Quel buco nero che si apre nella mente
di Mauro Covacich
Dimenticare. Nessuno può pensare che questo padre abbia dimenticato la figlia. E infatti nessuno lo pensa, tutti noi accorriamo attorno al buco nero che si è aperto nella sua mente e assistiamo ammutoliti al suo dolore. Stiamo immobili e in silenzio davanti alla voragine che si è spalancata nella mente di quest’uomo temendo che anche la più innocua delle parole possa torturare la sua condizione di sovresposto, di senza pelle. Ma sappiamo, forse è l’unica cosa certa, che non si è trattato di dimenticanza. Semmai abbiamo la sensazione di avere a che fare con la madre di tutte le rimozioni, la scandalosa, violenta irruzione del Sacro, quel misterium tremendum in presenza del quale restiamo atterriti e affascinati. Sto parlando della pura e semplice ineffabilità dello stato delle cose, l’enorme punto di domanda al quale ci aggrappiamo per non precipitare nell’orrido in cui è stato inghiottito l’asilo di quella bambina. La cosa davvero incredibile è che questi fatti succedono. Sono già successi — tra l’altro, con modalità straordinariamente simili— e succederanno ancora. È come se ieri fosse piovuto di nuovo, ancora una volta, il monolite di 2001 Odissea nello spazio, non c’è nessun accesso interpretativo per questo blocco di granito. È un evento impenetrabile, conviene averne rispetto, osservarlo da ragguardevole distanza e rinunciare alle spiegazioni. Nel Decalogo I di Kieslowski il laghetto è finalmente ghiacciato, lo spessore del ghiaccio consente di pattinare senza rischi. Lo annuncia la radio, lo annuncia il papà scienziato al figlio. Vai, puoi andare. Io sono il Signore Dio tuo. Anche a Teramo l’asilo era lì saldo nella mente di quel padre, insieme alla bambina. Ora si vede solo il buco. Speriamo di riuscire a salvarla.
Corriere della Sera 22.5.11
Vuoto e pietà Il coraggio di una donna
di Paolo Di Stefano
Distrazione significa, letteralmente, essere trascinati via da ciò che in quel momento dovrebbe occuparti la mente più di ogni altra cosa. Chissà da che cosa è stata trascinata via la mente del papà della piccola Elena, la mattina di mercoledì, alle 8.30, quando ha chiuso la portiera della sua auto per andare a lavorare come tutti i giorni. Producendo una voragine, un buio, un vuoto, proprio là dove invece dovevano esserci presenza, protezione e cura. Avrebbe dovuto portarla all’asilo e probabilmente credeva di averlo già fatto: «credeva» è eccessivo. Diciamo «aveva l’idea» , neanche, «aveva una specie di idea» , «un’immagine mentale» , ma neanche. Non c’è niente, apparentemente, che possa spiegare un salto cognitivo come quello: un padre chiude la portiera dell’auto per andare a lavorare, dimenticando che sul sedile posteriore c’è ancora la sua bambina di due anni, addormentata. Passano le ore e la figura della bambina addormentata non emerge, non viene a galla quella tragica «distrazione» . In letteratura, la distrazione produce, di solito, effetti comici, come nella pièce secentesca del francese Jean-François Regnard (Il distratto, appunto), il cui protagonista accetta la mano della donna che ama, dimenticandosi di essere già sposato. Oppure in una novella di Pirandello (La distrazione, appunto) dove il nocchiero di un carro funebre si scorda di trasportare una bara e, estenuato dalla sua «vitaccia porca» , lascia scorazzare liberamente i cavalli per la città. Distrazione, vuoto, assenza, dimenticanza, cancellazione, blackout, amnesia. Il caso di Teramo, Freud lo chiamerebbe un «lapsus memoriae» . Ma va messo tutto tra virgolette, perché ogni tentativo di definizione appare drammaticamente inadeguato alle conseguenze che il gesto (mancato) del papà di Elena ha prodotto. A che serve stare a chiedersi perché e per come? È successo a Teramo, come è successo in un passato recente a Catania, a Lecco, in Francia, in Cina. E spesso in un aeroporto, in un centro commerciale o in un’area di servizio (due anni fa a San Zenone Lambro), come nel film di Soldini Pane e tulipani, dove a essere dimenticata (dalla famiglia: marito e due figli) è una madre. Una sociologia facile potrebbe trarne la conseguenza che sono i non-luoghi di Marc Augé a favorire l’alienazione, dunque quel clamoroso blackout. Nelle fiabe, i figli vengono abbandonati dai genitori per fame o per cattiveria, mai per distrazione: da Hänsel e Gretel a Pollicino, a Biancaneve. Ma si sa che la realtà è più crudele delle favole, dove a tutto c’è rimedio. In un famoso verso, Fabrizio De André metteva in musica un dialogo allucinato in cui a una madre che piangeva: «Lo sa che io ho perduto due figli?» , un interlocutore cinico rispondeva: «Signora, lei è una donna piuttosto distratta» . La canzone si intitolava «Amico fragile» . L’amico più fragile è adesso il padre di Elena, certamente travolto dal senso di colpa. A qualcuno toccherà consolarlo, se possibile: «Non è colpa sua» , ha trovato la forza di dire sua moglie. Forse lei riuscirà ad accompagnarlo nel dolore procurato da un mistero a cui la neuropsichiatria troverà spiegazioni superficiali. Più che a Freud e agli scienziati, ora è tempo di ricorrere a Michelangelo e alla sua Pietà.
l’Unità 23.5.11
L’analisi
Quell’isola di follia in agguato e dentro ognuno di noi
Ci si può scordare di un figlio? La madre di Elena difende suo marito nonostante la tragedia. Ed è una lezione straordinaria
di Luigi Cancrini
La gara frenetica. Dobbiamo essere forti, muoverci in fretta per non essere esclusi
Psicopatologia della vita quotidiana, una delle opere più famose di Sigmund Freud fu pubblicata nel 1901. Parlando di lapsus e di amnesie, di sogni e di atti mancati, il padre della psicoanalisi e della moderna psicoterapia metteva in evidenza il modo in cui l’inconscio e le sue follie irrompono normalmente nella vita della persona normale. Condizionandoci e riportandoci di continuo all’imperfezione del nostro funzionamento mentale, al dubbio di cui non dovremmo mai liberarci sulla nostra capacità di essere davvero padroni, in ogni momento, del nostro pensiero e delle nostre azioni. La consapevolezza di questa imperfezione dovrebbe essere (e spesso è) un segno importante del nostro livello di maturità personale. Lo dimostra, meglio di qualsiasi altro esempio, il modo appassionato, fermo, pieno di dolore e di pietà in cui la madre della bambina morta tragicamente a Teramo difende oggi il suo compagno. Parlandone come di un padre straordinario. Riuscendo a restargli vicina anche dall’interno di uno strazio come quello da cui è palesemente travolta. Usando la dolcezza della comprensione invece della lama fredda del giudizio nel momento in cui quelli che vengono colpiti così duramente sono i suoi affetti più cari. La sua stessa vita.
Vale la pena di riflettere davvero molto seriamente su questa straordinaria lezione di stile. “Perdona il peccato, non il peccatore” è sicuramente il più bello e il più importante degli insegnamenti di Gesù nel momento in cui il Vangelo propone di sostituire il perdono alla vendetta “giusta” del Dio insegnato dal Vecchio Testamento. Accettare e praticare questo insegnamento chiede, tuttavia, una capacità appunto straordinaria di vedere
il fatto per cui l’uomo che sbaglia è sempre e solo un uomo che fa del male a se stesso oltre che all’altro e che non trae mai nessun vantaggio sostanziale dal suo errore. Un essere umano come noi da aiutare con la vicinanza. Da non distanziare con la durezza del giudizio di quelli che hanno bisogno di sottolineare gli errori degli altri solo per dimostrare, a se stessi prima che agli altri, di essere migliori di loro. Viviamo un tempo assai difficile proprio da questo punto di vista. Dai giochi della Playstation alla vita reale, dal mondo dello sport a quello del lavoro, quella in cui viviamo immersi è una competizione senza sosta che non concede nessun perdono. Dove in ogni momento c’è qualcuno che sbaglia e viene eliminato e dove tutto si muove in fretta e sempre più in fretta nella grande corsa ad ostacoli in cui si è trasformata la nostra vita di tutti i giorni. Un mondo in cui lo spazio per chi è più debole si riduce ogni giorno di più ed in cui la paura di perdere rende sempre più feroce la gara in cui si è ingaggiati anche senza volerlo. È proprio di questo, mi pare, che parla a noi tutti la madre della bambina che non c’è più. Duramente rappresentandosi l’assurdità della condizione in cui siamo costretti e abbiamo accettato di vivere. Correndo da un impegno all’altro senza riuscire più, spesso, a sistemarli all’interno di una gerarchia dotata di senso e senza più provare a volte il tempo necessario per noi e per le cose più importanti. Per la salute e per l’amore di ciò che vi è di più caro. Fino al momento in cui qualcosa dentro si rompe e non funzioniamo più come vorremmo e dovremmo. Travolti dalle isole di follia che sono sempre in agguato. Dentro tutti noi e dentro ognuno di noi.
Repubblica 24.5.11
Le mogli che difendono i mariti ad ogni costo
di Francesco Merlo
Verrebbe voglia di interrogare ad una ad una tutte le donne del mondo per sapere quante difenderebbero il proprio uomo contro ogni logica apparente, al di là del dolore più atroce e dell´offesa più volgare, con vigore e con pietà, con virilità femminile, come stanno facendo la signora Strauss-Kahn e la mamma di Teramo che ha perso la figlia di 20 mesi per la sbadataggine del marito, padre omicida per disgraziata distrazione. E chissà come avrebbe reagito la moglie superstite di Barbablù davanti alle vesti stracciate e alle carni straziate dal suo sposo, e chissà cosa avrebbe fatto Maria se Giuseppe avesse dimenticato Gesù bambino sotto il sole. Di sicuro siamo tutti ancora a bocca aperta e non ci raccapezziamo davanti alla dignità della signora francese, a quel suo negare la violenza così evidente del marito, a proteggerne il viziaccio, a derubricare anche lo stupro in eccesso di testosterone e in marachella sessuale: «Quando si avvicina uno stupro, rilassati e goditela» dice Kevin Kline nel film «The Extra Man» (Un perfetto gentiluomo). Davvero è possibile che anche la signora Anne Sinclair la pensi così? E com´è possibile che Chiara Sciarrini abbia avuto una sola, iniziale reazione di rabbia e ora ripeta «mio marito è un buon padre» sul cadavere sezionato della sua Elena, al punto da far pensare che in quella donazione di organi ci sia una qualche forma di risarcimento più per lui che per sé stessa, quasi a rassicurarlo che in fondo in fondo non l´ha uccisa del tutto?
A parti invertite, come avrebbero reagito i mariti, quei due mariti? Io penso alla vigliaccheria, che è il nostro istinto immediato, la chiave che porta alle cose abiette e peggiori, ad aggrapparsi per esempio alle corna dell´onore e a piagnucolare sotto la protezione delle convenzioni oppure, nel caso di Teramo, a recriminare e ad abbandonarsi alla rabbia cieca, come se dimenticare una bambina nell´auto equivalesse a dimenticare la caffettiera sul fuoco o il rubinetto che sgocciola. Le famiglie non si sfasciano perché la morte spalanca all´improvviso le porte di casa, ma per molto meno, e può arrivare in ogni momento la goccia che fa traboccare il vaso pieno di rancori e di rimpianti.
Ma è solo il maschio a vedere nella donna che gli invecchia accanto un eterno rimprovero? Se nella commedia leggera c´è «casa Vianello», nella tragedia pesante di Teramo molti sarebbero diventati stracci inerti, oppure si sarebbero consegnati alla furia, avrebbero trovato nell´omicidio colposo la prova conclamata che le famiglie sono pozzi di odio, e si sarebbero liberati del fardello matrimoniale, coltivando la vendetta con il plauso di tutto il mondo. E magari a Teramo un´altra donna, una moglie diversa da Chiara Sciarrini ora parlerebbe di follia assassina, di atto mancato, di violenza contro di lei, di resa dei conti. E tutta la vulgata psicoanalitica e il facile sociologismo le verrebbero in aiuto.
Anche la signora Sinclair è oggetto di sociologismi. Ma nessuno può sostenere convintamente che difenda, nel marito importante, il proprio status symbol. È infatti la giornalista che tutte le giornaliste vorrebbero essere. Elegante e affascinante fa sempre grandi ascolti, e sa porre con garbo le domande giuste senza mai diventare caricatura, senza rifugiarsi nel pittoresco, senza ricorrere al gattamortismo di chi si finge debole e indifesa per lucrare consenso. Ed è la tipica donna che piace alle donne, ruolo complicato da incarnare. Al punto che in Francia è (era?) più amata di Carla Bruni. Ed è anche ricchissima di suo, ovvero indipendente e dunque incorruttibile. Solo il suo uomo l´ha potuta fermare. Per lui aveva rinunziato alla ribalta televisiva e per lui adesso si rifiuta di interpretare il ruolo classico e scontato della donna ferita. Quelle sue immagini nel tribunale di New York, con i baci e i sorrisi inviati al marito, hanno fatto indietreggiare la pietà con cui tutti la vorrebbero consolare. Al contrario, esibisce l´orgoglio, addirittura la superbia, per quel mostro che è stato certificato come mostro. Ma su cosa è fondata questa superbia?
A Teramo una donna offre un esempio di solidarietà molto alta perché è alimentata dalla sofferenza. È il volto inaspettato dell´amore, quello poggiato e completato dal dolore di madre, un amore che è come la spontaneità del respiro, è quello che rimane. Si tratta di sentimenti purissimi, di una linea d´affetto straordinaria che percorre il triangolo che va dalla mamma alla figlia e ritorna, rafforzato, al padre, al marito che sta scontando la più terribile delle condanne a vita. Nessun tribunale e nessun gendarme potrà infatti punirlo in modo più grave: la morte della figlia è la pena che si è inflitto da solo, la più dura. E adesso solo la moglie può salvarlo.
Più misteriosa è la signora Strauss Kahn. Per suo marito è stata scomodata l´antropologia, per lui è stato fatto l´identikit del predatore alfa. Ma anche il leone, che è il re della foresta, riesce a fare il suo dovere di leone solo perché, a qualche passo di distanza, c´è la leonessa che lo guarda in tralice. La signora Strauss Kahn difende il suo leone per solidarietà sessuale? È possibile che, sola in tutta la Francia, non sapesse che il marito frequentava club scambisti ed era già stato accusato di violenza e non c´era donna che non dovesse o resistergli o cedergli? E non si accorge che è disperata la battaglia per riabilitarlo, quale che sia la conclusione processuale a New York?
Sono domande alle quali ciascuno può dare una sua risposta perché sono tante le spiegazioni possibili. A me pare giusto segnalare che solo l´universo femminile riserva ancora sentimenti così sorprendenti come quelli della signora di Parigi e della signora di Teramo, vita inesplorata fuori dai luoghi comuni, con una chiarezza e una forza che nessun esame del Dna e nessuna autopsia potranno mai avere, con una potenza che nessuna indagine di giornalista e di magistrato, francesi o americani o abruzzesi che siano, potrà mai eguagliare.
Repubblica 23.5.11
Le psicologhe che lo assistono: all´inizio non riusciva neanche a piangere, poi ha iniziato a ricordare
Per papà Lucio un doppio rimorso "A metà mattina tornai in macchina e non vidi che lei era ancora lì"
"Dovevo prendere un documento, ho sentito un gemito ma pensavo fosse uno dei nostri cani"
di Meo Ponte
TERAMO - Amava il giallo la piccola Elena. «Tra tutti i colori era quello che preferiva» dice Chiara Sciarrini indicando i disegni appesi alla parete della stanza ora vuota. Su un foglio a quadretti c´è l´abbozzo di un arcobaleno, sugli altri tanti piccoli scarabocchi lasciati con le dita intinte nel giallo. Sono le 10 di ieri mattina e Lucio e Chiara sono appena tornati nella loro casa a Campli, un piccolo borgo a venti chilometri da Teramo. Li accompagnano le tre psicologhe che da giovedì non li hanno mai abbandonati, strappandoli al dolore che li soffocava. Quando Maria Cristina Alessandrelli, una pioniera della psicologia dell´emergenza che nel 2008, per prima in Italia ha creato l´Ape, l´associazione psicotraumatologica dell´emergenza, e le sue giovani collaboratrici, Silvia Frantini e Francesca Brugnolini, hanno incontrato la coppia lei annegava nei singhiozzi, lui aveva lo sguardo perso nel vuoto, incapace persino di piangere. «Riusciva solo a balbettare qualche frase sconnessa, che era pronto a morire pur di ridare la vita alla figlia» ricorda la professoressa Alessandrelli. Già durante il primo incontro di giovedì pomeriggio nel reparto di rianimazione del Salesi le tre psicologhe riescono a far breccia nel muro di disperazione di Lucio e Chiara. «In quel momento erano come bambini fragili e indifesi, dovevamo diventare il sostegno che li avrebbe accompagnati nel percorso delle diverse fasi del trauma» sottolineano le tre psicologhe. Il giorno dopo Lucio riesce finalmente a parlare, ricorda il momento in cui ha lasciato l´auto nel parcheggio dell´Università, affiora alla sua mente un particolare terribile e ammette: «Sono tornato all´auto a metà della mattinata per prendere un documento che avevo lasciato sul sedile anteriore. Ho sentito un flebile gemito, ho pensato che uno dei nostri tanti cani fosse salito sull´auto. Ho guardato e non ho visto nulla. Non mi sono accorto di Elena, non riesco a spiegarmelo».
Giovedì sera quando Chiara e Lucio lasciano l´ospedale per la loro seconda notte in albergo lei stringe le mani alla professoressa Alessandrelli sussurrando: «Non sparite vero? Domani ci vediamo?». Venerdì è ancora un giorno intenso ma il momento più terribile arriva nel pomeriggio di sabato. Le tre psicologhe sono accanto a Chiara e Lucio quando il professor Franco Rychlicki che ha appena concluso il delicato intervento per aspirare l´edema cerebrale dalla testolina di Elena dice loro che non ci sono più speranze. La coppia sembra soccombere al dolore poi Chiara si riscuote, stringe la mano a Lucio e sussurra: «Voglio che dalla morte di Elena sorga una vita». È in quel momento che decide donare il corpo della sua piccola a chi può ancora vivere.
Ieri mattina Lucio e Chiara sono tornati a casa. «Ci siamo dati appuntamento alle nove davanti al Salesi, ci hanno detto che senza di noi non ce la facevano a tornare nella casa dove Elena non c´era più» dice Silvia Frantini. Quando arrivano davanti alla casa colonica appena finita di ristrutturare e che odora ancora di nuovo Chiara non riesce a scendere dall´auto, paralizzata dal ricordo. Le tre psicologhe le parlano, la prendono per mano. Lei si riprende e le guida in un giro della casa: mostra loro la stanza di Elena, l´armadio con gli abitini appesi, i disegni. Poi il giardino dove galoppa il pony che tanto faceva ridere la piccola e l´orto. «Qui ci veniva con il nonno» spiega Chiara. I vicini, secondo l´usanza della zona, portano il pranzo: pasta e porchetta, un po´ di frutta. «Alle 14 ci siamo chiuse con loro nello studio di Lucio e ci siamo rimaste sino alle 18» ricordano le tre psicologhe. È il colloquio più intimo. Dopo Chiara e Lucio riescono ad avvicinarsi per la prima volta al pick up dai vetri neri che ha ucciso Elena. «La mettevo dietro il mio sedile per proteggerla» dice ancora lui. E alle tre psicologhe che se ne vanno confessa: «Siete state un anello di protezione conro il dolore».
Il Sole 24 Ore Domenica 22.5.11
Il mio Kafka, modello d'ispirazione
di Philip Roth
Sto
guardando, mentre scrivo di Kafka, la sua fotografia a quarant'anni (la
mia età): è il 1924, con ogni probabilità l'anno più dolce e pieno di
speranza della sua vita adulta, e l'anno della sua morte. Il viso è
affilato e scheletrico, la faccia di uno che vive a credito: zigomi
pronunciati resi ancora più evidenti dall'assenza di basette; orecchie
con la forma e l'inclinazione delle ali di un angelo; un'espressione
intensa e creaturale di sbigottita compostezza; enormi paure, un enorme
controllo; unico tratto sensuale, una cuffia nera di capelli levantini
tirata sul cranio; c'è una familiare svasatura ebraica nel ponte del
naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta, il naso di metà
dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati
come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto,
il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle
minori.
Ovviamente
pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a
chiunque altro ad Auschwitz: è solo orribile a proprio modo. Ma lui morì
troppo presto per l'olocausto. Se fosse sopravvissuto, forse l'avrebbe
scampato fuggendo insieme al suo caro amico Max Brod, che trovò rifugio
in Palestina e restò cittadino di Israele fino alla morte nel 1968. Ma
Kafka che sfugge a qualcosa? Suona inverosimile per uno così affascinato
dalle trappole e dalle esistenze culminanti in morti angosciose. Eppure
c'è Karl Rossmann, il suo emigrante di primo pelo. Avendo immaginato la
fuga e le alterne fortune di Karl in America, Kafka non avrebbe potuto
trovare un modo per mettere anche lui in atto una fuga? La New School
for Social Research dl New York che diventa il suo Grande Teatro
Naturale di Oklahoma? O magari, grazie a una raccomandazione di Thomas
Mann, una posizione al dipartimento di Germanistica a Princeton...
D'altra parte, se Kafka fosse sopravvissuto, chissà se i libri che Mann
celebrò dal suo rifugio nel New jersey sarebbero mai stati pubblicati;
Kafka avrebbe potuto distruggere i manoscritti che già una volta aveva
chiesto a Max Brod di far sparire al momento della sua morte, o
quantomeno avrebbe potuto continuare a tenerli segreti. Il profugo ebreo
giunto in America nel 1938 non sarebbe dunque stato l'«umorista
religioso» di Mann, ma uno scapolo cinquantacinquenne erudito e di
salute cagionevole, ex legale di una compagnia d'assicurazioni
governativa di Praga ritiratosi in pensione a Berlino al tempo
dell'ascesa al potere di Hitler; un autore, sì, ma solo di alcuni
racconti eccentrici, perlopiù riguardanti animali, racconti di cui in
America nessuno aveva sentito parlare e che in Europa solo una manciata
di persone avevano letto; un K. senza casa, ma privo della caparbietà e
della determinazione di K., un Karl senza casa, ma privo dello spirito
giovanile e della resistenza fisica dl Karl; semplicemente un ebreo
abbastanza fortunato da essere fuggito portando in salvo la vita, con
giusto una valigia contenente qualche vestito, qualche foto di famiglia,
qualche ricordo di Praga e i manoscritti, ancora inediti e frammentari,
di America, Il processo e Il castello, nonché (se ne vedono di cose
strane) di altri tre romanzi incompiuti, non meno notevoli dei bizzarri
capolavori tenuti per sé in nome di una timidezza edipica, una follia
perfezionistica e un insaziabile desiderio di solitudine e purezza
spirituale.
Luglio
1923: undici mesi prima di morire in un sanatorio di Vienna, in qualche
modo Kafka trova la forza di lasciare per sempre Praga e la casa di suo
padre. Mai prima è riuscito anche solo lontanamente a vivere per conto
proprio, indipendente dalla madre, dalle sorelle e dal padre, né è mai
stato uno scrittore se non nelle poche ore in cui non lavora nel
dipartimento legale dell'ufficio delle assicurazioni contro gli
incidenti sul lavorodi Praga; da quando si è laureato in giurisprudenza è
stato, secondo tutte le testimonianze, il più coscienzioso e scrupoloso
dei dipendenti, sebbene trovi il proprio mestiere noioso e snervante.
Ma nel giugno del 1923 ‑ dopo aver ottenuto da qualche mese il
pensionamento per ragioni di salute ‑ incontra in una località marittima
tedesca una ragazza ebrea diciannovenne, Dora Dymant, impiegata presso
la colonia estiva della Casa popolare ebraica di Berlino. Dora (che ha
la metà degli anni di Kafka) ha lasciato la sua famiglia di polacchi
ortodossi per guadagnarsi da vivere per conto proprio; lei e Kafka ‑ da
poco quarantenne ‑ si innamorano... Fino a questo momento lui è stato
fidanzato con due ragazze ebree molto più convenzionali ‑ con una di
loro per due volte ‑, fidanzamenti frenetici e angosciati, mandati a
monte principalmente dalle sue paure. «Sono spiritualmente inadatto al
matrimonio, ‑ scrive al padre nella lettera di quarantacinque pagine che
aveva affidato alla madre perché gliela consegnasse ‑. Dall'istante in
cui decido di sposarmi non riesco più a dormire. la testa mi arde notte e
giorno, non vivo più». Poi spiega perché. (il matrimonio mi è precluso ‑
dice al padre ‑ perché si, tratta dell'ambito più propriamente tuo». La
lettera che spiega cosa c'è che non va tra questo padre e questo figlio
risale al novembre 1919; la madre aveva ritenuto meglio non
consegnarla, forse per mancanza di coraggio; probabilmente, al pari del
figlio, per mancanza di speranza.
Nei
due anni successivi, Kafka tenta di portare avanti una relazione con
Milena JesenskàPollak, un'intensa ventiquattrenne che ha tradotto in
ceco alcuni suoi racconti ed è sposata molto infelicemente a Vienna; la
relazione con Milena, condotta in modo febbrile ma perlopiù per
corrispondenza, è per Kafka ancora più demoralizzante degli spaventevoli
fidanzamenti con le brave ragazze ebree. Loro si limitavano a suscitare
in lui quei desideri da padre di famiglia che non osava appagare,
desideri inibiti dall'esagerata soggezione che provava verso il padre e
dall'ipnotica malia della propria solitudine; invece la ceca Milena,
impetuosa, scalpitante, indifferente ai vincoli convenzionali, donna di
furie e appetiti, suscita in lui bramosie e paure più elementari.
Secondo
un critico praghese, Rio Preisner, Milena era «psicopatica»; secondo
Margarete Buber‑Neumann, vissuta per due anni al suo fianco nel campo di
concentramento tedesco dove Milena morì nel 1944 in seguito a
un'operazione ai reni, era potentemente sana, straordinariamente umana e
coraggiosa. Il necrologio di Milena per Kafka fu l'unico di una qualche
rilevanza a comparire sulla stampa praghese; la prosa è forte, come lo è
la sua rivendicazione dei successi di Kafka. Lei non ha ancora
trent'anni, il morto è praticamente sconosciuto come scrittore al di là
della sua piccola cerchia di amici, eppure Milena scrive: «La sua
conoscenza del mondo era insolita e profonda. Lui stesso era un mondo
insolito e profondo... una stupefacente delicatezza d'animo e di una
lucidità mentale lontanissima da qualsiasi compromesso; ma, per contro,
aveva fatto ricadere sulla malattia tutto il peso della sua angoscia
esistenziale... Scrisse i libri più significativi della letteratura
tedesca contemporanea».
Il Sole 24 Ore Domenica 22.5.11
Josè Saramago
Scrutando il sottoscala del Nobel portoghese
di Bruno Arpaia
Dell'autore, Doniingos Bomtempo, non sappiamo nulla, se non che è portoghese e che il suo nome è uno pseudonimo. In teoria, anche del protagonista del suo romanzo, S. Il Nobel privato, noi lettori non dovremmo sapere nulla, ma non è un mistero per nessuno che dietro quel personaggio si nasconde José Saramago, che vive la sua vecchiaia su un'isola spagnola e che è l'unico premio Nobel del suo Paese.
Il comunicato stampa della casa editrice presenta il libro come una specie di romanzo a chiave, scritto da qualcuno che «sembra saperne molto delle invidiee gelosie che animano i salotti letterari», c promette «allusioni a scrittori che si sono trovati a contenderc il Nobel con Saramago, primo fra tutti Lobo Antunes», nonché pagine erotiche a non finire. E in parte è davvero così, perché, nel romanzo, S. è un uomo con numerosi nemici, letterari e non, dei quali si prende vanitosamente gioco, un vecchio quasi impotente, sposato con una donna molto più giovane che lo tradisce a pio non posso, eviadi questo passo. E tuttavia, diversamente da quanto hanno scritto alcuni recensori, nel libro non c'è solo questo. Certo, il "personaggio S." non fa la figura dell'eroe e non è esente dalle meschinità che affliggono più o meno tutti noi; ma quello stesso personaggio è anche un uomo complesso e malinconico, alle prese con la vecchiaia, con il pensiero della morte che si approssima, con i desideri c gli amori ormai impossibili, nonché uno scrittore sincero e profondo, malgrado i sentimenti non certo edificanti che prova verso alcuni colleghi. Insomnia, nel romanzo‑divertissementment di Domingos Bomtempo, oltre al presunto oltraggio di lesa maestà a colui che resta uno dei più grandi scrittoti del Novecento, trapelano qua e là quei brandelli di verità umana ed estetica, per quanto oscura e spiacevole, che dovrebbero ritrovarsi in ogni romanzo degno di questo nome. Gll stessi brandelli di verità emergono da una (più rituale e devota) intervista al Nobel portoghese, condotta una quindicina di anni fa a Lanzarote dal suo amico scrittore Baptista‑Bastos. Nel brevissimo testo, Sararamago parla dell'isola e dell'isolamento, della scrittura, del Comunismo, delle donne, del Portogallo, dei suoi avversari, dell'utopia e di Dio. Completano questa sorta di autoritratto (o di questo "ritratto appassionato", come recita li sottotitolo del volume) una premessa della moglie Pilar del RIo, una cronologia della vita e una serie di giudizi critici sulla sua opera.
S., Il Nobel privato, Domiogos Bomtempo traduzione di foana Clementi Cavallo di Ferro, Roma pagg. 188 €15,00
José Saramago. Un ritratto appassionato, Baptista‑Bastos traduzione di Daniele Petruccioli L'Asino d'oro, Roma pagg. 286 € 15,00
Il Sole 24 Ore Domenica 22.5.11
Josè Saramago
Scrutando il sottoscala del Nobel portoghese
di Bruno Arpaia
Dell'autore, Doniingos Bomtempo, non sappiamo nulla, se non che è portoghese e che il suo nome è uno pseudonimo. In teoria, anche del protagonista del suo romanzo, S. Il Nobel privato, noi lettori non dovremmo sapere nulla, ma non è un mistero per nessuno che dietro quel personaggio si nasconde José Saramago, che vive la sua vecchiaia su un'isola spagnola e che è l'unico premio Nobel del suo Paese.
Il comunicato stampa della casa editrice presenta il libro come una specie di romanzo a chiave, scritto da qualcuno che «sembra saperne molto delle invidiee gelosie che animano i salotti letterari», c promette «allusioni a scrittori che si sono trovati a contenderc il Nobel con Saramago, primo fra tutti Lobo Antunes», nonché pagine erotiche a non finire. E in parte è davvero così, perché, nel romanzo, S. è un uomo con numerosi nemici, letterari e non, dei quali si prende vanitosamente gioco, un vecchio quasi impotente, sposato con una donna molto più giovane che lo tradisce a pio non posso, eviadi questo passo. E tuttavia, diversamente da quanto hanno scritto alcuni recensori, nel libro non c'è solo questo. Certo, il "personaggio S." non fa la figura dell'eroe e non è esente dalle meschinità che affliggono più o meno tutti noi; ma quello stesso personaggio è anche un uomo complesso e malinconico, alle prese con la vecchiaia, con il pensiero della morte che si approssima, con i desideri c gli amori ormai impossibili, nonché uno scrittore sincero e profondo, malgrado i sentimenti non certo edificanti che prova verso alcuni colleghi. Insomnia, nel romanzo‑divertissementment di Domingos Bomtempo, oltre al presunto oltraggio di lesa maestà a colui che resta uno dei più grandi scrittoti del Novecento, trapelano qua e là quei brandelli di verità umana ed estetica, per quanto oscura e spiacevole, che dovrebbero ritrovarsi in ogni romanzo degno di questo nome. Gll stessi brandelli di verità emergono da una (più rituale e devota) intervista al Nobel portoghese, condotta una quindicina di anni fa a Lanzarote dal suo amico scrittore Baptista‑Bastos. Nel brevissimo testo, Sararamago parla dell'isola e dell'isolamento, della scrittura, del Comunismo, delle donne, del Portogallo, dei suoi avversari, dell'utopia e di Dio. Completano questa sorta di autoritratto (o di questo "ritratto appassionato", come recita li sottotitolo del volume) una premessa della moglie Pilar del RIo, una cronologia della vita e una serie di giudizi critici sulla sua opera.
S., Il Nobel privato, Domiogos Bomtempo traduzione di foana Clementi Cavallo di Ferro, Roma pagg. 188 €15,00
José Saramago. Un ritratto appassionato, Baptista‑Bastos traduzione di Daniele Petruccioli L'Asino d'oro, Roma pagg. 286 € 15,00
l’Unità 26.5.11
Intervista a Susanna Camusso
«Ora una svolta politica
per lo sviluppo e il lavoro»
Il leader Cgil: «Il governo è assente, incapace di affrontare l’emergenza sociale 800mila donne licenziate perchè hanno fatto un figlio, un’ingiustizia vergognosa»
di Rinaldo Gianola
Il caso Fincantieri è solo l’ultimo, gravissimo episodio che conferma l’arroganza e la violenza della “cultura” di questi tempi, di una ideologia che scarica sui lavoratori, sulle famiglie, sugli ultimi, gli errori, le mancate scelte dell’azienda, il disinteresse del governo».
Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, analizza con l’Unità l’ultimo dramma sociale esploso in queste ore nei cantieri navali di Castellammare di Stabia e di Sestri Ponente, un ulteriore atto della crisi economica e politica che attanaglia il paese, ma soprattutto il segno dell’incapacità di Berlusconi di dare risposte credibili, coerenti, alle domande dei lavoratori, dei giovani, delle donne, anche alle imprese sempre più deluse. Il leader della Cgil ritiene «che da questo governo non possiamo aspettarci nulla, è necessario un profondo cambiamento e forse il vento sta cambiando».
Scontri di piazza, occupazioni, proteste. La vertenza Fincantieri apre una nuova stagione di emergenza sociale. Come la giudica?
«Fincantieri ha fatto una scelta insopportabile. Annunciare la chiusura degli stabilimenti, i licenziamenti, il ridimensionamento produttivo con queste modalità è un atto di violenza e nulla mi può convincere che fosse proprio necessario seguire questo percorso. Molte crisi aziendali ci hanno insegnato che anche situazioni difficili possono essere affrontate in altro modo, senza dare fuoco alle polveri o cercando l’imbarbarimento delle relazioni sociali. Non si risolvono i problemi dell’azienda scaricando tutto sui lavoratori».
Ma la crisi Fincantieri c’è davvero...
«Certo. E mi fa rabbia la scelta dell’azienda perchè dal 2009 esiste un teorico tavolo di confronto al ministero dello Sviluppo. Abbiamo sollecitato più volte di tornare a discutere i problemi, ad esempio per il cantiere di Ancona tutto in cassa integrazione, per Monfalcone, per la Liguria dove anche le amministrazioni locali si sono preoccupate. Non è successo niente. E adesso pensano di scaricare le conseguenze dei loro errori sugli operai e loro famiglie. È un atteggiamento sbagliato».
Questo caso richiama l’azione del governo. Come si è comportato? «È irresponsabile. Non ha nemmeno presente quali sono i problemi dell’apparato produttivo italiano. Il governo è assente e non fa nulla, pensa ancora che la nostra economia possa uscire dalle difficoltà solo con l’aumento dei consumi e senza pensare all’industria, al lavoro: ma questa formula, nel mondo, è servita ad arricchire i più ricchi e ad aumentare le diseguaglianze. In Italia non ci poniamo nemmeno il problema di riprendere lo sviluppo in modo diverso dal passato, pensando all’ambiente, all’innovazione, ai diritti delle persone, a un futuro sostenibile. Niente, zero».
A che punto siamo nella crisi?
«Siamo più indietro di tutti. Il paese si impoverisce. Il governo ha fatto 10-12 manovre di aggiustamento, tutte ispirate da una sola idea: i tagli alla cittadinanza. I dati Istat e Inps sono la fotografia di un paese indebolito, senza speranze, più povero, più ingiusto. In questa situazione trovo davvero fuori luogo una certa ipocrisia politica e culturale che si diffonde nel paese».
A che cosa si riferisce?
«Penso ai più deboli, agli anziani, ai giovani, alle donne. Trovo francamente insostenibili le prediche sulla famiglia che arrivano da più parti, anche da questo governo, quando 800mila donne perdono il lavoro,
sono licenziate, perchè hanno fatto un figlio. Questa è la realtà. 800mila lavoratrici sono state costrette a dimettersi perchè hanno deciso di avere un figlio. Il governo Berlusconi, lo voglio ricordare, tra i suoi primi atti decise la cancellazione di quella piccola ma importantissima legge varata dal centrosinistra che vietava la pratica vergognosa e incivile delle dimissioni in bianco». Camusso, governo di destra o sinistra la verità è che non ci sono i soldi. «Bene, non facciamo tutto. Scegliamo cosa fare come hanno fatto altri paesi. Investiamo, cerchiamo di riavviare la crescita, piantiamola di tagliare fondi e servizi, evitiamo di allargare le diseguaglianze. Perchè è chiaro che in questa crisi c’è chi ci ha guadagnato e chi, come i lavoratori e i pensionati, ha continuato a perdere reddito. Noi non siamo la Grecia, non vedo quel pericolo. Ma sento che la povertà cresce, che per l’Italia c’è il rischio pesante di non poter più difendere un’idea positiva per quelli che verranno dopo di noi». Proposte? Un altro governo?
«La maggioranza di governo è sempre più in difficoltà, stanno insieme per interessi personali, per avere la poltrona, perchè temono una vera svolta politica. Il cambiamento politico è un obiettivo da conquistare, forse non è ancora a portata di mano, ma si avvicina. Nei prossimi giorni Tremonti annuncerà una manovra correttiva di 40-46 miliardi di euro: si può davvero pensare che il paese non reagirà di fronte a nuove ingiustizie, ad altre stangate senza crescita, senza una equa riforma fiscale? Il vento forse sta cambiando». Confindustria oggi riunisce la sua assemblea. Gli industriali hanno capito che governo hanno di fronte? «Forse sì. Avverto anche tra le imprese una progressiva convinzione sull’inefficacia di Berlusconi. Per dirlo con le parole di un tempo questo governo non ha dato risposte nemmeno ai padroni contro i lavoratori. Ma per noi è chiaro che le imprese non sono estranee alle ragioni di questa crisi, Berlusconi c’è dal 1994 e lo hanno sempre accompagnato. Oggi, però, ci guadagnano solo gli evasori, o chi aveva esportato illegalmente i capitali, chi ha speculato sulla finanza. Le imprese serie e responsabili conoscono bene i disastri combinati da Berlusconi. Noi della Cgil lo diciamo da tempo, la divisione sindacale non può essere considerata un gran risultato in questo momento, c’è bisogno di lavorare insieme».
C’è qualche possibilità di ripresa di un lavoro unitario con Cisl e Uil? «C’è qualche timido segnale, qualche sprazzo. Ma ci sono enormi difficoltà, grandi differenze sull’analisi della crisi e sulle responsabilità di questo governo»..
Un’ultima domanda. L’americano Marchionne dice che per Fabbrica Italia non può fare tutto da solo... «Fiat ha portato il suo baricentro in America, c’è stato un enorme spostamento finanziario. In Italia la Fiat avrà una presenza residuale. Già oggi la Gran Bretagna, che ai tempi della Thatcher decise di rinunciare all’industria a favore della finanza, produce più auto di noi. E non parliamo della Germania... Possibile che al governo questa novità non interessi?».
il Fatto 26.5.11
Donne di(s)messe
di Caterina Soffici
Parliamo delle 800 mila donne che tra il 2008 e il 2009 hanno dato le dimissioni da un posto di lavoro causa maternità (ultimo dato Istat). E chi ritiene che parlare dell’occupazione femminile sia un esercizio retorico che interessa a poche stanche femministe reduci da battaglie perse, non ha capito come gira il mondo. Le donne, ovunque, dalle piazze del medio oriente alle rivolte nell’Africa profonda, sono il maggior fattore di cambiamento della società. E noi continuiamo a mortificarle in ogni modo. Donne e giovani, sempre le ultime ruote del carro. Quale sia l’importanza della galassia femminile nello sviluppo di una nazione moderna degna di questo nome lo sapevano bene anche i Padri costituenti che infatti all’art. 37 della Costituzione italiana hanno scritto: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro le devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
ECCO un altro lampante caso di lungimiranza tradita e di palese violazione della Carta. In verità la donna lavoratrice, al contrario di quanto recita l’art 37, non ha affatto gli stessi diritti che spettano al lavoratore, perché è ancora costretta a scegliere tra lavoro e famiglia, tra vita pubblica, carriera, indipendenza economica, emancipazione e vita privata. Sembra che stiamo descrivendo un società arcaica e medievale, eppure è l’Italia del Terzo millennio. A questi risultati non si arriva casualmente. C’entra la crisi globale, certo. Ma non è un caso che la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco” sia tornata in auge proprio di recente e che il numero delle neomamme “licenziate” sia così alto. Le dimissioni in bianco sono una delle pratiche più odiose in circolazione. Si tratta di quelle lettere senza data che il lavoratore è costretto a firmare al momento dell’assunzione e a consegnare al datore di lavoro, il quale le tirerà poi fuori dal cassetto al momento opportuno. Per esempio quando un lavoratore si ammala di tumore. Oppure, guarda caso, quando una donna rimane incinta. È un fenomeno illegale, ma difficile da provare, subdolo e sommerso. Perché assieme alla lettera di dimissioni senza data il lavoratore spesso deve consegnare anche la busta e la raccomandata scritta di suo pugno, così in caso di contestazione è ancora più difficile fare causa. Ogni anno 1.800 donne chiedono assistenza legale alla Cgil contro le dimissioni in bianco. Dati sballati per difetto: i patronati delle Acli quantificano che una dimissione “volontaria” su 4 legata alla maternità è falsa.
PROPRIO per evitare questi soprusi, che secondo le statistiche colpiscono principalmente le donne, il governo Prodi aveva approvato la legge 188 secondo cui le dimissioni volontarie potevano essere date solo usando dei moduli elettronici numerati progressivamente con un protocollo unico nazionale, validi 15 giorni. Ecco che diventava impossibile far firmare le dimissioni senza data. L’abolizione della legge 188 è stato uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi e dell’attuale ministro Sacconi. Volete sentire la ridicola motivazione? Per snellire i troppi adempimenti burocratici delle aziende. E questo solo per parlare di chi viene espulso dal mercato del lavoro. Poi ci sarebbero tutte le donne che vengono messe nel sottoscala quando rientrano dalla maternità, quelle umiliate, offese, fatte sentire in colpa, demansionate. E poi ancora la mancanza di strutture, asili nido, welfare eccetera, e l’elenco è lunghissimo come sappiamo. Non sono cose che si risolvono in un attimo. Ma ci sono proposte interessanti. Come per esempio quella sostenuta da più parti (ma ancora lettera morta) di usare i soldi risparmiati grazie all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne imposta dalla Ue a provvedimenti in favore dell’occupazione femminile e la conciliazione. Sono svariate centinaia di milioni di euro all’anno (per il decennio 2010-2020 si parla di 3,7 miliardi) che si potrebbero vincolare a azioni positive per le donne. Sapete, tanto per fare un esempio, quanti asili nido si possono costruire con 3,7 miliardi? E quante detrazioni fiscali per chi assume una neomamma?
Repubblica 26.5.11
Legge elettorale, il Pd punta sulla Lega
Bersani: incontri dopo i ballottaggi. Casini: sì al tavolo. Pdl in allarme
di Giovanna Casadio
Bocchino: pronti a discutere Quagliariello: sono solo fantasie, a Bossi non conviene
ROMA - Il Pd sulla legge elettorale vuole essere della partita. Il segretario Bersani annuncia che i Democratici sono «pronti a discuterne con tutti», e quindi anche con la Lega. «Se l´intenzione di fare una nuova legge c´è, noi parliamo con tutti - ribadisce ieri - questo era vero un anno fa, sei mesi fa, resta vero oggi e domani. Perché questa legge è vergognosa, scandalosa e va superata». Non un semplice sfogo, quello del segretario del Pd. Bensì l´annuncio di un´iniziativa concreta: dopo i ballottaggi Bersani pensa di incontrare Bobo Maroni, il ministro dell´Interno, il più dialogante dei lumbàrd. Così da verificare quale è la reale disponibilità dei leghisti: fino a che punto sono disposti a spingersi in una riforma e se pensano davvero all´abolizione del premio di maggioranza per avere un sistema semi proporzionale. Insomma, se puntano ad avere mani libere dal Pdl.
A quel punto del resto si potrà ragionare a bocce ferme. «Di abboccamenti però ce ne sono sempre», commenta Daniele Marantelli, il deputato democratico di Varese che ha il ruolo di ufficiale di collegamento tra il Carroccio e Bersani. Intanto il raccordo tra i leader dell´opposizione è in corso. Pier Ferdinando Casini al Tg5 commenta: «Se si vorrà fare un patto proposto dalla Lega per cambiare la legge elettorale, noi siederemo al tavolo. È necessaria una legge elettorale che restituisca ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari e che superi il bipolarismo sconfitto ancora una volta in queste elezioni amministrative». Apertura anche dei finiani. È Italo Bocchino, il vicepresidente di Fli, a dare il via libera al dialogo: «Siamo pronti a discuterne».
Si capisce che la legge elettorale - un argomento che Berlusconi liquida come poco interessante per gli elettori e per gli stessi politici, blindando però l´attuale Porcellum come il «miglior sistema del mondo» - può diventare il pomo della discordia del centrodestra. A meno che la Lega non faccia retromarcia e si rimetta in riga, legando la sua sorte per sempre a quella di Berlusconi. Gaetano Quagliariello, il vicepresidente dei senatori Pdl, è certo: «Sono tutte fantasie. La Lega rimarrà all´interno del quadro bipolarista e maggioritario? Io credo di sì. Non ha vantaggio ad uscirne, rischia di restare completamente marginalizzata». E invia anche un messaggio al Pd: «Da queste elezioni amministrative esce un Pd che ha una forza elettorale, ma non ha una classe dirigente e infatti ha avuto candidati che provengono da altri partiti. Ai Democratici conviene il meccanismo maggioritario e bipolare». In commissione Affari costituzionali ieri in Senato sono riprese le audizioni sulla riforma elettorale. Lucio Malan, il relatore del Pdl, è netto: «Se la Lega si smarcasse è chiaro che la maggioranza cadrebbe perché vorrebbe dire fare passare una legge elettorale che dissolve la maggioranza. Sarebbe un´arma di distruzione. Mi sembra difficile».
il Riformista 26.5.11
Legge elettorale e sistema politico
di Emanuele Macaluso
http://www.scribd.com/doc/56304572
Repubblica 26.5.11
Roma, braccialetti col numero agli ambulanti abusivi "Come ai tempi dei nazisti"
Insorge l´opposizione. I commercianti: ben fatto
di Anna Rita Cillis Alessandra Paolini
Blitz in piazza di Spagna, settanta identificati "Ci hanno trattato da criminali"
ROMA - È affollata piazza di Spagna all´una del pomeriggio e una settantina di ambulanti, martedì, è lì che vende la merce sui tappetini, come sempre. Un souk da 12mila "pezzi" sulla scalinata più famosa al mondo. Gli agenti della municipale decidono di fare un blitz: ma stavolta prima delle multe, spuntano i braccialetti. Un laccio di gomma e carta, un numero identificativo attorno al polso di ogni venditore. Un piccolo oggetto, venuto fuori all´improvviso e che scatena un putiferio: «A Roma si usano metodi da Auschwitz», attacca la Cgil.
«È stato solo il modo pratico per associare la merce al venditore», si difendono al comando dei vigili. «Un sistema indegno che ricorda i rastrellamenti del Terzo Reich», accusa in coro l´opposizione. Le associazioni dei commercianti, invece, plaudono all´operazione: «Ben fatto», dicono. E a Roma, città da migliaia di abusivi al giorno e un settore del commercio in crisi nera, scoppia la bagarre. «Il marchio è la cifra culturale e politica della destra che governa la capitale», tuona Jean-Leonard Touadi, deputato del Pd ed ex assessore alla Sicurezza del Comune. Quel che è successo sulla scalinata di Trinità de´ Monti è un «grave esperimento» per Claudio Di Berardino, segretario di Roma e Lazio della Cgil, «un´immagine che rievoca rastrellamenti che non fanno onore alla storia di una città aperta come la nostra».
Ma Stefano Napoli, comandante dei vigili del centro storico a capo dell´operazione, spiega: «È stata una procedura di grande rispetto della dignità umana e con fini di tutela della persona, visto che abbiamo utilizzato dei braccialetti di carta plastica che si usano nei reparti di pediatria per associare la mamma al bambino appena nato». Il sindaco Gianni Alemanno difende "l´operazione braccialetto". E Giorgio Ciardi, delegato alla sicurezza precisa: «Voleva essere solo un modo per associare il numero sul polso di ogni ambulante con lo stesso applicato su ogni oggetto sequestrato, null´altro».
Sarà, ma Uddin Nizan, 28 anni, del Bangladesh, con quel braccialetto al polso dice di essersi sentito trattato come il peggior criminale: «Mi hanno anche preso le impronte ma non potrò pagare la multa. Da domani ricomincio a vendere bibite o rose. È l´unico modo che ho per sopravvivere».
Per Cesare Pambianchi, presidente della Confcommercio romana, l´operazione sarà forse stata odiosa, «ma la approviamo, se servirà a debellare la piaga dell´abusivismo che inonda Roma di merce contraffatta e fa collassare l´economia sana». Intanto, per sabato L´Arci e la Cgil stanno organizzando una manifestazione a favore degli immigrati e in segno di protesta offriranno braccialetti a tutti.
il Fatto 26.5.11
Manifesti offensivi al ghetto. Parla Moni Ovadia
“Contro di me un atto fascista”
di Luca De Carolis
“Un atto intimidatorio e fascista, figlio della temperie berlusconiana”. Moni Ovadia, attore, scrittore e molto altro, bolla così lo striscione anonimo apparso domenica scorsa sul muro della scuola ebraica di Roma: “Ogni ebreo è nostro fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no”. Il segno più rumoroso di una polemica che sta lacerando la comunità ebraica italiana. Una ferita (ri)apertasi la settimana scorsa, con una lettera di Gomel al mensile Shalom, in cui l’economista si scagliava contro “l’happening e barbecue con i nostri fratelli di Itamar”. Un’iniziativa organizzata dalla comunità ebraica romana, in quell’insediamento nel West Bank, vicino alla città palestinese di Nablus, dove nel marzo scorso un’intera famiglia di coloni ebrei è stata uccisa. Gomel ha protestato, ad alta voce: “Itamar non è un posto da barbecue e i suoi abitanti non sono i “nostri fratelli”. Itamar è uno degli insediamenti illegali dal punto di vista del diritto internazionale, tra i più assurdi per la geografia e la storia politica. Difficile immaginare un’iniziativa peggiore di questa”. Ne è nato un putiferio, tracimato nello striscione che ha coinvolto Ovadia: anche lui schierato a sinistra, e contrario agli insediamenti dei coloni.
Ovadia, cosa ha provato appena saputo di quella scritta?
Le dirò che quasi me lo aspettavo, vista l’aria che tira nella comunità. Certi ebrei sentono molto la temperie berlusconiana, questo clima in cui si insulta invece che discutere, e in cui chi ha la maggioranza dei voti pensa di avere il diritto della ragione. La tecnica dell’intimidazione è fascista, tipica di tutti i sistemi totalitari.
Perché si è arrivati a questo?
Perché la situazione si è fatta molto pesante. C’è il crescere delle destre europee, e in più si è tornati a discutere di processo di pace in Medio Oriente. In certi circoli ebrei, Obama viene definito antisemita solo perché ha timidamente proposto di tornare ai confini del 1967. Il nodo centrale è questo: si possono criticare le idee, ma non insultare chi le esprime.
Anche Gomel è stato duro: la precisazione sui fratelli l’ha fatta per primo lui
Innanzitutto, Giorgio si è espresso con una lettera firmata, non come gli autori di quel vigliacco striscione. Poi, ha criticato con argomentazioni precise l’uso strumentale del termine fratello.
Lei e Gomel comunque non siete isolati. Gad Lerner vi ha difeso sul suo blog, e un gruppo di oltre 50 ebrei romani ha provocatoriamente proposto di scrivere sul muro della scuola “i nostri nomi di proscritti”. Mentre Renzo Gattegna, il presidente dell’Unione Comunità ebraiche italiane, ha deplorato “l’uso di termini diffamatori e ingiuriosi”.
Guardi, come sottolinea giustamente Lerner, nella sua dichiarazione Gattegna non cita neppure il mio nome e quello di Gomel, come se fossero troppo pericolosi. La verità è che episodi del genere vanno condannati con forza, a prescindere. “La calunnia è grave quanto l’omicidio”, sta scritto nel Talmud.
Ma l’isolamento…
Sono anni che non mi invitano alle manifestazioni per la Giornata della cultura ebraica.
Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, ha annunciato un convegno “in cui discutere della vicenda degli insediamenti”: ha invitato l’ambasciatore di Israele, un rappresentante di Itamar e Gomel. Lei ci andrebbe?
Non a queste condizioni. Perché non invitano anche un rappresentante dell’opposizione? Il governo non può rappresentare tutto Israele. E comunque non ho voglia di espormi a gogne. Per inciso: Pacifici ha fatto la distinzione tra ebrei buoni e cattivi.
Se potesse parlare a quattr’occhi con gli autori dello striscione?
Gli porrei una domanda: “Volete discutere con me, o volete ergervi a miei giudici e carnefici?”.
il Fatto 26.5.11
I nuovi coloni di Netanyahu
Dopo il no agli Usa, inaugurato insediamento a Gerusalemme
di Roberta Zunini
Gerusalemme. Nemmeno 24 ore dopo il discorso del premier israeliano Bibi Netanyahu al Congresso statunitense si materializza, nella forma degli edifici in pietra Bianca di Ma'aleh Hazeitim, una colonia ebraica nel quartiere arabo di Ras al Amud, a Gerusalemme Est. A ridosso della città vecchia. Sul palco allestito nel cortile interno della nuova area sono attesi ministri e il sindaco, Nir Barkat. Ma oggi le lodi sono tutte per lui, per il primo ministro appena rientrato da Washington.
“HA FATTO un discorso perfetto per quanto riguarda Geruasalemme. Non siamo occupanti, questa città appartiene a noi. Se gli arabi vogliono rimanere non c'è problema ma deve essere chiaro che noi ebrei siamo sempre stati qui, questa è la nostra terra e nessuno ci può chiedere di darne una parte ai palestinesi o di abitare solo nella zona occidentale”. Daniel Luria è il direttore esecutivo di Ateret Cohanim, un'organizzazione no profit che facilita gli ebrei ortodossi a vivere a Gerusalemme Est. “Non sono d'accordo invece con quanto il premier ha detto a proposito della Giudea e Samaria. Anche queste regioni appartengono alla nostra storia: non lasceremo agli arabi ciò che è nostro”. Luria ha 47 anni, è nato in Australia e da adolescente è venuto a vivere a Gerusalemme con gli anziani genitori. “Sono molto orgoglioso di mio figlio – sorride l'anziano padre – sta facendo molto per questo Paese. Netanyahu si sta comportando bene ma anch'io non condivido la parte del suo discorso che riguarda la Samaria e la Giudea”. Nessuno di questi coloni si sognerebbe mai di chiamare queste zone Cisgiordania. Per loro tutto è Israele. Ma a giocare nel cortile pavimentato di Ma'aleh Hazeitim, sovrastato da edifici a 4 piani geometrici e lindi che contrastano con la fatiscenza in cui versano le case arabe attorno, non ci sono solo i figli dei coloni. Molte famiglie di Gerusalemme Ovest sono venute con i loro bambini a festeggiare l'ampliamento di questa colonia nel cuore della Gerusalemme vecchia. “Sono qua con i miei bambini per sostenere gli ebrei che hanno deciso di vivere a Gerusalemme Est”. Jonathan e la moglie Sharon sono insegnanti, hanno 30 e 35 anni e vivono nella zona ovest della Città Santa con i loro 4 figli. Sostengono che Bibi non avrebbe dovuto riconoscere nemmeno a parole l'esistenza di uno stato palestinese. “Capiamo che non avrebbe potuto fare diversamente , però non si può parlare di Stato palestinese. Noi non vogliamo mandare via gli arabi, sono qua e dovranno pur vivere ma questa è la terra promessa degli ebrei”.
MENTRE FUORI dal cancello della colonia – una sorta di residence con il parcheggio sotterraneo – si raduna il solito sparuto gruppo di giovani attivisti ebrei che manifestano contro l'occupazione, i figli dei coloni si divertono a insultarli dal piano rialzato. Mentre una giovane attivista israeliana viene arrestata per aver risposto agli insulti dei bambini e alle risate di scherno dei genitori, arrivano il presidente della Knesset (il Parlamento israeliano, ndr), Reuven Rivlin e il ministro della pubblica istruzione, Gideon Sa'ar. Entrambi vengono accolti da applausi calorosi che diventano fragorosi quando Rivlin dice che “bisogna credere e confidare solo in noi stessi, nemmeno negli Stati Uniti. Solo in noi stessi. E l'ampliamento della colonia ne e' un esempio”. Shira, 30 anni, madre di 5 figli, al sesto mese di gravidanza ha deciso di trasferirsi dalla città di Haifa nella nuova ala della colonia, perchè ha trovato un lavoro al Truman Institute di Gerusalemme, permettendo così al marito coetaneo di non lavorare, per continuare a studiare il Talmud in una Yeshiva. Ma'aleh Hazeitim e' perfetta per loro. Realizzata dall'associazione oltranzista Ateret Cohanim, il cui principale finanziatore è Irving Moskowitz (il miliardario americano proprietario della maggior parte dei casino e delle sale bingo), la nuova area è costituita da 60 appartamenti. Se dopo il discorso di Bibi è apparso chiaro che Israele non accetterà mai di dare Gerusalemme Est ai palestinesi, dopo aver visto la disparità di forze, le parole di Netanyahu circa la disponibilità di “dolorose concessioni” ai palestinesi paiono un evidente bluff.
La Stampa 26.5.11
Valico di Rafah
L’Egitto riapre la porta per Gaza
Le autorità egiziane hanno deciso di riaprire tutti i giorni, dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio, il passaggio di Rafah che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza. Il valico rimarrà chiuso solo il venerdì e nelle festività nazionali. La decisione, annunciata da giorni e attuata a partire da sabato, vuole alleggerire il blocco dell’enclave palestinese controllata dai fondamentalisti islamici di Hamas. Rientra nello sforzo egiziano per una ricucitura delle divisioni tra fazioni palestinesi che ha portato alla firma dell’accordo Hamas-Fatah.
il Riformista 26.5.11
Lo spin doctor di Hezbollah
«I palestinesi sfideranno i confini senza aspettare la Casa Bianca»
di Luigi Spinola
http://www.scribd.com/doc/56304572
Repubblica 26.5.11
Scuola, il blitz del Pdl "Affidiamo ai privati il sostegno ai disabili"
Scontro sul disegno di legge: pagheranno le famiglie
La proposta: così taglieremo le spese. Insorgono gli insegnanti: servizio già carente
di Salvo Intravaia
Docenti di sostegno gestiti da privati? È quello che potrebbe accadere tra qualche anno nella scuola italiana se passasse il disegno di legge proposto da due senatori del Pdl e discusso qualche giorno fa in commissione Cultura al Senato. La proposta avanzata da Francesco Bevilacqua e Antonio Gentile apre ai privati il delicato mondo dei disabili a scuola.
«I dirigenti degli istituti scolastici e delle scuole di ogni ordine e grado sono autorizzati - si legge nell´unico articolo che compone il disegno di legge - a definire progetti, con la collaborazione di privati, per il sostegno di alunni con disabilità». I motivi della proposta dei due parlamentari sono illustrati nella relazione che accompagna il testo. «L´inclusione degli alunni con disabilità - spiegano i due senatori - deve ormai collocarsi nella nuova logica dell´autonomia scolastica. In tale ottica, per superare le carenze e le disfunzioni dovute al difficile coordinamento dei diversi servizi di enti locali e Asl, che debbono sostenere gli interventi scolastici, va facendosi strada l´idea che siano le istituzioni scolastiche autonome a dover coordinare l´insieme dei diversi servizi».
Una proposta che il Pd non esita a bollare come "assurda". «Mentre il governo taglia indiscriminatamente gli insegnanti di sostegno - si chiede Francesca Puglisi, responsabile Scuola della segreteria del Partito democratico - si vuole forse appaltare all´esterno il sostegno ai ragazzi con disabilità?». «E dove dovrebbero mai trovare le risorse le scuole, che non hanno più un euro in cassa, per tali collaborazioni? Il sostegno sarà a carico dei familiari o di improbabili sponsor? Nella scuola italiana, uno dei pochi paesi europei che dal 1977 integra anche i disabili nelle classi, gli insegnanti di sostegno vengono reclutati dallo stato, mentre tutti gli altri servizi (assistenza igienico-sanitaria, trasporto disabili, orientamento, assistenza alla comunicazione) sono di pertinenza degli enti locali. Ma spesso, questi ultimi non hanno le risorse per garantire adeguati servizi alle scuole e anche sugli insegnanti di sostegno lo stato cerca di risparmiare. La lamentela dei genitori è sempre la stessa: "poche ore di sostegno in classe" e pochi servizi a scuola. Così, se la scuola si dovesse trovare in difficoltà, secondo i due senatori, potrebbe rivolgendosi ai privati. Un discorso che varrebbe anche per gli assistenti igienico-sanitari, il trasporto scolastico e gli interpreti della lingua dei segni, di cui dovrebbero farsi carico comuni e province. E per quelle figure necessarie all´inclusione degli alunni affetti da disturbi specifici di apprendimento: dislalia, disgrafia e discalculia.
La proposta di legge ammette che le istituzioni non riescono a coprire tutte le esigenze degli alunni portatori di handicap. «Nel rispetto del principio di sussidiarietà e, senza pregiudicare l´obbligo delle istituzioni scolastiche di provvedere d´ufficio per i casi alla loro attenzione», Bevilacqua e Gentile propongono «una disposizione volta a favorire l´inserimento ottimale degli alunni diversamente abili, per migliorare la qualità dell´integrazione degli stessi e di tutti gli allievi con bisogni educativi speciali, favorendo una più "concreta" diffusione della cultura dell´integrazione, tra le componenti che si occupano dei soggetti in formazione». Resta da capire chi pagherà, visto che l´applicazione della norma «non deve comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». E se le scuole, come è già avvenuto per il tempo pieno in una scuola elementare di Milano, presentassero il conto ai genitori?
Repubblica 26.5.11
E le banche lanciano un’Opa sull'Invalsi
L’iniziativa delle fondazioni: troppa inefficienza nel sistema di valutazione scolastico, finanziamolo noi con 10 milioni di euro
di Stefano Parola
TORINO - Ci sono due numeri che parlano più chiaro di altri. Per valutare come funziona il proprio sistema scolastico l´Olanda impiega circa 300 ricercatori. Per svolgere lo stesso compito l´Italia, che ha il triplo di studenti rispetto ai Paesi Bassi, ne utilizza 12 a tempo indeterminato, più una manciata di dottorandi e stagisti, attraverso un organismo che si chiama Invalsi, Istituto nazionale di valutazione del sistema educativo. Di qui l´idea della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo di Torino: far lanciare alle fondazioni bancarie una sorta di "opa" sull´ente che si occupa di misurare l´efficienza dell´istruzione italiana.
La soluzione per il rilancio dell´Invalsi è stata esposta ieri dalla presidente della Fondazione per la scuola, Anna Maria Poggi, al termine di una due giorni dedicata alla valutazione che ha coinvolto alcuni dei massimi esperti mondiali in materia. Funziona così. Oggi l´Invalsi tira avanti grazie a 10-11 milioni di euro garantiti dal ministero dell´Istruzione. L´idea è di coinvolgere alcune fondazioni bancarie già attive nel campo dell´istruzione (come la Cariplo, la Cassa di Cuneo o la stessa Compagnia di San Paolo) e di garantire all´istituto un´altra decina di milioni di euro in modo che possa raggiungere un livello di funzionamento ideale. In questo modo l´ente rimarrà pubblico, anche se periodicamente i finanziatori chiederanno conto dei risultati ottenuti.
Così, spiega Anna Maria Poggi: «L´istituto permetterà di fare quel salto di qualità necessario a un Paese che dispone di un sistema scolastico che sta camminando troppo lentamente. Siccome il Governo ha risorse limitate, l´unico modo per investire in tempi rapidi sulla valutazione è la sussidiarietà». Potenziare l´Invalsi per poter così migliorare l´intero mondo della scuola. E di conseguenza anche l´economia italiana. Perché, come sostiene Eric Hanuschek, docente americano alla Stanford University, c´è una rapporto tra il miglioramento dei dati Ocse-Pisa, che rilevano la bontà dei sistemi di istruzione, e la crescita del Prodotto interno lordo: «I paesi che fanno meglio, soprattutto nelle scienze sono quelli che crescono di più. All´Italia essere al di sotto della media Ocse costa circa 2,5 punti di Pil ogni anno».
Ecco perché, secondo la presidente Poggi «il sistema di valutazione dev´essere un´infrastruttura del Paese, come lo sono le ferrovie o la banda larga. Misurare l´efficienza della scuola è necessario. E su questo ormai c´è una consapevolezza diffusa in Italia». In realtà, c´è anche quello zoccolo duro di insegnanti e sindacati (Cobas in testa) che non ci sta e che a inizio maggio ha boicottato le prove Invalsi, accusandole soprattutto di far prevalere la logica dei quiz sulla didattica tradizionale. Ma Anna Maria Poggi è fiduciosa: «Oggi l´opposizione ai test riguarda il 10 per cento dei docenti, una cifra piccola che però crea una conflittualità difficile da gestire per il dirigente scolastico. Tuttavia, creare un sistema di valutazione solido darà maggiori certezze a tutti».
La Stampa 26.5.11
Michelle incanta le studentesse “Imparate a pensare in grande”
La First Lady a Oxford parla alle ragazze extracomunitarie
di Andrea Malaguit
«Dream big». Sognate in grande. Per una volta non è una mistificazione ottica, una rappresentazione teatrale, un gioco di specchi. C’è davvero Michelle Obama, la donna più potente del mondo, sotto le volte medievali del salone oxfordiano. Ma non è questo il punto. Non è l’idea della prima First Lady afroamericana nell’università più prestigiosa del Regno Unito. Quello che conta è il pubblico. Sono ragazzine di tredici anni che la guardano come si fa con le dee. Ipnotizzate. Trattenendo il fiato. Il silenzio è irreale. Sono trenta allieve della Elizabeth Garrett Anderson School, istituto a Nord di Londra con il 90% di studenti extracomunitari. Famiglie monoreddito che non arrivano a fine mese. «Quando vi guardo rivedo la mia storia», dice lei, al primo discorso ufficiale solitario. Veniva dalla periferia. Si è laureata ad Harvard. È diventata avvocato. Ha sposato il Presidente degli Stati Uniti. Bisognerebbe sedersi di fianco a loro, a queste piccole donne composte nei loro vestitini grigi, per sentire la magia, per accorgersi dell’insicurezza da cittadine di serie B che si trasforma in orgoglio. «Siete pronte a prendervi la vita in mano?».
Michelle svita il tappo di una bottiglia di plastica e beve a collo. Un gesto che elimina qualunque distanza. Indossa una giacca bianca con molte piccole cinture dorate, dei pantaloni scuri. Spiega perché ha voluto che si incontrassero li e non a Londra, come era successo due anni fa. «Questo posto vi appartiene. Niente vi è precluso. Non lasciate che nessuno condizioni la vostra vita. Studiate. Scegliete le cose che vi piacciono. Non abbiate paura di rischiare, non abbiate paura di fallire. Siete giovani, intelligenti. E avete anche il diritto di sbagliare». Le ha adottate. Pretende un nuovo appuntamento. «Dream big», ripete come un mantra. E’ il corrispettivo femminile del «yes we can». Sanya, una bambina del Bangladesh, lacrima come una fontana. Michelle si siede. Le strizza l’occhio. Adesso tocca a loro. Sono le ragazze che fanno le domande. Strepitose. «Hai capito al primo incontro che Obama sarebbe diventato Presidente?». «Assolutamente no». Ride Michelle. Si corregge. «Scherzo. Ho capito subito che era speciale da come parlava di sua madre. Da come trattava le donne. Dalla sua delicatezza. Un giorno gli ho detto: potresti diventare giudice della Corte Suprema. E lui: posso fare di più». Venti minuti straordinari. Chirs domanda se è l’ora di una donna Presidente e Ana chiede come fa la First Lady a educare le figlie alla Casa Bianca. Lei risponde con tutta la potenza del suo corpo. «Certo che siamo pronti per una donna, Hillary Clinton, per esempio ha qualità straordinarie. Ogni giorno mi chiedo se sono all’altezza, poi mi faccio forza e vado avanti. Siamo noi il nostro destino». Si emoziona. «Le mie figlie le educo come se abitassi ancora a Chicago. Sono due ragazze che cercano il meglio. Come voi. E io le adoro. Ieri ho dormito a Buckingham Palace, ma le corone e le carrozze le posso vedere anche in tv. Per me e mio marito il nostro ruolo ha senso solo se riusciamo a dare un’opportunità a persone come voi».
Butta giù un altro sorso. Una ragazza col velo le accarezza la spalla.
Repubblica 26.5.11
"Stop per due anni alle esecuzioni in Cina"
La Corte Suprema: condanne capitali solo in casi estremi. "Test in vista dell´abolizione"
Cauto ottimismo delle ong. Per molti detenuti la pena si trasformerà in ergastolo
di Giampaolo Visetti
PECHINO - La Cina ha mosso ieri un passo importante verso un maggior rispetto della vita umana. La Corte suprema del popolo, massimo organo giudiziario della nazione, ha chiesto a tutti i tribunali di sospendere per due anni la pena di morte. Nel suo rapporto annuale la corte ha stabilito che le condanne capitali siano eseguite solo «per un numero minimo di criminali e per reati di estrema gravità». I giudici si sono richiamati ad una «politica della giustizia temperata dalla pietà», invitando i tribunali a non emettere sentenze di morte se non «assolutamente necessario». Giuristi cinesi ed esperti di diritto internazionale hanno definito la moratoria di due anni «un evento storico».
Il codice penale cinese stabilisce che se una condanna a morte viene sospesa per due anni, si tramuta definitivamente in ergastolo. Interrompere le esecuzioni fino al 2013 equivale dunque a cancellarle per un biennio e per migliaia di detenuti. L´agenzia di stampa ufficiale ha osservato che la decisione servirà come test, in vista di una possibile abolizione della pena di morte in Cina. Rimane l´ambiguità attorno ai crimini che saranno giudicati di «estrema gravità». Ed è per questo che da Ong e associazioni umanitarie arriva solo un segnale di cauto ottimismo. È però un passaggio epocale, che avvicina la seconda potenza economica del mondo a valori condivisi dalla maggioranza dei suoi interlocutori occidentali. Pechino si appresta ad esercitare una leadership globale e il partito comunista appare deciso ad accelerare le riforme, specie sul piano dei diritti umani.
La sospensione della pena di morte, rientrata in vigore nel 1979, inizia a risolvere uno dei problemi più vergognosi del Paese. Il numero delle esecuzioni è coperto dal segreto di Stato, ma tutti i rapporti concordano sul fatto che la Cina ne detenga il record annuale, davanti all´Iran. Secondo Amnesty International si è passati dalle 6.100 condanne e 4.367 uccisioni ufficiali del 1996, alle 6.000 condanne e 3.400 esecuzioni del 2007. Fonti ufficiose cinesi alzano la soglia a circa 8 mila detenuti uccisi all´anno, con una diminuzione del 50% in dieci anni. Se però si considera la percentuale delle esecuzioni rispetto al numero degli abitanti, la Cina rientra nella media dei Paesi che conservano l´usanza di uccidere chi viola la legge. Che Pechino cerchi progressivamente di voltare una delle sue pagine più buie, è un fatto. In febbraio ha ridotto da 68 a 13 i reati passibili di pena di morte. Lo scorso anno ha vietato la fucilazione, spesso di gruppo, optando per un´iniezione letale, praticata anche su furgoni che si spostano nelle varie regioni. Da quattro anni le sentenze capitali devono essere riviste e approvate dalla corte suprema, che nel 10% dei casi le ha già tramutate in carcere a vita.
Rimane irrisolto uno dei nodi essenziali: oltre che per reati di violenza fisica e di abuso economico-finanziario, in Cina si può essere condannati a morte per vaghi reati di opinione. È il caso dei dissidenti, delle minoranze etniche e dei fedeli di vari credi, perseguiti per «minaccia alla sicurezza nazionale», «separatismo», o «associazionismo segreto e sovversione».
Repubblica 26.5.11
Se gli invisibili della società si trasformano in movimento
di Marc Lazar
Dalla Spagna alla Gran Bretagna, dalla Grecia all´Italia, la protesta dei giovani rappresenta una richiesta di rinnovamento della politica
Non è la prima volta nella storia che una mobilitazione di massa nasce sulla base di emozioni repentine e motivi morali
Partono da questioni molto materiali che poi diventano generali e inventano uno spazio pubblico nuovo che non è più quello della televisione
Il movimento degli indignados presenta caratteristiche tradizionali e al tempo stesso aspetti piuttosto innovativi, che hanno una portata che va al di là della penisola iberica. Gli spagnoli non sono i soli a protestare contro il deterioramento della situazione sociale. Da mesi l´austerity introdotta nei vari Paesi europei si scontra con una resistenza sempre più forte. Il risultato è un crollo di popolarità dei capi di Governo, performances elettorali negative dei loro partiti o delle loro coalizioni e scioperi e manifestazioni di vasta portata, come ad esempio in Grecia, in Portogallo o in Gran Bretagna. Il malcontento si esprime dunque secondo modalità ben note in democrazia: disaffezione verso i leader al potere, rovesci elettorali, azioni collettive classiche.
Le proteste spagnole aggiungono indubbiamente un elemento nuovo a questo scenario. Innanzitutto perché sgorgano da legami spontanei creati inizialmente da internet, che è servita da cassa di risonanza di eventi-mondo o eventi-mostro (nel senso che schiacciano gli altri): i manifestanti di Madrid si ispirano al modello egiziano. In secondo luogo perché aggregano principalmente, ma non esclusivamente, giovani, come già era successo in Italia o in Gran Bretagna. Questi mileuristas (cioè i ragazzi che guadagnano mille euro al mese) come li ha definiti la romanziera spagnola Espido Freire, esprimono la loro collera. Hanno lauree su lauree ma non trovano lavoro (in Spagna un giovane su due al di sotto dei trent´anni non ha un impiego, e il tasso di disoccupazione è al 20 per cento) o sono sottoposti a un lunghissimo precariato che incide sugli altri aspetti della loro vita, come la possibilità di avere una casa o di crearsi una famiglia. In Spagna come in altri Paesi, i baby loosers, secondo la formula del sociologo Louis Chauvel, devono farsi carico del peso dei numerosi vantaggi ottenuti dai baby boomers. La vecchia Europa rischia di andare incontro a un vero e proprio clash of generations.
Ma il movimento spagnolo ha un altro aspetto ancora, quello dell´indignazione, eco del famoso saggio Indignatevi!, di Stéphane Hessel, diventato un best seller in Europa. Che una mobilitazione nasca per motivi morali e sotto la spinta di emozioni repentine non ha nulla di strano. In Sicilia, dopo i sanguinosi attentati contro il generale Dalla Chiesa nel 1982 e contro i magistrati Falcone e Borsellino nel 1992, una parte della società civile si sollevò contro la mafia. In Francia, l´avanzata del Fronte nazionale nel 1984 suscitò una mobilitazione dei giovani contro il razzismo con lo slogan «Non toccare il mio amico». Questi due esempi illustrano la differenza con le azioni a cui stiamo assistendo. Le lotte contro la mafia in Sicilia e contro il razzismo in Francia furono rapidamente strumentalizzate dai partiti politici, la Rete di Leoluca Orlando e il Pci in Italia e il Partito socialista di François Mitterrand in Francia.
L´indignazione non basta a fare una politica. I giovani spagnoli ne sono consapevoli e infatti intrattengono un rapporto ambivalente con la politica. Si scagliano contro il Governo, ma diffidano dell´opposizione, e temono qualsiasi strumentalizzazione. Contemporaneamente, elaborano riforme della legge elettorale, del Senato e del sistema dei partiti. Additare il loro movimento come un fenomeno di antipolitica quindi sarebbe un grande errore. Al contrario, la loro esistenza attesta che l´Europa è in preda a processi contraddittori. Da un lato registra la spettacolare avanzata di partiti populisti che accusano le presunte élites di costituire un unico blocco uniforme, stigmatizzano i partiti di Governo, tessono le lodi del popolo eretto a unico detentore di qualsiasi verità, combattono l´immigrazione, sfruttano tutte le paure, patrocinano un ripiegamento sull´ambito locale, regionale o nazionale, rivendicano una democrazia plebiscitaria fondata su referendum riguardanti le problematiche più complesse e seducono gli strati popolari. Dall´altro lato vede svilupparsi mobilitazioni di altro genere che partendo da questioni molto materiali diventano via via più generali, inventano un nuovo spazio pubblico di deliberazione che non è quello della televisione, esigono trasparenza, intendono controllare i Governi, vogliono essere ascoltati, propongono di migliorare il funzionamento dei sistemi politici, sono aperti al mondo e creano una democrazia partecipativa in cui si riconoscono prevalentemente i rappresentanti dei ceti medi.
Certo, questa seconda tendenza è ancora incerta e fragilissima, e può rivelarsi effimera (soprattutto se a Madrid gli indignados falliranno nel loro tentativo di condizionare le politiche pubbliche, com´è successo finora alle mobilitazioni tradizionali dei loro padri), può essere oggetto di manipolazioni da parte di piccoli gruppi di militanti ed è fortemente contraddittoria quando si propone di inventare un´altra politica aggirando i rappresentanti eletti e le loro organizzazioni. Ma lancia una sfida reale a tutte le persone responsabili. Come integrare questa ricerca di un modo migliore per vivere insieme e di una democrazia rinnovata? Se le élite politiche e i partiti classici rimarranno sordi a queste grida, se si accontenteranno di riformette di facciata invece di fornire risposte istituzionali in grado di ridisegnare l´agorà moderna e consentire di soddisfare questa profonda aspirazione alla partecipazione, rischieranno di deludere e aggravare ulteriormente la crisi della rappresentanza politica.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 26.5.11
Internet si dimostra essere uno strumento che aiuta, un collante che riporta "l´agorà" al centro del dibattito pubblico. Si disegna una sfida che viene portata ai partiti tradizionali
La rivincita della piazza
di Miguel Gotor
Dalle manifestazioni virtuali a quelle "esistenziali"
Per anni ci siamo cullati nell´idea che la piazza telematica avrebbe oscurato quella reale, ma gli ultimi avvenimenti rivelano che internet rappresenta un collante in grado di riportare l´agorà al centro del dibattito pubblico. Non la piazza virtuale, bensì quella esistenziale che si riempie di corpi, di colori e di "sentimenti contro", come l´indignazione e la rabbia.
L´ultima novità propagata dalla rete globale è il movimento M-15 di Spagna che ha suscitato le ansie comparativiste di una certa Italia perché quei manifestanti sono contro il governo (meglio se socialista), sostengono di disprezzare i partiti e, soprattutto, dichiarano di non essere di sinistra né di destra formando così un impasto malleabile, buono da spendersi nelle nostre contrade del "né-né". Assomigliano ai "grillini" – dicono – dimentichi del fatto che costoro si sono rapidamente costituiti in sigla organizzata intorno al loro furbissimo guru e ambiscono, legittimamente, oggi a occupare gli scranni comunali e, domani, quelli del vituperato parlamento. Quest´aspirazione a farsi subito partito, travestita col mantello del movimentismo anti-parlamentare, costituisce un abito nazionale dalla foggia antica ma sempre di moda. Eppure, si tratta di un proposito radicalmente diverso dalle buone intenzioni della gioventù spagnola, in cui il solo elemento di originalità in comune con i "grillini", ma anche con il "popolo viola" o con le recenti manifestazioni delle donne, sta nell´uso di internet come medium aggregativo mobilitante.
Certo, non bisogna mai smarrire il senso delle proporzioni. L´ultima volta che ci siamo indignati per davvero è stato quando abbiamo visto paragonare le piazze di Madrid a quelle di Bengasi, l´autunno spagnolo alla primavera araba. Come se fosse possibile mettere sullo stesso piano il costo di un sorriso arrabbiato a favore di videocamera con il sibilo di una pallottola in fronte sparata nel buio della repressione.
Piuttosto la piazza spagnola sembra un acquario in cui il conflitto è marginalizzato dentro un recinto che lo trasforma in inquietudine teatralizzata. I manifestanti sono consapevoli di avere subito un furto di presente e di futuro poiché si è rotta la rassicurante catena dell´hidalguía tra le generazioni: gli zii e i padri di quei ragazzi hanno abbondantemente mangiato sopra le loro spalle e la linea della vita lascia presagire che continueranno a pasteggiare ancora a lungo. In Spagna come in Italia. Non resta quindi che accucciarsi nel sacco a pelo del nostro scontento, gridando una rabbia e una paura che vivono in una dimensione anzitutto sentimentale ed emotiva. Come se fossero un tatuaggio, che segna un´identità e consente di riconoscersi, nonostante tutto.
Il problema, però, rimane sempre lo stesso: come trasformare la protesta in proposta, come rendere quell´acquario di visibilità autoreferenziale, amplificato dall´onda mediatica, un progetto collettivo conflittuale, che resti non violento? In questo sforzo si incontra necessariamente la mediazione della politica e – udite, udite – anche i partiti potranno svolgere un ruolo rinnovato se sapranno aprirsi e non chiudersi, respirando insieme e non contro la società civile. Sarà un caso, ma l´Italia si è bloccata da quando la società civile e i partiti hanno iniziato a guardarsi in cagnesco, ognuno pensando di poter fare a meno dell´altro.
Come essere degni, ogni giorno sempre di più, della propria indignazione? Questa è l´autentica sfida che interroga la buona politica, a Madrid come a Roma, perché è legata agli affanni comuni della nostra democrazia e ci dice anche che, da quella rabbiosa speranza di piazza, si può sempre ripartire.
Repubblica 26.5.11
Chi sono i ragazzi protagonisti a Madrid
Quel diritto alla speranza
di Javier Moreno
Non sono molto difficili da capire i motivi di questo malessere. Almeno per chi riesce a ragionare fuori dagli schemi di un sistema infestato dal discredito dalla corruzione, dall´inefficienza e dall´impotenza
Ancor prima di avere il diritto di chiederci, e di chiedergli, che cosa vogliano, perché protestino, che cosa propongano e quali siano i loro progetti per il futuro, prima ancora di criticare le loro ragioni o le loro richieste, è indispensabile sapere chi siano. Solo da ciò che sono, e non da ciò che chiedono, riusciremo ad estrarre un senso a ciò che sta accadendo oggi nelle piazze di Spagna, e forse domani d´Europa, la prima grande crisi della post-democrazia sotto la pressione della crisi economica e finanziaria mondiale.
Ed enunciare chi siano quelle decine di migliaia di persone è semplice: disoccupati che tirano avanti con lavori precari, orfani del presente; impiegati che a loro volta tirano avanti con lavori precari, orfani del futuro, con salari irrisori; giovani con condizioni di vita sempre più deteriorate, senza la possibilità di accedere a una soluzione abitativa decente, senza la possibilità di mettere su una famiglia, dolorosamente consapevoli del fatto che vivranno peggio della generazione dei loro genitori; pensionati con pensioni che non bastano per mangiare e arrivare alla fine del mese; universitari che credevano di aver raggiunto i propri sogni solo per scoprire che li attendono gli uffici di collocamento (il 43% dei giovani è disoccupato) o delle condizioni di lavoro così offensive, dei salari così infimi, dei contratti così precari, a volte di qualche giorno o di qualche settimana, in posti che non hanno niente a che vedere con ciò che hanno studiato all´università, da aver abbandonato qualsiasi speranza, capiamolo bene, da aver abbandonato qualsiasi speranza che il governo, i partiti politici, il sistema politico, o chiunque sia a capo di un´istituzione abbia la capacità o l´interesse di mettere rimedio alla loro situazione, alle loro situazioni.
Ci sembra strano? No. Sono così difficili da capire i motivi del loro malessere? Sicuramente, no. Non per chiunque sia ancora capace di pensare al di fuori degli schemi riduzionisti di una politica istituzionale infestata dal discredito, dalla corruzione, dall´inefficienza e dall´impotenza nell´offrire soluzioni quando le entrate dello Stato crollano per la crisi e i mercati impongono degli aggiustamenti sociali. Gli "indignados", tuttavia, oltre a essere quello che sono, si sono riuniti nelle piazze per esibire la lista delle loro richieste, per prendere la parola, per esporre le loro esigenze, la loro critica alla totalità della politica realmente esistente, ma anche, ahimè, le loro evocazioni rielaborate di esperimenti storici liberticidi di sventurata memoria, le loro illusioni antiparlamentari la cui applicazione in passato sfociò inevitabilmente in situazioni aberranti e abusi, oltre ai consueti slogan da cortile di facoltà, abbasso l´Fmi, confisca dell´edificio vuoto di una banca perché venga messo a disposizione, no all´economia, no alla politica, sia chiaro, no a questa politica, anche senza la capacità di formularne un´altra, che non è poi compito loro.
I partiti, di sinistra e di destra, possono ignorare gli "indignados" se vogliono, e sicuramente lo faranno facilmente quando questi cominceranno a diluirsi nei prossimi giorni, dopo avere esaurito l´esplosione di libertà e di energia dei giorni che hanno preceduto le elezioni. Gli "indignados" se ne torneranno a casa e scompariranno dalle piazze, ma non lo faranno il loro malessere, il loro futuro spezzato, i loro lavori precari, le loro basse pensioni, la loro mancanza di lavoro. Insisto: i partiti possono ignorarli, ma non lo faranno mettendo a rischio esclusivamente le loro aspettative politiche, che è l´unica cosa che sembrano capire. Lo faranno mettendo a rischio la stabilità e la validità morale dell´insieme del sistema democratico.
traduzione di Luis E. Moriones
Repubblica 26.5.11
Perché non si può restare prigionieri della memoria
di Barbara Spinelli
Che cosa è davvero il passaggio tra le generazioni? E come si può raccogliere il testimone senza essere schiacciati dal passato? Ecco una riflessione sul tema
Il testamento non è un trasmettere "cose" ma un´alleanza con chi se ne va, firmatario di un patto tutto da provare
Nel lascito avviene questo: si fa posto a quelli che verranno con lentezza, profondità, mitezza, come in una corsa a staffetta
Che eredità lasciamo a chi viene dopo? E cosa significa precisamente: lasciare, e eredità? Cominciamo con l´atto del lasciare: è la parola chiave nel passaggio da una generazione all´altra, dalla vita alla morte. Rimanda al latino laxus, e indica quel che s´allenta, si fa spazioso. Laxus è il contrario di teso, è la distensione che fa seguito alla tensione. Implica capacità di abbandonare, allontanarsi. Si lascia ad altri quel che non si porta con sé, dunque lasciare è anche un dischiudere, permettere. È una messa in libertà. Un capovolgere valori costituiti. Ricordo la bellissima triade di Alexander Langer: al precetto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che secondo lui rappresentava «la quintessenza dello spirito della nostra civiltà», egli contrappose un comandamento alternativo: lentius, profundius, suavius. Nel lascito avviene questo: si fa posto alle generazioni successive. Con lentezza, profondità, mitezza.
Viene in mente l´esperienza della corsa a staffetta. Ciascun concorrente (detto frazionista) deve percorrere una frazione, e trasmettere un bastone al subentrante. Il bastone si chiama, guarda caso, testimone. La regola vieta di lanciare al compagno il testimone nelle zone di passaggio, e fissa regole precise sulla sua caduta (se cade può raccoglierlo solo chi l´ha perduto: l´incapace di tramandare). Anche nel passaggio tra generazioni è così: la consegna del testimone avviene in seguito a tocco, con la mano, del corpo del concorrente in partenza da parte del concorrente in arrivo.
Il testimone è l´eredità: è quello che lasciamo all´altro, perché inizi la sua corsa. L´eredità non è lanciata per aria, ma bisogna toccare con mano, pensare, l´umanità dopo di noi. La trasmissione avviene in speciali zone di scambio, creando quel particolare alternarsi di distensione e tensione che caratterizza la gara di staffetta. Comunemente, ereditare rinvia alle cose di cui ci si impossessa, per amore o avidità. Altro è tuttavia il significato di eredità. La parola rinvia a chèros, che in greco significa vuoto, privo, deserto. Di conseguenza ereditare non è impossessarsi, ma un esperire il vuoto, la separazione, la vedovanza. Un ereditare spirituale, come quello del profeta Eliseo che chiede a Elia, prima che questi sia rapito in cielo: «Due terzi del tuo spirito siano in me». Ed Elia risponde che anche questi due terzi sono «cosa difficile», ottenibili a una condizione: che Eliseo colga l´Occasione, quando si presenterà, e guardi Elia strappato verso il cielo. Che si faccia veggente di cose che vengono tenute nascoste, che dica quello che altri non dicono.
Perché si possa «ereditare», occorre aver sentito il vuoto come terribile cesura, senza nascondere il trapasso, e aver «visto», in anticipo, l´inizio di una nuova corsa. Occorre che nel passaggio l´erede sia stato toccato, designato, perché questi non si senta un diseredato. Si parla con timore e tremore, sempre, del conflitto fra generazioni. Ma tale conflitto è evento naturale e necessario. Non ci sarebbe passaggio del testimone se non esistesse una differenza radicale, fra chi termina la corsa distendendosi e chi nell´irrequietezza la comincia.
Difficile la condizione dell´erede, del frazionista. Perché nulla si eredita, se non sostiamo pieni di discrezione ma anche inquietudine davanti al vuoto lasciato dalla persona amata, che vive in noi quando muore ma non entra mai completamente in noi, dandoci la serenità che tanto viene incensata. Non di serenità c´è bisogno ma di malinconia, ricorda Jacques Derrida, perché solo la malinconia resiste all´impossessamento-oblio del morto. Questi permane in tutta la sua diversità, chiedendo che ferita e vuoto rimangano aperti, anziché chiusi in fretta come facciamo quando il lutto è vissuto come appropriazione, non come chiamata e preparazione. Infatti c´è una preparazione alla morte e anche una preparazione al sopravvivere (in psicologia si chiama lutto anticipatorio). Il trapassato chiede di vivere in noi, non in fusione con noi. Preservare il vuoto che deposita ai nostri piedi, dargli un posto e una dignità, significa riconoscere che l´alterità della persona dura oltre la vita. Non a caso il testamento non è un trasmettere cose ma un´alleanza con chi se ne va: presenza, voce, firmatario di un patto tutto da provare.
Il patto non si limita a preservare la memoria: suscita l´erede, lo mette di fronte a prove che lo schiacciano o lo arricchiscono. L´erede può riempire questo vuoto con il potere (sopravvivere è sempre una presa di potere sul morto: una colpa, secondo Lévinas). Può incorporarlo fino a soffocarne l´alterità: vivere il lutto è spesso trasformare la sua morte in mia esperienza. Dal vuoto bisogna dunque partire, ma non fermarsi lì, perché altrimenti identifichiamo il morto con il nulla e uccidiamo lui e quello che tramanda. Non ci resta solo il vuoto, ma anche la scoperta dell´Occasione, e l´invito a farsi veggenti, a dire l´indicibile. Resta l´obbligo di trasformare la colpa del sopravvivente in debito, in responsabilità. Per questo l´immortalità è una felice invenzione, che ci si creda o no. Felice è il pensiero che la sottende: esiste un aldilà dell´Io. Il bello, nell´idea di immortalità, è che essa è un freno contro la cannibalizzazione del morto e la passività dell´erede.
La parola defunto è insidiosa: chi è defunto smette letteralmente le proprie funzioni, le consegna a altri. Invece lasciar vivere l´alterità del morto è dare una permanenza alle sue funzioni: che si esercitano in altro modo, che hanno bisogno di aiuto per non sparire, e non sono però mai del tutto catturabili, trasferibili. Spesso diciamo: il trapassato che ci era caro «direbbe oggi...». È esaltante parlare in sua vece. Ma dobbiamo saper discernere il limite rappresentato da un´alterità non uccisa dalla fine della vita, e non utilizzabile.
Mi soffermo sulla morte perché è un´esperienza forte di amicizia, fra persone e generazioni: l´eredità crea un intreccio di obblighi, una reciproca malinconica messa in libertà. Si trasmette col testamento una tensione, la propria: e la trasmissione è un lasciare la presa, un passaggio dal «più veloce, più alto, più forte» al «più lento, profondo, mite». Se affronti la morte dell´altro con questo motto, senza prevaricazioni o identificazioni, puoi salvare quel che sì, puoi interiorizzare: non la sua persona ma la relazione tra io e l´altro. Se non ci si riesce, sarà difficile sfuggire al destino che Rilke descrive nella settima Elegia Duinese: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l´uomo. Non confonda noi questo; ci rafforzi nel conservar la figura, che ci fu dato di riconoscere ancora».
Repubblica 26.5.11
Il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone dedicato a storie come quella di Cucchi
Quelle vite di serie B spezzate dal carcere
di Carlo Bonini
Il testo raccoglie tredici vicende dolorose che si sono concluse tutte nello stesso modo tragico. Vicende che abbiamo rimosso e che invece è doveroso ricordare e raccontare
In carcere si muore. Dicono le statistiche del Dipartimento dell´Amministrazione Penitenziaria, 1736 donne e uomini nel primo decennio del 2000. Non sempre da suicidi (66 nel solo 2010). «E un uomo che muore in carcere è il più evidente degli scandali di uno Stato di diritto». Soprattutto se le responsabilità di quella morte, le sue circostanze, sono soffocate dall´omertà degli apparati (penitenziari e di polizia), dall´inazione colpevole della magistratura (cane non morde cane), dalla pigrizia, talvolta vile, dell´informazione, da un crudele senso comune per cui il destino infausto di chi è dietro le sbarre e in genere del diverso è tutto e soltanto sulle spalle di chi, per propria responsabilità, nel carcere o nella "diversità" è stato relegato.
Nel loro Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (Il Saggiatore, pagg. 243, euro 19), Luigi Manconi, sociologo e presidente dell´associazione "A buon diritto", e Valentina Calderone, ricercatrice dell´associazione e coordinatrice dei siti innocentievasioni.net e italiarazzismo.it, raccontano tutto questo nell´unico modo che consente di afferrare e non dimenticare mai più cosa significhi «entrare in un carcere per non uscirne vivi». Scoperchiando, con la crudezza, l´asciuttezza e il dettaglio della migliore cronaca, il nostro sarcofago della rimozione, documentando «tredici storie come tante» che custodisce.
Un albo funebre della Repubblica. Di cui una Repubblica dovrebbe provare vergogna, senso di colpa. «Un mosaico doloroso - scrive Gustavo Zagrebelsky, che del volume firma la prefazione - che testimonia di ciò che non fa opinione pubblica. Un libro altamente politico». Che documenta, appunto, cosa accade quando «uno Stato di diritto, che rivendica a sé il potere di impadronirsi della libertà altrui per salvaguardare la sicurezza di tutti, per superare la condizione primordiale dell´homo homini lupus», non riesce ad astenersi dall´esercizio della violenza e della sopraffazione su chi ha costretto in catene.
Le donne e gli uomini vittime di questa violenza di Stato, i fantasmi che popolano le 13 storie del lavoro di Manconi e Calderone, hanno dei nomi e cognomi, delle vite ancora giovani da vivere, fulminate all´improvviso da burocrazie della sicurezza e della contenzione ora ottuse ora crudeli. All´anagrafe sono cittadini uguali agli altri, ma di un´uguaglianza solo formale, perché con loro, cittadini di serie b (operai, falegnami, maestri elementari, fotografi, tossici, extracomunitari), privi di costosissimi principi del Foro al loro fianco nel momento del giudizio (almeno per quei pochi per cui un processo si è celebrato), nudi di fronte alla legge perché soggetti, loro sì, soltanto alla legge, la giustizia penale, le forze dell´ordine, la polizia penitenziaria, non mostrano né lentezza, né inefficienza. Sono spietate. Impermeabili all´ascolto, al buon senso, persino alle grida di dolore, al rantolo che annuncia la morte. In una cella di sicurezza di una caserma, sul letto di contenzione di un ospedale psichiatrico, in un pronto soccorso dopo un pestaggio.
Si chiamano - è bene ancora una volta ricordarne il nome - Marco Ciuffreda (37 anni, carcere di Regina Coeli, 2 novembre 1999), Marcello Lonzi (29 anni, carcere delle Sughere, 11 luglio 2003), Katiuscia Favero (30 anni, ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, 16 novembre 2005), Eyasu Habteab (37 anni, eritreo, carcere di Civitavecchia, 14 maggio 2006) e Mija Djordjevic (rom, carcere di Regina Coeli, 29 gennaio 2008), Aldo Bianzino (44 anni, carcere di Capanne, 14 ottobre 2007), Niki Aprile Gatti (26 anni, carcere di Sollicciano, 24 giugno 2008), Giuseppe Uva (43 anni, ospedale di Circolo, 14 giugno 2008), Manuel Eliantonio (22 anni, carcere di Marassi, 25 luglio 2008), Carmelo Castro (20 anni, ospedale Garibaldi, 29 marzo 2009), Francesco Mastrogiovanni (4 agosto 2009, reparto psichiatrico ospedale san Luca), Giovanni Lo Russo (41 anni, carcere di Palmi, 17 novembre 2009), Stefano Cucchi (31 anni, ospedale Pertini, 22 ottobre 2009).
Ciascuno di loro ha storie uniche, peculiari, come sono state le vite troppo brevi che hanno vissuto. Ma, per tutti loro, la morte di Stato presenta identiche stimmate. «Il riprodursi di una volontà di sopraffazione - scrivono Manconi e Calderone - La propensione dei governi ad assicurare alle forze dell´ordine una condizione di autonomia, tale da risultare, in determinate condizioni, molto simile a uno stato di intangibilità e, dunque, di impunità». Dunque, per ciascuno di noi, per la polis, esiste un solo dovere: «Contrastare quelle illegalità e qualunque abuso e qualunque comportamento irregolare, chiunque ne sia il destinatario». E intanto non dimenticare. Non volgere lo sguardo altrove.
Sette del Corriere della Sera 26.5.11
Quella volta che Bogdanov, Gorkij e Lenin giocavano a fare i
Marxisti a Capri
di Maurizio Caprara
qui
http://www.scribd.com/doc/56306939
La Stampa 26.5.11
Intervista Theo Angelopoulos
“La mia povera Grecia senza più speranze”
Il regista: ho vissuto l’invasione nazista e la dittatura dei colonnelli, ma in fondo a questa crisi non vedo luce
di Simonetta Robiony
Theo Angelopoulos parla con tono doloroso della sua Grecia. La crisi economicofinanziaria che si è abbattuta sul suo paese lo ha lasciato sgomento. Non riesce a vedere come se ne possa venir fuori, eppure proprio di questo parlerà il suo nuovo film, L’altro mare , che comincia a girare a ottobre, a casa sua, con un cast interamente greco e una produzione internazionale. Dover riflettere sul gravissimo momento politico che sta attraversando la Grecia gli rende assai difficile tirarsene fuori per un momento, con un respiro di sollievo. E la voce spezzata ne è la prova. L’altro mare sarà l’ultimo atto di una trilogia cominciata nel 2004 con La sorgente del fiume e proseguita con La polvere del tempo , in uscita il 1 giugno, dopo diverse traversie distributive. Girato un paio di anni fa, in questo momento La polvere del tempo gli appare lontano e distante, nient’altro che un ricordo. Anche questa volta Angelopoulos, autore di film politico-storici ma anche visionari e mitici come La recita , Alessandro il grande , Il passo sospeso della cicogna , Lo sguardo d’Ulisse , il set dove morì Volontè e infine L’eternità e un giorno che gli valse la Palma d’oro a Cannes, fa un cinema immenso per ambizioni e immagini. La cifra è sempre quella sua particolare tecnica dell’inquadratura con piano sequenza che da un lato restituisce il tempo della realtà quotidiana e dall’altro lo immobilizza in una eternità straniante. Scritto con il poeta Tonino Guerra con cui ha spesso collaborato, interpretato da Willem Dafoe, Bruno Ganz, Irène Jacob, Christiane Paul, Michel Piccoli, attraverso la storia di Eleni, donna del 900 divisa tra l’amore di gioventù per Spyros e l’affetto adulto per Jacob, Angelopoulos ripercorre gli ultimi 60 anni della storia europea: dalla fine del conflitto mondiale che portò la Grecia a una guerra civile alla Berlino lucida e orogliosa del dopo la caduta del Muro. A raccontare questa storia un regista cinquantenne che dirige un film sui suoi genitori separati continuamente dal destino, naufraghi in un mondo che muta in continuazione.
Perchè ha chiamato come la mitica Elena di Omero la sua protagonista? Non mi pare le assomigli .
«Infatti non le somiglia. E’ solo perchè Eleni è un nome molto comune da noi. Non ho pensato nè all’Iliade né all’Odissea, però».
Tra poco il suo film esce anche da noi, eppure l’impressione è che ormai per lei quello sia un capitolo chiuso.
«E’ così. Quando finisco di girare un film non ci penso più. Quel che avevo da dire l’ho detto e sta là: la mia mente si concentra sul prossimo film».
Non è la prima volta che dirige una trilogia: come mai?
«Vero, l’ho già fatto in passato. Adesso, però, era più urgente. S’è chiuso un secolo, il 900, grande di speranze e catastrofi: mi pareva giusto ripensarci. Ma mentre due anni fa, quando ho girato La polvere del tempo , concludevo il racconto con l’immagine di un nonno che teneva per mano la giovane nipote, come se ci fosse una via verso la quale incamminarsi,oggi, davanti a questa crisi economica che sta devastando la mia gente, non vedo alcun sentiero libero da percorrere».
Teme che l’Europa abbandoni la Grecia?
«Non lo so. Non lo so. Le restrizioni sono tremende. Ho paura di disordini di piazza, scontri con la polizia, morti per le strade. L’animo dei miei concittadini è a pezzi. L’Europa è stata un sogno che s’è infranto troppo presto».
Non crede che lentamente la Grecia e gli altri paesi europei ne verranno fuori?
«Mah. Ho vissuto l’occupazione tedesca, sono fuggito dalla dittatura dei colonnelli, ho assistito alla fine del comunismo, ma non ho mai perso la speranza. Adesso non spero più. In gravi difficoltà economiche ci sono anche l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e perfino voi in Italia non state messi bene. Forse è l’Europa che ha fallito. Forse è la società occidentale che è entrata in crisi. Dovremmo reinventare un modello di sviluppo ma non abbiamo idea di come farlo».
Sono cadute le vecchie ideologie. Si può dire, Angelopoulos, che non siamo più figli di Hegel?
«Di Hegel certo, di Marx non ancora. La sua analisi del capitalismo, per me, è tuttora valida, pur se è da rivedere la soluzione a questi mali. L’Unione Sovietica non è stata una risposta efficace. Ne dovremmo inventare un’altra».
Noi, paesi del Mediterraneo, probabilmente dovremmo essere più attenti a quel che vivono i popoli africani.
«E’ una ipotesi. Certo è che noi, Francia compresa, sentiamo e viviamo situazioni analoghe. La Germania no. E’ diversa. I tedeschi sono efficaci, ricchi, potenti: non ci somigliano».
Come sarà questo terzo atto della sua trilogia?
«Ho pensato di concepirlo come una parabola, una sorta di metafora politica. Purtroppo intorno a me non avverto altro che pessimismo. Sarà un film nero. Le restrizioni per rimettere a posto il nostro bilancio pubblico sono feroci. Ho l’impressione che qualcosa sia morto per sempre. Non riuscirò, credo, a sperare di nuovo».
Repubblica 26.5.11
Angelopoulos: "Una storia d'amore per raccontare l'Europa di questi anni"
di Maria Pia Fusco
Il maestro firma "La polvere del tempo" un film sull´utopia mancata
Che dolore vedere il mio paese caduto in una crisi economica enorme. La gente è smarrita, non si aspetta più niente
Mi piace guardare al passato perché lì ci sono le nostre radici e perché il presente è solo frustrazione
«Ho vissuto tanti periodi oscuri, anche l´esilio, ma mai una situazione drammatica come quella di oggi. Non si può immaginare lo stato d´animo di un popolo sfinito, disperato. Da troppo tempo in Grecia si susseguono eventi dolorosi, la guerra, la miseria, la dittatura dei colonnelli. E ora, quando potevamo sperare in una stagione di pace, la crisi ha distrutto tutto. Viviamo sospesi, come su un altro pianeta, senza futuro». La voce di Theo Angelopoulos, al telefono da Atene, tradisce emozione. L´occasione è l´uscita di La polvere del tempo (in sala l´1 giugno con Movimento Film), secondo titolo di una trilogia cominciata con La sorgente del fiume, con Willem Dafoe, Bruno Ganz, Irène Jacob, Michel Piccoli nel cast. Ma per il maestro greco la realtà del suo paese viene prima di tutto. «In ogni momento critico ho sempre voluto cercare la speranza, immaginare una vita d´uscita. In questa situazione non è possibile, non sono mai stato così triste pensando al futuro dei miei nipoti, di tutti quelli che hanno la giovinezza davanti».
A chi attribuisce le responsabilità?
«Ci sono stati tanti errori nel mondo politico, il governo ha perso la fiducia del paese, che pure lo ha votato. La delusione è forte per tutti i partiti della sinistra, anche da loro non ci si aspetta più niente. La cosa peggiore nello stato d´animo della gente è lo smarrimento, l´impossibilità di capire come si è arrivati a questo punto».
Lei credeva nell´Europa…
«L´Europa avrebbe dovuto diventare un´unione di stati, come gli Stati Uniti d´America. Non basta la moneta unica. Pur nel rispetto delle differenze, bisognava cercare una politica comune per tutti i paesi, non solo economica, bisognare arrivare a stati sociali simili, stessi diritti, stessi doveri. Non è l´Europa che sognavo quella che abbandona un paese a se stesso. Si può convivere se da una parte c´è la Germania e dall´altra la Grecia, l´Irlanda, la Spagna? Penso che una rivolta popolare sia possibile in tutti i paesi del Mediterraneo. Non conosco abbastanza la politica italiana, ma ho partecipato con Umberto Eco ad un incontro sul governo Berlusconi, non mi sembra che l´Italia stia bene. L´Europa, così com´è oggi, è la fine di un´utopia».
L´utopia è un tema di La polvere del tempo in cui racconta cinquant´anni di storia della Grecia e dell´Europa…
«Ho raccontato gli eventi della Storia attraverso una storia d´amore, ciò che accade nel mondo entra nella vita di ognuno. Credevo che dalle crisi si uscisse con la speranza nel futuro, che il mondo avanzasse con le utopie, ma ogni sogno politico è finito».
La protagonista è una donna che ama due uomini.
«Dal punto di vista femminile forse rappresentano i due uomini che ogni donna vorrebbe incontrare. Per me è un omaggio a Jules et Jim».
A ripercorrere la Storia, avanti e indietro nel tempo, in luoghi diversi, è un regista cinematografico: si identifica con lui?
«Soltanto per il suo rapporto con il lavoro, minuzioso, attento, anche un po´ pedante e per la sua necessità di scavare continuamente nella memoria».
Dove è uscito il film?
«Ovunque, meno in Francia ed è la prima volta che un mio film non va nelle sale francesi. È un momento strano, si tende, in nome del pubblico giovane, a privilegiare la storia più attuale. È pericoloso, nel passato ci sono le radici di ciò che accade oggi. Se non si conosce si arriva alla frustrazione, all´incapacità di capire il presente».
Come sarà il terzo film della trilogia?
«La sceneggiatura è pronta, comincerò a girare subito dopo l´estate. Il titolo è L´altro mare, è la storia di un padre e dei suoi figli che scorre insieme alla vicenda di un gruppo di giovani che tenta di mettere in scena L´opera da tre soldi di Brecht ma non ci riesce. È una parabola della Grecia di oggi».
Ha seguito il festival di Cannes?
«Sono molto contento per il premio a Cedar, fa bene al cinema greco. Non ho visto il film di Cannes, ma conosco il suo lavoro e lo ammiro molto. La sua produttrice collaborerà anche al mio film».
«La situazione peggiore è in Italia. In Egitto, anche durante la rivoluzione, la gente ha mostrato un forte senso civico. Siamo stati maestri, ma ora cominciano a insegnarci qualcosa loro. Pompei sparisce pezzo dopo pezzo. Al malcostume, alla corruzione, al clientelismo abbiamo fatto il callo, è drammatico».
La Stampa 26.5.11
Un occhio dallo spazio scopre 17 piramidi
Il satellite ha individuato nuovi tesori nell’area di Saqqara “Sepolti sotto la sabbia ci sono migliaia di tombe e di villaggi”
di Carlo Grande
Scoprire una piramide egizia è il sogno di tanti archeologi, ma non è tempo di Indiana Jones che fuggono lungo cunicoli sabbiosi o nella giungla: oggi ci pensa il satellite, assai più preciso anche se non altrettanto romantico o cinematografico. Proprio un «occhio volante» ha scoperto, nell’area egiziana di Saqqara, diciassette nuove piramidi: le immagini agli infrarossi scattate a 700 chilometri di quota lasciano pochi dubbi. Le piramidi, alle quali si aggiungono un migliaio di tombe e circa tremila insediamenti abitativi, sono sprofondate nella sabbia ma si distinguono nettamente: la pietra, il granito o i mattoni di fango con cui sono fatte è materiale più denso, ben riconoscibile.
I primi scavi confermano le scoperte. Sarah Parcak, pioniera nel settore dell’«archeologia spaziale» e docente presso la University of Alabama di Birmingham - il suo team ha lavorato intensamente per oltre un anno con telecamere in grado di cogliere dettagli di appena un metro di diametro - è quasi incredula davanti a tanta messe. Il momento più emozionante, dice, è stato vedere la città di Tanis: «Abbiamo scavato una casa di tremila anni che ci era stata rivelata dalle immagini satellitari: ebbene, il contorno della struttura coincideva quasi perfettamente con i dati del satellite».
Un’immagine straordinaria, pubblicata dalla Bbc (che sul tema ha prodotto un interessante documentario, «Egypt Lost cities») permette di ripercorrere con chiarezza il reticolo delle strade e le case dell’antica città. I dati sono talmente precisi che è possibile ricavarne una mappa.
Merito degli infrarossi, tecnologia che in futuro, secondo le autorità egiziane, potrà contribuire anche a proteggere i beni culturali e archeologici del Paese, visto che durante la recente rivoluzione alcuni siti sono stati saccheggiati: «Le immagini possono dirci in quale periodo una tomba è stata visitata dai ladri, potremo essere in grado di avvisare l’Interpol che si metterà in allarme per intercettare i reperti messi in vendita».
Buone notizie, intanto, sul fronte del recupero della antichità trafugate dal Museo Egizio del Cairo durante la rivoluzione: l’egittologo Francesco Tiradritti annuncia che ne sono state ritrovate altre qualche giorno fa: si tratta delle trombe, del ventaglio e della statua dorata sull’imbarcazione di papiro di Tutankhamon e di un ushabty di Yuya. Erano in una borsa all’interno di una stazione della metro cairota.
La nuova tecnologia, dunque, aiuterà le nuove generazioni di archeologi in tutto il mondo, che potranno compiere ricerche più mirate e selettive: di fronte a un sito molto grande, ricco di manufatti, a volte non si sa nemmeno bene da dove cominciare.
Il lavoro è solo agli inizi, dunque: soltanto una minima percentuale dei tesori dell’antico Egitto sono finora stati scoperti, la sabbia conserva ancora molti segreti. Un esempio è l’area di Saqqara: le autorità egiziane finora non erano troppo interessate, adesso grazie al satellite hanno cambiato idea e parlano di uno degli insediamenti più importanti del Paese. Ma ce ne sono centinaia, coperti dal limo del Nilo. Aveva ragioneEugenio Montale: «La storia non è poi la devastante ruspa che si dice/ Lascia sottopassaggi, cripte, buchi/ e nascondigli. C’è chi sopravvive».
Corriere della Sera 26.5.11
Laicità oggi, tra interessi e principi
di Vittorio Possenti
E’ bene dibattere di laicità in Italia, come del resto accade abbondantemente; ma è anche difficile per motivi che vanno oltre quelli addotti sul Corriere da Tullio Gregory e Massimo Teodori. Habermas ha iniziato a cogliere la portata del problema quando ha spronato verso un dialogo tra credenti e «laici» rivolto ad un reciproco apprendimento, che sarebbe indispensabile. In ogni caso la laicità dovrebbe essere intesa come esercizio della ragione. Le difficoltà della laicità provengono dal fatto che l’entità dei problemi è cresciuta a dismisura. Il quadro è mutato in quanto molte questioni che oggi vengono dibattute sotto il cappello della laicità oltrepassano l’antico e consunto schema dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi come istituzioni sovrane che si fronteggiano e patteggiano. Un’alta quota di problemi non rientrano in tale schema, poiché chiamano in causa l’essere umano e il cittadino coi suoi diritti e doveri. La questione che dovunque accende gli animi è quella antropologica: uomo chi sei? Non pochi la lasciano da parte preferendo rimanere sul terreno strabattuto dei confini tra Stato e Chiesa, invitando con Kelsen a risolvere il conflitto con un compromesso democratico che tenga conto degli interessi di entrambe le parti. Sarebbe questa secondo Teodori un’ottima definizione di laicità. Ciò è vero in misura modesta, e la risposta sta nel termine stesso impiegato da Kelsen: interessi. Questi infatti hanno un prezzo, si prestano alla trattativa ed alla mediazione in quanto per loro natura ammettono punti medi. Differentemente dagli interessi, i principi non hanno prezzo ma dignità (è Kant che parla) e non ammettono punto medio: non vi è alcun punto medio tra uccidere e non uccidere. È giusto invitare al compromesso sugli interessi, ma chiedere allo Stato di essere neutrale sui principi fondamentali è autodistruttivo. I difensori di un certo tipo di laicità, che in Francia si chiamerebbe de combat, raramente si avvedono della differenza tra i due casi e finiscono per attribuire le difficoltà alla cattiva volontà altrui: un equivoco che, insistendo su vecchie dicotomie, non si confronta con la durezza dei problemi morali e antropologici presenti. Se consideriamo il tema dell’embrione umano, sollevato un po’ frettolosamente da Gregory in quanto si limita a considerare solo le cellule staminali di provenienza embrionale e non quelle adulte riprogrammabili, non c’è altra strada che quella di fondarsi sulle migliori argomentazioni filosofiche e scientifiche (filosofiche e scientifiche, non religiose) per mostrare che l’embrione è un essere umano, meritevole di pieno rispetto. È dunque violare il principio di eguaglianza e di dignità sceglierne uno e rifiutarne un altro (eugenetica), così come è violazione del suo sacrosanto diritto naturale allo sviluppo congelarlo, impedendogli di crescere. È una strana laicità quella che vuole buttare la questione in religione. Ma non si tratta del diritto alla vita? Durante la preparazione della Dichiarazione universale del 1948 si pose su proposta di alcune delegazioni il problema di definire il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale (art. 3), anche se poi l’integrazione non passò. In merito, importante è la sentenza 35/1997 della nostra Corte costituzionale. Quanto alla legge sul fine-vita vi è spazio per un miglioramento, in specie sul problema dell’indisponibilità della propria vita. Il carattere anelastico dei principi indica che lo Stato può rimanere neutrale su varie cose, non sulle scelte di fondo e i valori base, codificati nella nostra Carta. Dobbiamo muovere verso una società postliberale, in cui i diritti di libertà non abbiano sempre e comunque il predominio (il diritto alla vita non è un diritto di libertà), e il bilanciamento tra diritti e doveri sia più rigoroso che nell’individualismo liberale. Sarebbe una bella laicità quella in cui mere pretese non vestissero i panni dei diritti, e forse avremmo meno querimonie sulle presunte prevaricazioni di una parte sull’altra.
Corriere della Sera 26.5.11
Jung, i sogni e le fantasie per conoscere se stessi
Perché è attuale il pensiero dello psichiatra svizzero
di Marco Garzonio
Jung è attuale. A cinquant’anni dalla morte, il 6 giugno 1961, a 86 anni, è moderno per la sua nozione di inconscio quale fonte della responsabilità dell’uomo verso sé e la realtà, quale parte «altra» della psiche dotata di dignità non minore rispetto alla ragione che s’illude di saper spiegare tutto. A un mondo d’oggi privo di utopie, in cui cultura e politica non sanno più offrire mete condivise, Jung presenta i sogni — porte spalancate sull’irrazionale — come «le parole guida dell’anima» . La sua è una lettura creativa dell’inconscio personale, di ciascuno, e di quello collettivo, cioè proprio delle culture cui apparteniamo, che ci accomuna attraverso i contenuti di miti, simboli religiosi, fiabe, folklore, storia. Nei sogni prendono forma anche progetti, tensioni ideali, figure di riferimento. Ma pure nell’immaginazione, nelle fantasie, nel gioco per Jung è possibile attivare energie psichiche inconsce capaci di aiutare l’opera della conoscenza. Scendere in profondità è strada irta di rischi, che ha però per meta risalire, «tornare a riveder le stelle» con animo rinnovato dall’esperienza del confronto con se stessi, dall’aver accettato parti ignote, anche sgradevoli, dall’averle integrate nella coscienza. Il «sii quello che sei» , sulla scia dell’antico «conosci te stesso» , è obiettivo centrale della psicologia analitica di Jung. È una sorta di manifesto dell’interiorità, che aiuta a prendere le distanze e dà respiro al vivere d’oggi fatto di conformismi, piattezze, trasformismi, furbizie. «Cercare la propria via» è un percorso che Jung ha sperimentato su di sé; l’ha chiamato «processo di individuazione» . Essere se stessi, differenziarsi, rendersi autonomi da appartenenze e modelli assunti inconsciamente, va in controtendenza rispetto a relazioni in cui ci si adegua, si fa e si dice ciò che conviene o che altri si aspettano, non invece quanto dovremmo ritenere sia il bene per noi e per il prossimo. Il «conflitto morale» , lo scontro fra idealità e comportamenti dettati da interessi e condizionamenti, è tema clou nella psicologia di Jung. Per lui sta all’origine di nevrosi, di conflitti inconsci che, in termini di sofferenze attuali, possiamo chiamare crisi d’ansia, disadattamento, panico. Gli orizzonti di senso svaniscono quando metro di giudizio è la corrispondenza spasmodica al collettivo e non invece l’autorealizzazione dettata dall’ «essere un compito per se stessi» . Per chi cerca legittimazione dall’entità dei consensi vale tuttora il monito di Jung: «Non sia d’altri chi può appartenere a se stesso» . La proposizione junghiana «chi altri deve vivere la tua vita se non tu stesso?» non isola né chiude l’individuo. Il lavoro con l’inconscio porta Jung a sintetizzare gli scopi della psicoterapia così: educare all’autonomia e alla libertà morale; evitare, però, che si costituisca «un conglomerato anarchico di esistenze separate» ; lavorare per l’incessante sviluppo del singolo quindi e, insieme, per una «comunità consapevole» , senza la quale «neanche l’individuo più solido e autonomo può prosperare» . Obiettivi calzanti per il nostro contesto di egoismi, ripiegamenti, localismi, difese corporative. Al massimo di individualità corrisponde il massimo di socialità, per Jung. Se prendiamo coscienza dei lati inconsci della psiche individuale e dei moti irrazionali collettivi, noi occidentali possiamo forse riparare alla tendenza ad espellere da noi le colpe delle distruzioni che abbiamo inflitto al mondo mettendole sugli altri: stranieri, fedeli di altre religioni, rom, diversi d’ogni specie e genere. Un ulteriore aspetto ci rende Jung prossimo. Fuori dal coro rispetto al positivismo del tempo, parla di Dio. Non un Dio confessionale il suo. Alla «morte di Dio» di Nietzsche, Jung oppone un Dio che rinasce, realtà numinosa e potenza spirituale universale più che persona come vuole il cristianesimo; una realtà trascendente che accomuna gli uomini. «Per fortuna sono Jung e non uno junghiano» disse un giorno lo psichiatra di Zurigo. Autoironia e senso critico hanno posto in qualche modo al riparo lui e la sua opera da rischi, quali il dogmatismo. Anche qui Jung è moderno: nell’accettare la complessità, nel rischiare l’imprevedibilità di cui regista è l’inconscio, nel considerare sé, la psiche, alla stregua di un’ «opera aperta» , che si rigenera ogni giorno in modo creativo, a patto di giocarsi tutto in prima persona: «Se tu cambi, si trasforma anche il volto del mondo» .
Sette del Corriere della Sera 26.5.11
Jung, il dilettante dell’anima
di Peppe Aquaro
qui
http://www.scribd.com/doc/56306284/Jung-su-Sette-del-Corriere-26-5-11
Terra 26.5.11
Meloni, broccoli e pachino Al mercato dei brevetti
di Federico Tulli
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Terra 26.5.11
La grande fuga da un Corpo celeste
di Alessia Mazzenga
qui
Terra 26.5.11
Alla ricerca di giustizia
di Francesca Pirani
http://www.scribd.com/doc/56305125