l’Unità 7.5.11
Da Napoli a Torino manifestazioni in tutte le città. Chi ha di più deve pagare di più
Il leader della Cgil «Noi siamo i veri responsabili, lottiamo e non cerchiamo poltrone»
Un grande sciopero generale Camusso: governo, basta bugie
Oltre 60mila persone sfilano in corteo a Napoli. Si alza forte la richiesta di lavoro, diritti, una politica nuova. L’incontro del segretario Cgil con il cardinale Sepe, mentre Napolitano rende omaggio a Andrea Geremicca.
di Massimiliano Amato
Eccolo qua, il Paese che non si arrende “al governo delle bugie che ha saputo solo costruire divisioni”. Baciato dal sole di Napoli, capitale per un giorno, riprende in mano il proprio destino reclamando un fisco più equo, un salario e condizioni di lavoro più accettabili per chi un’occupazione ancora ce l’ha, e certezze per il futuro dei tantissimi, troppi, costretti a navigare tra le nebbie di un presente eterno e precario. A poche centinaia di metri dal serpentone che invade il corso Umberto, nel cortile del Maschio Angioino, il Capo dello Stato rende l’ultimo omaggio ad Andrea Geremicca, uno di quelli che si sforzava di capire, senza mai piegare la testa. Sarebbe piaciuta molto, al compagno Geremicca, questa esplosione di colori. E tutte queste belle facce di operai, disoccupati, inoccupati, precari, pensionati, donne, giovani, migranti, lavoratori della scuola, della sanità e dei servizi socio-assistenziali, provenienti da ogni angolo della Campania che sfilano insieme a Susanna Camusso, mentre la banda intona per la centesima volta il turatiano Inno dei Lavoratori. Rappresentano l’Italia “migliore”, dice la leader Cgil dal palco di piazza Dante, “che non si merita un governo come questo”, e ha ragione. Stanno pagando il prezzo più duro al governo delle false promesse e delle illusioni, che ha retrocesso il lavoro a variabile ininfluente e tiene il Paese con la testa sott’acqua. Ma questo popolo, il popolo della Cgil, non conosce la parola rassegnazione: “I veri responsabili in questo Paese siamo noi, che oggi scioperiamo contro la bugia che la crisi sarebbe alle nostre spalle. La crisi è tra noi e travolge i più deboli: i precari, i salariati, i pensionati”. Quello che la Camusso fa rotolare dal palco davanti ad almeno 60mila persone, dopo aver parlato “di lavoro e di speranza per i giovani” con il cardinale Crescenzio Sepe durante un breve incontro in Curia, è un macigno che travolge il castello di carte costruito da Silvio B. A partire dalla questione Napoli: “Quando si è insediato promise che avrebbe fatto qui le riunioni del Consiglio dei ministri. E aggiunse che avrebbe risolto in 24 ore l’emergenza rifiuti. Ora continua a confezionare spot, scaricando tutte le responsabilità sui governi locali”. L’affondo della leader Cgil è a 360 gradi. Sui migranti: “Hanno parlato di un’invasione terribile per seminare il panico. Poi hanno preso i migranti e, qui in Campania, li hanno tenuti in stato di cattività in una caserma. E quante bugie sulla Libia e su quello che sta succedendo nel Maghreb. Un Paese civile si schiera a favore e non contro i venti di libertà che spirano sul Mediterraneo”. Sul decreto per lo sviluppo: “Ce l’hanno presentato come una frustata all’economia. Ma prendiamo le misure per il Sud: hanno reintrodotto il credito d’imposta senza metterci un centesimo. E viene da chiedersi perché l’avevano tolto, visto che c’era già. Il Piano per il Sud è stato presentato sei volte. Hanno detto che c’erano cento miliardi disponibili, poi si è scoperto che erano fondi europei».
Ha continuato: «E sappiamo che nella notte, in Commissione Bilancio, sono continuate le contrattazioni con la Lega per dirottare altrove le risorse ”. Sulla nuova normativa per gli appalti: “Le accelerazioni senza controlli consegnano il settore alle mafie”. Sui precari: “Cancellino subito tutte le forme di lavoro che determinano la precarietà, basta un’opera di delegificazione”. Ma il cuore dell’intervento della leader Cgil riguarda il fisco: “Sostengono di aver recuperato 25 miliardi di evasione. Ma il recupero ha riguardato le persone fisiche, non il sommerso, l’illegalità, il lavoro nero, la corruzione. Se vogliono intervenire sul fisco decidano oggi di alleggerire la pressione che grava sui redditi fissi e sui pensionati per un 92% del gettito complessivo, e comincino a colpire i grandi patrimoni e le rendite finanziarie”. La battaglia per un fisco più equo può essere il terreno di incontro con Cisl e Uil: “Manifestiamo insieme, iniziamo una campagna su fisco e legalità. E torniamo insieme nei luoghi di lavoro, rieleggendo le Rsu, ridando la parola ai lavoratori”. L’ultimo messaggio è per Confindustria, che oggi si riunisce a Bergamo: “E’ un appuntamento importante, gli imprenditori lo sfruttino per dire che si riparte dai diritti dei lavoratori. Per due anni hanno sbagliato politica seguendo la strada degli accordi separati: ora è tempo di bilanci. Hanno rotto l’unità sindacale per stare dietro al governo e si sono ritrovati con un pugno di mosche in mano”.
l’Unità 7.5.11
Sacconi e Brunetta si distinguono come sempre nei giudizi offensivi
Il segretario del pd «Vedo la strada per una ricomposizione»
Le piazze piene irritano il governo Bersani: ora unità
Casini assicura di non aver bisogno della Camusso per sapere che «il governo dice bugie da tre anni». Damiano denuncia l’inutilità del decreto sviluppo e Fassina chiede rispetto per i lavoratori in sciopero.
di Giuseppe Vespo
Il ministro Sacconi la butta sui numeri e fa finta di non essersi accorto di nulla: «La bassa adesione allo sciopero induca la Cgil a riflettere». La Fiat rincara: «La partecipazione media dei nostri dipendenti è al 10 per cento». Brunetta si ripete: «La protesta è per allungare il weekend».
Lavoro, industria e pubblico impiego, rispondono così alla mobilitazione generale del sindacato. Ma per l’organizzazione di Corso Italia il governo è capace di raccontare solo «bugie» e, almeno in questo, la Cgil si trova in buona compagnia: c’è Casini che dice di non aver bisogno della Camusso per affermare che «da almeno tre anni tutte le promesse sono state disattese»; c’è il Partito democratico, Sel, l’Idv, il movimento contro la privatizzazione dell’acqua, i precari, il popolo viola e chissà quanti altri delusi senza bandiera dalle promesse di Berlusconi & C.
Al di là del valzer dei numeri sulla partecipazione, e del colpo d’occhio che lasciano le piazze piene, il merito della Cgil è di riportare almeno per un giorno il lavoro al centro dell’agenda politica. È stato così anche ieri: tutti a chiedere insieme al sindacato «una svolta nelle politiche economiche». Perché, per dirla con Cesare Damiano anche l’ultimo «tentativo di Berlusconi di risollevare le sorti di una maggioranza ormai dissolta attraverso il sedicente decreto sullo Sviluppo è naufragato. Lo sciopero generale della Cgil dice Damiano è stato caratterizzato da manifestazioni partecipate, che hanno chiesto una svolta radicale nella politica del governo. Un Paese senza risorse per la crescita, senza un’adeguata tutela del reddito da lavoro e da pensione e dello Stato sociale è senza futuro».
«La manifestazione aggiunge il senatore Achille Passonidimostra che il Paese non è anestetizzato dalla propaganda del governo, e il 18 giugno la mobilitazione di Cisl e Uil sarà un’altra occasione per mettere il governo di fronte al suo fallimento». Il riferimento è all’iniziativa sul fisco indetta dagli altri due sindacati, che sulla redistribuzione della pressione fiscale trovano uno dei pochi punti di accordo con la Cgil. E sull’unità perduta dei sindacati interviene il leader del Pd Bersani: «Sul tema del lavoro dice c’è bisogno di unità. Mi azzardo a fare un pronostico: vedo una strada di ricomposizione».
Nichi Vendola ribadisce: «Lo sciopero ha riportato all’attenzione il lavoro. E come reagisce questa classe dirigente del centrodestra che paralizza il Parlamento da mesi? Con i ministri che irridono ad un fatto democratico». Stefano Fassina rincara: «I lavoratori meritano rispetto, quel rispetto che i ministri Sacconi e Brunetta hanno ancora una volta mancato di avere». E Di Pietro conclude: «Hanno ragione a scioperare, perché da anni sono stati lasciati soli
a reggere il peso della crisi, mentre il governo che aveva il dovere di aiutarli era troppo occupato a salvare il presidente del Consiglio dai processi».
il Fatto 7.5.11
La Cgil esulta: lo sciopero è riuscito
Piazze piene in tutta Italia anche se il governo parla di un flop
di Salvatore Cannavò
Che lo sciopero della Cgil sia riuscito, paradossalmente, lo conferma un acerrimo nemico del sindacato stesso, Renato Brunetta. I dati diffusi dal suo ministero, infatti, parlano di una crescita significativa dell'adesione nel pubblico impiego: 13,28 per cento contro il 3,96 del 25 giugno scorso e il 10,55 per cento del 12 marzo 2010.
LA CGIL per l'occasione ha costruito un campione rappresentativo dal punto di vista statistico, predisposto da una società specializzata, basato su 900 aziende, reti, uffici, servizi pubblici e commerciali. Secondo questo "exit poll" il dato medio di adesione dei lavoratori allo sciopero generale è il 58 per cento. Una percentuale notevole, che però è molto distante non solo da quella ufficiale del Pubblico impiego ma anche dal 16 per cento stimato da Federmeccanica per il comparto metalmeccanico. A sua volta, troppo bassa perché costretta a tenere conto della miriade di imprese con pochissimi dipendenti dove probabilmente non si è mai fatto uno sciopero. E infatti la Fiom parla di un'adesione media del 50 per cento con punte del 90 e 100 per cento in alcune realtà.
Però, come al solito, al di là di cifre parziali o arbitrarie, quello che conta di più è la percezione visiva e politica offerta dalle manifestazioni e l'analisi di alcuni casi emblematici.
NON C'È DUBBIO che i cortei siano riusciti. A Torino si sono contate almeno 35 mila persone, a Roma, 20mila. Grande affluenza in Liguria e in Emilia Romagna con un corteo di 30 mila persone a Bologna. Bene anche ad Ancona, Terni, Parma, Padova, Taranto e Bari. Nelle piazze, ampia la presenza di lavoratori e lavoratrici, di precari – in molte città hanno aperto il corteo – di studenti – che a Roma hanno occupato i binari della stazione Termini – di comitati referendari per l'acqua pubblica o contro il nucleare. Insomma, una voglia di esserci forse superiore alle reali intenzioni del vertice Cgil. E poi ci sono le notizie che vengono dalle fabbriche. Fermi al 100 per cento i cantieri navali della Fincantieri di Venezia, Gorizia e Ancona, la Magneti Marelli di Bologna, la Sirti di Bari. Grande adesione alla Whirlpool di Varese e Trento, alla Iveco di Treviso, l'Ilva di Alessandria, la Maserati di Modena mentre alla Ferrari si è scioperato al 50 per cento. Grande adesione nel gruppo della presidente di Confindustria, Marcegaglia, con punte dell'80 e 90 per cento e con l'azienda che conferma un'adesione media del 45 per cento. In Fiat, si è avuto il 70 per cento alla Powertrain di Mirafiori e il 50 per cento alla Iveco di Torino. L'azienda parla di un'adesione media nazionale del 10 per cento ma va considerato che in molte fabbriche vige la cassa integrazione. Soddisfatto il sindacato per l'adesione ricevuta alla Rai dove un lavoratore su quattro (25 per cento) ha aderito allo sciopero.
I DATI SONO quasi tutti contestati dal governo, dalle imprese e da Cisl e Uil. Il sindacato di Raffaele Bonanni parla di "sciopero debole" tutto "politico" che non risolve alcun problema. Il governo, con il ministro Maurizio Sacconi, invita la Cgil “a riflettere sui motivi della bassa adesione”. In Cgil, però, non si nasconde la soddisfazione. Susanna Camusso, intervenendo a Napoli ha costruito un lungo "j'accuse" al governo: dai rifiuti all'immigrazione per arrivare al lavoro e al fisco. Poi ha raccolto il riconoscimento venuto da Maurizio Landini, segretario della Fiom, che ha parlato di "riuscita dello sciopero" chiedendo alla Cgil di "continuare questa battaglia per il lavoro" a partire dal rifiuto degli accordi separati.
La Camusso, dal canto suo, dopo l'attacco al governo ha scelto di rivolgersi ancora alla Confindustria: "Chiediamo che dall'Assise di Bergamo [di oggi, ndr ] decidano di voltare pagina e ripartire da più diritti nel lavoro". Sono due anni, ha aggiunto, che Confindustria "fa una politica sbagliata che non ha dato alcun risultato". Quindi occorre cambiare. Si attende oggi la risposta di Emma Marcegaglia.
il Riformista 7.5.11
il ruolo del sindacato
Riflettori spenti sullo sciopero
di Emanuele Macaluso
qui
http://www.scribd.com/doc/54825826
Repubblica 7.5.11
Italia ai vertici della disuguaglianza redditi alti cresciuti sei volte più dei bassi
Da noi la disparità è cresciuta più che negli altri Paesi industriali negli ultimi vent'anni
ROMA - I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri: la diseguaglianza invece di diminuire aumenta e non solo nei paesi in via di sviluppo, anche in Europa. In Italia più che altrove. Una tendenza che crea ingiustizie, blocca la crescita e frena l´ascensore sociale: quel meccanismo che fa sperare ai padri di potere dare ai figli una vita migliore.
Lo denuncia l´Ocse con una ricerca che mette a nudo le disparità nei paesi dove il benessere dovrebbe essere sempre più diffuso. Così non è: nei 34 stati che fanno parte dell´organizzazione, il 10 per cento della popolazione più ricca ha in media redditi superiore nove volte rispetto al dieci per cento della popolazione più povera. Un divario che cresce sia dove il «gap» era già evidente, come in Israele e Usa, che nei paesi dove la diseguaglianza sociale è sempre stata bassa, come la Svezia o la Germania.
In questo quadro, restando all´Europa, l´Italia è uno dei paesi che fa peggio: le fasce che stanno ai vertici della ricchezza hanno redditi sei volte superiori a quelle che stanno alla base della piramide. E negli ultimi venti anni la diseguaglianza è aumentata. Lo studio dell´Ocse la misura attraverso l´indice Gini (è zero quando tutti i redditi sono uguali, è uno dove la differenza è massima): da noi, nel 1985 era fermo allo 0,30, nel 2008 è arrivata quasi allo 0,35. Uno dei peggiori dati messi a segno dai paesi europei. In coda alla classifica ci fanno compagnia il Portogallo, il Regno Unito, Polonia ed Estonia. Francia, Germania e Spagna stanno tutte attorno allo 0,30. La ricchezza, considerato il lungo periodo, è dunque aumentata, ma lo sviluppo ha premiato solo chi già stava bene: dagli anni Ottanta od oggi i più ricchi, in Italia, hanno visto crescere i loro già consistenti redditi dell´1,1 per cento, agli altri sono andate le briciole: le fasce basse possono contare su disponibilità aumentate solo dello 0,2 per cento. Per loro nulla si è mosso.
Commentando i dati, le Acli parlano di una «pesante retrocessione sociale» legata ad una «competizione internazionale che ha fortemente indebolito il nostro sistema produttivo: le ragioni delle disuguaglianze nel nostro paese vanno individuate innanzitutto nell´endemica debolezza dei redditi di lavoro dipendente e nella quasi totale assenza di un sistema generalizzato di tutele nel mercato del lavoro».
Il fatto è che la mancata distribuzione della ricchezza, fa notare l´Ocse, mette in pericolo anche lo sviluppo futuro. L´impossibilità per i giovani di migliorare il proprio status sociale ed economico «avrà un inevitabile impatto» sul paese che verrà.
La globalizzazione, che secondo i più ottimisti, doveva generare miglioramenti diffusi, ha generato dunque un aumento delle disparità. Perché? L´analisi dell´Ocse (Growing income inequality in Oecd countries: what drives it and how can policy teckle it?) fa notare che il processo ha favorito chi poteva contare sulle migliori qualifiche e che la diversa struttura delle famiglie e il maggiore contributo dei redditi da profitti del capitale hanno fatto il resto. Come agire ora? Per l´ Ocse gli strumenti «più diretti e potenti» per tentare un recupero sono le riforme delle politiche fiscali e previdenziali e le misure di sostegno al reddito. Ma da sole non bastano: bisogna creare lavoro e stappare le famiglie alla povertà aumentando l´occupazione, la formazione e l´istruzione delle persone poco qualificate. Bisogna investire insomma sul capitale umano e sulla scuola.
(l.gr.)
l’Unità 7.5.11
Scuola, l’inganno delle assunzioni. Bastava il piano 2008
Pensionamenti. In 29mila prof vanno via in settembre Quanti entreranno?
di Francesca Puglisi
Gli annunci del Governo sulle migliaia di assunzioni nella scuola sonosolo propaganda elettorale: nel decreto sviluppo non è indicata alcuna cifra, e comunque i 30mila docenti in tre anni annunciati a voce dal ministro coprirebbero a malapena i 29mila pensionamenti del primo anno!
L'unica certezza per il prossimo anno scolastico è la terza tranche di taglidell'impietosa mannaia della legge 133/08 (19.700 insegnanti e 14.500 Ata in meno) e il calo di investimenti nell'istruzione fino al magrissimo 3,2% del Pil stabilito dal Def di Tremonti che ci metterà fuori dall'Europa.
Assorbire i precari e non crearne mai più era il programma del governo di centrosinistra: un piano di emergenza per sistemare l'eredità della Moratti (ultimo concorso: Berlinguer 1999) in vista di un nuovo e più razionale reclutamento futuro. Quando nel 2008 il centrosinistra è caduto, solo metà dei 150mila docenti e 30mila Ata previsti erano stati assunti; poi il duo Tremonti-Gelmini ha bloccato il piano. Lega e PdL hanno cancellato più di 80mila insegnanti dall’organico senza bandire concorsi né varare nuove modalità di reclutamento. Tre anni di malgoverno e tagli hanno bloccato l’ingresso anche ai neolaureati là dove le graduatorie erano esaurite, producendo il paradosso, richiamato anche da Bersani, che nei prossimi 3 anni, in 64 province, andranno esaurite le graduatorie di materie tecnico-scientifiche, proprio quelle in cui i ragazzi sono deboli nei raffronti internazionali. Non basta. Nel2009 Gelmini ha varato un provvedimento incostituzionale; oggi i nodi vengono al pettine e i ricorsi potrebbero costare più del piano bloccato nel 2008. La Ministra parla di bidelli più numerosi dei carabinieri (ma le scuole sono più delle caserme) e di presidi che chiedono soldi alle famiglie (ma lei taglia fondi agli istituti), mentre la massa dei precarinon diminuisce e ai giovani laureati è negato ogni diritto alla formazione e al reclutamento.
Se la Gelmini non avesse interrotto il piano di assunzioni da noi previsto, quasi tutti i precari sarebbero ormai in ruolo e oggi potremmo pensare al futuro della scuola parlando di altro. È il blocco di quel piano che ha trasformato ogni discorso sulla scuola in un discorso sui precari.
È il blocco di quel piano che hatrasformato la differenza fra «coda» e «pettine» in una questione di vita o di morte. È semplicemente impossibile riparare i cocci del Governo Pdl-Lega a risorse invariate. Senza una robusta ripresa delle assunzioni nella scuola e la ripresa del cammino di riforma avviato dal centrosinistra, qualunque soluzione sarà iniqua per qualcuno, e soprattutto sarà iniqua per la qualità della scuola statale e per l'Italia tutta.
il Fatto 7.5.11
I veri numeri sugli immigrati
di Michele Boldrin
Un collaboratore del blog noisefromamerika.org , persona intelligente e preparata, ma affetto da ubbie leghiste ha fatto notare che il ministero del Lavoro ha reso pubblico L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive, un testo di 280 pagine scarica-bile dal sito. Sulla base di un riassunto (polemico con il governo) apparso su Repubblica il nostro collaboratore ha tratto le seguenti conclusioni: a) che nel biennio 2009-2010 sono immigrate in Italia 648.000 persone, suddivise in occupati (+309.000), disoccupati (+104.000) e inattivi (+235.000); b) che quindi il tasso di attività degli immigrati è del 49 per cento mentre il tasso di disoccupazione è del 25,2 per cento; c) che il reddito pro-capite del Nord Italia, con questi nuovi ingressi, si è ridotto dell’1,1 per cento. La persona che arriva a queste conclusioni è, credetemi, molto più intelligente, preparata e anche più scrupolosa della media. Peccato che quanto scrive siano balle.
VI È UNA MORALE , in questa storia, anzi due. La prima consiste nel fatto che la faziosità (come quella della giornalista di Repubblica che, per dare sulla testa a Tremonti, stravolge il contenuto del rapporto falsandone, come vedremo, le implicazioni) ha spesso l’effetto opposto a quello desiderato. La seconda morale è peggiore: il livello di disinformazione e ignoranza dei fatti cui è scesa l’opinione pubblica italiana è preoccupante. Fa spavento quanto poco gli italiani capiscano di economia, quanto incapaci siano giornalisti ed economisti italiani di riportare tali fatti e di interpretarli correttamente.
Tratte le morali, vediamo perché le affermazioni a) e c) riportate sopra sono scempiaggini. I 648 mila stranieri in più non sono il frutto solo di immigrazione ma anche di fertilità interna. Lo stesso studio riporta che gli stranieri nati in Italia sono circa 77 mila all’anno, ossia 154 mila in due anni. Poiché la nostra legislazione, basata sullo ius sanguinis, li considera stranieri, questi nuovi nati, da soli, spiegano il 65,5 per cento di quei 235 mila nuovi stranieri inattivi. Un ragionamento analogo vale per i dati sulla disoccupazione. Il tasso di disoccupazione è ovviamente maggiore fra gli stranieri che fra gli italiani (11 per cento verso 8 per cento), ma questo è dovuto quasi esclusivamente al loro maggior tasso di attività. Anche se dovessimo calcolarlo sulla base dei dati di cui sopra (che includono persone in età non lavorativa) esso risulterebbe pari al 64 per cento; sul totale della popolazione italiana esso era del 48,4 per cento nel 2010 (Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro, tabella 2.5). Fra le persone in età da lavoro, il tasso di attività degli stranieri è invece del 72,7 per cento contro il 61,6 per cento degli italiani. Idem per il tasso di occupazione che, come riportato anche dal documento in questione, risulta pari a quasi il 64 per cento fra gli stranieri e al 56 per cento fra gli italiani. Anche a voler confrontare il comportamento sul mercato del lavoro degli stranieri con quello del “virtuoso” Nord (come ogni buon leghista richiede) il risultato non cambia. Il tasso di attività del Nord si aggira attorno al 53 per cento sul totale della popolazione e il 69 per cento fra le persone in età da lavoro. Niente da fare, insomma: questi maledetti migranti, anche tenendo in conto quelli che si fermano a godersi il sole del Centro-Sud, lavorano di più.
La cosa più importante è che senza quei lavoratori immigranti (che lavorano a salari molto inferiori a quelli degli italiani) una valanga di piccole e medie aziende italiane rimarrebbero in piedi. A queste vanno aggiunti pure tutti i produttori italiani che senza la domanda di beni e servizi dei 4,2 milioni di migranti avrebbero chiuso. Siccome l'immigrato (specialmente se clandestino) non riceve sussidio, pensione o trasferimento alcuno dallo Stato, la domanda in questione è privata; frutto del lavoro migrante e non delle tasse di qualcun altro. Infatti risulta palese, anche dallo studio in questione, che solo grazie agli stranieri disposti a lavorare per molto meno degli italiani l'occupazione non è crollata negli ultimi tre anni e migliaia di aziende non hanno chiuso. Per orrenda che sia, la crisi economica italiana sarebbe stata peggiore e la caduta del Pil pro capite ancora più grave se non ci fossero stati questi inutili migranti!
OBIEZIONE : gli immigrati che arrivano sono poco produttivi e sanno fare solo lavori umili. Certamente: vengono quelli che l’economia del paese domanda. La produttività dello straniero dipende dal lavoro che gli offri e che è disponibile. Importiamo stranieri scarsamente produttivi perché il nostro sistema economico genera solo nuovi lavori scarsamente produttivi: si chiama declino, signori, declino. La qualità dell’immigrante medio altro non è che un termometro che lo misura: a Palo Alto l’immigrante medio ha un PhD e non dipende dal clima, ve lo posso assicurare.
P.S. Visto che è tempo d’austerità vale la pena notare che lo “studio” in questione non è stato prodotto dai funzionari del ministero o dell'Istat, ma da una lunga lista di consulenti esterni. Sarebbe bello sapere quanto diavolo è costata questa mediocre rielaborazione di dati pubblici stampata su carta patinata. Mi offro di farla fare io alla mia research assistant cinese per metà della cifra, qualsiasi essa sia stata. Magari il ministro Sacconi vuole renderla pubblica, la cifra, così la prossima volta facciamo domanda anche noi emigrati.
*Washington University in St. Louis
il Fatto 7.5.11
I brividi di Bersani
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, giorni fa Bersani ha detto che il pensiero che Berlusconi possa andare al Quirinale “gli dà i brividi”. A te?
Michela
HO LETTO e trovo mite l’affermazione. La spiegazione è semplice. L’arrivo di Berlusconi al Quirinale è in sé un colpo di Stato anche se Berlusconi vi arrivasse senza colpo di Stato. Lo è per incontrovertibili ragioni di fatto. Berlusconi ha violato tutte le regole, dalla buona educazione al protocollo, dai limiti, che avrebbe potuto autoimporsi, del suo immenso conflitto di interessi, alla cosiddetta vita privata. Il Quirinale offre, nel malaugurato caso di un passaggio di Berlusconi, alcuni poteri estremi che i presidenti italiani non usano mai (capo delle Forze armate, capo della Magistratura) e una serie di spazi vuoti in cui vi è qualche precedente, nessun potere e un’immensa influenza su ogni altro ruolo e personalità dello Stato. Proprio l’estrema cautela con cui – in tutta la storia repubblicana – i successivi presidenti della Repubblica hanno usato (o più spesso, non usato) il potere esteso ma soft che la Costituzione mette a disposizione del capo dello Stato, ha reso il rapporto fra capo dello Stato, capo del governo e Istituzioni repubblicane costantemente armonioso e funzionante. Berlusconi è l’uomo che è riuscito a devastare la funzione di presidente del Consiglio. Senza governare, è riuscito ad aggredire le altre istituzioni e gli altri poteri dello Stato esclusivamente per ragioni private e personali. È il personaggio che non ha esitato a definire “associazione a delinquere” i giudici del suo Paese solo perché si erano presi la libertà costituzionale di rinviarlo a giudizio. Berlusconi ha avuto un ruolo molto grande nella politica estera del suo Paese, spostando con vigore e determinazione l’asse delle relazioni fondamentali italiane da Europa e Stati Uniti, a Russia (Russia di Putin, un oligarca senza scrupoli e con montagne di vittime) e Libia, la Libia di Gheddafi, il Paese in cui i cittadini sono insorti, sono stati massacrati a cannonate e con l’intervento dell’aviazione militare e che infine ha provocato la condanna delle Nazioni Unite e l’intervento militare della Nato. Berlusconi è il primo ministro che è legato da uno stretto trattato economico militare con la Libia, si è impegnato a non partecipare all’azione contro la Libia, poi a starci ma da fuori, poi di bombardare, e infine si è accordato con la Lega per porre un termine all’intervento. Ha preso su questo punto un solenne impegno (4 maggio) e non ha mai potuto mantenerlo perché tutto dipende dalla Nato e non da Berlusconi. Ma lo ha fatto credere alla Lega e agli italiani che frequentano le sue televisioni e i suoi giornali. Nel frattempo non ha mai cancellato il trattato di stretta cooperazione economica e militare con la Libia, tuttora in vigore. È un trattato che Berlusconi ha consacrato facendo volare le frecce tricolori (aerei acrobatici italiani di grande bravura e grande rischio) nel cielo della Libia, in onore di Gheddafi (già celebre autore della strage di Lockerbie) e baciando la mano a Gheddafi di fronte alle telecamere del mondo. Per tutte queste ragioni nessuno di noi avrà brividi. Ma prende invece, fin d’ora, in modo pubblico e solenne, di fronte a tutti i concittadini, l’impegno di impedire in nome della legge, l’ingresso di Berlusconi Silvio (che a quel tempo sarà pregiudicato) anche solo nel portone del Quirinale
il Riformista 7.5.11
Parla la Bonino. Colleghi trascurati
I radicali si lamentano «Il Pd non ci considera
qui
2
l’Unità 7.5.11
Israele, strani democratici
di Moni Ovadia
L'editorialista del quotidiano israeliano Ha'aretz, Akiva Eldar, in un suo recente articolo si è domandato:" che cosa hanno in comune i falchi dell'ala militare di Hamas; il Primo Ministro Benjamin Netanyhau; la sua guardia del corpo, il Ministro della Difesa, Ehud Barak; e il Premio Nobel Shimon Peres Presidente di Israele? Hanno dato fuori di matto per l'accordo di riconciliazione fra Hamas e Fatah!". La domanda di Akiva Eldar è evidentemente retorica. C'è una grande notizia, gli Islamisti estremi e gli unici democratici del Medioriente, "uomini di pace" soi disant, condividono lo stesso sentire nei confronti dell'unità della leadership legittima del popolo palestinese, precondizione imprescindibile per una vera trattativa di pace e non per quelle chiacchiere truffaldine, con la benedizione del quartetto, che da anni raggirano i palestinesi, ma anche gli israeliani. Ora, per quanto riguarda l'ala estrema di Hamas, la ripulsa dell'accordo è del tutto comprensibile, anche se non giustificabile. Ma come spiegare quella dei superdemocratici che governano Israele. La spiegazione è una ed una sola: parlano di democrazia e intendono apartheid, parlano di pace e pensano diffusione ipertrofica della colonizzazione. Questi politicanti israeliani hanno le facce di bronzo, in yiddish si chiama khtzpe. Il colmo della khutzpe è questo: "a Varsavia un ebreo viene giudicato per matricidio e parricidio e viene condannato al massimo della pena. Quando il giudice gli da la parola l'ebreo dice: « vostro onore ho diritto alle attenuanti, sono un povero orfano». Ebbene questo ebreo è un dilettante al confronto dei governanti israeliani.
Corriere della Sera 7.5.11
Sereno ma inquieto, i due volti di Bobbio
Sul diritto naturale come sul marxismo, il suo pensiero fu sofferto e mai monolitico
di Giuseppe Bedeschi
Credo che sia difficile sopravvalutare l’importanza del ruolo svolto dalla riflessione di Norberto Bobbio nella cultura italiana della seconda metà del Novecento. Una riflessione impegnata sui problemi della teoria del diritto e della politica, sulla ricostruzione critica delle ideologie che hanno messo radici nel nostro Paese, sui grandi problemi della democrazia nelle società industriali avanzate. Per molti uomini di cultura, Bobbio è stato un punto di riferimento essenziale, anzitutto per la sua impareggiabile capacità di analisi, che individuava sempre i concetti elementari e costitutivi di ogni posizione ideologica, di ogni approccio culturale, di ogni giudizio di valore, per sottoporli poi a una a una pacata disamina, la quale metteva in rilievo i loro presupposti e le loro ascendenze, la loro coerenza o incoerenza, ecc. Credo che uno dei motivi fondamentali, o forse il motivo fondamentale, del fascino esercitato da Bobbio su intere generazioni di studiosi sia da cercare proprio in quella sua forza analitica, che rifiutava emotività, impulsi irrazionali, furori ideologici, per affidarsi solo e soltanto all’esercizio della ragione. Di qui una immagine di serenità, di compostezza, di dominio di sé, di sicurezza intellettuale, che emanava dalle sue pagine, raffinate ed eleganti anche letterariamente. Ma, se tutto ciò è vero, credo anche che si sbaglierebbe a voler considerare la riflessione di Bobbio (che si è snodata per diversi decenni) come qualcosa di assolutamente coeso e compatto, senza difficoltà e senza smagliature, come un monolite insomma, nel quale non sia dato rilevare antinomie di sorta. Credo che renderemmo un cattivo omaggio a Bobbio se usassimo verso il suo pensiero un approccio di questo tipo, disconoscendo quanto di complesso, di sofferto e anche di drammatico c’è stato nella sua storia intellettuale; se facessimo così, non intenderemmo veramente quella storia. Un forte stimolo in questa direzione ci viene dalla lettura del volume di Bobbio Giusnaturalismo e positivismo giuridico (d’imminente uscita presso Laterza, con prefazione di Luigi Ferrajoli). Nell’adesione del pensatore torinese al giuspositivismo ebbe importanza decisiva l’orientamento verso la scienza espresso negli anni Quaranta-Cinquanta da filosofi quali Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Giulio Preti. Contro l’idealismo di Croce e di Gentile, Bobbio si riconobbe nel «nuovo illuminismo» di ispirazione scientifica. Lo scienziato «che si piega sul mondo e lo osserva» fu indicato da Bobbio come il modello dell’uomo di cultura; al di fuori di esso non restavano che i retori e i profeti. La filosofia doveva essere considerata sana o malata «a seconda che maggiore o minore il suo contatto con le scienze» . Perciò, in campo giuridico, lo affascinava l’insegnamento del giuspositivista Hans Kelsen. «Una scienza— aveva detto Kelsen— deve descrivere il proprio oggetto quale esso è effettivamente e non prescrivere come esso dovrebbe o non dovrebbe essere, in base ad alcuni giudizi specifici di valore» ; il giusnaturalismo, invece, era una anticaglia metafisica, che pretendeva di prescrivere modelli e norme al diritto positivo. Senonché, Bobbio fu un giuspositivista «inquieto» (come lo definì Sergio Cotta), in quanto non esitò ad affermare che «di fronte allo scontro delle ideologie, dove non è possibile alcuna tergiversazione, sono giusnaturalista; riguardo al metodo sono, con altrettanta convinzione, positivista» . Il giusnaturalismo continuava a esercitare il suo fascino su Bobbio nella misura in cui esso faceva valere l’esigenza che una norma non venisse considerata solo dal punto di vista della sua coerenza all’interno di un dato sistema giuridico, ma fosse valutata anche alla luce della nostra coscienza morale. Di qui la costante attenzione di Bobbio per il pensiero giusnaturalistico, di qui i suoi acuti studi su Pufendorf, su Locke, su Kant, in uno sforzo ininterrotto di approfondimento e di comprensione. Altrettanto complesso e composito fu l’atteggiamento di Bobbio verso il marxismo, nel quale egli vide una tipica filosofia della storia, che pretendeva di dare una risposta definitiva alla domanda su quale sia il destino dell’umanità. Ma una filosofia della storia, qualunque filosofia della storia, poteva dare solo risposte metafisiche, sicché il marxismo non poteva essere assolutamente considerato quella teoria scientifica della società che pretendeva di essere. Ciò però non impedì a Bobbio di affermare, in Politica e cultura (1955), che «se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni» . Era, come si vede, un grosso riconoscimento al marxismo, che Bobbio accompagnava con giudizi positivi sull’Urss e sugli Stati del blocco sovietico, i quali, egli diceva, avevano «effettivamente iniziato una nuova fase di progresso civile in Paesi politicamente arretrati, introducendo istituti tradizionalmente democratici, di democrazia formale come il suffragio universale e l’elettività delle cariche e di democrazia sostanziale come la collettivizzazione degli strumenti di produzione» . Ma erano giudizi, questi, che Bobbio non solo non ripeté negli anni successivi, ma confutò, affermando per esempio, nel 1968 (si noti l’anno!), che «all’ombra del grande ideale del passaggio dal socialismo al comunismo era avvenuto invece il passaggio, forse obbligato, da un processo di industrializzazione prematura e forzata al dispotismo» . Queste parole Bobbio scriveva nella premessa alla raccolta dei suoi bellissimi Saggi sulla scienza politica in Italia (1969), dedicati a Mosca e a Pareto. Il pensiero elitista gli appariva ora come l’unico che avesse gettato le basi per uno studio empirico della politica, come l’unico capace di avviare una ricerca fondata sull’osservazione storica. Tale pensiero metteva in rilievo che qualunque regime sociale e politico è oligarchico (anche il nostro). Da ciò discendeva per Bobbio l’esigenza di una lotta costante contro le disuguaglianze sociali.
il Riformista 7.5.11
«Giolitti scusaci... avevi ragione»
di Claudio Petruccioli
6
Repubblica 7.5.11
Se tutti dicono I love you
Il ritorno del discorso amoroso
Di cosa parliamo quando parliamo di un nuovo romanticismo
di Benedetta Tobagi
Non userei la parola utopia perché è associata a qualcosa di irrealizzabile. Invece credo che tutti possano vivere un lungo legame se sanno prendersene cura
Paradossale: il numero dei divorzi cresce, le tensioni della vita moderna rendono sempre più difficile la vita a due, la "deregulation" nei costumi sessuali è ormai un fatto acquisito, eppure, dall´abbazia di Westminster al tappeto rosso di Cannes ove sfileranno le star protagoniste dell´atteso The beloved ("gli amati"), le quotazioni del romanticismo reggono, anzi, sembrano in rialzo. Rivisitando in salsa rosa le storie di vampiri, la saga Twilight ha conquistato un successo planetario, mentre un recente studio statunitense rivela che donne cercano una dimensione romantica persino nel porno online: il sito erotico più popolare tra il pubblico è specializzato - udite udite - in una versione osé di romanzi alla Jane Austen. Ma non è solo marketing, né si limita al pubblico femminile: scorrendo le migliaia di elenchi con le dieci ragioni per cui vale la pena vivere inviati a Roberto Saviano da uomini e donne di ogni età, la centralità dell´amore balzava agli occhi. In un mondo scosso da guerre e incidenti nucleari, tre miliardi di persone che restano imbambolate a guardare una coppia di ragazzi ricchi belli e privilegiati, eredi al trono di una ex potenza decaduta, che si scambiano voti di eterno amore in diretta mondiale, sembrano provare che l´amore romantico resta la droga più potente sintetizzata dall´umanità. Ed è pure legale.
Alle cinque "S" da prima pagina - Sangue, Soldi, Sport, Sesso, Spettacoli - bisogna dunque aggiungere Sentimento? Il fantasma dell´amore romantico, buttato dalla finestra con tutti i suoi accessori (dichiarazioni d´amore, impegno per il futuro, sesso con sentimento, senso di essere stati uniti dal destino e non dal caso…), rientra trionfalmente dalla porta. È per sfuggire alla dura realtà che la favola delle nozze reali ha sedotto il mondo intero? L´antropologia ci insegna che un rito produce i suoi effetti proprio con pratiche che "si impadroniscono" del pensiero, rendendoci più propensi a credere che ad analizzare criticamente le cose, alimentando così le grandi illusioni di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Il romanticismo è una di queste? È una forma di diniego della realtà?
Woody Allen, massimo interprete delle nevrosi affettive della modernità, non ha dubbi. Nel suo recente Incontrerai l´uomo dei tuoi sogni trova l´amore solo una credulona di mezz´età che si affida a una falsa veggente. Pur nel cinismo, il film mette a fuoco il contrasto tra la visione egoistica e strumentale di chi rincorre una nuova relazione per sentirsi giovane, per soldi, per sfuggire le responsabilità della vita, e la vecchia Helena, ancora disponibile, seppur goffamente, ad aprirsi all´"atto di fede" che richiede ogni nuova relazione. L´amore romantico, col suo groviglio di idealizzazioni, aggressività e sensualità, ci espone sempre a un rischio terribile. Vulnerabili, dobbiamo imbarcarci in un difficile compromesso tra il desiderio che abbiamo della persona amata e la paura di essere rifiutati, traditi, abbandonati - specialmente se ci hanno già ferito. Questo eterno dilemma oggi è amplificato: rischiare è ancora più difficile quando intorno rimane ben poco di stabile a cui aggrapparsi.
Ormai disponiamo di una vasta letteratura e filmografia sull´impatto devastante della precarizzazione delle condizioni materiali d´esistenza sulla vita affettiva. Secondo Zygmunt Bauman, primo interprete di questa crisi, la logorrea mediatica intorno all´amore è solo un´altra faccia del consumismo che tende a ridurre i sentimenti alla dimensione del soddisfacimento istantaneo, senza alcun reale investimento affettivo. Proprio questo scenario desolato, però, alimenta per reazione la fame di storie d´amore vecchio stampo: è quanto suggeriscono dalla capitale mondiale del romanticismo, Parigi, le riflessioni dei pensatori che la rivista Philosophie ha messo all´opera sul tema. Il cattolico Jean-Luc Marion ricorda che l´amore è la porta sempre accessibile a tutti verso la trascendenza, un´esperienza di pienezza e unicità capace di dare senso alla vita: amando creiamo l´"immagine immortale" di cui parla nel Cielo sopra Berlino l´angelo che si incarna per amore di una trapezista. Slavoj Zizek e lo stesso Bauman riconoscono nell´amore l´ultima utopia rimasta (parzialmente) in piedi, «il grande rimedio alla dissoluzione dei legami sociali», spazio possibile per una vita autentica, proiettata nel futuro. Alain Badiou vede nel dire "ti amo" addirittura una forma di resistenza al capitalismo.
Il mondo va a rotoli, e spaventati ci rivolgiamo all´ultimo serbatoio di speranza: "e vissero felici e contenti". La favola del matrimonio reale ha tanto successo perché è un rito che incorpora il passato nel presente, offrendo un rassicurante senso di continuità. Ma c´è qualcosa in più. Molte delle nuove narrazioni romantiche contengono forti iniezioni di realtà, quasi fossero strutturate per reggerne l´urto. Il film-manifesto di questa tendenza è la commedia American Life. La giovane coppia in cerca del luogo per crescere un figlio rappresenta l´amore forte e quieto che sfida l´incertezza, offre un baricentro nei marosi dell´esistenza e ripara i traumi del passato: un "neoromanticismo" agli antipodi da follie e deliquio dello Sturm und Drang.
A pensarci bene, anche le nozze di Will e Kate obbediscono a questo schema: sono la versione aggiornata, riveduta e corretta del matrimonio fallimentare di Carlo e Diana, sceneggiate per confortare spettatori segnati da massicce iniezioni di cinismo e delusione. Nessuna Camilla nell´armadio, già superata la prova di un lungo fidanzamento, rotture incluse, e William che sussurra «ti amo, sei bellissima» - le «trite parole che non uno osava», per dirla col nostro Saba, ancora capaci di toccare il cuore di qualunque donna - integra felicemente nell´apparato dinastico la spontaneità dei sentimenti di Diana (vera o falsa che fosse), in passato tanto osteggiata dai gelidi Windsor. Compensatorio e rassicurante. Per irretire i pessimisti irriducibili del tempo presente c´è bisogno di amori da sogno che sappiano inglobare anche il dolore. Persino a Hollywood: il divo ammalato di sesso Michael Douglas e la bomba sexy del musical Chicago Catherine Zeta-Jones oggi permettono al mondo di specchiarsi con simpatia in un matrimonio che lotta per resistere al cancro di lui e alla conseguente depressione di lei.
In questo "neoromanticismo" temprato dalla realtà sembra essersi offuscata la carica rivoluzionaria e dirompente della passione, che, da Romeo e Giulietta a Casablanca a Le conseguenze dell´amore, si scontra con mille ostacoli, scuote convinzioni e convenzioni, infonde agli innamorati un coraggio inaudito. In questo senso, lo scenario più inquietante lo offre la distopia di Non lasciarmi: i giovani protagonisti del film, allevati per fornire organi da trapianto, seppur consapevoli della loro esistenza a termine si amano appassionatamente, come Lara e il dottor Zivago nella villa di Varykino tra lupi e ghiacci, prima di essere separati dagli urti della Storia. Ma nemmeno l´amore riesce ad accendere nei cloni di Ishiguro un moto di ribellione che li scuota dalla rassegnata accettazione del destino. In un mondo sempre più angosciato dal futuro, riuscirà l´amore romantico a riscoprire il suo animo ribelle? Il suo destino, come quello di ogni storia d´amore, è una partita aperta.
Repubblica 7.5.11
Yehoshua: "Basta con Anna Karenina lunga vita alla passione quotidiana"
di Anais Ginori
Lo scrittore israeliano ha raccontato più volte dinamiche e tensioni del rapporto coniugale "Oggi è un sodalizio fondato su uguaglianza e solidarietà. Proprio come William e Kate"
Ormai occuparsi di come due persone riescono a stare insieme è narrativamente molto più interessante di quanto lo sia analizzare i fallimenti e i grandi disastri emotivi
«L´unione tra due persone non si può costruire, come un tempo, solo sulla suggestione dell´amore assoluto ma piuttosto sulla base di una nuova eguaglianza tra uomo e donna, su valori di solidarietà e amicizia». In gran parte dei suoi romanzi, pubblicati da Einaudi, Abraham Yehoshua ha scritto e analizzato le tensioni e le incomprensioni del rapporto coniugale, l´unico legame famigliare unicamente sociale, non di sangue, perciò esposto e fragile. Lo scrittore israeliano sperimenta un neoromanticismo consapevole, che ai fugaci slanci amorosi sostituisce un lento lavoro di consolidamento. «Sono stato uno dei primi familisti della mia generazione. Credo nel matrimonio, anche se preferisco chiamarlo sodalizio. È la sfida più appassionante che un uomo e una donna possano affrontare», spiega Yehoshua dall´alto dei suoi 51 anni di convivenza con la moglie.
È ancora possibile credere a qualcuno che dice "Ti amo"?
«Non può più essere una dichiarazione definitiva. Se dici "Ti amo" devi anche spiegare perché, confermarlo ogni giorno, esplorando quotidianamente questo sentimento, cercando nuove motivazioni oppure minacce nascoste. Un parola d´amore non basta a costruire una coppia».
Eppure tre miliardi di persone si sono fermate a guardare due ragazzi che entrano in una chiesa per promettersi amore eterno.
«Confesso: anche io ho guardato la diretta da Westminster. La famiglia reale è stata capace di condurre la cerimonia con molta dignità e serietà. Ho scoperto il rito anglicano, molto diverso da quello ebreo, che mette al centro la sposa. Non è solo l´uomo che prende la donna ma anche la donna che sceglie l´uomo. Mi è sembrata una concezione attuale della coppia. Alla fine, questo spettacolo planetario è stato un grande omaggio al rapporto coniugale».
Ma nella società occidentale di oggi, nella quale ci si sposa poco e si divorzia molto, che senso ha?
«Questo non è il matrimonio di Diana e Carlo, che si sposarono senza quasi conoscersi. Kate e William hanno messo prima alla prova la loro unione per anni, hanno una lunga frequentazione che dovrebbe evitare future rotture. Il fatto che poi non abbiano fatto un viaggio di nozze, e lui sia tornato nel suo reparto militare, mi è sembrato un altro segnale positivo di modernità».
Il romanticismo è sempre una fonte di ispirazione quando scrive?
«Perlustrare le misteriose strade attraverso le quali un uomo e una donna decidono di rimanere insieme è narrativamente molto più interessante che lavorare intorno al fallimento dei matrimoni, a rotture e tradimenti, all´alienazione della coppia e ad altri disastri amorosi su cui ormai è stato raccontato tutto sia nella letteratura che al cinema».
Lei ha scritto una volta che il suicidio di Anna Karenina conferma che è impossibile far vivere un amore al di fuori del matrimonio.
«Nel romanzo di Tolstoj ci sono due relazioni molto diverse. Quella tra Levin e Kitty, all´inizio non facile, diventa poi un matrimonio profondo, vincolante, alimentato da una reciproca dedizione. Anna e Vronskij, invece, non si sposano. Lei rifiuta che questo amore venga tutelato o salvaguardato da un contratto matrimoniale, vorrebbe che fosse basato sulla piena libertà. Anna Karenina non racconta la lotta di una moglie contro un marito odiato, come in Madame Bovary di Flaubert. È la storia di una donna che aspira a raggiungere un qualcosa che molti vedono come una sfida: mantenere un rapporto saldo tra due persone senza l´aiuto di stampelle sociali, legali o economiche. Un rapporto costruito esclusivamente sul lavoro dell´amore».
Il finale di Tolstoj non lascia fiduciosi sull´esito di questa sfida.
«Sono convinto che l´amore non possa sopravvivere senza la protezione del matrimonio e dell´istituzione sociale che rappresenta».
In un mondo senza ideologie, l´amore eterno è l´ultima utopia da salvaguardare?
«Non condivido questo pessimismo. La parola utopia è implicitamente negativa, ci fa credere che sia un obiettivo irraggiungibile. Io sono convinto invece che tutti possano far vivere a lungo un sodalizio amoroso, se adeguatamente curato e protetto. Mi è piaciuta una frase pronunciata dal vescovo britannico a Westminster. "Nel matrimonio troverai conforto". In fondo, è quello di cui ognuno di noi ha bisogno. Siamo tutti fallibili. In due lo siamo un po´ di meno».
Repubblica 7.5.11
Il capolavoro di uno scrittore ultracentenario Celebrato negli Stati Uniti come un genio del ‘900
Adora il tuo nemico l´ambiguo legame con il carnefice
a cura di Alessandra Rota
Hans Keilson, ebreo tedesco nato a Berlino nel 1909, è un signore ultracentenario che vive in Olanda dai lontani anni Trenta. La foto che compare sulla bandella del libro, edito in Italia a più di cinquant´anni dalla sua pubblicazione, ce lo restituisce con un sorriso saggio e rasserenante, malgrado la sua biografia rifletta puntualmente l´immane tragedia del popolo ebraico. Scappato in Olanda nel 1936, Keilson entrerà poi nelle fila della resistenza olandese, offrendo aiuto, in qualità di medico, ai bambini traumatizzati dalla separazione forzata dai genitori. Proprio lui, che ormai adulto, perderà a sua volta padre e madre nel campo di Auschwitz.
La sua singolarissima vicenda letteraria - un vero e proprio viaggio sulle montagne russe - la illustra lui stesso in un´intervista al Guardian di qualche mese fa. Keilson esordisce a soli ventitré anni: nel 1934 pubblica per Fischer La vita continua, l´ultimo romanzo di uno scrittore ebreo a uscire in Germania prima che si scateni la furia antisemita dei nazisti. Poi un silenzio lungo trent´anni, e i riflettori internazionali si accendono di nuovo sulla sua figura nel 1962, quando La morte dell´avversario esce negli Stati Uniti ed entra nella top-ten della critica, al fianco dei coevi titoli di Borges, Nabokov, Faulkner. Ma anche stavolta il successo dura una sola stagione e la stella di Keilson scompare ancora fino all´anno passato, con la pubblicazione, sempre in America, di Comedy in a Minor Key, che viene accolto dal New York Times con parole perentorie: quel libro è un capolavoro e il suo autore è un genio. Anche se il primo a frenare gli entusiasmi è proprio Keilson, che all´intervistatore del Guardian, Philip Oltermann, risponde: «Non le pare un po´ esagerato? Un genio io? Non sono neanche uno scrittore in senso proprio».
Eh no, uno scrittore, un vero scrittore, Hans lo è di sicuro.
Non foss´altro perché La morte dell´avversario passa l´esame del critico più implacabile: il tempo. A oltre cinquant´anni dalla stesura, questo sconcertante romanzo mantiene inalterato il suo vigore. Sia in ordine alla profondità abissale del tema affrontato (il legame tra vittima e persecutore in epoca nazista), sia per la capacità di sciogliere tale vertiginosa questione in una narrazione piena di immagini vivide e potenti, che colpiscono la mente e il cuore del lettore.
Una, in particolare, si impone sulle altre. Si narra a un certo punto la lontana storia dell´innamoramento del Kaiser per certi alci che ha visto in Russia dal cugino, lo zar, il quale gliene regala subito un branco, trasportato in un habitat adeguato: foreste e steppa, tra il mar Baltico e la laguna. Ma dopo un po´ gli alci cominciano a morire, in modo assai misterioso. Finché un guardiacaccia inviato appositamente dalla Russia scopre la ragione della moria: il clima è perfetto, la zona prescelta pure, ma l´alce sente la mancanza del lupo, che paradossalmente lo tiene in vita con la sua costante minaccia. E´ esattamente attorno a questa perversa relazione che ruoterà il romanzo, a partire dal giorno in cui il protagonista, ancora bambino, sente i genitori parlare di un misterioso signor B., il cui prossimo avvento al potere comporterà per tutti una sicura catastrofe.
Il bambino comincia a fantasticare su quella figura: ne scruta con attenzione il volto sui giornali, rimane ammaliato dalla sua voce nei comizi. E, sempre fantasticando, si convince che lui e il suo nemico hanno assoluto bisogno l´uno dell´altro. Vivono l´uno dell´altro, attraverso continue proiezioni reciproche. Ma se ci si dimostra capaci di essere nemici a se stessi - insiste il protagonista, ormai adulto - anche l´avversario sarà indotto a fare altrettanto. E in tal modo scoprirà il vuoto della sua identità, la follia delle sue azioni. Così la «vittima sacrificale» rovescia la propria impotenza in un malcelato senso di superiorità, presumendo che la sua stessa presenza possa costringere il nemico ad arrestarsi nella sua rovinosa strada di morte: perché nell´odio è comunque nascosta una «goccia d´amore».
Inutile aggiungere che i primi a diffidare di questo «fratello debole», dei suoi sofismi e della sua «infantile stoltezza», sono proprio i membri della sua stessa comunità, i quali, pur riconoscendogli di non essere un transfuga o un traditore, hanno buon gioco nel dimostrare l´inanità di una posizione che si fa sempre più assurda, via via che si dispiega la scientifica efferatezza del signor B.
Il protagonista del racconto è stretto in una impasse irresolubile. Ora capisce appieno la "parabola" degli alci.
Schiacciato dalla paura, anche lui ha vissuto a lungo come un alce, nell´allucinata necessità di un lupo minaccioso e persecutore. Né è mai riuscito a trasformarsi in lupo, avendo cercato disperatamente di salvaguardare quella «goccia d´amore» senza la quale il mondo è destinato a perpetuare la propria rovina. Poi, nell´estremo tentativo di difendere la sua tesi, aggiunge: «Anche i lupi sono mortali. Soggiacciono al potere di Uno che è più forte, un potere più terribile di quello che opprime gli alci». È Dio stesso, a questo punto, a venire chiamato in causa nel corso di un ultimo, drammatico incontro con l´ombra del padre, che avviandosi alla morte con il proprio zaino carico di dolore, non può certo seguire i vaneggiamenti del figlio. Quella fantomatica «goccia d´amore», per lui, non ha alcun significato.
Corriere della Sera 7.5.11
Le tecnologie provate Sapere condiviso «Social» e in tempo reale Tu chiedi, la Rete risponde
di Carola Frediani
«Q ual è il miglior libro per smettere di fumare?» . Il quesito appena digitato scompare nel box della homepage di Aardvark. com, sotto la scritta «Fai una domanda e troverò qualcuno che risponderà» . Risucchiato da un sistema automatico di tagging che analizza le parole chiave, l’interrogativo verrà smistato in tempo reale a una serie di utenti in carne e ossa, che si siano dichiarati esperti di «fumo» , «tabacco» e simili. Un mix di algoritmi e sapienza umana che sfocia entro pochi minuti in una o più risposte, inviate tramite instant messenger al richiedente. Così, quando su Google Talk compare all’improvviso il consiglio di un John N. da Apopka, Florida, il sistema assume un alone stregonesco. Che diventa surreale se si legge la sua risposta: «Non lo so, ma se lo scopri fammelo sapere. Farei qualsiasi cosa per far smettere la mia fidanzata» . 1Creare un deposito Benvenuti nel magico mondo del Q&A (questions and answers), ovvero dei siti online di domande e risposte che ultimamente stanno conoscendo una nuova giovinezza. E che sempre di più assomigliano a dei veri social network. A far esplodere il fenomeno, all’inizio di quest’anno, è stato l’improvviso successo di Quora. com, piattaforma lanciata da due ex-dipendenti di Facebook che, novelli alchimisti, hanno mescolato Yahoo! Answers, l’antesignano del settore, con Wikipedia, condendo il tutto con un po’ di Twitter. Il risultato è un sito dove ognuno degli iscritti (si accede ancora su invito) può fare domande, o dare risposte, su qualsiasi cosa; e dove tutto è editabile da tutti, proprio come nella famosa enciclopedia online. Perché quello che conta non è la risposta immediata e tagliata su misura, ma la realizzazione progressiva di un deposito di conoscenza. 2 Quesiti da «seguire» Uno dei punti di forza di Quora è la capacità di mostrare domande e argomenti correlati al quesito appena digitato, oltre alla possibilità di rimanere sempre aggiornati sugli sviluppi di un interrogativo diventandone un follower, un «seguace» . Ma si possono «seguire» anche gli argomenti e soprattutto le persone, che sono il vero asso nella manica di questo social network del sapere. Perché si tratta di una comunità ancora ristretta, molto tecnologica, dove si possono trovare anche imprenditori della Silicon Valley. Il rischio è, semmai, che con l’espansione della piattaforma si perda questo equilibrio di efficienza e profondità. Nel frattempo, se si conosce bene l’inglese, vale la pena farci un salto. 3 Meccanismo a punti Di certo, in giro c’è una gran voglia di trovare soluzioni a interrogativi molto più articolati di quelli che si possono digitare su un motore di ricerca. La prima ad averlo capito era stata Yahoo! con il suo Answers, un contenitore trasversale di temi di ogni genere, molto pop, che in Italia può contare su una comunità ricca e partecipata: qui la semplicità d’uso dell’interfaccia e il meccanismo premiante del punteggio (si acquistano punti ogni volta che le proprie risposte sono votate dagli altri utenti) creano un meccanismo ben funzionante. E anche ben indicizzato dai motori di ricerca. 4I link per professionisti Ma dove deve andare un professionista che cerchi aiuto su questioni lavorative? LinkedIn, il più importante social network a sfondo business, ha aperto una sua sezione di Questions and answers, dove gli iscritti possono avere risposte dai propri collegamenti e dalla loro rete di relazioni. Ci sono varie categorie in cui navigare, da Finanza a Management passando per Amministrazione, e una sezione in italiano che tuttavia appare ancora poco utilizzata. Anche per questo da noi c’è grande attesa per Facebook Questions, il nuovo strumento del social network di Mark Zuckerberg— in Italia non è ancora attivo ma si può usarlo in parte impostando la lingua in inglese — per sottoporre domande e sondaggi ai propri contatti. Si possono formulare quesiti aperti o a risposta multipla, come un classico quiz. O si possono «seguire» le domande, ricevendo notifiche sugli aggiornamenti. E qualsiasi iscritto può partecipare. Una manna per le aziende, certo. Ma anche un mezzo per interessanti esperimenti sociologici, considerata la massa critica degli utenti del network. «Cosa facevate alle 8 e 46 minuti dell’ 11 settembre 2001?» ha scritto un mese fa Augusta, una utente americana. L’interrogativo ha raccolto 2 milioni e mezzo di voti e 78 mila follower. Ed è solo l’inizio.
Corriere della Sera 7.5.11
Noi dubbiosi pre-Internet con il naso nella Treccani
di Stefano Jesurum
Uno dice: beati i giovani, che con cinque clic trovano tutto su Wikipedia, fanno domande— le più bizzarre— e ricevono le giuste risposte sui siti di Q&A (questions and answers). Non come noi che arrancavamo tra enciclopedie, dizionari, vocabolari, compendi, manuali di ogni genere. Ma chi dice beati i giovani non fa i conti con quel piccolo particolare, senza tempo e senza età, che è proprio del genere umano e porta il nome di ansia. Così finisce che gli «ansiosi» — anche quelli moderni —, dopo aver compulsato i loro bravi clic, si ritrovino in preda al dubbio col naso appiccicato alla vecchia Treccani, allo Zingarelli, al Mereghetti piuttosto che all’elenco del telefono. E chissà quante generazioni ancora passeranno prima che l’online dia (agli ansiosi s’intende) la medesima sicurezza della carta ingiallita. I maestri chiamano Yam quell’insieme di commenti e regole dell’ebraismo che è il Talmud, e Yam significa «mare» . E chi utilizza Internet non «naviga» forse in Rete? Entrambi i mari— chiarisce Jonathan Rosen in Talmud e Internet, Einaudi— sono enormi continenti fatti di materia fluida come l’acqua, al cui interno vivono miliardi di informazioni. Che tocca sempre alla nostra intelligenza filtrare e interpretare. Tanto per metterci tranquilli (e non scrivere/dire strafalcioni).