto. Quale sarà il loro posto se ci sarà una nuova Libia? Nel Consiglio di Transizione di Bengasi siede anche una donna: l’avvocato Salwa alDighaili, impegnata da tempo contro la corruzione e per la riforma del sistema legale. Speriamo che non rimanga l’unica.
l’Unità 8.5.11
La parola agli immigrati
Andrea Segre, veneto, ci racconta in un bellissimo documentario le vicende di Rosarno
di Alberto Crespi
Raramente segnaliamo le uscite homevideo in edicola, ma quando ci vuole ci vuole. Da venerdì, e ancora per qualche giorno, potete acquistare la bella rivista Internazionale e chiedere – guai se non lo fate! – il dvd allegato. Si tratta di Il sangue verde, uno dei migliori documentari italiani degli ultimi anni. Lo firma Andrea Segre, regista 35enne capace come pochi altri di «leggere» il reale, di individuare storie che racchiudono in sé il senso profondo del nostro tempo.
Segre è un cognome che porta bene. Daniele Segre, torinese, è da molti anni l’autore più importante del nostro documentario. Andrea viene dalla provincia di Venezia, ed è uno di quegli uomini del Nord-Est nei quali questa collocazione, questa nascita geografica si declina come la storia vorrebbe: sono, quelle, terre di transumanza, di passaggio di popoli, di emigrazione coatta, di vecchia povertà e di nuova ricchezza. I veneti – come i lombardi – avrebbero il dovere di non essere razzisti, perché nessuno più di loro è «misto», visto tutte le genti che sono transitate da quelle parti. Ma raramente è così.
Alle migrazioni Andrea Segre ha dedicato alcuni lavori magnifici. Come un uomo sulla terra (2008, pubblicato in dvd da Infinito Edizioni) è «il» film che fa capire chi sono i giovani africani che sbarcano sulle nostre coste, e quale Odissea hanno vissuto nelle carceri libiche dove il nostro ex amico Gheddafi e i suoi sbirri facevano da «filtri». Un film che i nostri politici, il ministro Frattini in primis, dovrebbero vedere dopo essere stati legati alle sedie. Il sangue verde, visto a Venezia 2010 e ora pubblicato da Internazionale, parla invece dei fatti di Rosarno. Ricordate, vero?
La rivolta dei lavoratori africani, nel gennaio del 2010, in quell’angolo sfortunato della Calabria. È un film che dà voce a loro, agli immigrati. Che parlano orgogliosamente nelle lingue d’origine e comunicano una basica, quasi «banale» rivendicazione di giustizia. Tanto per ribadire la coerenza del proprio lavoro, Segre ha deciso di inserire nel dvd un extra prezioso, il breve documentario A Sud di Lampedusa (dura 31 minuti, è del 2006). È una sorta di preparazione a Come un uomo sulla terra, racconta – citiamo «i camion che attraversano il deserto del Teneré; le agenzie di viaggio che da Agadez, nel nord del Niger, organizzano i passaggi; ma soprattutto i rimpatri coatti effettuati dalla Libia sotto le pressioni europee».
I film di Segre sono brevi (Il sangue verde dura 57 minuti, Come un uomo 60), forti, giusti. Per saperne di più, su di lui e sul suo lavoro, potete visitare il suo sito internet http://andreasegre.blogspot.com, dove troverete articoli e informazioni sui temi di cui i film si occupano. A riprova che Andrea è anche un ragazzo spiritoso e onesto, in un angolo della homepage c’è una piccola scritta con un link, che recita: «se cercavi il sito del prof. Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria dell’università di Bologna, clicca qui». I Segre importanti, con o senza accento, sono numerosi.
il Riformista 8.5.11
E in Vaticano il giornale dei vescovi tira la volata ai candidati del Pdl
Avvenire. In un editoriale il quotidiano prende posizione in favore di partiti contrari all’aborto e ai diritti gay, schierandosi di fatto con i pidiellini
di Francesco Peloso
qui
http://www.scribd.com/doc/54933260
La Stampa 8.5.11
La giornata della memoria
Sul web “per non dimenticare”
Un portale dedicato alle vittime del terrorismo e della violenza politica: le loro storie, la loro eredità
di Francesco Grignetti
Gli anni del terrore Un’immagine della stazione di Bologna sventrata dall’ordigno che il 2 agosto 1980 uccise 85 persone A destra una fotografia di Aldo Moro prigioniero delle Br e l’home page del sito web «per non dimenticare»
ROMA. Al Quirinale Domani il Presidente della Repubblica riceverà i parenti di chi pagò con la vita la difesa della democrazia I contenuti Documenti, carte private, atti giudiziari: i conti con un’epoca e la sua storia in un archivio imponente
Finora non c’era una Spoon River italiana per le vittime del terrorismo e della violenza politica. Ora c’è. Per saperne di più, per onorare il ricordo di tanti martiri della democrazia, nasce un Muro digitale della Memoria. Sarà inaugurato domani dal Presidente della Repubblica in occasione della Giornata della Memoria. «Omaggio particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni. Tra loro, in primo luogo, i dieci magistrati che per difendere la legalità democratica sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche», è la dedica, non priva di polemica, di Giorgio Napolitano.
Un Muro, ma digitale. Ed è questa la forza di Internet: il Capo dello Stato lo inaugura al Quirinale alla presenza di tante famiglie che piangono una vittima del terrorismo, ma sarà immediatamente materializzabile nelle case di ogni italiano, digitando www. memoria.san.beniculturali.it sul proprio computer.
In principio è stata un’iniziativa pionieristica, una di quelle brillanti idee italiane all’insegna del fai-da-te. In giro per l’Italia vi sono tanti ricercatori, archivi, fondazioni e associazioni che si battono contro mille difficoltà per far conoscere la «loro» tragica vicenda, che sia Portella della Ginestra o il disastro aereo di Ustica, o la bomba di piazza Fontana a Milano. Perché non unire le forze?
È così che qualche tempo fa è nata la «Rete degli archivi per non dimenticare». Ma ora si fa sul serio. Ora che c’è l’interessamento del Capo dello Stato e del ministero dei Beni Culturali, Direzione generale degli Archivi, nasce un Portale. Dentro vi sarà spazio per brevi sintesi storiche, indicazioni didattiche, segnalazione di eventi, pubblicazioni. Troveranno un luogo di condivisione gli approfondimenti curati dalle scuole. E soprattutto ci saranno i materiali che «formano» la storia: documenti, carte private, atti giudiziari, ritagli di giornale, registrazioni audio e video, manifesti, volantini. Le 47 associazioni aderenti hanno un patrimonio immenso di materiali, finora chiuso negli armadi. L’ambizione è mettere tutto on-line. «Siamo felici e orgogliosi - racconta Ilaria Moroni, della Fondazione Flamigni - di quello che abbiamo fatto. Ora però c’è da andare avanti. All’indomani del 9 maggio dovremmo dedicarci ad tutta una serie di altri argomenti e fatti, inserire materiali e produrre ricerche... in sostanza prenderci il compito di avviare un dibattito storiografico».
L’ambizione è di fare del portale un luogo vivo e vibrante. «Questo dedicato alla Memoria - spiega il direttore generale degli Archivi, Luciano Scala - sarà solo il primo di una serie di portali tematici da inserire nel Sistema archivistico nazionale. Negli archivi c’è la nostra storia. E la digitalizzazione sarà un’eccezionale occasione per rompere antichi steccati».
Corriere della Sera 8.5.11
Brunetta e il taglio delle auto blu
Quello che i numeri non dicono
di Sergio Rizzo
. Della nota con cui venerdì 6 maggio il ministro dell’Innovazione Renato Brunetta ci ha comunicato che le pubbliche amministrazioni stanno tagliando le auto blu colpiscono almeno un paio di cose. La prima: i numeri. Il comunicato stampa segnala infatti alcuni casi di riduzioni «significative» del parco macchine. Apprendiamo quindi che fra il 2009 e il 2010 le auto di servizio della Regione Molise sono passate da 73 a 52 (cinquantadue!). Ma pure che quelle della Provincia di Parma sono diminuite da 84 a 58 (cinquantotto!), e quelle della Provincia di Bari da 64 che erano si sono ridotte a 46 (quarantasei!). Si scopre poi che il Comune di Messina, che aveva 164 auto, adesso ne ha soltanto 103 (centotre!), una in più del Comune di Palermo. Ben 26 in meno, però, della Asl di Olbia, che ha in garage 129 (centoventinove!) macchine. La seconda cosa che colpisce è il numero delle amministrazioni che hanno compilato il questionario del ministero. Sono meno del 30%del totale. Forse un po’ pochine per trarre qualche conclusione. Per esempio, per stabilire che le auto «blu-blu» , come Brunetta definisce quelle che usano i politici, si sono ridotte del 10%, che le «blu» , ovvero le vetture a disposizione degli alti burocrati, sono state tagliate del 7,1%, e che le «grigie» , a servizio dei vari uffici sono l’ 1,4%meno di un anno prima. Anche perché, al di là della propaganda, sarebbe interessante sapere che cosa è successo nelle amministrazioni centrali, oltre che negli enti locali. Qualche settimana fa da palazzo Chigi, dopo un’attesa di circa due mesi, ci ha fatto sapere che la presidenza del Consiglio ha 120 auto di servizio. Cifra, per inciso, che non comprende le vetture a disposizione del presidente del Consiglio, il cui numero è rigorosamente top secret. Sono aumentate o diminuite rispetto a un anno prima? E poi, che cosa accadrà con la nuova scandalosa infornata di sottosegretari? Li manderanno tutti a piedi o forniranno anche a loro, com’è assai più probabile, una confortevole Audi 2.700 (anche se il modello 4.200 è decisamente più gettonato) con autista e scorta al seguito, per la gioia dei contribuenti che pagano le tasse fino all’ultimo euro?
Repubblica 8.5.11
Harald Espenhahn presente alle assise della Confindustria. Marcegaglia: la sentenza allontana gli investimenti
Applausi al manager della Thyssen Emma: condanna, caso unico in Europa
Critiche alla sinistra per il suo appoggio al verdetto. L´Idv: "Giudici equi"
BERGAMO - Un applauso rispettoso della "sensibilità emotiva" del tragico evento arriva dalla platea di Confindustria alla fine del discorso di Herald Espenhahn, amministratore delegato di Thyssenkrupp in Italia, condannato a 16 anni e mezzo con la "storica" sentenza della Corte d´assise di Torino. Sentenza che, lo scorso aprile, per la prima volta ha equiparato la morte sul lavoro di sette operai (uccisi dal rogo del 6 dicembre 2007) a un omicidio volontario.
Tuttavia il fatto stesso che Espenhahn sia stato invitato a parlare alle assise di Confindustria segnala la volontà degli industriali italiani di trattare l´argomento scottante della sicurezza sul lavoro che ha portato a quella sentenza giudicata da molti di loro "incredibile". Lo si capisce bene anche dalle parole di Emma Marcegalia. «Ribadiamo il totale e assoluto impegno delle imprese sulla sicurezza, ma la condanna a 16 anni per omicidio volontario di Harald Espenhahn, è un unicum in Europa ed è un tema che va guardato con molta attenzione».
Il timore diffuso tra gli industriali è che una sentenza di questo tipo costituisca un precedente pericoloso in grado di riportare indietro nel tempo i rapporti tra mondo del lavoro e imprese. Non sono proprio piaciute, agli imprenditori, le dichiarazioni di esultanza arrivate dal mondo della sinistra e dei sindacati all´indomani della condanna. «Non andiamo a ricreare un campo di battaglia in maniera strumentale», ha detto un industriale che preferisce restare anonimo. Ma la Marcegaglia nel suo intervento è andata anche oltre, evidenziando che una cosa di questo tipo «se dovesse prevalere, potrebbe allontanare gli investimenti esteri dall´Italia e mettere a repentaglio la sopravvivenza del tessuto industriale».
Il discorso di Espenhahn, sebbene a porte chiuse come tutti gli altri dell´assise, è stato giudicato dalla gran parte degli imprenditori di buon senso. «Abbiamo fatto investimenti in Italia, abbiamo una governance che si inquadra nella best practice e mi trovo con una condanna a 16 anni per omicidio volontario, ditemi voi se ha un senso tutto ciò», sono le sue parole riferite da un imprenditore presente in sala. Immediata la replica di Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro dell´Italia dei Valori: «I giudici hanno accertato che i vertici dell´azienda non investirono sugli impianti in modo da evitare che si consumassero drammi umani come quello di Torino. La condanna è sacrosanta».
D´altronde era stato lo stesso presidente della Thyssen in Italia, Klaus Schmitz, il 17 aprile ad auspicare una riflessione su queste condanne: «Abbiamo bisogno di garanzie per il nostro futuro. Confindustria deve reagire a questa sentenza. Dagli industriali italiani ci aspettiamo passi ufficiali». In che cosa sfocerà tutto ciò difficile dirlo, ma è un fatto che Confindustria non si è tirata indietro rispetto al problema.
(g.po.)
La Stampa 8.5.11
Voglio diventare madre: mi licenzio?
Pochi asili pubblici e tanti ostacoli sul lavoro: tenere in piedi famiglia e carriera è una corsa a ostacoli. Oggi è il giorno della mamma, ma questo «mestiere» è sempre più difficile
di Flavia Amabile
Sapete che cosa c’è? Mi licenzio e metto su un’attività mia. Accade in Italia e accade alle nuove mamme di questo Paese dove decidere di avere figli è sempre più simile ad un suicidio virtuale.
Francesca Sanzo, 37 anni, blogger, una figlia, fra dieci giorni dirà addio al suo posto nella pubblica amministrazione per dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di comunicazione e scrittura sul Web. Non era il posto fisso, ma quasi. «Avevo un contratto di un anno da rinnovare e sicuramente sarebbe stato rinnovato. Bastava aspettare il concorso per la mia professionalità e probabilmente avrei anche ottenuto un contratto a tempo indeterminato», racconta. Il sogno di tutte. Non più come una volta, in realtà. Francesca ha detto no grazie e da giugno sarà una mamma felice anche senza contratto. «Preferisco avere lavori che mi lascino la libertà di trascorrere un pomeriggio al parco con mia figlia e di lavorare la sera quando lei dorme», spiega.
E’ quello che ha fatto Maria Cimarelli, una figlia di quasi quattro anni, un altro in arrivo. Ha detto addio ad una grande azienda del campo assicurativo e al suo stipendio da manager per dedicarsi a tempo pieno all’attività di presidente dell’associazione Working Mothers Italy, una onlus nata nel 2008 perché si erano rese conto che sul tema mamme anche sul Web «si parlava troppo di pannolini e quasi per nulla di lavoro». Hanno messo in piedi una rete che conta oltre 800 persone. Sono dipendenti di enti pubblici e privati, manager, dirigenti, liberi professionisti, imprenditori, responsabili delle risorse umane. Oltre al quartier generale romano ha sedi in Piemonte, Trentino e Friuli Venezia Giulia. In oltre due anni di attività hanno offerto alle donne la possibilità di trovare lavoro o un avvocato a prezzi accettabili per seguire la causa di mobbing. Stanno creando il primo database di assistenti familiari (tate e colf) che potrà essere consultato gratuitamente e prevederà un piccolo contributo solo se la consultazione andrà a buon fine.
Stanno cambiando le mamme italiane. Si adattano a quello che l’Ocse nel suo ultimo rapporto ha definito «il dilemma italiano». Poco lavoro, pochi figli, nessun aiuto, tanta povertà infantile. Sono fortemente stracariche di impegni molto più che in altri Paesi europei come ricorda la direttrice centrale dell’Istat, Linda Laura Sabbadini. Circa il 65% del loro tempo è assorbito dall’accudimento familiare: «O si sviluppano politiche pubbliche di assistenzao aumenteranno i bisogni non soddisfatti della popolazione italiana più vulnerabile». E hanno molte probabilitàin meno di lavorare. Gli obiettivi di Lisbona prevedevano, entro il 2010, il 60% di occupazione femminile. Ci siamo fermati al 45%, la media Ocse è al 59%.
Pur di raggiungere un lavoro stabile, in questi anni le donne hanno posticipato sempre più le gravidanze. Ad avere una mamma di oltre 40 anni nel 1995 sono stati 12.383 neonati nel 1995. Dieci anni dopo sono raddoppiati: sono stati 27.938 nel 2006. Mentre solo l’11% dei nati ha una madre di età inferiore a 25 anni.
Perché tanta indecisione? Perché negli asili pubblici in media, solo il 10-15% dei bambini trovano posto. Gli altri si rivolgono ai privati dove le rette sono molto elevate. Una su cinque madri dopo il primo figlio si licenzia, soprattutto se poco istruita, più ancora al Sud. Oppure provano a chiedere aiuto ai nonni. Circa il 30% dei nonni italiani si prendono cura tutti i giorni dei propri nipotini. Una percentuale che scende al 15% in Germania e Austria e al 2% per Danimarca e Svezia. In Germania la legge sul congedo parentale permette alle mamme di assentarsi fino a due anni. In Italia il massimo è 5 mesi. E le probabilità di conservare il posto quando si hanno una mamma o un papà ad aiutare aumentano del 39% rispetto a chi non ha nessuno disposto a dare una mano nella cura dei piccoli.
Il risultato è che in molti casi i figli crescono con tutti ma non con la mamma o il papà. I dati Istat sono spietati: fino a 3 anni almeno un bambino su 2 sta con i nonni (52,3%). Altrimenti vanno all’asilo nido privato e pubblico (27,8). Un 10% è accudito da baby sitter e il 7,3% sta con i genitori.
A meno di non fare come le neo mamme trentenni e eliminare il problema con una lettera di dimissioni e un lavoro nuovo di zecca a casa.
La Stampa 8.5.11
“Impara da noi cinesi e trasformati in Tigre”
L’eredità confuciana
«La tolleranza zero li rende più felici e più forti per affrontare la vita»
«Inculchiamo dall’inizio la convinzione di essere in debito con i genitori»
Amy Chua è autrice del libro che ha sferzato gli Usa “Disciplina dura con i figli, devono obbedire sempre”
di Marta Dassù
Ecco da dove viene una Mamma Tigre, la madre capace di incutere paura e rispetto: «Il mio cognome è Chua (Cai in mandarino) e ne vado orgogliosa. Siamo originari della provincia del Fujian: un mio avo paterno, Chua Wu Neng, era astronomo di corte dell'imperatore Shen Zong della dinastia Ming, oltre che poeta e filosofo». Impossibile capire Amy Chua, e le sue convinzioni sull'educazione, senza tenere conto di questo: l'orgoglio per una storia familiare e nazionale alle spalle, che una madre emigrata in America, docente alla Yale Law School, vuole trasmettere alle figlie. Il filo che viene dalla corte dei Ming non deve spezzarsi. Cosa significa essere una «madre cinese», mentre si diventa americani?
Amy Chua mi dice che non avrebbe mai immaginato un simile successo per il suo unico libro non professionale: «Battle Hymn of the Tiger Mother», (Il ruggito della mamma tigre), appena pubblicato in italiano. E' convinta che a provocare un incendio abbia pesato il titolo con cui il «Wall Street Journal» ha presentato il suo libro: Perché le madri cinesi sono superiori. Quel titolo, «una forzatura che non condivido», è lo specchio delle paure dell'America: «C'è una fortissima ansia sul potere in ascesa della Cina. Se il mio libro si fosse chiamato il Ruggito della Madre Irlandese, nessuno si sarebbe sentito messo in discussione».
Probabilmente Amy Chua ha ragione. Ma un po’ scherzando e un po’ contraddicendosi, spiega nella sua «storia su una madre, due figlie e due cani» perché la madre cinese ha delle carte in più rispetto ai genitori occidentali. Queste le linee di faglia, in uno scontro di culture che attraversa anche il suo matrimonio con Jed, ebreo americano: imposizione (cinese) contro libertà di scelta (occidentale); disciplina durissima (cinese) contro comprensione (occidentale); piano e violino (cinese) contro sport (occidentale). Esistono, scrive Chua, tre grandi differenze di forma mentis. La prima è che i genitori occidentali «sono costantemente in pensiero per l'autostima dei figli. I genitori cinesi no. Non partono dal presupposto che i figli siano fragili, al contrario». Quindi esigono sempre il massimo: un 10- è un brutto voto. Seconda differenza: «I genitori cinesi sono convinti che i figli siano in debito con loro». Non è chiaro da dove nasca questa convinzione, è probabile sia una «combinazione di devozione filiale insegnata dal confucianesimo» e dei sacrifici fatti dalla madre cinese, che per ore ripete insieme alla figlia gli esercizi di musica. La sostanza è che i figli cinesi devono trascorrere la vita «ripagando i genitori»; i figli occidentali no. Per il marito di Amy «i figli non ci devono un bel niente». Infine: «I genitori cinesi sono convinti di sapere che cosa sia meglio per i figli e quindi ne prevaricano desideri e preferenze». Gli occidentali, invece, pensano che sia giusto lasciare la libertà di seguire le passioni. Il risultato, conclude Chua in tono ironico ma non tanto, è che «questo Paese è in caduta libera». Aggiungendo, nella discussione finale con le due figlie, Sofia e Lulu: «Secondo me, i Padri fondatori degli Stati Uniti possedevano valori cinesi».
E' la graffiata finale della madre Tigre. Che in realtà nasconde una donna sensibile. Quando le chiedo perché un professore di Yale abbia scritto una biografia sentimentale, risponde: «Ho cominciato a scrivere Battle Hymn in un momento di vera crisi personale, quando ero in urto con la mia figlia più piccola, Lulu, e temevo di perdere anche mia sorella Katrin, ammalatasi di leucemia. Dopo uno scontro terribile con Lulu, mi sono seduta al computer. Ho spesso sofferto di blocco dello scrittore; quella volta le parole sono fluite come un fiume in piena. Con il senno di poi, penso che scrivere questo libro sia stato un tentativo di rimettere insieme i pezzi della mia vita».
Si scopre poi che Amy Chua non ha solo granitiche certezze. Ha anche delle insicurezze: «Quando si tratta del modo di educare i figli diamo tutti prova di una strana chiusura mentale. Nessuno vuole sentirsi dire che sta facendo qualcosa di sbagliato, fosse pure una minima cosa. Ho riflettuto a lungo sulle ragioni di questa suscettibilità. Forse è l'insicurezza. Desideriamo tutte fare la cosa giusta, lo desideriamo disperatamente come madri; ma non ne siamo mai sicure. Forse perché la posta in gioco è altissima; e l'idea di dovere ammettere di avere sbagliato è terribile. Chiaramente, non esiste un'unica formula giusta per produrre bambini felici, sani, riusciti. E' possibile che alcuni genitori occidentali siano inconsciamente preoccupati del fatto che il pendolo si sia spostato troppo in direzione di un'educazione permissiva».
Per Amy Chua, che ha anche scritto un bel libro di relazioni internazionali («World on Fire»), educare le figlie è stato quasi un lavoro a tempo pieno. In Italia, così dicono le statistiche, il tempo per i figli continua a ridursi. Lei come ha fatto a trovarlo?: «Sono stata una madre molto giovane; oggi, solo rileggendo quello che ho scritto, mi sento esausta. E' stato necessario sacrificare molte cose, fra cui la casa, che è stata per anni un autentico caos. Ma è vero che ho sempre avuto moltissima energia; e auto-disciplina. Avevo l'abitudine di alzarmi alle sei del mattino e di svolgere il mio lavoro accademico per un paio d'ore, prima di dedicarmi alle figlie per il resto della giornata. Devo confessare che la mia energia di madre è nettamente diminuita con il passare degli anni: sto ancora cercando di trovare un giusto equilibrio».
Ma è possibile un giusto equilibrio? E in che modo le scelte individuali si traducono in performance nazionali? «Battle Hymn» ha suscitato tanto scalpore negli Stati Uniti anche perché è uscito nel momento in cui le classifiche «Pisa» attestavano per la prima volta la supremazia delle scuole di Shanghai nelle materie scientifiche, con il sorpasso di quelle americane. E' un problema di scuole o di genitori? «Non penso che si possa generalizzare - risponde Chua -. Ci sono tipi diversi di genitori "americani": fra cui alcuni estremamente severi ed esigenti, cinesi, insomma. Uno dei principali punti di forza dell' America sta proprio nel fatto che continua ad attrarre immigrati intraprendenti da tutto il mondo; e queste persone sono di solito lavoratori instancabili. A loro volta, sono spesso dei "genitori tigre"! Credo che sia lo stile "asiatico" di esercitare la funzione di genitore sia quello "occidentale" abbiano i propri punti di forza e le proprie debolezze. Oggi molti genitori asiatici stanno cercando un modo per incoraggiare nei figli una maggiore creatività individuale».
Quindi anche la Cina fa «auto-analisi» sull'educazione? «Sì, certo. Non a caso, “Battle Hymn” - considerato in Occidente come il racconto di una visione educativa "estrema" - è presentato in modo diametralmente opposto in Cina. In Cina è considerato una storia sull'importanza di concedere maggiore libertà ai ragazzi. Ed è divertente che nella versione cinese il titolo del libro sia: "Fare il genitore secondo una professoressa di Yale: crescere i ragazzi in America". Non solo: una rivista cinese mi ha chiesto di dare alle proprie lettrici consigli su "come essere amica dei figli"!».
In realtà, si fa fatica a definire amichevole il modo in cui la madre cinese ha tentato di imporre a Lulu di suonare il violino. La «guerra nucleare totale» con la figlia minore si chiuderà con una specie di pareggio. Amy Chua lo scrive: avrebbe voluto raccontare di come i genitori cinesi siano più bravi a crescere i figli, ma si è resa conto che le cose sono più complicate di così. La battaglia con la figlia ha aiutato anche la madre a diventare più umile. La figlia, alla fine, ha domato la Tigre.
La Stampa 8.5.11
La lezione francese: più bambini fai meno tasse paghi
La politica del terzo bebè. Per aiutare il ménage anche i padri godono di speciali permessi
di Alberto Mattioli
Ottantatrè miliardi all’anno, pari al 3,8% del Pil: per il sostegno alla natalità la Francia fa molto. Di certo, più della maggior parte dei Paesi europei. E i risultati si vedono: con 2,01 figli per donna adulta, la Francia è seconda in Europa, subito dopo l’Irlanda e molto prima dell’Italia. Insomma, dopo decenni di denatalità, gli indici francesi sono tornati al livello degli anni gloriosi del «babyboom», i tre decenni di culle piene fra il 1944 e il ‘74.
Le provvidenze per le neomamme sono molte e generose. Il congedo di maternità per il primo e il secondo figlio è di 16 settimane al 100% dello stipendio e cresce ancora nel caso del terzo bébé: sempre stipendio al completo, ma con 8 settimane di congedo prima del parto e 18 dopo. Del congedo usufruisce anche papà: 11 giorni per un figlio solo, 18 nel caso di due gemelli. Si largheggia anche con il «congedo parentale d’educazione»: i genitori che lavorano possono, tutti e due, smettere di farlo fino al terzo compleanno del figlio per una durata compresa fra uno e tre anni. Non ricevono lo stipendio, ma un forfait di 560,40 euro al mese. Tutti i diritti alle prestazioni sociali sono garantiti, come pure quello di ritrovare il posto di lavoro a congedo terminato.
Capitolo assegni familiari. Scattano dopo il secondo figlio e vengono versati fino al suo ventunesimo compleanno, quando si suppone che il bamboccione inizi finalmente a mantenersi da solo. Ammontano a 125,78 euro al mese per due figli, 286,94 euro per tre e 161,17 euro per ogni figlio ulteriore. Ma la vera particolarità francese è un sistema di detassazione per natalità. In altri termini, più figli si fanno e meno tasse si pagano. Il meccanismo è molto complicato ma ancor più conveniente, specie a partire dal terzo figlio, sicché molte coppie lo fanno non solo per ragioni affettive ma soprattutto fiscali. E non va nemmeno trascurata la «carta famiglia» rilasciata a quelle con almeno tre pargoli, che permette di pagare meno treni, metro, musei, spettacoli, attività sportive e via risparmiando.
Fin qui le regole che valgono per tutti. Ulteriori aiuti sono destinati alle coppie al di sotto di un certo reddito. Per esempio, un premio di nascita di 903 euro, un sussidio di 180 al mese fino al terzo compleanno del pupo e un aiuto per l’asilo o la babysitter, a seconda dei casi. Lo Stato premia le coppie meno fortunate che figliano: 22.970 euro per uno, 28.271 per due, 33.572 per tre e altri 5.301 per ogni bébé supplementare. Altro assegno (da 284 a 311 euro a seconda dell’età) per i figli che vanno a scuola. Gli aiuti alle ragazze madri sono stati inseriti nel 2009 nel Rsa (reddito di solidarietà attivo), ma restano consistenti.
Insomma, è la Francia il Paese delle mamme. E tuttavia resta spopolato: grande il doppio del nostro, ha 65 milioni di abitanti contro i 60 dell’Italia. Come dire: fate figli, c’è posto.
l’Unità 8.5.11
Intervista a Miguel Gotor
«Un grande come Giolitti vinto dalla ragion di Stato»
Parla lo storico che ha dedicato una grande monografia al «caso» con al centro il mistero delle lettere e del memoriale dal carcere delle Br
di Bruno Gravagnuolo
Una statura quella di Moro paragonabile a quella di Giolitti. Entrambi tentarono di includere le masse popolari e la sinistra in un ampio disegno di allargamento politico. E Moro parlò anche di «terza fase», alludendo a una possibile democrazia dell’alternanza, ma queste sono solo ipotesi, soverchiate da altri avvenimenti...». Battute finali di una lunga conversazione con Miguel Gotor, 40 anni, romano, spagnolo per parte di padre, storico a Torino di santi, eretici e Inquisizione. Oggi tra i più accreditati storici del «caso Moro». Prima con Lettere dalla prigionia (Einaudi, 2008) poi di recente con Il memoriale della Repubblica. Scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, pp. 628, euro 25,00).
Più che una tesi c’è una «mappatura», in questo testo. Svela l’intrico dei messaggi dal carcere Br, oltre alle lettere. Quello dei due pezzi di memoriale di Moro, usciti e trovati tra il 1978 e il 1990 (a via Montenevoso il secondo): entrambi censurati e rivisitati. E poi c’è l’ipotesi di un memoriale originario, mai trovato, di cui gli «excerpta» che abbiamo sono solo una parte. Attorno si dipanano, lo scenario internazionale, le trattative per la eventuale liberazione. E i tentativi, fatti e mal fatti, di scoprire la prigione del popolo. Fino alla tragica conclusione: il ritrovamento del corpo di Moro a Via Caetani il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia. Che chiude la speranza di un nuovo corso della politica italiana. Liquida il compromesso storico, e apre la fase che culmina con tangentopoli, antipolitica e bipolarismo selvaggio di oggi. Ma questa è un’altra storia.
Cominciamo da un punto chiave: Gotor che c’era in ballo con i messaggi di Moro dalla prigione? Perché li lanciava? «Molto è ormai chiaro, avendoci lavorato a lungo. C’è stato un profilo spionistico in tutto questo. Moro conosceva molte cose sensibili, che le Br gli estorcevano. Si confessa pienamente “dominato” da Cossiga. E le Br usavano certe verità contro lo stato, per destabilizzarlo. Esempio: Moro traccia un ritratto allusivo di Taviani, fondatore di Stay behind, struttura atlantica, allora segretissima. Il prigioniero voleva comunicare con tale livello per giocare un ruolo, farsi liberare probabilmente, esercitando pressione...». Gioco di pressioni, con Moro sotto ricatto che usa le carte che ha? «Sì, Moro prova a rendersi indispensabile, tirando in ballo anche il confronto tra stati e la Nato. Per sopravvivere deve comunicare, e dare qualcosa ai suoi carcerieri. Al contempo dice: tiratemi fuori, perché sono una figura chiave per la sicurezza dello stato. E lo scrive: la mia liberazione conviene allo stato». Ma così non finiva col minacciare lo stato? «Doveva concedere, per ottenere qualcosa, e centellina le rivelazioni. Di esse abbiamo una versione incompleta. E ciò è dimostrato dal fatto che gente come Pecorelli, Gelli, la terrorista Nadia Mantovani e il giornalista Scialoja, o le hanno lette o ne hanno avuto notizia». Che c’era in quelle rivelazioni non integrali o certificate in originale da far termare il Potere? «Il caso Kappler, ad esempio, con l’ufficiale, secondo le testimonianze, fatto fuggire per secondare, grazie ai tedeschi, un prestito Fmi all’Italia. La libera circolazione dei palestinesi in Italia, per evitare attentati, e con grave preoccupazione per il Mossad. Il golpe Borghese...». Moro sotto pressione lanciava messaggi e li usava per aiutare la sua liberazione, premendo sia sulle Br che sugli apparati dello stato? «È come la storia della tartaruga e dello scorpione. La tartaruga Moro traghetta lo scorpione Br, pensando alla salvezza reciproca. Ma lo scorpione alla fine, con stupore di Moro, lo uccide...». E chi si sentiva direttamente minacciato da quelle rivelazioni? «Al centro c’era la ragion di stato, la sicurezza interna e internazionale: cose non irrilevanti. Che andavano secretate di necessità. Ebbene, nei processi di allora sul golpe Borghese, i vertici dei servizi furono condannati per associazione sovversiva e non per insurrezione armata, (Luglio 1978). Fu un processo conclusosi sei anni dopo con l’assoluzione. Nel 1978 le rivelazioni di Moro avrebbero potuto interferire in tutto ciò».
Ma il fatto che alcuni avessero letto e altri no (tra i quali Gelli), e il ritrovamento a spezzoni delle carte, autorizzano dietrologie e sospetti, non le pare Gotor? «Moventi veri furono sicurezza e ragion di stato. Il che spiega perché sui testi ci siano state due mani censorie, prima nel 1978, con l’antiterrorismo che faceva capo a Dalla Chiesa. Poi, verosimilmente, con altri apparati, che hanno fatto trovare le fotocopie del manoscritto. Previa censura e rimessa nell’intercapedine a via Montenevoso. Non c’era l’originale, forse distrutto dalle Br o da altri, e dunque le fotocopie disponibili prima o poi sarebbero uscite fuori». Br che distruggono il memoriale. Perché? «Dissero che non capivano ciò che conteneva. In seguito dichiararono di averle bruciate». Ma avevano le fotocopie! «Già, o nascosero l’originale, o lo consegnarono a qualcuno. Di fatto l’originale del memorale c’era, ed è scomparso...». Dunque, molti vedevano, negoziavano e sapevano quel che ancora oggi ignoriamo. «Sì, e credo di averlo dimostrato nel mio libro». Veniamo alla trattativa su Moro: possibile, impossibile o non voluta a priori? «Non c’era incompatibilità tra strategia della fermezza in pubblico e trattativa in segreto. Il negoziato segreto ci fu, con il Vaticano al centro. Tutto finisce con la morte di Moro e la scomparsa dei Memoriali. Due dati di fatto». E il ruolo del Pci? «Ricattato e incalzato dall’estremismo, non disse no alla trattativa segreta, purché non smentisse la fermezza dello stato». Le Br volevano un successo e un riconoscimento chiaro? «Le Br volevano che la trattativa fosse pubblica e non segreta. Ciò era impossibile e su questo scoglio si giocò il destino di Moro».
Corriere della Sera 8.5.11
Il mercato (impossibile) degli organi
di Giuseppe Remuzzi
«Ho due bambinimeravigliosi, mio marito ha perso il lavoro, vorrei dare un rene a una persona che ne ha bisogno, vado anche in America se serve» . Cosa si può rispondere a una lettera così? Le solite cose: «Quello che lei propone non si può fare per legge, né in Italia né negli Stati Uniti. Dove lo fanno come in India, Pakistan o Paesi Arabi non ci sono garanzie per chi dona ...» e poi «coraggio, le difficoltà si superano, vorrei poterla aiutare» . Ma cosa se ne fa una persona senza soldi con due bambini piccoli di una risposta del genere? Rispondo comunque, ma non mi sento a posto. Continuo a pensare alla signora dei due bambini poi me ne dimentico. Fino alla prossima lettera: «Ho 40 anni, bella, sana, pulita, ho 1 figlia bellissima e 1 figlio grande che guadagna 800 euro al mese, vorrebbe un bar piccolino tutto suo ma le banche non lo aiutano, con gli strozzini ho perso tutto, anche il marito. Vendo 1 rene, il prezzo è 254 mila euro. Mi chiami la prego, sono vicina a fare un brutto gesto» e c’è un numero di telefono. Cosa faccio, chiamo? E per dire cosa? Che non si può, che la legge lo proibisce, che non sarebbe giusto? Faccio finta di niente, in fondo quella lettera così vera — «1 figlia bellissima» , «1 rene» — potrei anche non averla ricevuta, alla fine non chiamo. Ma sto male, e anche adesso nel rileggerla (e se il brutto gesto l’avesse fatto davvero?). «Nella mia anima c’è un disperato bisogno di ricostruirmi un futuro» . Questa volta è un uomo di 40 anni che scrive. E io: «Lo tenga il suo rene, non si sa mai cosa può succedere» . C’è anche un donatore di sangue «sanissimo» che vuole vendere un rene: «Lei non può capire il mio calvario e le umiliazioni che ricevo ogni giorno» . Un signore non più giovane scrive: «Non sono mai stato malato, non bevo, non fumo, mangio quasi solo frutta e verdura» . E io di nuovo a tutti e due: «Vendere un rene in Italia non si può, non posso fare niente per aiutarla è un’attività illegale» . Se rispondo mi sento ridicolo, e se non lo faccio è come se togliessi a chi mi scrive anche l’ultima ragione per sperare. In questi giorni il Los Angeles Times ha pubblicato un articolo con questo titolo: «Cosa succederebbe se il mercato degli organi fosse regolamentato per legge?» . «Se i reni si potessero vendere e comperare e se fosse per legge, tante persone povere avrebbero di che vivere e molti ammalati risolverebbero i loro problemi, allora perché non farlo?» si chiede Jessica Ogilvie che ha scritto quell’articolo. Così prova a intervistare due esperti: «Negli Stati Uniti ci sono quasi 90 mila persone che aspettano un organo ma il trapianto lo fanno in meno di 18 mila all’anno — dice Benjamin Hippen, un nefrologo di Charlotte in North Carolina — per quanti sforzi facciamo per ottenere reni da cadavere non riusciremo mai a soddisfare le necessità di tutti. Se ci fosse una legge che regola la compravendita dei reni avremmo molti più organi, i medici potrebbero scegliere i donatori migliori e chi compra un rene avrebbe un organo sicuro. Non solo, il sistema sanitario risparmierebbe miliardi di dollari ogni anno» . Francis Delmonico che è professore di chirurgia alla scuola di medicina di Harvard la pensa in modo completamente diverso: «Capisco le buone intenzioni di chi vorrebbe regolamentare il mercato degli organi, ma se negli Stati Uniti lo facessimo per legge sarebbe come dire che lo si può fare dappertutto, India, Cina, Bangladesh per esempio. E allora i rischi di epatite, tubercolosi e tumori sarebbero molto alti. Questa cosa non va fatta, per nessuna ragione. Fra l’altro nel mercato degli organi ci guadagnano solo i ricchi, per i poveri è sempre un dramma» . Delmonico ha ragione. Ma se uno è disperato, ragione e buoni argomenti servono a poco. Una donna povera del Sud dell’India ha venduto un rene per 32.500 rupie, poco più di duemila euro, la storia si può trovare su Berkeley Organs Watch News. Lavora come domestica, il suo lavoro è pagato molto poco, il marito è disoccupato. La signora ha cinque figli piccoli. Da più di dieci anni vendere organi è fuori legge sia in India che in Pakistan. Il solo risultato è che adesso è tutto più difficile, comprare un rene costa di più: chi organizza questa attività, ora illegale, vuole più soldi e a chi vende un rene di soldi ne vanno sempre meno. La signora del Sud dell’India adesso vive ancora nei debiti. I soldi che le sono arrivati dalla vendita del rene sono finiti nel giro di pochi anni. Le è stato chiesto se, potendo tornare indietro, l’avrebbe rifatto. Lei, nonostante tutto, ha risposto: «Lo rifarei, e se di reni ne avessi tre, l’avrei fatto due volte» . No, non possiamo accettare che ci sia compravendita di organi, nemmeno regolamentata per legge.
Corriere della Sera 8.5.11
La nascita dei diritti umani e le radici dell’Occidente cristiano
di Giuseppe Bedeschi
Nel suo ultimo libro (Dalla città sacra alla città secolare, Rubbettino editore) Luciano Pellicani sviluppa una amichevole polemica con me, poiché tempo fa gli avevo obiettato (recensendo su una rivista il suo precedente libro Le radici pagane dell’Europa) che senza la rivoluzione spirituale attuata dal cristianesimo la nostra civiltà non sarebbe nemmeno concepibile. In quella occasione ricordavo a Pellicani un bellissimo passo dalle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel: «Completamente scevro di ogni particolarità individuale, l’uomo, in sé e per sé, e cioè già per il solo fatto di essere uomo, ha quindi (nel cristianesimo) un valore infinito, e appunto questo infinito valore abolisce ogni particolarità di nascita e di patria. Egli non conta in quanto ebreo o in quanto greco, o per alta o bassa estrazione: conta in quanto uomo. Dove il cristianesimo è reale, non ci può essere schiavitù» . A questa affermazione di Hegel Pellicani obietta che il cristianesimo in realtà non ha una concezione universalistica dei diritti umani, poiché esso ha discriminato gli uomini fra figli della luce e figli delle tenebre, fra credenti e non-credenti: due famiglie spirituali concepite in modo tale che fra di esse — come si legge in Gregorio di Nissa— non sono immaginabili «compromessi o mediazioni» . Infatti, per la nuova religione, i credenti erano «figli di Dio» , e i miscredenti «figli del Diavolo» (Prima lettera di Giovanni, 3, 10). Inoltre, dice Pellicani, per molto tempo il cristianesimo ha tollerato o addirittura giustificato la schiavitù. Si legge nella Lettera agli Efesini (6, 5-7) di San Paolo: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo» ... E affermazioni analoghe si trovano in altre lettere paoline. Dunque, conclude Pellicani, la verità è che la concezione universalistica dei diritti umani si è affermata— attraverso una serie infinita di conflitti di interessi e di valori— solo a partire dal momento in cui è stata cancellata la distinzione-discriminazione fra credenti — «figli di Dio» — e miscredenti — «figli del Diavolo» . «E ciò è avvenuto— non lo si ripeterà mai abbastanza — grazie alla rivoluzione culturale attuata dall’Illuminismo» . Io penso che le cose siano un po’ più complicate di come Pellicani le prospetta. E credo che per orientarsi su una tematica così complessa sia opportuno considerare il cristianesimo in alcune sue manifestazioni storiche. Ora, la storia ci dice che la prima grande teoria, espressa nel mondo moderno, dei diritti inviolabili e imprescrittibili della persona è stata elaborata da un pensatore profondamente cristiano, John Locke, la cui dottrina ha avuto una enorme importanza per la civiltà occidentale. Nel Secondo trattato sul governo (1690) Locke afferma che il potere politico, che viene istituito dagli uomini al fine di proteggere la loro vita, la loro libertà e i loro beni, non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi. Vita, libertà e beni sono infatti diritti naturali insopprimibili; e «le obbligazioni della legge di natura— dice Locke— non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive» . Tutte queste affermazioni Locke può farle sulla base della sua concezione giusnaturalistica di ispirazione cristiana, come è dimostrato dai suoi fondamentali Saggi sulla legge naturale, che egli compose quando era poco più che trentenne. Inoltre, quando noi parliamo dei diritti dell’uomo e del cittadino, il nostro pensiero va subito, prima di tutto, alla Dichiarazione francese dell’Ottantanove. Ma quella Dichiarazione ha alle proprie spalle i Bill of Rights degli stati americani (Massachusetts, Virginia, North Carolina, Maryland, ecc.), che i rivoluzionari francesi conoscevano molto bene. Senza le Dichiarazioni dei diritti degli stati americani, la Dichiarazione francese dell'Ottantanove non è nemmeno concepibile (come ha mostrato assai bene Georg Jellinek nel suo classico saggio su La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ma— ha affermato Jellinek— «l’idea di fissare in forma di legge i diritti innati, inalienabili e sacri dell’individuo non è di origine politica, bensì di origine religiosa. Ciò che fino ad oggi è stato considerato opera della Rivoluzione, fu in verità un frutto della Riforma e delle sue lotte» . Vide molto bene Alexis de Tocqueville, nel suo capolavoro sulla democrazia americana, che una radice di fondamentale importanza di tale democrazia era da cercare nel fatto che la maggior parte degli emigranti in America apparteneva a quella setta inglese che per l’austerità dei suoi principi era chiamata puritana. «Perseguitati dal governo della madre patria, feriti nel rigore dei loro principi dall’andamento quotidiano della società nel cui seno vivevano, i puritani cercarono una terra così barbara e così abbandonata dal mondo, in cui essi potessero vivere a modo loro e pregare Dio in libertà» . Come sottovalutare queste radici cristiane della nostra civiltà?
Corriere della Sera 8.5.11
Contro la sofferenza
L’utilità sociale della felicità
Nella polemica tra Thomas Carlyle e John Stuart Mill la contrapposizione tra due concezioni opposte della società, l’una basata sui limiti della democrazia e il lavoro come valore assoluto, l’altra sull’uguaglianza come condizione di partenza necessaria per ogni uomo
di Claudio Magris
Se nel 1848 Marx ed Engels, nel loro celebre Manifesto, proclamano che uno spettro si aggira per l’Europa spaventando i benpensanti ovvero il comunismo, un anno dopo un saggio anonimo, uscito su un giornale conservatore londinese, il Fraser’s Magazine for Town and Country denuncia sarcasticamente un altro spettro, ma per combatterlo: una segreta Associazione universale per l’abolizione della sofferenza ovvero l’alleanza di filantropi liberali, economisti liberisti e anime belle che credono nell’eguaglianza ovvero negli eguali diritti e nell’eguale dignità di tutti gli uomini e hanno voluto abolire la schiavitù dei neri (cessata, in tutto l’impero britannico, nel 1833, ventisei anni dopo la messa fuori legge della tratta). Nel 1853 il testo, lievemente ampliato, viene ripubblicato in una raccolta di saggi che reca la firma dell’autore, Thomas Carlyle, il geniale e bizzarro scrittore-filosofo scozzese, che rincara la dose già nel titolo— Discorso occasionale sulla questione negra — usando, al posto del termine «negro» , quello più spregiativo di «nigger» . Tra i vari nobili e a suo avviso patetici tentativi di abolire la sofferenza, Carlyle se la prende, in questo saggio, soprattutto con l’abolizione della schiavitù, soffermandosi specialmente sulla situazione delle piantagioni di zucchero nel mar dei Caraibi (nelle Antille francesi la schiavitù era cessata nel 1848, dopo che Napoleone l’aveva restaurata per favorire gli interessi di sua moglie Giuseppina). Nel frattempo a Carlyle ha già risposto, sulla medesima rivista, John Stuart Mill, il grande filosofo ed economista inglese campione del pensiero liberale, dell’utilitarismo e del libero mercato e appassionato fautore di misure di giustizia per il bene comune, animato da una profonda concezione della solidarietà, dell’unità e dignità di tutto il genere umano e degli uguali diritti di ciascuno, a prescindere dal colore della pelle, dalla religione professata, dall’origine etnica e dal ruolo sociale. La polemica fra Carlyle e Mill è uno straordinario momento di storia politico-culturale, anche al di là del pur fondamentale oggetto della disputa, la schiavitù. Carlyle, che la difende, è soprattutto un avversario di chiunque pretenda di correggere utopisticamente la natura umana e il suo destino, che è quello di soffrire; destino di tutti, bianchi e neri, che si può mitigare ma non radicalmente modificare, perché esso è irresistibile come la legge fisica che spinge le scintille del fuoco a slanciarsi in alto e a dissolversi. A suo avviso è parimenti destino, natura, volontà di Dio che i neri— per i quali prova una condiscendente simpatia— siano servi dei bianchi. Le anime belle e sprovvedute che si accaniscono a voler mutare l’ordine delle cose provocano, a suo avviso, disastri per tutti e instaurano un regno di fannulloni e incapaci. Nessun voto di nessun Parlamento può contrastare le leggi delle potenze, del destino o degli dei. Ma questi dei non sono onnipotenti, gli replica Mill, tracciando una rapida storia di molte libertà conquistate dagli uomini, che sino a poco prima d’essere realizzate erano impensabili e sembravano cervellotiche utopie. Nemico di ogni eguaglianza imposta dall’alto e formulata astrattamente, contrario al socialismo, Mill avversa le diseguaglianze di partenza, crede nella dignità di ogni uomo e nel libero confronto fra gli uomini in condizioni di parità, così come crede nella concorrenza del libero mercato. Il suo utilitarismo persegue riforme e politiche distributive della ricchezza rivolte a promuovere la giustizia e un maggiore benessere del numero più alto possibile di persone. Genialmente Mill capisce e sente che il piacere e la felicità di ognuno implicano, in una certa misura, la felicità o almeno la possibilità di felicità altrui. Ciò che tocca l’umanità tocca ciascuno, non si può essere felici se altri vengono sterminati o bestialmente oppressi; la schiavitù non è solo un oltraggio morale, bensì pure una ferita all’umanità di ogni individuo. Economista, saldamente ancorato a una visione empirista, quasi positivista della realtà, Mill non è un ingenuo che crede ciecamente nella bontà degli uomini o nel paradiso in terra; tiene ben conto della realtà, ma non adora idolatricamente la realtà del momento come se fosse una divinità immutabile; non sogna comuni che aboliscano la proprietà, ma crede nella funzione civile del mercato e in valori umani superiori al mercato. Carlyle contesta libertà per tutti e liberismo economico. Abolire la schiavitù, scrive, è un male perché il negro, per sua natura, ha pochissimi bisogni appagati i quali, se fosse libero, non lavorerebbe ulteriormente. Se non ci fossero schiavi costretti a lavorare per produrre la quantità di zucchero necessaria, egli incalza, i proprietari di piantagioni dovrebbero far venire da altri Paesi un numero esorbitante di lavoratori neri, ognuno dei quali lavorerebbe poco ma che tutti insieme produrrebbero la quantità globale necessaria, provocando tuttavia, col loro alto numero, un aumento di costi e di prezzi e alterando l’equilibrio etnico e culturale del territorio. Si verrebbe a creare una gravissima miseria, una «Irlanda nera» scrive Carlyle, molto sensibile all’inumana povertà degli irlandesi e in genere dei ceti deboli in Gran Bretagna, e acuto nel denunciare le storture talora introdotte da un selvaggio libero mercato, che spesso sradica tradizioni e famiglie e crea abbrutite condizioni di vita per tante persone, giustificandole con le leggi dell’economia, che Carlyle disprezza, definendola «scienza lugubre» . La diabolica alleanza di questa scienza lugubre con l’ingenua filantropia e col suffragio universale porta al potere una maggioranza incapace e avida, una congiura dei deboli contro i forti, la cui bassezza è la rovina di tutti. Ogni maggioranza, egli scrive, è pronta a crocifiggere Gesù ed a esaltare Giuda. Carlyle è un notevolissimo scrittore, molto più umano — come tanti reazionari — delle tesi che si ostina a difendere forse anche per ingenuo amore del paradosso, della rissa e del politicamente scorretto. Uno scrittore ricco di fantasia, di ironia, di invenzioni bizzarre; più che il suo stentoreo culto degli eroi, delle personalità eccezionali cui riteneva fosse affidata la guida dell’umanità, sono geniali le sue ricerche storiche, le sue stravaganze eccentriche, la sua erudizione e il suo umorismo scozzese che gli hanno fatto scrivere un libro barocco e labirintico quale Sartor resartus, che tanto piaceva a Borges per la sua lambiccata dissoluzione dei tempi narrativi e dello stesso io individuale, narrante e narrato, spettro e falsario di se stesso. È la grande tradizione filosofico letteraria scozzese che anima la sua pagina. / come altri grandi anarco-reazionari, pure Carlyle è acuto nello smascherare le lacrime e il sangue di cui gronda pure il progresso, nel denunciare le zone d’ombra del liberalismo, le piaghe sociali. Il suo sarcasmo strappa la nobile maschera al mondo, facendolo apparire «atroce, dissonante, quasi infernale» come gli apparve una sera durante una passeggiata in Regent Street. Il suo disprezzo delle maggioranze contiene una reale diagnosi dell’involuzione, della manipolazione e della volgarità di masse eterodirette cui talora approderà il suffragio universale, del populismo in cui si corromperà il concetto di popolo e che condurrà al dominio di tanti caudillos e duci di suburra osannati dalla folla. È peccato che non ci sia oggi una penna come la sua (o quella di Gadda) a ritrarre la democrazia in Italia. Ma Carlyle non è Tocqueville, che intravvede lucidamente le degenerazioni populiste e cesariste della democrazia, ma per evitarle e correggerle, ben consapevole che la democrazia, come avrebbe detto Churchill, è il peggior sistema politico dopo tutti gli altri. L’occhio strabico di Carlyle è acuto nel vedere le storture, le bassezze, le ignominie degli uomini; l’umanità— bianca o nera— è spesso maleodorante e l’odorato del reazionario è spesso fine nel percepire i fetori. Ma l’odore di letame di cui si compiace gli impedisce di avvertire altri aromi, che pure esistono e che il vento della vita gli porta dal mare o dai boschi. Quando Carlyle descrive il negro bramoso solo di mangiare zucche, coglie il generale abbrutimento cui la schiavitù, come ogni altra oppressione e violenza, induce spesso le proprie vittime. Ma Carlyle non riesce a capire che la vita è in movimento e in divenire, che le cose possono cambiare e cambiano; non potrebbe mai immaginare che un secolo più tardi quelle isole caraibiche avrebbero avuto scrittori non meno grandi di lui — come Walcott o Glissant e — ciò che conta ancora di più— una borghesia nera francese intraprendente e civile, ad esempio nella Martinica o nella Guadalupa e più in generale in Francia. Siamo tutti conservatori, riluttanti a credere che le cose possano cambiare e inclini a vivere il presente come se fosse l’eterno; se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Carlyle si appella, contro le utopie umanitarie, alla storia, alle tradizioni, agli usi e costumi secolari, ma vede soltanto la storia passata e non comprende che essa è vita ossia divenire, che egli non vuol vedere perché ama, scrive, la permanenza. Mill ragiona più storicamente e più poeticamente di lui, quando gli fa osservare che, se un albero cresce storto, ciò può derivare dall’aridità del terreno in cui è cresciuto e che, irrigando quel terreno, si possono far crescere alberi diritti. Il reazionario o meglio anarchico-reazionario si dà sempre il tono di colui che la sa più lunga, che non si lascia incantare dai vuoti e nobili ideali, che non la beve, come gli «apoti» celebrati da Prezzolini. Il suo disincanto è spesso lucido, ma scade facilmente nella posa banale dello scettico blu e può finire per essere di una patetica e credulona ingenuità. Ogni eguaglianza inorridisce Carlyle, che aborre ad esempio la parificazione delle tasse sullo zucchero. Il vangelo supremo, il dovere per eccellenza, diviene per lui il lavoro, un lavoro faustiano, cupo, sferzante, che corrisponde alla legge della sofferenza che regola il mondo e forse aiuta a stordire quella sofferenza; molti anni dopo, in una stupenda poesia, Kipling esalterà la fatica fisica quale droga che attutisce la pena di vivere. Mill non sottovaluta certo il lavoro, senza il quale non potrebbe esistere quel libero mercato a lui caro, ma afferma che esistono valori più alti e che non è il lavoro in sé, quanto la sua finalità a dare un senso alla vita. Contro ogni mitica differenza originaria, Mill esalta l’eguaglianza di dignità, diritti e — ove possibile — condizione di partenza degli uomini, che permette loro di sviluppare liberamente le loro diversità. Con forte pathos poetico, Carlyle ricorda i grandi marinai inglesi che riposano nel mare della Giamaica, come il coraggioso colonnello Fortescue o il valoroso colonnello Sedgwick. Ma Mill è ancor più poeta di lui, quando gli ricorda gli innumerevoli africani senza nome che riposano anch’essi sul fondo di quel mare; è più poeta, perché sa immaginare concretamente uomini che non ha mai visto e di cui ignora il nome, li sente reali, veri. Chi ama o almeno rispetta gli uomini può essere altrettanto— o forse talora ancor più — realista di chi li disprezza.
Corriere della Sera 8.5.11
Mussolini nella trappola dell’Asse
Diceva a Claretta: «I tedeschi sono bestie e gli italiani vigliacchi»
di Antonio Carioti
L’allievo (Adolf Hitler) aveva di gran lunga superato il maestro (Benito Mussolini). I fatti lo dimostravano ogni giorno di più. E il maestro ne soffriva terribilmente. Lo racconta per filo e per segno il secondo volume dei diari di Claretta Petacci, intitolato Verso il disastro e curato da Mimmo Franzinelli (Rizzoli), che copre il biennio 1939-40. Un periodo decisivo, in cui il mondo precipita nel conflitto mondiale, scoppiato a settembre del 1939, e l’Italia rimane neutrale fino al 10 giugno 1940, quando si schiera al fianco del Terzo Reich. La fase più interessante da seguire è appunto quella tra l’inizio della guerra e l’intervento, circa nove mesi, che il Duce, a quanto risulta dalle febbrili annotazioni della sua amante, trascorre in uno stato d’angoscia, tra oscillazioni continue, assistendo all’incendio che il suo alleato tedesco ha appiccato in Europa. Claretta registra, con meticolosità da grafomane (nel volume si trovano solo i passi più significativi della sua produzione fluviale), i mutamenti d’opinione di un Benito molto incerto sul da farsi. Quando si aggrava la crisi di Danzica, Mussolini giunge alla conclusione che i britannici si tireranno indietro: «I tedeschi— esclama il 21 agosto 1939— sono fortunati, si trovano sempre di fronte dei cretini o dei vili o degli esaltati» . Ma sbaglia. Londra e Parigi vanno fino in fondo. A guerra scoppiata, il 10 settembre, il capo del fascismo osserva invece che «Hitler poteva aspettare» e, nonostante il Patto d’acciaio con la Germania, si colloca in una posizione duramente ostile ai tedeschi quanto ai britannici: «Si strozzassero, almeno: vorrei che si distruggessero, si dilaniassero e poi, quando si fossero bene bene bastonati fino a essere esausti, arriverei io a dare la pugnalata alla schiena all’uno e all’altro» . Al momento, pare soddisfatto della non belligeranza italiana: «Noi siamo a posto e saremo neutrali fintantoché sarà possibile» , dice all’amante. — in realtà Mussolini si rende conto che la neutralità è una posizione debole e incoerente per chi, come lui, ha tanto a lungo invocato la prova delle armi. E certo lo colpisce la rapida liquidazione della Polonia da parte dei nazisti. Confida a Claretta il 16 ottobre 1939 che «a lungo andare la situazione del neutrale diviene insostenibile» , per concludere che «a un certo momento si dovrà intervenire, perché poi il destino picchia alla finestra» . Il cruccio del Duce è il suo stesso popolo, ben lieto di rimanere fuori della mischia. Per questo lo accusa a più riprese di viltà: «Il giorno che io sarò morto — prevede il 12 novembre 1939— gli italiani si faranno un sorriso di gioia; forse di gioia no, ma di soddisfazione sì. (...) Respireranno e si faranno portare via l'Impero, sì: non lo sapranno difendere. Non hanno l’orgoglio di ciò che è stato fatto, non sentono la grandezza di ciò: nulla!» . Ancora più rabbiosa la sua invettiva dell’ 11 aprile 1940: «Odio questa marmaglia di italiani! Mentre lassù si fracassano, qui si vive di timore e di serenità! Questa serenità dagli italiani tanto decantata comincia a farmi schifo... Ho potuto misurare la temperatura di questo popolo da otto mesi, ne ho contato i battiti e devo dire che fanno schifo. Sono vigliacchi e deboli, hanno paura: questi porci borghesi che tremano per la loro pancia e il loro letto! Vedo con avvilimento e delusione che non ce l’ho fatta a trasformare questo popolo in gente di mordente e di coraggio!» . Intanto la guerra va avanti. Finché il fronte occidentale rimane immobile, Mussolini si mostra molto critico verso l’alleato tedesco: «Hitler ha sbagliato, ha commesso dei gravi errori: o arriva a Parigi, o va in esilio» , sostiene il 20 ottobre 1939. Anzi un mese e mezzo dopo, il 6 dicembre, si scaglia contro i crimini perpetrati dai nazisti in Polonia: «Sapessi — esclama — quello che fanno i tedeschi! Le atrocità che commettono, le crudeltà di cui sono complici, è un orrore: bestie, bestie!! Si rivelano quel che sono» . Nel maggio 1940 l’esercito tedesco lancia però l’offensiva destinata a travolgere la Francia. E le confidenze del Duce a Claretta cambiano registro: «Approvo in pieno la condotta della Germania! Quando un popolo di 85 milioni di anime viene strangolato e affamato, ha il diritto e il dovere di difendersi e con tutta la violenza necessaria» , afferma il 14 maggio. Segue fatalmente l’entrata in guerra, che Mussolini preannuncia all’amante il 2 giugno 1940: «Non illudiamoci: il momento è giunto; tutto dipende da me. La responsabilità è mia. Una strage, lo so, ma è questo il destino delle nazioni che pretendono di essere potenze» . Claretta raccoglie ogni suo sfogo: le rampogne private, i timori esistenziali, le lamentazioni e le coccole. È un Mussolini senza filtri, indubbiamente esasperato, quello che emerge da queste pagine. Ma suona autentico. Umano nelle lamentele come nel narcisismo, nell’amore come nell'ira, nella paura della vecchiaia e della morte. Soprattutto appare intrappolato nel meccanismo dell’Asse con il Terzo Reich, che lui stesso ha messo in moto e al quale non è più in grado di sottrarsi. Ammira Hitler, ne diffida e lo teme. Sentimenti ambigui che lo portano alla rovina.
Albert Sabin
Corriere della Sera Salute 8.5.11
Letteratura Un racconto che fa percepire l’importanza di un progresso in medicina
Poliomielite: come sarebbe il mondo senza il vaccino
di Elena Mieli
«La medicina del ventesimo secolo ha fatto progressi fenomenali, ma un po’ troppo lenti per noi. Al giorno d’oggi per i bambini l’estate è meravigliosamente priva di preoccupazioni, com’è giusto che sia» . Parole pronunciate nel 1971 da Arnold Mesnikoff, la voce narrante di "Nemesi", l’ultimo romanzo di Philip Roth. Romanzo che, oltre a Bucky Cantor, il vigoroso animatore di un campo giochi della "Newark equatoriale"dell’estate del 1944, ha per protagonista la poliomielite. Arnold e Bucky erano stati entrambi vittime di un’epidemia estiva di polio, undici anni prima che il vaccino liberasse tutti dalla cappa di terrore che attanagliava all’arrivo dell’estate, quando il caldo e l’umido favorivano l’espandersi della "pestilenza". Un nemico invisibile, contro cui nel 1944 c’era ben poco da fare. Scrive Roth che «nessuno conosceva la fonte del contagio, era lecito sospettare pressoché di tutto» . Gatti e cani randagi, piccioni, zanzare, l’acqua delle fontane: ovunque poteva nascondersi il germe che rubava la vita soprattutto a bambini e ragazzi, uccidendoli o lasciandoli menomati per il resto della vita. Nessuna medicina che potesse curare, nessun vaccino per difendersi. «Una terribile malattia cala dal cielo e da un giorno all’altro una persona muore. Un bambino, addirittura!» , dice a Bucky il padre del primo ragazzino del campo giochi colpito dalla polio e morto in appena settantadue ore. Parole in cui c’è tutto il senso dell’impotenza di fronte a un nemico di cui non si sapeva nulla, se non che era terribile: un’ombra perenne sul destino di generazioni di ragazzi. Pietro Crovari, docente di igiene dell’Università di Genova ed esperto di polio, è nato all’inizio degli anni ’ 30 e ricorda bene la paura di allora: «Prima che arrivasse il vaccino la polio era una sorta di castigo di Dio: i casi arrivavano inaspettati, in un paesino di poche anime si poteva concentrare un numero elevato di malati senza che nessuno sapesse spiegarsi il perché. Chi aveva bambini sotto i cinque anni di età, i più esposti al contagio, tremava. Perché non si sapeva come prevenirla e anche se nella sua forma più devastante faceva relativamente poche vittime, le conseguenze erano pesantissime» . Arti paralizzati, sedia a rotelle, per alcuni il polmone d’acciaio. All’inizio degli anni ’ 50 negli Stati Uniti ogni anno si contavano oltre 20 mila vittime di poliomielite, negli anni ’ 60 i casi erano scesi a 3000. Perché nel frattempo (un po’ troppo tardi per chi giocava a Newark nel 1944, come osserva amaramente Roth) era arrivato il vaccino contro il virus della polio. «Una delle conquiste fondamentali dell’umanità, il vaccino che ha segnato l’era dei programmi di vaccinazione universale» dice Crovari. Il vaccino fu disponibile dal 1955 grazie a Jonas Salk, un medico che dopo la guerra si buttò a capofitto nello studio del virus della polio. Salk pensava che la strada migliore per arrivare a un vaccino efficace e sicuro fosse iniettare il virus dopo averlo ucciso con la formaldeide: fece esperimenti su migliaia di scimmie, poi all’inizio degli anni ’ 50 usò come cavie umane i primi bambini che trovò a disposizione, i suoi figli. I test sull’uomo proseguirono nel 1954 con una delle sperimentazioni di massa più grandi della storia: quasi due milioni di bambini vaccinati in 44 Stati americani. Il 12 aprile 1955, dieci anni esatti dopo la morte del presidente Roosevelt, una delle vittime più illustri della polio, l’annuncio: il vaccino avrebbe debellato la poliomielite. Una liberazione. Di lì a poco partirono i programmi di vaccinazione: in Italia il vaccino arrivò nel 1957, in un periodo in cui la polio era arrivata a fare oltre 8000 vittime. Nel frattempo, la gloria e gli onori di Salk avevano avuto una battuta d’arresto perché per errore uno dei laboratori di produzione aveva messo in circolazione una partita di vaccino con virus vivo, che provocò decine di casi di polio. V enne così alla ribalta Albert Sabin, virologo di origine polacca, che aveva messo a punto un vaccino con virus vivo attenuato: efficace, non aveva bisogno di dosi di richiamo come il Salk e si poteva prendere per bocca assieme a uno zuccherino anziché tramite un’iniezione. Da allora Salk e Sabin ingaggiarono una sorta di guerra scientifica a distanza, rivendicando ciascuno la paternità della "vera"vaccinazione. Resta però il fatto che la vaccinazione ha liberato (quasi tutto) il mondo dalla poliomielite: in Italia l’ultimo caso risale al 1982 e il 21 giugno 2002 l’Europa è stata dichiarata libera dalla malattia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tutto grazie a due buoni vaccini che si sono avvicendati negli anni: in Italia dagli anni ’ 60 in poi si è usato il Sabin; nel 1999 iniziò la somministrazione "mista"con due dosi di Salk e due richiami di Sabin; dal 2002 si usa solo il Salk. «Con il virus attenuato del Sabin una persona su 750 mila vaccinati può contrarre la polio: in tempi in cui la probabilità di contagio è pari a zero non possiamo permetterci neppure un singolo caso, per questo si è passati al Salk che non "mette in giro"virus vivi di alcun tipo» spiega Crovari. Il successo a tutto campo contro la polio nasconde però un rischio: dimenticare com’era il mondo prima del vaccino. «È il pericolo che si corre sempre con i vaccini, quando sono efficaci: nessuno si ricorda quanto fossero terribili le malattie che prevengono, così tanti sono demotivati a vaccinarsi — dice Crovari —. Invece sappiamo che il calo dell’attenzione nei confronti delle vaccinazioni è molto pericoloso perché malattie di fatto scomparse potrebbero riaffacciarsi» . Per capire che cosa significherebbe, basta leggere il libro di Roth. Dopo, sarà difficile dire che il vaccino anti-polio non sia stato provvidenziale.
Corriere della Sera Salute 8.5.11
Nigeria, India, Pakistan e Afghanistan: dove la malattia colpisce ancora
Meglio non "distrarsi". La poliomielite non è del tutto sparita dal mondo: nei Paesi industrializzati gli ultimi casi risalgono a oltre vent’anni fa, ma in altre parti del globo è tutta un’altra storia e il virus circola, facendo ancora vittime. Certo si parla di decine e non di migliaia di casi, ma ce n’è abbastanza per non considerarsi del tutto fuori pericolo. Agli inizi del millennio si giudicava possibile l’eradicazione completa della polio per il 2005, poi l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva ipotizzato il 2010 come data ragionevole per dichiarare vinta la battaglia a livello planetario: dopo la scomparsa del virus del vaiolo, ufficializzata dall’OMS nel 1980, pareva lecito sperare. Invece, le cronache sanitarie ci dicono che per la polio non è così: in Nigeria, India, Pakistan e Afghanistan continua a mietere vittime, per quanto sempre più raramente. «In questi Paesi l’infezione è tuttora endemica e si trasmette da uomo a uomo— conferma Pietro Crovari, docente di igiene all’Università di Genova—. I programmi di vaccinazione con il Sabin, da usare ovunque sia ancora in giro il virus "selvaggio", non sono ancora riusciti ad azzerare i casi: dal 2010 ne sono stati registrati circa 120 in totale» . Il problema sorge quando una persona infettata si sposta da quei Paesi portando con sé il virus. «Se un portatore arriva in Italia o in un altro Paese dove ci sia un programma di vaccinazione universale dei nuovi nati, non ci sono rischi per la comunità— rassicura l’esperto —. Ma se si reca in uno dei tanti Paesi in via di sviluppo, dove i programmi di vaccinazione sono carenti e le condizioni igienico-ambientali precarie favoriscono la sopravvivenza del virus, può scoppiare un focolaio» . È successo nel maggio 2010 in Tagikistan, un Paese dove la copertura vaccinale si aggirava attorno all’ 87%: da un caso "importato"dall’estero il contagio si è esteso provocando alcune vittime. «Questo dimostra quanto sia fondamentale un programma vaccinale adeguato, con una copertura il più possibile estesa e senza cedimenti» dice Crovari. Difficile prevedere quando la polio sarà eradicata. Di certo le forze in campo non mancano: Oms, Unicef, Rotary International hanno programmi per vaccinare a tappeto le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, sostenuti da filantropi come Bill Gates, che ha donato oltre 600 milioni di dollari. Ma la strada, pare, è ancora lunga.
l’Unità 8.5.11
Romantici? Macché: la dura vita degli hobos
Nels Anderson nel 1923 dedicò ai senzatetto di Chicago un’indagine molto scupolosa: disadattati ed emarginati, non erano di certo dei giovanotti in cerca d’avventura... Ora grazie a Donzelli «Il vagabondo» torna in libreria
di Sara Antonelli
Quegli uomini amati e odiati
«Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora» di Nels Anderson (trad. di Caterina Dominijanni, pagine 246, euro 18,00, Donzelli).
Nels Anderson (1889-1986), uno degli esponenti di rilievo della Scuola sociologica di Chicago, dopo una breve permanenza all’università, ha affrontato un lungo periodo di mobilità. Ha collaborato con le municipalità di New York e Washington, ha lavorato, dopo la guerra, con la Commissione per la Germania. Nel 1965 è diventato professore all’Università di New Brunswick. Lui stesso è stato un hobo. «Il vagando» è stato il suo primo libro. La vita di quegli uomini sarà il tema che ritornerà periodicamente nella sua vicenda di sociologo.
Torna in libreria Il vagabondo, il testo che nel 1923 inaugurò la collana di sociologia urbana diretta da Robert E. Park ed Ernest Burgess, due professori dell’Università di Chicago cui dobbiamo la formazione di ricercatori brillanti e desiderosi di raccontare per primi la vita in una grande metropoli dell’Occidente. Chicago, la città che dopo l’incendio del 1871 da 10.000 abitanti era passata ad averne oltre due milioni nel
1910, era il luogo ideale in cui trovarsi: bastava lasciare le aule dell’istituzione accademica ed ecco spalancarsi un campo di studio sterminato e fecondo che pareva non aspettasse altro.
Che posto era diventato – si chiedevano gli scienziati della Scuola sociologica di Chicago quest’agglomerato incontrollabile di case, uffici, fabbriche, negozi e persone, gran parte delle quali nere, giunte a cercare lavoro dagli stati del Sud dopo la fine della Guerra civile e il fallimento delle politiche di ricostruzione democratica? Che posto era diventato questa meta di migranti, immigrati e senza casa? Al South Side, il ghetto nero della città, St. Clair Drake e Horace R. Cayton avrebbero dedicato, nel 1945, Black Metropolis. A Study of Negro Life in a Northern City, il volume che, impreziosito da una introduzione di Richard Wright, insieme al precedente e meno noto The Philadelphia Negro (1899) di W.E.B. DuBois dimostrava l’esistenza di un’invisibile e ciò nonostante ferrea linea del colore, che escludeva i neri da vita, lavoro, scuola e servizi tra i più elementari. Sarebbe rimasto, quello descritto da Drake e Cayton, lo spaventoso South Side in cui Martin Luther King si sarebbe polemicamente trasferito con la famiglia venti anni dopo, nel 1966, per dimostrare che nonostante il trionfalismo che aveva circondato la firma del Civil Right Act (1964) la segregazione resisteva ed era feroce e scioccante al Sud come al Nord.
Ai senzatetto e ai vagabondi che arrivavano in città sia per caso – Chicago era ed è un importante snodo ferroviario nazionale – sia, soprattutto, per cercare un tetto e un lavoro aveva, invece, pensato, già nel 1923, Anderson con il suo Il vagabondo. Perché gli hobos – questo il termine impiegato da Anderson fin nel titolo di Madison Street, l’arteria lungo la quale il giovane sociologo si immerse per fare ricerca sul campo, sono connaturati alla moderna Chicago tanto quanto gli eleganti palazzi disegnati dell’architetto Louis Sullivan o la mafia di Al Capone.
Agli hobos, che nei periodi di disoccupazione raggiungevano la cifra impressionante di 75.000 presenze, e al loro stile di vita Anderson dedicò quindi un’indagine scrupolosa, trascritta con una prosa chiara e piacevole che spinge a proseguire con la lettura come fossimo davanti a un racconto. Niente a che vedere con il sensazionalismo romanzesco de I misteri di Parigi (1842-3) di Eugène Sue o con altri racconti di bassifondi malfamati: no, quella di Anderson è la prosa di uno scienziato che scelto un fenomeno, lo studia, poi lo mette davanti ai nostri occhi e lo analizza, lo spiega. Una modalità accademica, chi lo nega, ma di certo non paludata e in ogni caso capace di suscitare interesse e provocare sorprese anche nei non specialisti. Come quando, arrivati al secondo capitolo («Tipologia dei vagabondi») e ci accorgiamo che il wanderlust, ovvero il romantico giramondo a cui tutti noi pensiamo al solo sentire la parola hobo non era che una variante, per altro minoritaria, di una categoria più vasta e complessa che comprendeva innanzi tutto disadattati ed emarginati di vario ordine e grado, e in cui lo stato mentale e psicologico, la solitudine, l’abbandono, la razza, il censo, la nazionalità o la mera sfortuna giocavano un ruolo determinante.
L’esistenza degli hobos studiati da Andreson, in breve, ha poco a che vedere con lo stile di vita agognato da giovanotti desiderosi di avventure e sesso facile che Jack Kerouac avrebbe celebrato in Sulla strada (1957).
La loro vita, apprendiamo, era faticosa e dura, senza affetti e poco sesso in genere era triste o violento o a pagamento (cioè come in Kerouac). Se proprio volessimo trovarle un corrispettivo narrativo, dovremmo rivolgerci al racconto del lavoratore stagionale che marcia verso la propria rovina in Il postino suona sempre due volte (1934) di James M. Cain o, ancora più avanti, nei romanzi di John Steinbeck dedicati alle famiglie diventate masse migranti con la Depressione. In quelle pagine, insomma, in cui il vagabondaggio raramente coincide con un liberatorio godimento della strada e dell’avventura.
Osservata da Anderson, dunque, la vita degli hobos di Chicago non è troppo romantica e neppure avventurosa, almeno non nel senso tradizionale del termine. Va da sé, infatti, che il caso, e quindi la capacità di adattamento a qualunque situazione il destino presentasse loro davanti, avevano un ruolo importante nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il quarto capitolo di Il vagabondo è dedicato esattamente a tale aspetto: al modo in cui quegli stessi uomini che avevano rifiutato la società o che da essa sono stati rifiutati, resistevano alle avversità ricostruendosi istituzioni a misura di senzatetto.
È in queste pagine finali che troviamo la descrizione della «vita intellettuale dello hobo» o del ruolo determinante che molti di loro occupavano in organizzazioni sociali e politiche, nelle missioni o nelle scuole, così da assistere al meglio i loro amici in difficoltà. Ed è pure in queste pagine finali che ci chiediamo perché nello studio di Anderson ci siano solo hobos maschi e non anche hobos donne. Forse negli Usa o nella Chicago di allora non c’erano le vagabonde, le disadattate, quelle che alla routine del lavoro e del lavoro casalingo proprio non ci volevano stare? Certo che sì; e basta sentire un blues a caso (Travelin’ Blues) di Ma’ Rainey, come pure basta leggere il capitolo «Here Comes My Train», in Blues Legacies and Black Feminism, di Angela Y. Davis, 1998, per convincersene; basta scorrere un po’ di storia del movimento operaio statunitense, per esempio quella raccontata da Laura Hapke in Sweatshop. The History of an American Idea, 2004, o leggere Imitation of Life (1933) di Fanny Hurst o I loro occhi guardavano il cielo (1937) di Zora Neal Hurston per ricordarcelo.
E dunque, sì, le hobos esistevano, ma, a differenza degli hobos maschi, le vagabonde di allora ci sembra siano protette da una cortina di promiscuità pseudo-romantica: per le donne fuori norma, insomma, non il convento, bensì il bordello.
il Fatto 8.5.11
Rimproveri francesi
L’Italia che mette in cantina i tesori artistici
La Venere di Morgantina era una vera star al Museo Getty di Malibù. Scrive Le Monde: ora che è tornata a casa probabilmente è destinata all’anonimato
di Philippe Ridet
L’Atleta di Fano, noto anche come Lisippo di Fano, una scultura del IV° secolo a.C., attribuita allo scultore greco Lisippo si trova tuttora in California. Questo capolavoro, rinvenuto il 14 agosto 1964 nel mare Adriatico al largo di Fano dal peschereccio italiano “Ferruccio Ferri”, e’ oggetto di una battaglia giudiziaria tra l’Italia, che ne chiede la restituzione, e il Museo Getty di Malibù, non lontano da Los Angeles. L’Atleta di Fano in Italia non ebbe troppa fortuna. Dopo il ritrovamento fu nascosto nella cantina della proprietaria del motopeschereccio e successivamente sotterrato in un campo. Negli anni seguenti la statua fu acquistata per appena 3.500.000 lire da un antiquario di Gubbio e rivenduta a un antiquario milanese. Nel 1971 l’Atleta di Fano venne comprato da Heinz Herzer, commerciante di Monaco di Baviera grazie al quale il capolavoro venne datato e attribuito per la prima volta a Lisippo . Nel 1977 infine la statua venne acquistata dal Museo Getty per circa 4 milioni di dollari. In occasione di un viaggio negli Stati Uniti, Gian Mario Spacca, presidente della Regione Marche nella quale si trova Fano, propose al Museo Getty un “accordo culturale”: in cambio della restituzione dell’Atleta, la Regione Marche avrebbe regalato al museo alcuni pezzi pregiati del suo patrimonio ricchissimo di opere del Rinascimento. Il museo di Malibù declinò l’offerta preferendo attendere la sentenza definitiva della magistratura. Nel 2005, l’ex conservatrice del museo Getty, Marion True, è stata rinviata a giudizio da un tribunale italiano per associazione a delinquere e ricettazione di opere d’arte e, in particolare, per aver acquistato l’Atleta di Fano sapendo che era di provenienza illecita e che era in effetti di proprietà dello Stato italiano. Il Museo Getty si è sempre difeso sostenendo che non era possibile stabilire con certezza se la statua era stata ripescata in acque territoriali italiane o in acque internazionali.
LEGGERMENTE diverso il destino della Venere di Morgantina. Questa scultura è rientrata in Italia a bordo di un volo Alitalia diretto Los Angeles-Roma. Dal 17 marzo di quest’anno i 600 chili di calcare e marmo di questa statua greca del V secolo a.C. si trovano nel museo archeologico del paesino di Aidone, in Sicilia. E’ la fine di una odissea durata 30 anni. La statua, scoperta a Morgantina, provincia di Enna, nel 1978, fu venduta dal ricettatore ticinese Renzo Canavesi (condannato a due anni di reclusione) ad una società londinese che l’avrebbe rivenduta nel 1986 al Museo Getty per appena 18 milioni di euro.
Simbolo della riconquista del patrimonio illegalmente sottratto all’Italia, la Venere di Morgantina, attribuita a un diretto discepolo di Fidia, è una delle 42 opere che il Museo Getty si è impegnato a restituire. Il Getty ha ceduto alle pressioni politiche e alle sentenze dei tribunali che hanno riaffermato il principio secondo cui tutte le antichità rinvenute nel sottosuolo o nelle acque territoriali italiane appartengono allo Stato.
Di fatto per la Venere di Morgantina, vera star a Malibù, il ritorno in Italia è con ogni probabilità un ritorno all’anonimato. Potrà continuare a essere una star nel piccolo museo di Aidone in Sicilia? C’è da dubitarne. Gianfranco Galan, neo ministro dei Beni culturali, ha immediatamente raffreddato gli entusiasmi e la felicità del sindaco e degli abitanti di Aidone che l’11 maggio prossimo con una cerimonia ufficiale mostreranno la statua al pubblico. “Mi domando” – ha detto il ministro – “se è sensato esporre la Venere in un piccolo museo di provincia difficilmente raggiungibile”. E sono in molti a pensare che la medesima sorte toccherebbe all’Atleta di Fano se venisse riconsegnato all’Italia. Il ministro ha avanzato anche perplessità in ordine ai Bronzi di Riace (due statue greche del V secolo a.C. ripescate in mare nel 1972) esposti nel museo di Reggio Calabria per la sola ragione “di essere stati ritrovati al largo di quella città”. Il fatto è che questi capolavori ritornano nel quasi totale anonimato soprattutto quando i musei sono fuori del circuito turistico e non si trovano in città d’arte abituali mete di visitatori di tutto il mondo.
LA CONCORRENZA è spietata in un Paese nel quale ogni giorno si trovano antichità nel sottosuolo o in mare e che, stando a quanto dicono gli esperti, potrebbe rivendicare la restituzione di 100.000 opere d’arte sparse in tutto il mondo. Il Colosseo e il Foro Romano hanno attirato nel 2010 oltre 5 milioni di visitatori rispetto ai 65.000 del museo di Reggio Calabria. “I comuni vogliono esporre le opere d’arte per ragioni di orgoglio locale e per attirare il turismo”, spiega un funzionario del ministero dei Beni culturali. “Ma non investono nemmeno un centesimo per promuovere il turismo d’arte”. Per l’esperto e mercante d’arte romano Peter Glidewell “è una questione filosofica: le opere d’arte debbono essere di chi è in grado di conservarle e studiarle. Come dicevano i comunisti: la terra è di chi la coltiva”.
(c) 2011 Le Monde, distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Il Sole 24 Ore Domenica 8.5.11
Eric Hobsbawm
Marxista con mostrina affettiva
di Andrea Romano
Normalmente i conti finali si fanno con gli amori di una vita. E sul la strada del congedo da una vita intellettuale straordinariamente lunga e feconda, a 93 anni Eric Hobsbawm ha scelto di fare i conti con la sua passione più forte. O almeno quella alla quale è stato fedele sin dall'adolescenza, trascorsa negli anni Trenta tra Vienna e Berlino. Il suo How to Change the World, uscito in Gran Bretagna da poche settimane per Little Brown, è tutt'altro da un manuale sui modi per cambiare il mondo. Come spiega meglio il sottotitolo (Tales of Marx and marxism), quelle di Hobsbawm suno «favole di Marx e marxismo». E dunque itinerari narrativi e sentimentali informa di saggio. Dal rigore impeccabile come ci si aspetta da uno storico di grande mestiere. Eppure tra una riflessione sui Grundrisse e una sulla ricezione di Marx alla fine dell'Ottocento, quella che riconosciamo è soprattutto la professione di fede e sentimento di un intellettuale globale che ha sempre esibito la sua fedeltà al marxismo come si esibisce un'ostinazione.
«Non sono arrivato al comunismo come un giovane britannico in Inghilterra, ma come un europeo dell'Europa centrale nella Repubblica di Weimar in procinto di crollare. E appartengo tuttora alla coda della prima generazione di comunisti, quelli peri quali la Rivoluzione d'ottobre era il punto centrale di riferimento dell'universo politico». Così Hobsbawm ha spiegato nell'autobiografia Anni interessanti la sua decisione di non abbandonare mai i ranghi rossi. Che fosse ii 1956 dell'Ungheria, ii 1979 di Kabul o il 1989 di Berlino l'anno nel quale amici, colleghi o compagni di strada lasciavano il piccolo ma combattivo Partito comunista britannico, Hobsbawm sceglieva comunque di restare. Perché vi era arrivato «quando essere comunista voleva dire non solo combattere il fascismo ma battersi per la rivoluzione mondiale». Ma anche perché il suo marxismo era da tempo diventato una mostrina affettiva, paradossalmente più lucida e splendente via via che il comunismo accumulava catastrofi.
D'altra parte proprio lui, che si è sempre lasciato definire «lo storico marxista» per eccellenza, saprà bene che riconoscere una «storiografia marxista» è di fatto impossibile ormai da decenni. Da quando per gli storici è diventato senso comune il superamento di una narrazione per soli avvenimenti politici e quasi scontatala ricerca di più ampi contesti sociali ed economici. Così come lo stesso Hobsbawm è ben consapevole dei fallimenti del comunismo, che non ha nascosto neanche tra le molte pagine filosovietiche del suo più grande bestseller: quei Secolo breve che voleva essere una storia del Novecento e di cui anche solo fermandosi all'indice si coglieva la stranezza di tre capitoli dedicati all'Unione Sovietica e neanche uno sugli Stati Uniti. Persino da quel volume, scritto all'indomani dell'Ottantanove, il comunismo usciva tanto riverito quanto impoverito. Perché il saldo storico della sua storia quasi secolare, la cui fine veniva fatta coincidere con la conclusione del XX secolo, era nel paradosso di aver tenuto in piedi il capitalismo. «È un'ironia della storia di questo strano secolo che il risultato più duraturo della Rivoluzione d'Ottobre, il cui obiettivo era il rovesciamento del capitalismo su scala planetaria, sia stato quello di salvare i propri nemici sia nella guerra, con la vittoria militare sulle armate hitleriane, sia nella pace procurando al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale l'incentivo e la paura che lo portarono ad auforiformarsi».
L'esibizione di marxismo che Hobsbawm ha sempre rivendicato, fino alle pagine di questo suo ultimo libro, non è quindi dissimulazione di verità ma legame affettivo e culturale. Un vincolo sentimentale che sopravvive al fallimento del comunismo rendendosi tanto innocuo quanto autoassolutorio, perché gli permette di guardare al Novecento ritenendosi indenne dalla responsabilità di aver creduto e militato per la parte che ha fallito. Qualche anno fa Tony Judt, da collega e antagonista, sulla «New York Review of Books» ne fotografò senza pietà l'attitudine al «rifiuto di guardare in faccia il male e di chiamarlo per nome. Hobsbawm non ha mai affrontato il tema dell'eredità morale e politica dello stalinismo. E mentre si è tentati di ammirare la sua decisione di restare fedele alle convinzioni dell'adolescenza, navigando in solitudine attraverso il cuore di tenebra del Novecento, occorre prendere atto che in questo modo Hobsbawm si è di fatto provincializzato».
È forse impietoso dare del provinciale a Hobsbawm. Ma viene comunque da pensare alla sua esibizione di sentimentalismo politico come a una forma di postcomunismo all'italiana, capace di convivere serenamente con trasformazioni anche radicali dell'identità politica e di partito. D'altra parte tra gli intellettuali pubblici britannici Hobsbawm è colui che ha sempre intrattenuto le relazioni più intense con la sinistra italiana, e con il Pci in modo del tutto speciale, facendosi interprete e garante per il mondo anglosassone delle successive incarnazioni dal togliattismo al berlinguerismo e oltre.
Non è un caso che How to Change the World sia composto per una buona metà da testi già usciti in italiano, nella Storia del Marxismo pubblicata da Einaudi trail 1978 e li 1982 di cui lo stesso Hobsbawm fu tra gli ideatori e i curatori. Le pagine più interessanti sono tuttavia quelle originali, in particolare quelle dedicate alla «ritirata del marxismo dopo il 1983». Neanche qui lo storico nasconde a se stesso o al lettore la vista catastrofica del crollo dell'Urss. Perché la fine del comunismo europeo non lascia alcuno spazio di «fedeltà al marxismo come religione civica» in quei territori dell'Europa orientale dove pure aveva regnato per decenni. Così come quel crollo colpisce, secondo Hobshawm, «tanto i socialisti quanto i comunisti, perché con tutti i suoi difetti il modello sovietico aveva rappresentato l'unico tentativo di costruire una società socialista mentre la sua fine ha liberato il capitalismo da ogni ammonimento di mortalità».
Eppure anche queste pagine, dove il marxismo occidentale tra gli anni Ottanta e Novanta appare condannato alla miseria di «rappresentare poco più delle convinzioni di un gruppo sempre più esiguo di anziani sopravvissuti», si chiudono con una visione sentimentalmente ottimistica sulla possibile resurrezione delle idee della gioventù e della vita. «Alla fine il marxismo è tornato improvvisamente d'attualità scrive Hobsbawm riferendosi alla crisi finanziaria del 2008 ‑ in un mondo nel quale il futuro del capitalismo è stato minacciato non tanto dal fantasmi della rivoluzione sociale quanto dalla stessa natura delle sue incontrollabili operazioni globali». È davvero troppo semplice metterla così. Perché sulla presa d'atto della mortalità del capitalismo converrebbero in molti, marxisti e non marxisti, e da ben prima del 2008. Ma un giudizio tanto trasversale da rischiare la superficialità si può comunque accogliere con tolleranza se viene da chi, come Hobsbawm, ha percorso per intero e con le proprie gambe il Ventesimo secolo. Accompagnando un'enorme mole di lavoro storiografico con qualche credenza favolistica sull'esistenza del «buon comunismo».
HOW TO CHANGE THE WORLD
Eric I‑Iobsbawm
Little, Brown (In uscita da Rizzoli)
pagg. 480 £ 25,00