venerdì 27 maggio 2011

l’Unità 27.5.11
Il leader Pd stasera in piazza Duomo: dopo il voto, chiediamo che vadano a casa
Lega e ministeri Volevano ridurli, umiliante per gli elettori leghisti questo accattonaggio
Bersani: «L’Italia ha bisogno di Milano. La riscossa parte qui»
«Da Milano è partita la riscossa civica e morale di tutto il Paesse». Bersani stasera sarà tra il pubblico in piazza Duomo, per la chiusura della campagna elettorale. Pisapia e i «senza cervello»: Berlusconi inaccettabile.
di Laura Matteucci


«C’è bisogno di Milano in questo Paese, da Milano si è alzato un vento di cambiamento che prenderemo per mano e porteremo in tutta Italia. Vinciamo noi, l’ho sempre detto, figuriamoci se non lo ripeto adesso. E sarà una riscossa civica e morale, prima ancora che politica». Per questo Pierluigi Bersani stasera sarà ancora qui, «in mezzo al pubblico in piazza Duomo per seguire l’ultima serata». Il leader del Pd è a Milano, parla in un incontro pubblico in una zona decentrata, punta alla vittoria promessa di lunedì di Giuliano Pisapia e guarda oltre il voto. Per lui sono i primi ritorni in città dopo «l’eccezionale risultato del primo turno». «Se si confermerà quest’onda dice bisognerà discutere di fisco, precarietà dei giovani, liberalizzazioni innanzitutto. Se il governo non è in grado di affrontare questi temi, noi chiediamo che vadano a casa e che si torni dagli elettori. Non fanno più niente, a parte aumentare il numero dei sottosegretari». Perchè questo «tramonto troppo lungo e fiammeggiante di Berlusconi» non permette «nemmeno di parlare dei problemi seri». Piuttosto tocca, come sempre, commentarne i deliri: già gli elettori di sinistra «senza cervello» sembrava potesse bastare per chiudere la campagna, e invece siamo alla farneticazione internazionale: «Berlusconi dice Bersani è riuscito a togliere due minuti del G8 a Obama per dire che il problema degli italiani sono i giudici rossi. Non sose gli chiederà l’intervento della Nato. È un’umiliazione che dobbiamo togliere di torno il prima possibile perchè stiamo perdendo peso a livello internazionale». Ma il nodo, ricorda, «non è solo mandare a casa Berlusconi, è liberarsi dal berlusconismo, una malattia entrata nelle vene del Paese». Se ci sarà uno spiraglio per parlare di una nuova legge elettorale, definita «priorità assoluta», «noi dice Bersani siamo disposti a discutere con chiunque». E la Lega che, tra l’ossessione ministeri e l’assenza di Bossi accanto a Letizia Moratti, in questa campagna elettorale sembra sempre più giocare una partita tutta sua? «Mi chiedo risponde lui dove sia finita la Lega di una volta, che i ministeri li voleva ridurre. Trovo davvero umiliante per gli elettori leghisti questo accattonaggio di ministeri».
Ultimo giorno di campagna elettorale, la più becera che la destra abbia mai messo in atto, la più autenticamente partecipata dai milanesi democratici. Pisapia continua ad incontrare pezzi di città, la Moratti se la prende col suo capo («noi danneggiati da campagna elettorale su temi nazionali»), incassa il forfait di Gigi D’Alessio al concerto di ieri sera (troppi insulti su Facebook da parte dei leghisti, alla faccia del patto di ferro col Pdl), e alla fine è riuscita a scusarsi per la diffamazione pubblica su Sky, dove ieri si è ri-confrontata da sola, visto che lui ha declinato l’invito. Ma gli attacchi del centrodestra non smettono mai: «Chi vota a sinistra è senza cervello? dice Pisapia Inaccettabile che un presidente del Consiglio continui ad insultare la maggioranza degli italiani».
Milano aspetta e si colora di arancione (il colore scelto per la campagna di Pisapia), tra le migliaia di gerbere distribuite dal Pd, le lenzuola alle finestre, le bandiere che sventolano a grappoli da auto e moto e biciclette. E che oscurano quei tragicomici manifesti su zingaropoli, abnormi moschee e più tasse per tutti. «Verranno seppelliti da una risata cita Bersani Il tentativo disperato di terrorizzare gli elettori è scivolato nel ridicolo». Del resto, «se Milano, grande capitale civile, la città che ci fa stare più di tutte in Europa, s’impressiona davanti a queste sciocchezze, che cosa dovrebbe fare il resto d’Italia?».
Stasera, allora, concerto finale, con Elio & co., Bisio, Lella Costa, Paolo Rossi: ci sarà Bersani tra le migliaia di persone in piazza Duomo, e pure il leghista Matteo Salvini, perchè Elio non se lo vuole perdere, dice. Il centrosinistra, del resto, è pronto a governare per tutti i milanesi.

l’Unità 27.5.11
Tomba Mediterraneo
1400 migranti spariti a largo di Lampedusa
Da gennaio di quest’anno sono morte più persone di quante persero la vita nell’intero 2008. È la strategia del Raìs: profughi spediti in Europa
di Gabriele Del Grande


Sono vent’anni che il Canale di Sicilia è attraversato dalle barche di chi viaggia senza passaporto verso la riva nord del Mediterraneo. Eppure una cosa così si era mai vista. Dall’inizio dell’anno è una strage senza precedenti. Sono già almeno 1.408 i nomi che mancano all’appello. Uomini, donne e bambini annegati al largo di Lampedusa. In soli cinque mesi. I dati sono quelli dell’osservatorio Fortress Europe. Da gennaio sono scomparse più persone di quante ne morirono in tutto il 2008, l’anno prima dei respingimenti, quando si contarono 1.274 vittime a fronte di 36.000 arrivi in Sicilia. Il tasso di mortalità delle traversate è aumentato in modo apparentemente inspiegabile. Ma è sufficiente scomporlo per farsi un’idea più precisa.
Dall’inizio dell’anno sono sbarcate circa 14.000 persone dalla Libia e 25.000 dalla Tunisia. Eppure di quei 1.408 morti soltanto 187 sono annegati sulla rotta tunisina. Mentre sulla rotta libica i morti sono addirittura 1.221. Come dire che sulla rotta tunisina ne muore uno su 130 mentre sulla rotta libica ne muore uno su 11. Dodici volte di più. I conti non tornano. Quei morti sono troppi. Non può essere soltanto il mare. E il dato potrebbe essere ancora più allarmante. Perché nessuno è in grado di dire quanti siano i naufragi di cui non si è saputo niente. L’ultimo l’ho scoperto per caso due giorni fa, parlando con alcuni superstiti in un centro di accoglienza del nord Italia.
«Eravamo 600 persone. Le barche erano talmente malridotte che ci veniva da piangere al solo pensiero di partire. Ma non avevamo scelta. I militari ci costringevano a salire. Sulla prima barca montarono in 320, c’erano tantissime donne e bambini, perché li avevano fatti salire per primi. Sulla nostra barca invece eravamo un po’ di meno, in 280. Siamo partiti così, loro davanti e noi dietro».
Sono le sette del mattino del 27 aprile 2011. E dal porto di Zuwara prendono il largo due vecchi pescherecci caricati all’inverosimile con 600 passeggeri. Il tempo all’inizio è buono. I comandanti sono tunisini. I due pescherecci navigano affiancati uno all’altro, verso nord. Ma già nel primo pomeriggio la bussola si rompe. O almeno così dice il capitano. Che propone di aspettare il tramonto del sole per potersi orientare con le stelle. Ma insieme al tramonto arriva anche una brutta tempesta.
«Eravamo in mezzo alla tempesta, la barca ogni volta che andava giù sembrava sprofondare nel mare, eravamo circondati da montagne di acqua, e le onde sbattevano sul ponte. Eravamo tutti fradici e infreddoliti, al buio... Io cercavo solo di stringere forte tra le mie braccia il bambino, che non faceva altro che piangere. A un certo punto abbiamo sentito
gli altri iniziare a gridare. Dicevano “Aiuto, aiutateci! Aiutateci, aiuto! Si rompe! Si rompe si rompe si rompe! Prendeteci prendeteci! È caduto è caduto!”. Sentivamo quelle grida in mezzo all’oscurità, senza capire da dove provenissero, se fossero davanti, a destra o a sinistra. Non vedevamo niente. C’è stata una grossa discussione a bordo. Alcuni dicevano che dovevamo aiutarli. Altri facevano notare che non c’era neanche il posto per noi a bordo, dove li avremmo messi? Rischiavamo di morire tutti per andarli a salvare».
Il capitano è tra quelli che volevano andare a prestare soccorso, ma alla fine si fa convinto a lasciarli al loro destino e con una virata si allontana dalla zona dell’incidente. Quando si alzano le prime luci dell’alba, la scena è terrificante.
«Il mare era cosparso di pezzi di plastica, sacchetti, vestiti, jilet di salvataggio. E in lontananza abbiamo visto anche dei corpi a galla ondeggiare. La barca si era spezzata e era colata a picco portandosi con sé tutti i 320 passeggeri. Nessun superstite. Eravamo terrorizzati, e per non cadere nel panico, abbiamo deciso di passarci alla larga per non vedere la scena del massacro».
Anche perché nel frattempo ci sono stati dei morti anche sul peschereccio del nostro testimone, una decina di persone cadute in mare spazzate via da un’onda che si è schiantata sul ponte durante la tempesta. L’incubo finisce il primo maggio alle quattro di pomeriggio, quando la barca attracca a Lampedusa. Nonostante la fine del viaggio, alcune donne a bordo continuano a piangere. Perché sull’altra barca avevano i mariti. Nella foga dell’imbarco infatti i militari al porto di Zuwara non avevano perso tempo a tenere uniti i nuclei familiari. E così alcune famiglie si sono ritrovate divise tra le due navi.
Questa testimonianza spiega meglio di ogni altra analisi politica i dati al rialzo delle stragi nel Mediterraneo. Non è il mare l’unico responsabile di tanti morti. Sono soprattutto i militari libici. Perché questa volta gli sbarchi sono davvero un’operazione interamente organizzata dal regime. Che a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non ha bisogno che la merce arrivi a destinazione. Paga il regime. È l’ultima arma rimasta al regime libico. Le bombe umane. L’obiettivo è spedirne oltremare il maggior numero possibile, come ritorsione contro i paesi europei.    2/3 continua

il Fatto 27.5.11
@rivoluzione. Giovani contro satrapi
Primavera araba, il contaggio corre in rete
di Giovanna Loccatelli


Le rivoluzioni del mondo arabo e il ruolo dei social network raccontate attraverso i messaggi su Internet dei giovani: è il libro di Giovanna Loccatelli “Twitter e le rivoluzioni” nelle librerie da oggi.
11 gennaio 2011. Sul blog collettivo Na  waat.org   un giovane ventenne tunisino scrive: “Al liceo e al collegio si ha sempre paura di parlare di politica. Ci sono informatori ovunque, ci viene detto. Nessuno osa discutere in pubblico […] Siamo cresciuti con questa paura di impegnarci […] Ed ecco che Wikileaks rivela quello che tutti mormorano. Ecco un giovane s’immola nel fuoco. Ecco, venti tunisini vengono ammazzati in un sol giorno. E per la prima volta vediamo l’occasione per ribellarci, per vendicarci di questa famiglia reale che si è presa tutto, per rovesciare quell’ordine stabilito che ha accompagnato tutta la nostra giovinezza”. Vive in un contesto di perenne paura la generazione di ventenni, povera, istruita, digitalizzata e senza lavoro fisso che, grazie ad Internet, conosce il mondo e rivendica i diritti dei coetanei virtuali, al di là dei propri confini .
   LA RIVOLUZIONE, mediatica prima e reale poi, scoppia quando un ragazzo, Mohamed Bouazizi, si dà fuoco in un paesino vicino Tunisi. Le sue ultime parole su Facebook: “Me ne vado, mamma, perdonami, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca […]”. La polizia, corrotta, gli aveva confiscato il suo carretto di frutta. Le foto fanno il giro del mondo grazie ai social network. Al Jazeera comprende, prima di tutti gli altri media tradizionali, il valore di quel materiale e nel giro di poche ore la notizia diventa globale. Il tam tam contagia tutti i media sociali, sbarca anche su youtube. […] E poi la rivolta, con la velocità irrefrenabile della rete, arriva in Egitto. 8 febbraio 2011. @Ghonim “Non sono un eroe: sono soltanto abile con la tastiera del computer, gli eroi reali sono quelli in strada” dichiara Wael Ghonim, 30 anni, marketing manager di Google in Medio Oriente e Nordafrica. Ha orientato le masse giovanili della rivoluzione egiziana tenendo viva l'attenzione e la discussione online. Rapito dalla polizia e liberato dopo due settimane di reclusione subitotornainstradaetwittanelsuo microblog: @Ghonim “Piazza Tahrir è bloccata. Stiamo provando ad arrivare lì. Gli egiziani stanno facendo la storia”. Secondo Time è l’uomo più influente del 2011. Tanti, come lui, hanno twittato per strada con i propri cellulari. La diffusione dei telefonini, non a caso, ha registrato un boom storico nel 2009: 45,6 milioni circa le utenze attive nel paese, con una popolazione di circa 80 milioni di persone. C’è pure, però, chi ha twittato le voci degli egiziani in tempo reale fuori da questi paesi, chiuso nella propria stanza. È il caso di John Scott-Railton. Studente californiano che, durante il blocco della rete messo in atto dal regime di Mubarak, ha fatto sì che le notizie provenienti dal Medio Oriente arrivassero in tutto il mondo. Come? Registrando da un telefono fisso le voci di egiziani e libici per poi pubblicarle nel suo account […].
   GLI ATTIVISTI raggruppano in un archivio on line, “I’m jan 25” tutto il materiale audiovisivo della rivoluzione. Un enorme contenitore che immortala le testimonianze della sanguinosa rivolta. La consapevolezza, diffusa tra i cittadini, della potenza dei social network è tale che tra gli egiziani in festa dopo le dimissioni di Mubarak è circolata una barzelletta sui tre presidenti. La barzelletta riguarda l’incontro dei tre in paradiso. Quando Nasser e Sadat vedono arrivare Mubarak gli chiedono come sia morto. “È stato il veleno o eri sul palco?”. “Nessuna delle due – risponde Mubarak – è stato Facebook” Che in inglese rende ancora di più: “I was facebooked!”. E poi la Libia. Anche qui i giovani si sono uniti in un gruppo, ShababLybia, voce del Movimento dei giovani per la Libia. È un gruppo nato su face-book, ricreato su Twitter, che si ispira a quanto successo in Egitto. Mohammed Nabbous ha creduto, forse più di tutti, nella forza divulgatrice di questi strumenti. All’indomani dell’insurrezione del 17 febbraio, aveva fondato la Libya Alhurra tv, esempio massimo di giornalismo partecipativo. Un sito che trasmette quotidianamente i video degli scontri, le sparatorie, le mobilitazioni, e le vittime del regime di Gheddafi. […] Su Twitter: @Nabbous “Non temo di morire ma ho paura di perdere la mia battaglia per la libertà della Libia”. È stato freddato da un cecchino di Gheddafi mentre riprendeva le rivolte in presa diretta con il mondo. Era una fonte, autorevole, per tanti giornalisti, sparsi nel globo. Alla luce di questo viaggio virtuale: come sta cambiano pelle l’informazione globale? Difficile rispondere, è in atto però un esperimento, di successo, che si chiama Al Jazeera talk. Non esiste una redazione fisica, non esistono giornalisti dietro un computer in un ufficio, ma, esistono oltre 300 blogger sparsi nelle zone calde nel mondo che, in tempo reale, con il cellulare e un pc raccontano in diretta la storia.
   AHMED ASHOUR, direttore di questa piattaforma, racconta: “Nei giorni del blocco totale di Internet, i giovani che si erano riversati a piazza Tharir hanno fatto circolare alcuni fogliettini di carta, con sopra diversi messaggi. Era imperativo, scritto nero su bianco, l’ordine di farli circolare il più possibile da una mano all’altra”. Questa, secondo Ashour, è la mentalità dei social network che si è fatta carne ed ossa nelle rivoluzione della “primavera araba”. Funzionerà in altri contesti? Ma una cosa è certa: queste sono le prime rivoluzioni 2.0 nell’era dell’informazione globale. Nulla sarà più come prima.
Twitter e le rivoluzioni di Giovanna Loccatelli EDITORI RIUNITI, 240 PAGINE, 16 EURO

Repubblica 27.5.11
L´intervista/ Parla l´analista Alessandra Lemma. Un suo libro spiega il bisogno di modificarsi
Da Lacan ad Almadòvar, cambiare vita cambiando pelle
"Da sempre abbiamo cercato di mutare ma oggi la versione diversa che vogliamo dare è un progetto personale"
di Luciana Sica


"Io cerco il volto che avevo/ prima che il mondo fosse creato". Alessandra Lemma è una psicoanalista, ma ricorre ai versi di Yeats per dire quel desiderio onnipotente di un corpo non ancora contaminato dallo sguardo dell´altro e dalla consapevolezza della fragilità che segna la condizione umana.
«Il corpo dice l´analista si può sentire come aperto o chiuso, comunicativo o monadico, come il luogo dell´incontro o del rifiuto, ma inevitabilmente "siamo degli esseri guardati, nello spettacolo del mondo", per usare l´espressione di Lacan: esposti ai pensieri e ai sentimenti degli altri, senza poterli controllare. Il corpo quindi rimanda da sempre all´identità anche sociale, ma oggi è qualcosa di diverso, è un "progetto personale", è la versione di noi stessi che preferiamo, con un´implicita presa di distanza da quello che siamo e non vogliamo essere».
Nata a Genova ma da sempre a Londra, Alessandra Lemma ha scritto un libro sulle ragioni profonde che portano donne e uomini di ogni età a modificare il corpo, attraverso pratiche diffuse come la chirurgia estetica, i tatuaggi, i piercing. Ha quarantacinque anni, insegna all´University College London, appartiene alla British Society of Psychoanalysis, è l´editor di una prestigiosa collana pubblicata da Routledge, lavora alla Tavistock Clinic legata a grandi nomi come Winnicott, Bion, Bowlby. All´attivo ha una quindicina di libri, ma questo è il primo uscito da noi e s´intitola Sotto la pelle (Cortina, prefazione di Vittorio Lingiardi e Monica Luci, pagg. 230, euro 24).
Perché è così necessario, se non compulsivo, il desiderio di cambiare la pelle che si abita, per dirla con il film di Almódovar?
«Perché per la difficoltà di "rappresentare" quello che si è vissuto e spesso brucia ancora le parole e i pensieri vengono rimpiazzati da azioni sul corpo e a volte contro il corpo, lì dove concretamente si localizza il sentimento dell´insufficienza. Per quella che è la mia esperienza clinica, un nuovo tatuaggio come l´ennesima iniezione di botox possono servire a non crollare emotivamente. Sono casi in cui le emozioni negative come l´inadeguatezza, la colpa, la rabbia, l´odio emergono da "sotto la pelle" a "sopra la pelle". Il corpo diventa allora una tela che esprime le fantasie più inconsce».
Rivendicazione, corrispondenza perfetta, autocreazione: lei usa espressioni apparentemente bizzarre per definire queste fantasie. Intanto cos´hanno in comune?
«Anche se corrispondono a stati mentali qualitativamente molto diversi, è identica la loro finalità così spesso illusoria: quella di sostenere un equilibrio psichico precario... Parlo di fantasia di rivendicazione quando il soggetto vive il corpo come estraneo avvertendo dentro di sé una specie di "oggetto inquinante", una presenza aliena: lo modifica per dichiararne la proprietà, lo rivendica, appunto... La corrispondenza perfetta è invece la fantasia che sostiene la ricerca di un corpo perfetto come garanzia di amore e di desiderio da parte di un partner altrettanto perfetto: quella che chiamo "fusione di un Sé idealizzato con un oggetto idealizzato». La fantasia di autocreazione implica che il nostro corpo ci "disturba" perché per qualche ragione rifiutiamo la dipendenza. In questo caso c´è una profonda lamentela, un "attacco invidioso" spesso nei confronti di una madre vissuta come un´artefice onnipotente ma indisponibile sul piano emotivo, una donna che probabilmente non ha saputo o potuto trasmettere con lo sguardo e il contatto il dono dell´amore».
"Non possiamo far nascere noi stessi", scrive lei, per restituire il senso di queste fantasie inconsce... Ma perché è così difficile accettare un fatto così basilare della vita?
«Perché il corpo testimonia la nostra relazionalità, lo spazio fisico condiviso della madre e del bambino non è che il prototipo della nostra dipendenza psichica dagli altri. Se ci sono state difficoltà nella relazione con il primo oggetto del desiderio, può essere impossibile sentirsi a casa nel proprio corpo che potrà quindi essere "raffigurato" come "sfigurato", diventare strumento paradossale di autoaffermazione o di autodistruzione. È sottile il crinale tra la normalità e la patologia nella ricerca delle modificazioni corporee, ma quando si vuole "trionfare" sul corpo è comunque un dolore psichico che viene disegnato sulla pelle».

Repubblica 27.5.11
L’ossessione del corpo diventa una malattia
Così la cura del sé, dalla forma fisica al mangiar sano, è stata esasperata, trasformandosi, nei suoi eccessi, in una patologia
Quando il benessere diventa una ideologia non accettiamo più le nostre imperfezioni
di Massimo Recalcati


L´anziano protagonista di uno degli ultimi film di Woody Allen, Incontrerai l´uomo dei tuoi sogni, recitato da un raro Anthony Hopkins, esulta scoprendo che il suo DNA gli garantirà una vita inaspettatamente protratta. Il rifiuto dell´avanzare degli anni lo mobilita alla ricerca di una giovinezza perpetua che non implica solo il progetto tragicomico di sposare una escort in carriera, ma anche l´assoluta dedizione al potenziamento atletico e alla purificazione salutista del suo corpo come per suffragare scaramanticamente la previsione esaltante offertagli dal discorso medico. Questo personaggio non è un alieno ma una maschera tipica del nostro tempo. Il corpo diventa un tiranno esigente che non lascia riposare mai.
In uno dei suoi ultimi libri titolato Il governo del corpo (Garzanti 1995), Piero Camporesi aveva abbozzato l´idea che una nuova "religione del corpo" si stesse imponendo nella nostra Civiltà. Peccato non abbia avuto il tempo per elaborare con la giusta ampiezza questa intuizione che oggi si impone ai nostri occhi come un´evidenza. Aveva ragione Camporesi: il nostro tempo ha sposato l´ideale del corpo in forma, del corpo del fitness, del corpo in salute, come una sorta di comandamento sociale inedito. Si tratta di una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine al rango di un idolo. Così il corpo sempre in forma, obbligatoriamente in salute, assume i caratteri di un dover-essere tirannico, di un accanimento psico-fisico, di una prescrizione moralistica: ama il tuo corpo più di te stesso!
La nuova religione del corpo si suddivide in sette agguerrite. Ma il loro comune denominatore resta l´esasperazione della cura di sé che diventa la sola forma possibile della cura come tale. Quella dimensione la dimensione della cura che per Heidegger definiva in modo ampio l´essere nel mondo dell´uomo e la sua responsabilità di fronte al fenomeno stesso dell´esistenza, sembra oggi restringersi al culto narcisistico della propria immagine. La nuova religione del corpo richiede infatti una dedizione assoluta per se stessi. Volere il proprio bene, volersi bene, diventa il solo assioma che può orientare efficacemente la vita. Ogni sacrificio di sé, ogni arretramento rispetto a questo ideale autocentrato, ogni operazione di oltrepassamento dei confini del proprio Ego, ogni movimento di dispendio etico di se stessi viene guardato con sospetto dai fedeli di questa nuova religione. La stessa domanda rimbalza come una mantra dalla stanza dello psicoterapeuta sino negli studi dei talk show televisivi: perché non ti vuoi bene, perché non vuoi il tuo bene?
Le espressioni psicopatologiche di questa cultura si moltiplicano. La classificazione psichiatrica dei disturbi mentali (DSM) si arricchisce in ogni edizione di nuove sindromi che sono spesso l´effetto diretto di questa invasione sconsiderata della cura eccessiva di sé. Si pensi, per fare solo un esempio, alla cosiddetta ortoressia che etimologicamente deriva dal greco orhtos (corretto) e orexis (appetito). Si tratta di una nuova categoria psicopatologica che definisce, accanto all´anoressia, alla bulimia o all´obesità, una particolare aberrazione del comportamento alimentare caratterizzata dalla preoccupazione eccessiva per il "mangiare sano". Ma come è possibile che una giusta attenzione a quello che si mangia sia classificato come una patologia? L´ortoressia esibisce un tratto essenziale del nostro tempo; il perseguimento del benessere, dell´ideale del corpo in salute, del corpo come macchina efficiente, può diventare un vero incubo, un´ossessione, può trasformarsi da rimedio a malattia. Il corpo che deve essere perennemente in forma è in realtà un corpo perennemente sotto-stress.
La vita medicalizzata rischia di diventare una vita che si difende dalla vita. Il corpo si riduce ad una macchina di cui deve essere assicurato il funzionamento più efficiente. Il medico non è più, come indicava Georges Canguilhem, l´"esegeta" della storia del soggetto, ma il "riparatore" della macchina del corpo o del pensiero. La malattia non è un´occasione di trasformazione, ma un semplice disturbo da eliminare il più rapidamente possibile cancellandone ogni traccia. L´ortoressia riflette questa curvatura paradossale dell´ideologia del benessere mostrando come le attenzioni scrupolose alla protezione del proprio corpo possano trapassare nel loro contrario. Roberto Esposito ha da tempo messo in valore nei suoi studi di filosofia della politica sul paradigma immunologico questa contraddizione interna all´igienismo ipermoderno: il rafforzamento delle procedure di protezione della vita rischia di capovolgersi nel loro contrario facendo ammalare la vita.
Lo sfondo antropologico della nuova religione del corpo è quello del narcisismo ipermoderno che costituisce l´esito più evidente del tramonto di ogni Ideale collettivo. Se la dimensione dell´Ideale si è rivelata fittizia, se il nostro tempo è il tempo che non crede più alla potenza salvifica e redentrice degli Ideali, ciò per cui vale la pena vivere sembra allora ridursi al solo culto di se stessi. La nuova religione del corpo è un effetto (non certo l´unico) del declino nichilistico dei valori, del perdere valore dei valori. Il corpo eletto a principio assoluto sfida, nel suo furore iperedonista, ogni Ideale per mostrarne tutta l´inconsistenza di fronte alla sola cosa che conta: il proprio corpo in forma come realizzazione feticistica dell´Ideale di sé. L´igienismo contemporaneo opera così un rovesciamento paradossale del platonismo. Il corpo salutista non è affatto il corpo liberato, ma è un corpo che da carceriere è divenuto carcerato. Se per Platone il corpo era il carcere dell´anima, se era la sua follia impropria, il corpo salutista appare invece come un corpo che è divenuto ostaggio, prigioniero di se stesso, carcere vuoto, puro feticcio, idolo senza anima.
Il comandamento del benessere, come accade per tutti gli imperativi che si impongono come obbligazioni sociali, come misure standard alle quali dover uniformare le nostre vite perché siano considerate "normali", rischia di scivolare verso l´integralismo fanatico del salutismo ortoressico. Soprattutto se si considera che questo comandamento punta a rigettare lo statuto finito e leso dell´uomo, la sua insufficienza fondamentale. L´ideologia del benessere è infatti una ideologia che prova ad esorcizzare lo spettro della morte e della caducità. In questo svela il suo fondamento perverso se la perversione in psicoanalisi è il modo di rigettare la castrazione dell´esistenza, cioè il suo carattere finito. L´ideologia del benessere che alimenta la nuova religione del corpo sbatte la testa contro il muro della morte. E´ questo ostacolo inaggirabile che il nostro tempo vorrebbe espellere, cancellare, sopprimere e che invece ci rivela tutto il carattere di commedia che circonda il culto ipermoderno del corpo. Dobbiamo ricordarci che la cura di sé non esaurisce la dimensione della vita. La cura è innanzitutto cura dell´Altro. Nietzsche aveva indicato la virtù più nobile dell´umano nella capacità di saper tramontare al momento giusto. Rara virtù nei nostri tempi, da celebrare come una preghiera.
(L´autore è psicanalista e saggista, il suo ultimo libro "Che cosa resta del padre?", è pubblicato da Raffaello Cortina)