mercoledì 25 maggio 2011


l’Unità 25.5.11
Da Sestri a Castellammare: esplode la rabbia degli operai. Sono 2551 i tagli previsti
Scontri e proteste In Campania occupato il comune. Alta tensione a Genova: feriti e contusi
La rivolta operaia contro la chiusura di Fincantieri
«Questo non è un piano industriale, ma una dichiarazione di guerra»
Il sindaco di Genova chiede a Fincantieri l’immediato ritiro del progetto di chiusura degli impianti. L’amministratore delegato Bono rispetti gli impegni
di Giuseppe Vespo


Pretendiamo il ritiro del piano Fincantieri, perché chiudere due stabilimenti e mandare via 2.551 persone su 8mila non è un piano industriale, è una dichiarazione di guerra. Significa rassegnarsi all’idea che il Paese non abbia più speranza di rilanciare la sua capacità storica di costruire navi. A Genova e in Italia questa capacità è indubbia e ancora oggi vive nell’alta professionalità del lavoro legato al porto e al mare. Quel piano cancella tutto questo e non lo possiamo accettare».
Sindaco Vincenzi, lei ha detto: «O ci sarà una trattativa vera o sarà sciopero generale». Su cosa si può trattare? «Non accettiamo l’idea che si possano chiudere i cantieri invece di renderli più competitivi. Ciò non vuol dire che non siamo consapevoli delle difficoltà del settore e dell’esigenza di riorganizzarlo. Di questo si discuteva fino a qualche settimana fa, e per questo nel 2008 abbiamo iniziato a lavorare all’accordo di programma per il “ribaltamento” a mare del cantiere di Sestri Ponente. La competitività di quel sito è legata infatti alla sua trasformazione logistica: bisogna portare la piattaforma vicino al mare per lavorare le navi più grandi e più moderne. Il governo e l’azienda hanno lavorato con noi a quel progetto, per il quale sono stati stanziati e sono pronti 71 milioni di euro».
Poi che cosa è accaduto?
«Proprio per sbloccare i fondi prima dell’annuncio del piano industriale, poche settimane fa abbiamo ricevuto in Comune i manager della Fincantieri. Quella è stata l’ultima volta in cui ci hanno rassicurato sul futuro dello stabilimento. In quell’occasione, non potendo essere presente, l’amministratore delegato Giuseppe Bono mi fece recapitare una lettera in cui confermava il suo impegno a dare seguito all’accordo di programma».
Era il 13 maggio, e dopo?
«Vorrei capire cosa è successo».
È per questo che ha parlato di beffa e di presa in giro alla città? «Sì. Fino a due settimane fa azienda e governo sembravano pronte a sedersi a un tavolo per dare una nuova mission al cantiere di Sestri. Vogliamo sapere chi ha deciso il cambio di rotta: l’ha voluto il governo, che è il primo azionista di Fincantieri, o l’ha deciso il management senza consultare nessuno? Ormai la confusione è tanta che la Lega, che pure esprime il sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, scende in strada con gli operai per chiedere le dimissioni dell’ad Bono. Io non chiedo le dimissioni di nessuno, chiedo all’azionista Tremonti se il governo ha deciso di chiudere i cantieri o se questo piano è solo un modo di alzare l’asticella per vedere fin dove si può arrivare. Ma se fosse così sarebbe irresponsabile».
La reazione degli operai è stata durissima. È preoccupata? «Molto, e non solo per le proteste di questi giorni. La chiusura di Sestri e il ridimensionamento di Riva Trigoso interessano migliaia di famiglie. E penso anche ai i lavoratori extracomunitari che si sono integrati grazie al lavoro che hanno trovato nell’indotto. Oggi (ieri, ndr) in testa al corteo con cui gli operai hanno chiesto al governo l’apertura di un tavolo c’erano dei lavoratori del Bangladesh».
Chi ci sarà all’incontro del tre giugno?
«Mi aspetto che ci sia almeno Tremonti, che con il Tesoro controlla Fincantieri. Le parole del ministro Romani ai lavoratori non bastano più: troppe volte, anche in Parlamento, ha dato rassicurazioni». Più in generale, come giudica il governo?
«Molto distante. Mi può anche andar bene un esecutivo di centrodestra, purché sappia curarsi del Paese. Non è questo il caso. Avevo accolto come un’inversione di tendenza l’inserimento nel Milleproroghe del finanziamento per la piattaforma di Sestri Ponente. E invece...».
Molte città hanno appena rinnovato le amministrazioni. Ma non sembra un buon periodo per fare il sindaco... «È vero. Mai come in questi anni i Comuni hanno sofferto l’impoverimento delle loro risorse e della conseguente capacità di dare risposte ai cittadini. Anche per le città più virtuose, quelle che come Genova hanno i bilanci ancora in ordine, è sempre più difficile andare avanti. Soprattutto se manca un governo nazionale all’altezza della situazione, capace di esprimere un’idea di Paese».

Corriere della Sera 25.5.11
Il mito del Rex sconfitto dai nuovi concorrenti cinesi Ancora nel 2004 l’azienda sfornava portaerei. La Vincenzi: per Sestri stanziati 70 milioni
di Giuseppe Sarcina


Fincantieri rinuncia alla sua anima genovese, l’equivalente di Mirafiori per la Fiat o, risalendo nel tempo, di Ivrea per Olivetti, Bicocca per Pirelli. Il piano dell’amministratore delegato Giuseppe Bono «taglia» , (nel senso che chiude e butta la chiave in mare), lo stabilimento di Sestri Ponente (771 dipendenti, più altri 2.500 dell’indotto) e «ridimensiona» quello di Riva Trigoso, sul golfo del Tigullio a poche gallerie da Moneglia. Un tratto di penna che cancella un secolo e mezzo di lavoro, di storia industriale. Nel pomeriggio inoltrato, di ritorno dalla manifestazione di protesta nel centro di Genova, i delegati sindacali della Fiom, Giulio Troccoli, 57 anni, operaio di quarto livello a 1.400 euro netti al mese, e Diego Delzotto, 37 anni, impiegato con un stipendio di 1.350 euro, mostrano com’è cambiato il cantiere di Sestri. La banchina su cui, nel 1932, fu assemblato il leggendario «Rex» , il più veloce transatlantico dell’epoca, è oggi occupata dalle officine di saldatura. I pezzi vengono trasferiti uno a uno da gru gigantesche nei bacini di carenaggio, scavalcando la ferrovia che taglia in due l’impianto. Una dispendiosa assurdità sia per gli esperti di «logistica» sia per qualsiasi persona di buon senso. Ma questo cantiere diviso a metà dai binari è forse l’immagine migliore della nuova crisi di Fincantieri. Una delle ultime aziende di Stato che mescola lo stile antico delle partecipazioni statali con scatti gestionali «alla Marchionne» . Quel gruppo che ancora nel 2004 presentava all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, addirittura una portaerei, la «Cavour» varata a Riva Trigoso, è lo stesso che oggi arretra drammaticamente davanti ai concorrenti coreani e cinesi. Oltre a Sestri va chiusa anche Castellammare di Stabia (630 addetti). In totale gli «esuberi» previsti sono 2.551 da individuare tra gli 8.311 dipendenti distribuiti in otto stabilimenti: Monfalcone, Marghera, Ancona, Palermo, Castellammare di Stabia, Muggiano (La Spezia), Riva Trigoso e Sestri Ponente. L’azienda ha presentato l’intervento come inevitabile, a fronte del dimezzamento della domanda mondiale di navi, tra il 2007 e il 2010. I bilanci di Fincantieri fanno paura, soprattutto per la progressione delle perdite: 64 milioni nel 2009 e 124 nel 2010. In mezzo c’è il tiro alla fune con i sindacati, sui carichi di lavoro e sulla produttività. Ma finora la corda non si era spezzata. Adesso a Genova è il momento dei «cattivi» pensieri. Il primo lo tira fuori esplicitamente il sindaco Marta Vincenzi (Pd): «A gennaio il governo ha stanziato 70 milioni per costruire una banchina nel mare davanti al cantiere di Sestri, In questo modo la fabbrica potrebbe tornare a crescere, superando la strozzatura dei binari. L’obiettivo sarebbe entrare nel mercato della riparazione delle navi più grandi e quindi riuscire a sopravvivere. Perché non si procede?» Il sindaco ha cercato il ministro Tremonti, perché l’azionista principale di Fincantieri è il Tesoro. Ma finora i due non si sono parlati. Il contatto, invece, è stato già stabilito con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Ieri pomeriggio nell’anticamera del sindaco era in attesa Pierluigi Vinai, vice presidente della Fondazione Carige e soprattutto uomo di fiducia dell’ex ministro (ligure) Claudio Scajola. Il secondo sospetto viene gridato in faccia all’ex deputato leghista Edoardo Rixi dagli operai e dagli impiegati nel corteo di ieri: Fincantieri e il governo di centrodestra hanno voluto salvare il Nord-Est, da Monfalcone a Marghera, scaricando i tagli sulla «rossa» Liguria (oltre che sul Sud). Per venirne fuori, però, i sospetti non bastano, anche se fossero fondati. Ci vorrebbe anche qualche idea compatibile con la logica economica e industriale. Un’alternativa, o un correttivo, al «piano Bono» . I sindacati sostengono che Fincantieri è rimasta intrappolata da scelte che oggi non rendono più: costruzione di navi da crociera e appalti militari. Mentre si può diversificare in altri settori: le piattaforme off-shore, le cisterne per trasportare gas liquido o prodotti chimici, persino i traghetti. Secondo Bruno Manganaro, responsabile cittadino della Fiom per la cantieristica, Sestri ha le competenze tecniche per fare tutto ciò. Anche con i binari di mezzo.

l’Unità 25.5.11
Intervista a Massimo D’Alema
«Ovunque si respira l’aria del cambiamento. E il governo non durerà»
Il presidente del Copasir: «I toni di Berlusconi? È sempre stato estremista a travolgerlo è il fallimento del suo progetto, la propaganda non basta più» «Le regole vanno cambiate, siamo pronti ma non so se ci siano le condizioni»
di Simone Collini


Si parte dalle amministrative ma inevitabilmente si finisce per parlare anche di come sarebbe «dannoso e umiliante per il Paese» andare avanti così altri due anni e dell’enorme «responsabilità» che hanno ora le forze di opposizione. Massimo D’Alema non vuole infatti dare nulla per scontato sui ballottaggi («sono un po’ superstizioso...»). Ma dice che in ogni caso è necessario aprire una nuova pagina. Quella del «dopo Berlusconi».
Dice che i tempi sono maturi?
«Ho girato molto per la campagna elettorale e ovunque si respira il clima dei momenti importanti. Si capisce che la maggioranza degli italiani vuole un cambiamento. Al Nord si avverte quasi un senso di liberazione, di riscatto, c’è la voglia di sentirsi capitale morale dopo che per tanto tempo l’immagine è stata decisamente diversa. E si capisce. Lunedì dopo aver girato per la provincia di Mantova ho chiuso la giornata a Desio. È a pochi chilometri dalla villa di Macherio e da Arcore. Si può capire con quale spirito vada alle urne per il ballottaggio chi in questi anni ha visto il proprio nome associato a certe vicende». Sarà stato a contatto con elettori di centrosinistra, il loro entusiasmo non è garanzia che l’opposizione ai ballottaggi vada bene come al primo turno. «L’opposizione dà la sensazione di grande serenità. Quando si vedono tante persone sorridenti è il segnale che si può vincere. Come nelle partite di pallone. È chi perde che tira calci. È quello che accade in questi giorni». La destra però ora potrebbe cambiare tattica e recuperare i consensi persi al primo turno, non crede?
«Il risultato del primo turno non è figlio di una campagna elettorale sbagliata. È bizzarro il discorso secondo il quale Berlusconi ha sbagliato i toni. Non mi ricordo ne abbia mai avuto di diversi. Berlusconi moderato, ma quando è stato? Me lo sono perso. Altre volte questi toni hanno funzionato. Ma la questione vera, di fondo, di questo voto è il fallimento della destra e di Berlusconi al governo. Un fallimento che non è più possibile coprire con promesse o artifici propagandistici. Emerge drammaticamente dalla condizione della società italiana e da dati impressionanti forniti da Istat, Corte dei conti, agenzie di credito internazionali».
C'è però una crisi economica di cui bisogna tener conto. «La crisi è internazionale e l’Italia è il fanalino di coda dei Paesi Ue. Si è registrato un distacco crescente rispetto agli Stati avanzati. Il problema è che il governo ha fornito la vulgata, falsa, che in questa crisi noi ce la caviamo meglio degli altri. E non ha saputo far fronte a un nostro specifico problema nazionale, ridare slancio all’economia. Di fronte a questo la destra e Berlusconi che si era presentato come l’uomo in grado di modernizzare il Paese hanno fallito. La società è ferma, crescono drammaticamente le ingiustizie e le diseguaglianze (unica crescita che hanno assicurato), siamo di fronte a una pubblica amministrazione inefficiente, a una perdita di credibilità internazionale che si riflette basta guardare la Borsa anche sui mercati finanziari. Berlusconi perde per questo, per l’azione fallimentare del governo. E ciò pone, al di là del tema delle amministrazioni locali, la questione di quale prospettiva si apra nei prossimi giorni». Dice Berlusconi che non ci saranno ripercussioni sul governo. Lei che dice? «Che Berlusconi si è talmente messo in gioco che il risultato non potrà non avere conseguenze politiche, al di là di quello che pensa lui. E che in ogni caso non è ragionevole restare con un governo così due anni ancora. Già non avevano particolare slancio e credibilità. All’indomani di un risultato per loro deludente perché non mi pare si stiano dimostrando in grado di un grande recupero rischiamo di trovarci un governo senza fiato e incapace di dare risposte al Paese. Un governo in balia dei cosiddetti Responsabili. E un premier messo nella condizione di non avere altra alternativa che acconsentire a tutte le richieste che gli verranno avanzate. Un mercato allarmante per il Paese».
Però, come dimostra il voto di fiducia, i numeri per andare avanti li hanno. «Il ricorso ai voti di fiducia è una dimostrazione di debolezza. Volevano solo tentare di bloccare il referendum. Ed è vergognoso come stiano cercando di evitare il giudizio dei cittadini su un tema, il nucleare, che era stato presentato dal governo come la principale scelta di modernizzazione. Ora è stata frettolosamente accantonata per paura del quorum non sul nucleare, ma sul legittimo impedimento, perché Berlusconi non ha altra agenda in testa che quella riguardante le sue vicende personali». Insisto, Berlusconi ha i numeri in Parlamento per non cadere.
«Berlusconi è il primo a sapere che rischia: i ministeri al Nord, la sanatoria sulle multe, sta tentando di tutto, siamo ai saldi di fine stagione. Ed è ridicolo che dica che bisogna andare avanti per le riforme, non fatte finora. Perfino i suoi hanno smesso di andargli dietro, perfino Alemanno o Formigoni gli danno sulla voce, si permettono di contraddirlo. Sono segnali forti di una prossima caduta».
E l'opposizione, in tutto questo?
«Ha una grande responsabilità. Auspico da parte di tutto il nostro elettorato, ai ballottaggi, uno sforzo a concentrare i consensi sui candidati alternativi alla destra, sia quando sono come in molti casi del Pd, sia quando non lo sono. Sapendo che dopo ci sarà un delicato e importante passaggio, per noi».
Pensa sempre che sia possibile un'alleanza col Terzo polo? «La credibilità di una convergenza di tutte le forze democratiche si è dimostrata innanzitutto nel confronto con gli elettori. Noi abbiamo proposto una prospettiva per l’Italia, e abbiamo vinto. Vuol dire che è considerata importante dai cittadini. E ora dobbiamo insistere su questo. Una grande alleanza democratica, vasta, per ricostruire il Paese dopo Berlusconi, per fare le riforme e realizzare il processo di ricostruzione democratica, per ripristinare le regole fondamentali di cui il Paese ha bisogno».
La Lega propone di cambiare la legge elettorale: lei che dice? «Sicuramente c’è la necessità di una riforma elettorale, non so se ci siano le condizioni. Di certo, non si può andare avanti così. O andiamo a elezioni, che sarebbe la scelta più limpida, oppure serve una soluzione utile per il Paese, con un governo che si occupi di cambiare la legge elettorale e poi porti al voto».
Con magari un nuovo partito, nato dalla fusione di Pd e Sel, come ipotizza qualche giornale? «Un nuovo partito lo abbiamo già costruito e in queste elezioni si è dimostrato una forza vitale, in crescita. Il Pd è il primo partito nella gran parte delle principali città italiane. Non si può dare sempre la sensazione che si ricomincia da capo. Abbiamo collaborato positivamente con altre forze, c’è stato un grande spirito unitario. Bisogna continuare così, perché questa è la condizione per essere credibili agli occhi dei cittadini».

Repubblica 25.5.11
Bersani: col decreto cittadini scippati. Ma per l´avvocato Pellegrino il quesito sulle centrali non sarà cancellato
Referendum, il Senatur si smarca e apre al Sì La Cei: l´acqua deve restare bene comune
di G. D. M.


Il leader leghista: "Sull´acqua avevo detto a Silvio di varare una norma, la colpa è di Fitto"
Di Pietro chiede a Napolitano di fermare "la legge immonda" contro la consultazione

ROMA - Referendum maltrattati, dimenticati, oscurati. Ma se le condizioni politiche cambieranno davvero lunedì sera allora torneranno in auge e diventeranno uno snodo di nuovi equilibri. Lo si capisce bene dalle aperture clamorose di Umberto Bossi. «Alcuni quesiti sono attraenti - dice a sorpresa il leader della Lega -. Come quello sull´acqua». È un invito a votare sì al quesito sulle rete idrica pubblica, un invito che potrebbe trascinare gli elettori del Nord a votare anche per gli altri due quesiti in ballo: nucleare e legittimo impedimento.
Intorno all´endorsement del Senatur si possono scatenare le fantasia più galoppanti ma anche più verosimili. Pier Luigi Bersani ha da tempo sentenziato che la vera spallata per Berlusconi potrebbe arrivare dai referendum del 12 e 13 giugno. E il sostegno leghista ai quesiti (o almeno a uno) lascia presagire nuovi assetti e un nuovo fronte contro il Cavaliere dove il Carroccio recita una parte inedita. «Avevamo detto a Berlusconi di fare una legge sull´acqua - ricorda Bossi non facendo sconti - e noi l´avremmo appoggiata, poi si è messo di mezzo Fitto e alla fine nessuno l´ha fatta». Passa in secondo piano, dopo questa parole, la prima reazione del leader leghista alla domanda sui referendum: una sonora pernacchia.
Il quesito sull´acqua attrae anche altri e può trascinare l´intero pacchetto. «L´acqua è questione di responsabilità sociale e bene comune, è necessario che vi sia responsabilità verso i beni comuni. E che rimangano e siano custoditi per il bene di tutti», dice monsignor Mariano Crociata, Segretario generale della Cei. I vescovi si schierano dunque per il sì. Difendendo lo strumento referendario: «Rappresenta una delle forme della volontà popolare, è da apprezzare».
Per avere più spazio sulla tv pubblica a due settimane dal voto, i comitati referendari sono stati rcevuti dal direttore generale della Rai Lorenza Lei. Hanno ottenuto garanzie su un´immediata attenzione sulla loro battaglia. Dopo una pacifica occupazione di Viale Mazzini i comitati per il sì hanno incontrato la manager e le risposte sono state positive. Antonio Di Pietro, il principale promotore dei referendum, ha chiesto a Napolitano e alla Cassazione di fermare il decreto omnibus, che contiene anche la moratoria del programma nucleare, «una legge immonda». La questione di fiducia posta dal governo, incalza Pier Luigi Bersani, è «uno scippo fatto al popolo italiano di poter decidere sul nucleare». E il presidente degli Ecodem Fabrizio Vigni condanna l´ultimo passaggio parlamentare: «Si sono inventati il trucco della abrogazione solo temporanea delle norme. Come se non bastasse, imponendo il voto di fiducia, hanno impedito alla Camera di poter discutere e decidere».
L´avvocato Gianluigi Pellegrino, che ha scritto il parere pro veritate per conto del Movimento difesa del cittadino, è convinto che il decreto non cancelli affatto il quesito. «Il referendum si farà, questa legge non cambia niente», assicura a Repubblica Tv. E il fronte del centrodestra s´incrina non solo dal lato leghista. Francesco Storace annuncia il Sì della Destra al quesito sull´acqua e sul nucleare.
(g. d. m.)

Corriere della Sera 25.5.11
Ma sull’atomo la scelta finale è della Cassazione
di  Maria Antonietta Calabrò


ROMA— Il referendum sul nucleare si terrà comunque? Cioè, nonostante l’approvazione definitiva che avverrà oggi di norme ad hoc nel decreto legge omnibus? Potrebbe anche essere, ma la partita è aperta. Quando la nuova legge verrà firmata dal capo dello Stato (e quindi promulgata), a queste domande dovrà rispondere l’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione. Da più di trent’anni infatti (dopo la sentenza della Consulta numero 68 del 1978) solo un’abrogazione tout court della norma su cui si chiede il referendum può arrestare la consultazione popolare. Ma nel caso in cui all'abrogazione si accompagni anche la promulgazione di una nuova disciplina, il referendum si potrebbe svolgere proprio sulle nuove norme approvate. L'organo incaricato di valutare se l’intervento legislativo «soddisfa» o no il quesito referendario è appunto la Cassazione, per la quale stanno preparando i ricorsi gli avvocati del comitato per il «Sì» , a cominciare da Alessandro Pace (legale dell’Idv) e Gianluigi Pellegrino (Movimento difesa del cittadino). La situazione dal punto di vista giuridico è questa. L’articolo 5 della nuova legge, nei commi dal 2 al 7, abroga tutte le norme che oggi regolano l'insediamento di centrali nucleari, con una precisa riproposizione dei contenuti del quesito referendario, in tal modo accogliendo le richieste dei promotori. Però il comma 1, pur affermando di non procedere con l'attuazione di un piano energetico comprensivo di centrali nucleari, aggiunge che ciò avviene in attesa di una fase di approfondimento in tema di «sicurezza nucleare» . Quindi la scelta del nucleare non viene esclusa totalmente, ma solo sospesa: è la cosiddetta moratoria contro cui i referendari hanno anche sollevato un conflitto di attribuzione che verrà discusso il 7 giugno. Ma c’è un secondo problema. I promotori del referendum intendono sottoporre al giudizio della Cassazione anche il comma 8. Secondo questa norma, fortemente innovativa, l’approvazione del piano di «strategia energetica nazionale» diventa un atto amministrativo del premier (non c’è più alcuna legge da promulgare in materia, le Camere sono solamente «sentite» ), che non esclude, nel medesimo piano, eventuali centrali nucleari. Con la sentenza 28 del 2011 la Consulta, invece, ha dichiarato ammissibile il referendum in quanto «il quesito mira a realizzare un effetto di ablazione puro e semplice della disciplina concernente la realizzazione e gestione di nuove centrali nucleari» .

il Riformista 25.5.11
Ballottaggi e nuovi scenari
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/56214242

Repubblica 25.5.11
La rabbia degli “Indignatos” che contagia l’Europa
di Bernard Guetta


Una rivoluzione sta sorgendo in Europa. Non è violenta, ma pacifica. Non aspira a conquistare il potere, ma contesta le logiche economiche che fanno del mercato una potenza cui i governi devono inchinarsi. Sebbene - detto in altri termini - non sappia quello che vuole, essa sa di non volere più il mercato re, questo monarca anonimo che coi suoi "timori" o la sua "fiducia" decide le sorti del mondo.
Confusa e profonda a un tempo, questa rivoluzione si estende a tutto il continente, a incominciare da Puerta del Sol, la grande piazza di Madrid dove dieci giorni fa alcune centinaia di giovani hanno piantato le loro tende per gridare la rabbia di una generazione che sotto i 25anni è disoccupata al 50%. Sostenuto dall´immediata simpatia delle famiglie, che non possono ammettere di veder precluso fino a questo punto il futuro dei loro figli, questo movimento di protesta è cresciuto in fretta, attirando un numero crescente di aderenti ed espandendosi a una sessantina di altre città. In due parole, ha attecchito a tal punto che questi "indignati" - come hanno voluto chiamarsi, con riferimento al titolo del best-seller di Stéphane Hessel - hanno creato una nuova realtà politica.
Ecco cosa dimostra il successo di questa nuova piazza Tahrir: un´economia che offre solo prospettive di regresso sociale, e condanna un governo socialista a imporre drastiche misure di austerità per evitare il "panico" dei mercati, "non funziona". «Il liberismo non funziona», sostiene questo movimento, e lo dice con lo stesso tono di tranquilla evidenza a suo tempo usato da Margaret Thatcher per dichiarare: «Il comunismo non funziona». E questa constatazione ha dato luogo a non poche evoluzioni politiche.
È questa la causa della sconfitta dei socialisti spagnoli, che alle elezioni comunali e regionali di domenica scorsa sono rimasti indietro di dieci punti rispetto alla destra; ma anche di quella della destra tedesca, che dall´inizio dell´anno sta perdendo un Land dopo l´altro; e del precipitare della disgrazia di Silvio Berlusconi alle elezioni amministrative di dieci giorni fa; e della discesa agli inferi dei liberal-democratici britannici, colpevoli di aver approvato le restrizioni di bilancio volute dai loro alleati conservatori.
Questa constatazione giustificata penalizza le maggioranze al governo, sia di destra che di sinistra, costrette a sottostare alle ingiunzioni del mercato. Ma non è tutto. La presa d´atto dell´inefficienza della mano invisibile del mercato suscita il desiderio di nuove offerte politiche; determina in Germania il sorpasso dei Verdi rispetto ai social-democratici, relegati al secondo posto tra i partiti d´opposizione; restituisce spazio ai raggruppamenti a sinistra della sinistra; accomuna nella stessa riprovazione tutte le élite, e infine risuscita, un po´ dovunque in Europa, l´estrema destra. Quest´ultima squalificata dopo la fine della guerra, ora è uscita dall´ombra, perché gli effetti perversi della globalizzazione - deindustrializzazione europea, disoccupazione, peggioramento del tenore di vita - hanno rimesso in voga il cocktail avvelenato dei primi tempi del fascismo, ove alla nostalgia per lo Stato-provvidenza si univano temi quali la difesa dei confini nazionali entro i quali era avvenuto il suo sviluppo, il nazionalismo, le accuse indiscriminate ai politici ("tutti marci"), la lotta per il mantenimento delle conquiste sociali, la xenofobia.
L´Europa sta vivendo un momento inquietante: la rabbia senza prospettive, le attese senza una speranza tangibile rischiano di precipitarla in una crisi politica di grande portata. Se non troverà i suoi punti di riferimento, la rivoluzione che sta sorgendo rischia di perdersi in una palude senza scampo. Il pericolo è tanto grande da esigere una risposta urgente.
È urgente insistere su un punto: se anche le sinistre devono inchinarsi davanti ai mercati, non è perché sono vendute o cieche, ma perché dati i rapporti di forze, non hanno scelta. Tra democrazia e mercato il rapporto di forze si è ormai rovesciato. I pubblici poteri di uno Stato nazione - le istituzioni dello Stato, il governo - non possono fare granché a fronte del denaro, che è libero di andare a cercare i rendimenti più alti dove meglio crede. Nel caso europeo, i pubblici poteri dovrebbero avere dimensioni continentali per poter fronteggiare col loro peso un mercato globalizzato. Ecco perché dobbiamo costruire un´Europa politica in grado di regolamentare il mercato. Non di abolirlo, perché il comunismo "non funziona", ma di canalizzarlo e di domarne la forza, dato che anche il liberismo "non funziona".
Il crollo di Wall Street lo aveva dimostrato. Ma dopo il salvataggio da parte degli Stati, il potere del denaro si è lanciato in un nuovo assalto contro di essi, oggi un po´ più logorati dagli sforzi per ovviare ai guasti da quello stesso potere provocati.
O la sinistra è europea, o non è. A questo deve tendere oggi il nostro impegno.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 25.5.11
Netanyahu: per la pace pronti a dolorose rinunce Ma non dice quali
Benjamin Netanyahu parla al Congresso Usa e riscuote applausi. «Siamo pronti a dolorosi compromessi per la pace, ma non torneremo ai confini del 1967». La leadrship palestinese: pessimo discorso.
di Virginia Lori


Sì ad uno Stato palestinese, ma con confini negoziati, che non saranno mai quelli del 1967, «indifendibili» per Israele. Il premier Benjamin Netanyahu, parlando al Congresso Usa, in quello che lui stesso aveva definito alla vigilia il «discorso della vita», si è detto pronto a «dolorosi» compromessi per raggiungere la «storica» pace con i palestinesi. Non precisa quali siano però, pone molte condizioni, e non arretra rispetto alle posizioni già note. «Gerusalemme non deve mai più essere divisa», e rimarrà la capitale indivisibile d'Israele, che sarà «generoso» sull' entità territoriale del futuro Stato palestinese, ma «fermo» rispetto ai confini. Impossibile tornare a quelli «indifendibili» del 1967. Quanto alle colonie in Cisgiordania, «il loro status verrà deciso tramite negoziati». Alcune comunque «resteranno fuori dai confini israeliani».
APPLAUSI BIPARTISAN
Sul tema dei rifugiati il premier sottolinea che la questione riguarderà il futuro Stato palestinese e dovrà «essere risolta al di fuori dei confini d'Israele». Il leader israeliano condanna l'intenzione dell' Autorità nazionale palestinese (Anp) di chiedere all’assemblea generale dell’Onu in settembre il riconoscimento unilaterale del proprio Stato indipendente , qualora non si raggiunga un’intesa prima. «La pace non può essere imposta ma deve essere negoziata», aggiunge Netanyahu, che esorta ancora una volta il presidente dell'Anp, Abu Mazen, a «strappare» l'accordo con Hamas. Hamas «non è un partner per la pace», dal momento che resta «impegnato nella distruzione d'Israele», ed è anzi l’equivalente palestinese di Al Qaeda.
Se il colloquio con Obama venerdì scorso era stato teso ed i partecipanti non avevano nascosto che erano emerse forti divergenze d’opinione, ben diverso il clima ieri al Congresso, dove Netanyahu ha riscosso applausi bipartisan dai parlamentari di entrambi i partiti, democratico e repubblicano. L'intervento del primo ministro è stato brevemente interrotto da un piccolo gruppo di contestatori. Netanyahu ha atteso che i manifestanti fossero allontanati dalla platea riservata agli ospiti e poi ha ripreso a parlare, senza commentare l'accaduto.
Delusione a Ramallah. «Netanyahu ha posto altri ostacoli sulla strada della pace», commenta il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen. «Non abbiamo in Israele un partner per la pace», commenta il capo negoziatore Saeb Erekat.

La Stampa 25.5.11
Dossier immigrazione
Profughi, ne muore uno su 4
Una ong: spediti a forza dal Colonnello sui barconi verso l’Italia, 1400 scomparsi nei naufragi
di Francesca Schianchi


RAPPRESAGLIA Fortress Europe: «Sono usati come bombe umane contro i missili della Nato»
RASTRELLAMENTI Kinsley, camerunense «Ci hanno preso a Misurata fatti salire coi fucili puntati»

Come una tomba a cielo aperto. Che, tra onde e flutti, risucchia continuamente vite e speranze: sempre di più, un numero spropositato negli ultimi cinque mesi, come in vent’anni di sbarchi nel mar Mediterraneo non si era mai visto. Almeno 1.408 uomini, donne, bambini hanno perso la vita al largo di Lampedusa, solo da gennaio ad oggi. Una strage silenziosa che, se si allarga lo sguardo a tutto il bacino del Mare Nostrum, comprendendo nel calcolo anche lo stretto di Gibilterra e le isole greche dell’Egeo, aumenta fino a 1.510 morti. Almeno: perché non è da escludere ci siano stati altri naufragi fantasma, di cui non sappiamo nulla e che non rientrano nella macabra contabilità.
A diffondere questi dati sconvolgenti è l’osservatorio Fortress Europe, che monitora la stampa internazionale raccogliendo notizie su vittime dell’emigrazione nel Mediterraneo, rilanciati dall’agenzia giornalistica «Redattore sociale». Stando a questi numeri, aggiornati al 21 maggio, in questi primi mesi del 2011 sono scomparse più persone di quante non abbiano trovato la morte nel Mar Mediterraneo in tutto il 2008, quando le vittime furono 1.274 a fronte di 36.000 sbarchi in Sicilia. E i 1.408 morti contati finora nel canale di Sicilia sono il 93% dei 1.510 di tutto il Mediterraneo.
Due sono le rotte verso l’Italia dei migranti dall’inizio di quest’anno: dalla Tunisia, con 25.000 sbarchi circa, e dalla Libia, con 14.000 arrivi. Di quelle 1.408 persone strappate ai barconi dal mare, solo 187 venivano dalla Tunisia e ben 1.221 dalla Libia. Una differenza notevole: nella drammatica lotteria delle traversate, una persona su 130 destinata alla morte sulla rotta tunisina, addirittura una su 11 su quella libica, qualcosa come dodici volte di più.
Secondo l’analisi dell’osservatorio, c’è una spiegazione: mentre da Tunisi le partenze sono spontanee, con equipaggi che, pur improvvisati e mal addestrati, dedicano qualche attenzione alla sicurezza, dalla Libia, denuncia Fortress, i passaggi sarebbero spesso organizzati dal regime, pronto a «rastrellare» persone dai quartieri africani e costringerle a imbarcarsi, in condizioni pericolose e precarie, per inviare in Italia più migranti possibile, come ritorsione per i bombardamenti. Il «Redattore sociale» racconta l’esperienza Kingsley, camerunense giunto a Lampedusa il 1˚ maggio da Misurata e oggi accolto in un centro d'accoglienza del Nord: prelevato dalla sua casa, caricato su un camion container insieme ad altre centinaia di persone, trattenute per più di un mese in un'area controllata da militari «con la fascetta verde al braccio, erano di Gheddafi», circa 1.500 persone e tantissimi bambini, e infine imbarcati. «Ci hanno diviso: 320 su una barca, 280 sull’altra. Avevamo paura di morire in mare, ma non avevamo scelta, avevamo i fucili puntati addosso», racconta. E riporta la frase detta scherzando dai militari al porto, prima della partenza: che l’ordine di far partire verso l’Italia tutti gli africani arrivava dal raiss stesso. Kingsley è arrivato, ma lui e i suoi compagni di avventura facevano bene a temere: il peschereccio con 320 passeggeri a bordo, ricorda, è colato a picco portando con sé tuttiquanti.
Dal 1994 a oggi sono 5.622 le persone morte nel Canale di Sicilia, lungo le rotte da Libia, Tunisia ed Egitto verso il sudest dell’isola, Lampedusa, Pantelleria, Malta. Negli ultimi anni, si sono contati 236 annegati, 413 nel 2003, 206 nel 2004. Il numero è più che raddoppiato nel 2007 (556 vittime), poi 1.274 nel 2008, per scendere dal maggio 2009, con l'entrata in vigore dell’accordo con la Libia che ha fatto diminuire gli sbarchi. Nel 2009 i morti sono stati 425, per diminuire sensibilmente nel 2010 (20 persone hanno perso la vita). Ma dall’inizio di quest’anno gli sbarchi sono ripresi nuovamente, e con loro uno stillicidio continuo di vittime.

La Stampa 25.5.11
Intervista
“Ora è più facile partire ma il viaggio è un azzardo”
Laura Boldrini: sono quasi tutti in cerca di asilo umanitario
di Francesca Paci


CARRETTE A BUON MERCATO «Usano vecchi pescherecci dismessi per spendere meno e caricare più persone»

Era la fine degli anni 90 quando l’Italia scopriva attraverso gli occhi degli abitanti di Lampedusa le spettrali carrette del Mediterraneo. Un esodo impermeabile alla paura che Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha raccontato nel libro Tutti indietro , onde di uomini e donne differenti accomunati dalla stessa disperata determinazione.
Cosa è cambiato in questi dodici anni di sbarchi?
«Ciò che non è cambiato è il bisogno di chi rischia la vita in mare. Per il resto invece, all’inizio anni 2000 i flussi erano più misti, sulla stessa barca si trovavano migranti economici e richiedenti asilo. Poi, quando la traversata si è fatta troppo rischiosa, sono aumentati i richiedenti asilo, quelli che non avevano altra chance. Nel 2008, prima dei respingimenti, oltre 30 mila dei 36 mila arrivati in Italia chiesero asilo e la metà di loro ottenne una qualche protezione. Il drastico calo degli sbarchi seguito ai respingimenti dimostra che negli ultimi anni il Mediterraneo era diventato la via dell’asilo».
Perché è cresciuta così tanto la pericolosità delle traversate in mare?
«Da principio venivano usati gommoni artigianali che caricavano 70, 80 persone. Oggi dalla Libia partono vecchi pescherecci in disuso stipati di gente e privi di qualsiasi condizione di sicurezza. Inoltre il viaggio non costa più 1200 dollari come un tempo ma molto meno, qualcuno ha raccontato d’aver dato tutto ciò che aveva ed essersi imbarcato con pochi soldi».
Quanto pesa la crisi libica sui flussi?
«Il 26 marzo è arrivato il primo barcone dalla Libia, fino a quel momento avevamo accolto soprattutto giovani tunisini in cerca di lavoro. Da allora sono sbarcate 14 mila persone, inizialmente somali, eritrei, ivoriani poi anche immigrati del Bangladesh in fuga dalla tragedia libica. Ci tengo a ricordare però che si tratta di 14 mila persone su un totale di oltre 850 mila scappate dalla Libia soprattutto via terra. L’Europa ridimensioni le sue paure perché la Tunisia e l’Egitto, i Paesi confinanti dove si sta rifugiando la maggioranza dei profughi, hanno mantenuto le frontiere aperte nonostante le proprie difficoltà interne».
Il regime libico sta usando i flussi?
«Come Unhcr non abbiamo informazioni, ma a sentire le testimonianze sembrerebbe che ci sia una regia perché i flussi sono strutturati in modo tale da non lasciare spazio a partenze spontanee. Pare che le persone vengano raggruppate a Zanzur o al porto di Tripoli, caricate a scaglioni e messe in mare».
Che notizie avete dei naufragi fantasma, quelli che svaniscono nel nulla?
«A quanto ci risulta, dalla Libia sarebbero partiti senza mai arrivare 1200 migranti, compresi i 250 morti nel naufragio del 6 aprile vicino a Lampedusa. Ma parliamo dei soli di cui possiamo ricostruire frammenti di storia».
Crede che la situazione si aggraverà?
«Dipende dalla guerra in Libia. Noi esortiamo tutte le navi commerciali e militari in transito nel Mediterraneo a incrementare la collaborazione nei soccorsi. Oggi qualsiasi carretta in partenza dalla Libia è di per sé a rischio».

La Stampa 25.5.11
Non facciamo figli e gli stranieri ci imitano
L’Istat: nel 2010 il tasso di natalità più basso del decennio “Adesso gli immigrati non bastano più a colmare il gap”
di Raffaelo Masci


LE RAGIONI DEL CROLLO Sotto accusa la precarietà causata dalla crisi economica

Che le cicogne non frequentassero granché i cieli d’Italia, era noto. Ma mai come lo scorso anno - testimonia l’Istat nel suo Bilancio demografico nazionale - il crollo della natalità è stato così evidente, con un tasso del 9,3 per mille, il più basso del decennio (in numeri assoluti vuol dire 7 mila bambini in meno). Le italiane che facevano pochissimi figli (1,3 per donna) ne fanno adesso ancora meno (1,29) e le donne straniere che nello slancio della nuova patria volevano riprodursi hanno sedato questo entusiasmo, al punto che neppure i loro figli riescono a compensare il decremento dei nostri.
Ad abitare il patrio stivale nel 2010 eravamo comunque 60 milioni 626 mila 442 persone, 286 mila in più dell’anno precedente, pari a un incremento dello 0,5% - rileva l’Istat - tutto ascrivibile all’aumento degli immigrati stranieri, che si sono registrati nelle nostre anagrafi in ragione di 38 mila al mese, in media. Insomma: noi diminuiamo e facciamo sempre meno figli, gli stranieri che erano sempre di più anno dopo anno, continuano - loro sì - a crescere, ma di figli non ne fanno più tanti neppure loro. L’Istat non si sbilancia, ma fa capire che questa raggelata della natalità è strettamente connessa con la crisi economica.
In piena precarietà lavorativa, diventano precarie anche le famiglie, tant’è che diminuiscono i matrimoni e aumentano le convivenze in tutte le grandi città, ma soprattutto a Roma, Torino, Milano, Genova. Le famiglie più numerose - si fa per dire sono quelle della Campania, della Puglia e della Calabria, dove il numero medio dei componenti è - rispettivamente - di 2,8, 2,7 e 2,6 membri. In fondo alla classifica la Liguria, con 2 membri di media, il che è leggibile come un aumento delle coppie senza figli, ma anche delle famiglie monogenitoriali.
Gli stranieri, che sono il 7,5% della popolazione, si concentrano da Roma in su: 10,3% della popolazione nel Nord-Est contro il 2,7% di quella delle Isole. Dove c’è più ricchezza ci sono più stranieri e dove ce n’è di meno, invece, emigrano anche i locali, tant’è che solo nel 2010, 400 mila italiani si sono spostati dal Sud al Nord (soprattutto in Toscana, Umbria, Emilia e Lombardia), giovani nella quasi totalità e spesso con un buon livello di istruzione.
A perdere abitanti - dice ancora l’Istituto di statistica sono due categorie di centri abitati: alcune grandi città, e i piccoli borghi di montagna: Torino perde il 2,2% della popolazione, Genova il 3%, Napoli il 3,5% e Catania addirittura il 7,2%. Le altre - Milano, Roma, Bologna, Firenze - crescono ma al di sotto della media nazionale (0,3% contro lo 0,5%) e solo per effetto delle migrazioni. Continua, invece, lo spopolamento dei borghi piccolissimi, sotto i duemila abitanti, specialmente delle zone montane, che perdono quasi il 4% della popolazione già esigua. Gli italiani, semmai, preferiscono vivere nelle cittadine intorno ai 20-30 mila abitanti: piccole ma servite.

l’Unità 25.5.11
Il paradosso di Milano
Zingari e centri sociali: la destra chiede voti per i propri fallimenti
di Dijana Pavlovic


In 20 anni il centro destra ha governato Milano riuscendo a trasformare i fallimenti della propria politica sociale in formidabili strumenti di raccolta del consenso.
Gli zingari sono stati il cavallo di battaglia di De Corato e del suo attuale sfidante alla carica di vicesindaco, il leghista Salvini. Prima gli annunci terroristici: 40.000 zingari invadono Milano, all’epoca dell’ingresso della Romania nella Comunità europea, poi i numeri paurosi sulla presenza dei rom: 10.000 zingari a Milano, smentiti clamorosamente dal censimento fatto dal prefetto di Milano, commissario straordinario per l’emergenza rom, nel 2008: in città gli zingari nei campi regolari, quindi residenti milanesi, sono 1331 (di cui circa la metà italiani e 601 minori). Nei campi irregolari i rom sono 788 (dei quali 109 sono italiani, 381 extracomunitari e 307 comunitari, per lo più rumeni; i minori sono 299). Su questo “esercito” di meno di 800 persone si è esercitata la ferocia di De Corato che si vanta di averli sgomberati per 500 volte negli ultimi tre anni. Un’operazione fallimentare, perché i rom cacciati da una parte andavano da un’altra, con un costo sociale altissimo per la comunità rom: i bambini perdevano la scuola e gli adulti i loro precari lavori. Ma anche un’operazione tutt’altro che priva di costi per i cittadini: da un lato la campagna allarmistica ha prodotto l’aumento della paura (mentre diminuiscono i reati aumenta il senso di insicurezza, dati della polizia), dall’altro ha messo le mani nelle nostre tasche con una spesa, solo per gli sgomberi, che ha superato i cinque milioni di euro.
Ragionamento analogo vale per i centri sociali nati da un altro fallimento: la totale assenza di una politica per i giovani, l’eliminazione degli spazi collettivi, il vuoto culturale, la criminalizzazione del dissenso delle ultime generazioni sono stati trasformati in un altro spauracchio sul quale lucrare consenso a un costo altissimo per la comunità che non vede nei giovani il futuro sul quale investire ma un elemento di pericolo per la propria tranquillità.
Così zingari e centri sociali sono diventati armi elettorali anziché problemi sociali da affrontare e risolvere positivamente con un’altra visione della comunità e un diverso uso delle risorse economiche.
Tutto ciò, oltre a essere pericoloso per l’effetto che produce a livello di senso comune e cultura collettiva della nostra comunità, è reso più odioso per la scelta cinica di usare i più deboli contro i deboli, perché è la popolazione più fragile, per condizioni sociali e culturali, a essere più esposta alle politiche incivili di un’amministrazione capace di raccogliere consenso solo sull’odio e sul razzismo.

Repubblica Firenze 25.5.11
Lo sgombero ieri all´alba
Piazza Beslan, blitz alla tendopoli dei somali
In giunta Renzi ha invocato il pugno duro contro la linea più morbida del suo assessore
di Ernesto Ferrara


I vigili arrivano all´alba, quando i 15 fra somali ed eritrei accampati di fronte alla Fortezza da sabato ancora dormono. E cominciano a sgomberare: via tende, materassi, scatolette di cibo. Tensione, urla, spintoni. Finisce con 5 feriti di cui 4 vigili.

E´ un blitz in piena regola quello andato in scena alle 5.30 di ieri in piazza Bambini di Beslan. Circa 40 vigili urbani affiancati da agenti dei carabinieri e della Digos si sono presentati per sgomberare gli immigrati che da sabato scorso dormivano in una tendopoli abusiva per protesta contro le politiche sulla casa del Comune. Donne, bambini, somali ed eritrei con lo status di richiedenti asilo che chiedono da tempo un alloggio fisso e un biglietto per andare all´estero e di fatto però girano da un´occupazione abusiva all´altra sostenuti dal Movimento di Lotta per la Casa.
Nella notte fra lunedì e martedì avevano fatto festa: canti e balli fino all´alba. Erano in 15 o 20. Quando sono arrivati i vigili ieri molti di loro dormivano ancora. Gli agenti del reparto antidegrado, alcuni in borghese altri in divisa, hanno cominciato a sbaraccare le tende (una delle quali adibita a mensa) e ripulire la piazza da rifiuti, suppellettili, borsoni. Hanno sequestrato coperte, tende e altri oggetti e avrebbero anche bucato i palloni da calcio rinvenuti. Immediatamente è partito il tam tam del Movimento di Lotta per la Casa e sul posto sono accorsi altri profughi, una settantina. Non sono mancati i momenti di tensione. Alcuni profughi sono stati identificati, potrebbero essere denunciati per occupazione abusiva e resistenza a pubblico ufficiale. Quattro vigili ricoverati, uno è finito in terra forse spinto, ha battuto la testa ed è stato sottoposto a Tac cranica, anche due ufficiali in ospedale. Ma le versioni sono discordanti: il Movimento di Lotta per la Casa sostiene che nessun vigile sia stato spinto, i profughi denunciano di essere stati svegliati con i calci, di aver subito furti e minacce. «Ci hanno picchiati», dice Adam, un profugo. «Escludo categoricamente che da parte nostra ci siano state condotte aggressive o violente. Casomai abbiamo dovuto far fronte alle reazioni altrui», dichiara la comandante dei vigili Antonella Manzione, che ha condotto l´operazione. Il Movimento parla di «operazione criminale». Alla fine però lo sgombero è riuscito solo in parte: con una colletta i profughi e il Movimento hanno riacquistato e rimontato le tende dopo un sit in di protesta. Per tutto il giorno l´assessore al sociale del Comune Saccardi e il collega della Regione Allocca hanno trattato coi profughi proponendogli: due giorni ancora poi una sistemazione temporanea, era l´accordo. Ma ieri sera in giunta il sindaco Renzi ha imposto il pugno duro correggendo la rotta di Saccardi, difesa dalla collega Di Giorgi: se ancora stamani saranno lì sarà interpellata la questura, impossibile tollerare una tendopoli di fronte alla Fortezza nel giorno del rinnovo dei vertici della società che gestisce il polo fieristico.

Repubblica Firenze 25.5.11
L´idea di un´agenzia di Torino proposta ora anche a Firenze: a far da guida saranno stranieri di seconda generazione
Quel "grand tour" nella città etnica
Da S.Lorenzo a via Palazzuolo: via alle passeggiate migranti nei quartieri
di Riccardo Bianchi


Un tour alla scoperta del mondo restando in piazza, entrando nei negozi africani di via Palazzuolo o passeggiando tra le mille lingue del mercato di San Lorenzo. Non è una provocazione, ma il progetto dell´Agenzia Viaggi Solidali di Torino, che a breve darà il via anche a Firenze alle «Passeggiate migranti», un´esperienza nata qualche mese fa nel capoluogo piemontese e pronta a partire anche a Milano e Roma. Si tratta di un viaggio nei quartieri popolati da immigrati. E per presentarli al meglio, le guide saranno persone del luogo, cioè gli immigrati stessi, che mostreranno quei dettagli di interculturalità che sfuggono quando si cammina veloce per quei vicoli visti centinaia di volte, ma mai osservati con la curiosità del turista.
I percorsi su Firenze sono due e sono pronti, anche se qualcosa potrebbe cambiare per comprimere ciascun viaggio in una mezza giornata. Tutto si aggirerà intorno alla stazione di Santa Maria Novella e la partenza sarà proprio in via Palazzuolo, uno dei luoghi più multietnici della città, con una sequenza ormai ininterrotta di esercizi commerciali gestiti da donne straniere. Da lì il gruppo si sposterà a San Lorenzo, che racchiude tutta la storia dell´immigrazione fiorentina, dalle pelletterie degli iraniani degli anni ‘80 fino ai coloratissimi banchi di bigiotteria dei bangladeshi. Infine un salto alla chiesa russo-ortodossa. Il secondo tragitto è legato alle religioni: unirà musulmani ed ebrei, il centro centro islamico, la sinagoga e il quartiere ebraico, tra gli odori del cibo kosher, per poi concludersi alla mediateca regionale, all´archivio video del festival dei popoli.
I ragazzi delle scuole saranno i primi ad essere coinvolti: «E´ pensata come una attività formativa pratica all´intercultura» spiega il presidente di Viaggi Solidali, Enrico Marletto: «Si scoprono elementi di realtà lontane accanto a quella italiana. A Torino, per esempio, una signora ha provato che il salame rumeno si sposa benissimo con le orecchiette alle cime di rapa». Cucina, tradizioni, modi di vivere. Tutto sarà mostrato, raccontato e spiegato, per accettare le differenze.
L´agenzia sta cercando le guide, in autunno partiranno i corsi di formazione e agli inizi del 2012 le passeggiate, in collaborazione con alcune associazioni tra cui Oxfam Italia. Anche la comunità delle Piagge di don Santoro è stata coinvolta, proprio perché il quartiere è uno dei più popolati dagli immigrati, e potrebbe ospitare un altro tragitto. Ma a fare da ciceroni ci saranno anche italiani, le menti storiche di questi luoghi; come Leonardo «Papa Leo» Landi, operatore sociale e grande conoscitore di via Palazzuolo, o Roberto Menichetti da vent´anni barrocciaio di San Lorenzo.

Corriere della Sera Roma 25.5.11
Cortei nella Capitale scontro sindaco-prefetto
Pecoraro: «Il nuovo protocollo non è una priorità» Alemanno: «Non sono d’accordo, il problema è aperto»
di Paolo Foschi


«Io non considero oggi il nuovo Protocollo sui cortei come una priorità, tenuto conto anche che c'è da parte di tutti rispetto per quello che abbiamo stipulato l'anno scorso» , dice il prefetto Giuseppe Pecoraro. «In questo caso non sono d'accordo col mio amico Giuseppe Pecoraro. Credo che tutti i cittadini romani vogliano un regolamento più stringente rispetto all'amministrazione dei cortei» , replica un’ora dopo Gianni Alemanno. Il botta e risposta, inatteso, è andato in scena ieri mattina. E ha riaperto il dibattito su una questione che sta molto a cuore al sindaco. Appunto la regolamentazione dei cortei. Alemanno da tempo ripete che vorrebbe norme più restrittive rispetto a quelle concordate l’anno scorso, grazie alla mediazione del prefetto, con i sindacati. Ma ieri Pecoraro ha gelato le attese del Campidoglio. «La situazione che c’è oggi, a parte l’ultimo corteo dello sciopero generale del 6 maggio, non mi sembra preoccupante e non mi sembra che ci siano tanti cortei. C’è da parte di tutti il rispetto del protocollo firmato e criticità non ce ne sono state. È ovvio che se sussistono manifestazioni non autorizzate ci saranno le denunce dovute» , ha detto il prefetto intervenendo a un convegno organizzato dalla Cgil e aggiungendo poi che non servono «nuove regole» . Alemanno, che secondo i suoi stessi collaboratori è rimasto spiazzato dall’uscita di Pecoraro, ha invece insistito: «È un problema aperto e forte in una città soffocata dal traffico e che non può sopportare tutte le manifestazioni che ogni giorno bloccano la citta» . Sindacati e centrosinistra si sono schierati dalla parte del prefetto. «Grande saggezza nelle parole del prefetto» , ha commentato Claudio Di Berardino, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, «le priorità sono altre. Con l’autoregolamentazione che ci siamo dati abbiamo raggiunto il punto massimo oltre cui non c'è nulla per garantire allo stesso tempo tutti i diritti» . «Comprendiamo l'esigenza di ricerca del consenso da parte del sindaco, ma riconfermiamo la posizione già espressa in sede di confronto in Prefettura e cioè: Roma con molta fatica si è data delle regole ed a quelle regole noi ci siamo sempre attenuti. Il problema vero è che una volta fatte le regole bisogna farle rispettare.... ma quello non è compito del sindacato» , ha aggiunto Luigi Scardaone della Cgil. Per il Pd e Sinistra e libertà, «il prefetto ha ragione, il sindaco persegua le vere priorità della città che sono tutt’altra cosa rispetto ai cortei» . Ironico il commento di Vincenzo Maruccio, Idv: «Nello stesso giorno in cui si scaglia contro il prefetto Pecoraro, Alemanno propone una manifestazione tutta sua, contro il suo Governo che vuole spostare alcuni ministeri a Milano. Siamo alle comiche» Per Alessandro Onorato, Udc, invece «il nuovo Protocollo è una priorità» . E per Federico Guidi, Pdl, «un'ottima strada sarebbe quella di introdurre il pagamento dei servizi pubblici a carico degli organizzatori dei cortei e delle manifestazioni. Molte delle proteste che tengono in ostaggio i romani si incanalerebbero in forme meno invasive per la città e altrettanto efficaci per rappresentare le ragioni dei manifestanti» .

Corriere della Sera Roma 25.5.11
Campidoglio e Procura intesa sulla sicurezza
di Lavinia Di Gianvito


Un’intesa tra il Campidoglio e la procura della Repubblica per collaborare in materia di ordine pubblico. Le basi del futuro accordo sono state gettate ieri a piazzale Clodio, dove il procuratore Giovanni Ferrara e l’aggiunto Pietro Saviotti hanno incontrato il sindaco, Gianni Alemanno, accompagnato dal capo di gabinetto Sergio Basile, dalla sua vice Anna Bottiglieri e dal responsabile dell’avvocatura capitolina, Andrea Magnanelli. Il colloquio è durato una mezz’ora, ma è servito a individuare i temi sui quali avviare il confronto. I vertici del Campidoglio e della procura hanno discusso del possibile utilizzo delle riprese a circuito chiuso se, durante le manifestazioni, scoppiano dei disordini. Il Comune ha cinquemila telecamere sparse in città, ma la legge sulla privacy richiede che le immagini siano cancellate entro 24 ore. Nel corso dell’incontro si è ipotizzato di prorogare questo termine ricorrendo a un decreto dell’autorità giudiziaria: i filmati potrebbero essere conservati fino a sette giorni, secondo le necessità di chi indaga. L’altro tema affrontato dai magistrati e dal sindaco è stato quello delle occupazioni di immobili: il tentativo è di coniugare il rispetto della legge con l’esigenza di dare un alloggio a chi non ce l’ha. L’idea di una collaborazione tra il Campidoglio e piazzale Clodio sull’ordine pubblico è nata all’indomani degli scontri del 14 dicembre, il giorno della fiducia al governo, quando fu violata la zona rossa, 23 giovani vennero fermati e poi scarcerati e ci furono polemiche politiche a non finire. All’iniziativa della procura il Comune ha subito risposto in modo affermativo, anche se sono voluti cinque mesi per sedersi insieme attorno a un tavolo. Ieri comunque i primi passi sono stati fatti e adesso toccherà a un tavolo tecnico concordare il contenuto dell’accordo.

Corriere della Sera Roma 25.5.11
«La Resistenza a Roma»

Inaugurazione della mostra fotografica «La Resistenza a Roma. Fatti, luoghi e simboli» . I sedici pannelli della mostra propongono circa 70 immagini tra fotografie, stampe e riproduzione di documenti originali dell'epoca, tratta da archivi storici italiani ed esteri. Fino al 2 luglio. Interverrà Massimo Rendina. Casa della Memoria e della Storia, via S. Francesco di Sales 5. Infoline: 06.6876543.

Repubblica Firenze 25.5.11
La Asl paga ogni anno 800mila euro a tre strutture convenzionate: una è controllata dai familiari del capo della ginecologia del policlinico
Fecondazione, 7 mesi di attesa
Careggi: primo posto libero a dicembre. E le coppie ricorrono ai privati: uno è dei familiari del primario
di Michele Bocci


«Una visita per la fecondazione? Il primo posto libero è a dicembre prossimo. Però forse apriamo nuovi ambulatori e riusciamo ad anticipare un po´». Ieri mattina era questa la risposta dell´addetto del Centro di fisiopatologia della riproduzione umana di Careggi alle coppie in cerca di informazioni. Sette mesi di tempo solo per arrivare a un primo colloquio e alla visita. Poi bisogna fare gli esami ed avviare la procedura per la procreazione medicalmente assistita (pma). «Ma una volta entrati siamo veloci», spiegavano da Careggi. Un´attesa del genere può scoraggiare chiunque, figurarsi le coppie che hanno fretta perché non riescono ad avere figli.
Facile immaginare che si decida di rivolgersi altrove per fare prima. Chi non riesce a fare un figlio cerca spiegazioni rapide e sa bene che la possibilità di riuscita decresce con l´aumentare dell´età. Careggi a Firenze è l´unico centro pubblico che si occupa di pma. «Se c´è bisogno di un aumento della nostra attività discutiamone - spiega il direttore sanitario Valtere Giovannini - I tempi di attesa devono essere rimodulati insieme agli altri servizi di questo tipo già presenti sul territorio».
La Asl di Firenze paga circa 800 mila euro all´anno di convenzione a tre centri privati per assicurare la fecondazione ai toscani. Ognuno di questi fa in un anno più procedure di Careggi (che si fermerebbe a circa 200), parte in convenzione e parte per chi arriva da fuori Regione o comunque paga di tasca propria. Ovvio che lavorano di più se il pubblico è in difficoltà.
La più grande struttura che si occupa di pma è il centro Florence di Fondiaria, che incassa 470 mila euro all´anno dalla Asl e fa circa 300 cicli di fecondazione in convenzione, a cui se ne aggiungono più del doppio per coppie provenienti da fuori. Il centro Demetra lavora poco con la Regione: incassa dalla convenzione 60mila euro all´anno e la gran parte dei suoi pazienti non arrivano dalla Toscana o pagano. Infine c´è il centro Futura, che ha una convenzione da circa 220mila euro. La struttura è divisa in due parti ed è controllata dalla famiglia del numero uno della ginecologia di Careggi, ovvero il professor Gianfranco Scarselli, capo del dipartimento materno-infantile e primario della ostetricia e ginecologia 1, il reparto dove sono in organico i medici del Centro di fisiopatologia della riproduzione. La figlia Benedetta (biologa) è amministratore unico di Futura diagnostica medica - pma, nata nel 2004 con sede a Firenze e un ambulatorio a Empoli e titolare della convenzione con la Asl. Con la sorella Valentina (psicoterapeuta) divide la maggioranza delle quote della società. Chi ha firmato la convenzione con questo centro privato evidentemente ha ritenuto che non vi siano conflitti di interessi se nella stessa famiglia uno dei componenti è al vertice di una struttura pubblica e altri ne possiedono una convenzionata. Per quanto riguarda Futura, che si occupa di varie attività ginecologiche, dalle visite alla diagnosi prenatale, e lavora solo come privato, è nata negli anni Ottanta e oggi uno dei tre consiglieri di amministrazione (e rappresentante) è Benedetta. Il socio principale di questa srl è Futura-pma (con 40%), il 5% delle quote sono in mano alla moglie di Scarselli.

«ha il record di 8 minuti senza fiato, in assetto statico»
«Essere padroni del proprio fiato significa avere una tranquillità psicologica che spesso si traduce in superiorità»
Repubblica 25.5.11
Farfalla senza respirare il record dell´uomo-pesce
di Emanuela Audisio


Dopo l´abolizione dei super costumi i big del nuoto studiano nuove soluzioni per diventare più veloci Il serbo Cavic prova i 50 farfalla in apnea. E va a lezione da Pelizzari, il re delle immersioni
Battere i record senza respirare in piscina arriva l´uomo-pesce
Una tecnica tra agonismo e relax E Hall jr si allenava con la pesca subacquea

Fino all´ultimo respiro. Anzi, senza nemmeno quello. Muti come un pesce. L´ultima frontiera del nuoto è l´apnea. In acqua non bisogna perdere tempo. Il respiro spezza il ritmo, rallenta, muta assetti. La fatica fa il resto: assale e assilla. Ti fa perdere di vista il traguardo. Vuoi essere Phelps, Cielo, sprintare sulle onde? Allora impara a fare a meno dell´aria.
È quello che da stamattina farà il serbo Milorad Cavic, campione del mondo dei 50 farfalla, argento olimpico sui 100 (al fotofinish). A fargli da maestro, a insegnarli trucchi e segreti ci sarà Umberto Pelizzari, il dio dell´apnea, che ha il record di 8 minuti senza fiato, in assetto statico. Quello che sta sopra (Cavic) e quello che sta sotto (Pelizzari) lavoreranno insieme a Lignano Sabbiadoro dove il coach Andrea Di Nino e il suo gruppo, sponsorizzato Arena, sono in ritiro. Per migliorare i record bisogna curare i particolari. Soprattutto ora che il costume tecnologico, molto galleggiante, è vietato. Spiega Di Nino: «Stile libero e farfalla sono le specialità dove si va più forti. Nei 50 un nuotatore di alto livello può arrivare a respirare 2 volte, sui 100 la frequenza sale a 25, si prende aria ogni 4-6 bracciate. È vero che Cavic, a farfalla, non deve girare il capo, ma già tenere la testa avanti cambia l´assetto, si abbassano i fianchi, si alzano le spalle. È un disturbo. Eliminarlo significa poter risparmiare 1-3 decimi. Non solo, anche se sembra un controsenso, stare in apnea significa saper respirare meglio, avere il diaframma rilassato, sfruttare meglio la residua capacità polmonare. E non farsi venire ansie da mancanza di ossigeno, soprattutto quando aumenta l´acido lattico. Non ci sono ancora studi scientifici che certifichino questa applicazione, ma la stanno provando un po´ tutti. Ricordo in America la squadra di Gary Hall jr., 5 ori olimpici, si allenava in mare, facendo immersione lente di pesca subacquea».
Gli Speed and Furious si trattengono. Cesar Cielo, brasiliano, miglior prestazione stagionale nei 50 in staffetta (21"73) il 3 maggio a Rio ha detto: «Ho respirato solo una volta, e domani non lo farò, con l´apnea si apre una nuova finestra di margini di miglioramento». E il giorno dopo quando ha vinto i 50 metri (21"95) ha confermato: «Non ho respirato». Non respira nemmeno la svedese Therese Alshammar, un fenomeno di velocità in stile libero e farfalla. Ma per Umberto Pelizzari, signore dell´apnea, c´è di più. «Ad alto livello ogni dettaglio fa la differenza. Phelps che ha capovolto lo stile di virata, con una fase subacquea da urlo, ha vinto uscendo dall´acqua due metri dopo gli altri. Questo significa che l´apnea, anche come tecnica di rilassamento, può aiutare la performance e ad avere un respiro più corretto. Magari servirebbe a Federica Pellegrini che sui 400 è soggetta a crisi di ansia». E Cavic, che in preparazione dei mondiali di Shanghai da delfino sta diventando un sottomarino, che dice? «Penso che tra un po´ nessun velocista respirerà più. L´apnea rafforza i polmoni, aiuta a tenere rilassato lo stress e mi dà nuove motivazioni. Non ho più di paura di stare sotto a lungo, mi permette nella fase grigia della gara, nell´ultima parte, quando sono più stanco, di reggere meglio. È un vero e proprio allenamento».
La nuova frontiera non è solo riservata al nuoto. Dice Di Nino: «Servirà a tutti gli sport anaerobici dove c´è uno sforzo massimale sui distretti muscolari delle gambe. Penso agli sciatori dello slalom, a uno come Razzoli, a chi tira di scherma, a tutti quelli che devono centrare un bersaglio. Essere padroni del proprio fiato significa avere una tranquillità psicologica che spesso si traduce in superiorità». Fate un bel respiro e poi non fatene più.

l’Unità 25.5.11
L’economista ospite di una giornata di studi dello Spi Cgil
Amartya Sen: «La giustizia nasce dal confronto fra i diritti»
Il premio Nobel, critica l’Ue sulla Grecia: «Con i tagli non si favorisce la crescita e si mette a rischio la libertà». Carla Cantone: «La Fiat aziendalizza i diritti, mentre il sindacato tiene insieme lavoro e democrazia».
di Jolanda Bufalini


Ci sono tre bambini e un solo flauto, la prima bambina dice «sono molto povera, lo devo avere io», è un buon argomento. Ma il secondo obietta: «Sono l’unico a saper suonare, spetta a me». Anche questo è un buon argomento. Il terzo bambino, però, fa presente che il flauto l’ha costruito lui e, solo dopo, si sono fatti avanti gli altri due. Anche questo è un buon argomento. L’aneddoto è stato raccontato ieri da Amartia Sen alla giornata di studi organizzata dallo Spi Cgil a Roma per esemplificare la sua idea di una società giusta, diversa dal modello di un «ipotetico contratto sociale fra la popolazione e lo stato sovrano». Amartia Sen preferisce richiamarsi all’altra corrente del pensiero illuminista, che da Adam Smith a Condorcet arriva sino a Marx, più attenta «alla vita delle persone, al loro benessere, alle loro libertà». La giustizia, dice il premio Nobel economista e filosofo, è il prodotto delle comparazioni dei diversi modi in cui si vive, delle interazioni sociali, dei fattori che hanno un impatto significativo su ciò che effettivamente accade nel mondo.
«Non deve sorprendere dice la segretaria dello Spi Cgil Carla Cantone che un pensatore di importanza mondiale abbia accettato il nostro invito», le sue idee, infatti, «sono caratteristiche della pratica sindacale, la storia della Cgil è storia di conquiste sociali, di rappresentanza democratica, di difesa della Costituzione, di effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica ed economica del paese». Invece oggi, «a partire dalla Fiat, è stata lanciata una sfida, se l’economia si globalizza anche l’organizzazione del lavoro si deve globalizzare. Diritti, salario, professionalità, salute, tutto diventa “aziendale”. Viene negata ogni idea di solidarietà e negato ogni conflitto, il diritto di sciopero ingabbiato nel diktat “prendere o lasciare”».
Al contrario, l’idea di giustizia su cui ragiona Amartia Sen, non è chiusura e localismo ma considerazione di fattori come l’inquinamento ambientale o la disabilità, nelle condizioni di vita concrete. Cita lo studio di una giovane economista di Cambridge, Wiebke Kuklis: in Gran Bretagna il 18 % è sotto la soglia di povertà, cifra che cresce al 23 % se un membro della famiglia non è autosufficiente e, addirittura, al 47 % se si calcolano le spese necessarie per migliorare la vita della persona disabile.
Una visione del mondo che porta l’economista Sen a mettere in guardia l’Europa dalla «passione dei tagli». Fa l’esempio della Grecia, anzi, «in favore della Grecia». «Non si può lasciare che siano le agenzie di rating e i mercati azionari a decidere. Prima della moneta unica la Grecia avrebbe potuto agire sui cambi, ora non può farlo ma non ne ha vantaggi, gli aiuti arrivano come un favore non come un diritto, non esiste una politica europea, né una fiscalità comune». E questo comporta rischi per la libertà e per i diritti sociali, ma comporta anche rischi seri per la crescita: «Dopo la Seconda guerra mondiale ma anche con Clinton negli Usa, il deficit è stato eliminato grazie alla crescita, non puntando tutto sui tagli».

il Fatto 25.5.11
Il miracolo di Sant’Antonio (Gramsci)
Un saggio ripercorre la storia avventurosa dell’egemonia culturale della sinistra, per merito del marxista meno dogmatico del Novecento
di Elisabetta Ambrosi


Una sera d’estate, profumo di resina e mare, il sollievo di una guerra mondiale alle spalle. Voci di intellettuali, discussioni non troppo animate (sul vincitore sono quasi tutti d’accordo), per assegnare il primo premio Viareggio del dopoguerra. Siamo nel 1947, e il presidente Leonida Répaci annuncia il titolo vincente, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Un’eccezione alla regola: non si tratta di un’opera letteraria e l’autore è scomparso da dieci anni. Eppure il filosofo sardo sembra quasi materializzarsi come “una presenza invisibile al nostro tavolo”. Con conseguente generale commozione, “che supera le contrapposizioni ideologiche dei vari membri della giuria”. Un po’ come San Gennaro, Antonio Gramsci, quel giorno come nei decenni a venire, sembra compiere il miracolo di sciogliere le divergenze e aggregare idealmente sulla sua figura il partito comunista italiano. È un miracolo “pilotato”, però, dal segretario Palmiro Togliatti. Che decide di usare la figura moralmente irreprensibile dell’autore dei Quaderni dal carcere come il perno su cui far ruotare il partito.
“Operazione Gramsci”: così definisce la strategia di Togliatti Francesca Chiarotto, nel saggio dall’omonimo titolo Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, uscito per Bruno Mondadori (pp. 240, euro 20). Un’operazione riuscita secondo l’autrice, perché, partendo dall’assegnazione del Premio Viareggio – secondo alcuni manovrata proprio dal segretario – approda nel porto del più grande partito comunista d’occidente.
Le tappe di questa felice via crucis ideologica, al termine della quale si crea l’“icona Gramsci”, sono i sei volumi dei Quaderni, usciti tra il 1948 e il 1951, divisi volutamente per temi. Anche qui, sostiene Chiarotto, non tanto per ragioni di censura, quanto per facilitarne la lettura e la diffusione. Acuta anche la scelta della casa editrice: sotto l’ombra dello struzzo Einaudi, l’operazione ideologica su Gramsci acquista legittimità culturale, senza assumere le sembianze di un’operazione platealmente politica.
LA MESSA IN PRATICA di una “paziente ricostruzione di un’egemonia culturale”, condotta capillarmente sul territorio anche attraverso case di cultura, biblioteche popolari, organizzazioni di massa consente al Pci di dialogare con la società italiana di quei decenni. In questo abile lavoro di soft power, la figura di Gramsci diventa fondamentale quando si tratta di non restare travolti dai fatti del 1956. L’autore dei Quaderni svolge poi anche un’altra funzione: quella di terreno ideologico, ma non direttamente politico, su cui dialogare con altre culture, quella liberale e cattolica. La storia iniziata col premio Viareggio si interrompe con la caduta del Muro. Anzi, ancor prima con l’avvento degli anni Ottanta. Quando, mentre Gramsci impazzava all’estero , dai paesi arabi al Giappone, nell’Italia del craxismo e dell’edonismo reganiano in salsa nostrana, “l’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa o, peggio, della discoteca”, come scrive nel saggio introduttivo Angelo d’Orsi. Il silenzio si interrompe negli anni Novanta e Duemila, quando però ritroviamo non più un Gramsci “martire, nazionale e popolare”, il “fratello maggiore di Togliatti”, ma un Gramsci neutralizzato sul piano politico, forzato fino a diventare liberale e ad uso del grande pubblico deideologizzato. Tanto che la nota invettiva contro gli indifferenti finisce prima sul palco di San Remo e poi in volumetto per Chiare Lettere, che diventa un successo editoriale. D’Orsi spiega così i motivi del revival: “Gramsci ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che non sia più la presa del Palazzo d’Inverno ma nasca da un lungo processo di preparazione culturale”.
QUELLO CHE è meno chiaro per i due autori è come mai, mentre ritorna come icona pop, il filosofo sardo sia diventato invece un personaggio scomodo per la sinistra. Tanto che, alla nascita del Pd, nel pantheon democratico si dà la preferenza a Don Milani, Kennedy o Popper. Come dimostra un imbarazzato Veltroni nel 2000, quando, nel corso di un convegno gramsciano, si schiera a favore di Rosselli “dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno né l’altro”. In fondo, chiosa Chiarotto, “Rosselli è quello che ha preso il fucile per andare in Spagna a combattere con i repubblicani”. Gramsci diventa specchio della confusione ideologica dell’oggi.
Mentre il dogmatismo ideologico di ieri almeno una cosa l’aveva capita: che la politica senza intellettuali di massa, tra l’altro spariti da un pezzo, è destinata a morte certa.
Insomma, cari giurati dei premi letterari, se squilla il telefono potete stare tranquilli. Ma anche no.
Operazione Gramsci FRANCESCA CHIAROTTO, BRUNO MONDADORI, 233 PAGINE, 20 EURO

Corriere della Sera 25.5.11
Anche Morin si indigna. E si impegna con Hessel
di Stefano Montefiori


PARIGI — Stéphane Hessel (93 anni) e Edgar Morin (89) insieme per un nuovo libro di impegno civile e politico. Il successo straordinario e internazionale di Indignatevi! (tre milioni di libri venduti da ottobre in Europa, circa 30 traduzioni, a giugno in Cina e Usa) ha riportato in libreria altre opere di Hessel, come Dalla parte giusta pubblicato in Italia da Rizzoli, e Impegnatevi! con Gilles Vanderpooten (Salani) e ha spinto gli editori a contendersi un autore diventato preziosissimo. Così Claude Durand, della casa editrice Fayard, ha invitato al ristorante Hessel e il suo amico Morin per convincerli a scrivere un libro a quattro mani. Entrambi hanno accettato e «Aux actes citoyens!» (strizzata d’occhio al passaggio della Marsigliese) dovrebbe essere pronto per la prossima rentrée litteraire, a settembre. L’inedita collaborazione tra Stéphane Hessel e Edgar Morin è frutto di un’amicizia ormai trentennale. Dopo l’exploit di Hessel, anche il sociologo e filosofo Morin ha avuto grande successo in Francia nelle ultime settimane grazie al libro «La Voie» , abilmente presentato dal suo editore Fayard come una sorta di prolungamento di Indignatevi!. La campagna pubblicitaria del saggio di Morin cita in effetti apertamente Hessel: «Non accontentiamoci di indignarci! Hessel provoca un sussulto, Morin indica la strada (la voie, ndr)» . Uno sfruttamento che ha provocato le proteste di Sylvie Crossman e Jean-Pierre Barou, i fondatori della piccola casa editrice «Indigène» di Montpellier corresponsabile del fenomeno Hessel (sono loro ad avere pubblicato Indignatevi!. «Così si svaluta il libro di Hessel, usandolo comunque a fini pubblicitari» , ha detto la Crossman. Ma al di là delle liti e delle manovre editoriali, Hessel e Morin hanno deciso di sancire la stima reciproca con un’opera che sarà breve, sull’esempio di Indignatevi!, non più di una sessantina di pagine. In attesa della nuova uscita, l’impazzimento collettivo per Hessel è comunque lungi dal placarsi, come dimostrano le manifestazioni degli «Indignados» di Puerta del Sol a Madrid. «Molti di loro tengono in mano il mio libretto — ha detto ieri Hessel— sono felice che il mio messaggio sia stato raccolto da così tanti giovani europei» . In Spagna il libro di Hessel è stato tradotto in castigliano, catalano, basco e galiziano. «Ho molta fiducia nella gioventù spagnola — aggiunge Hessel— nel loro modo di mobilitarsi in modo pacifico. Li esorto a rimanere vigilanti contro tutto ciò che rischia di nuocere allo sviluppo della democrazia, a rispettare i valori della Resistenza, a difendere i più deboli e a non farsi manipolare dalle forze del denaro» . Mentre a Parigi, alla Bastiglia, cominciano i primi assembramenti ispirati a Hessel e in solidarietà con i giovani spagnoli, a Figueras, nel nord della Catalogna, i manifestanti esibiscono, accanto all’immagine di Gandhi, un grande ritratto di Stéphane Hessel.

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 25.5.11
La Crusca presenta la tre giorni per i 700 anni della morte
In viaggio con Dante
Le città del poeta: non solo Firenze e Ravenna. Anche Bologna (per gli studi) e Roma (per la politica)
di Nicoletta Maraschio, Presidente dell’Accademia della Crusca


Iniziano con dieci anni di anticipo gli eventi per il settimo centenario della morte di Dante e partono da Ravenna dove ieri mattina è stata presentata la prima edizione di Dante 2021» , festival di tre giorni diretto dall’Accademia della Crusca che, a cadenza annuale, preparerà le celebrazioni per i 700 anni dalla scomparsa del poeta fiorentino, a cominciare dall’ 8 settembre prossimo. Al centro del programma l’eredità linguistica dell’autore della Divina Commedia, intesa anche come fattore di unità nazionale, proprio nell’anno del 150esimo anniversario. temi: la lingua delle Costituzioni italiane; l’Italia di Dante tra realtà e ideale; i dialetti: riflessi del trattato ora’, a ancoi ‘ oggi’ fino a veggia botte’), una componente importante di quel multilinguismo che non piacque per nulla Bembo e che tante polemiche suscitò nel corso del Cinquecento, quando si discuteva accanitamente di cosa dovesse essere l’italiano, strumento espressivo rappresentativo di una cultura di un sentire, ai quali ancora, per altri tre secoli, non sarebbe corrisposta una unità politica. Se la nascita e la morte acquisiscono un valore simbolico superiore, allora Firenze e Ravenna hanno in questo vasto insieme un significato del tutto particolare. Ed è bello che le due città, da qualche mese, stiano lavorando insieme a un progetto ambizioso: Dante 2021. Verso il VII centenario della morte di Dante Alighieri. Il festival, la cui prima edizione si svolgerà a Ravenna Se non ci fosse che un solo motivo per riconoscere l’importanza di Firenze nella storia italiana basterebbe aver dato i natali a Dante Alighieri e, grazie anche a lui, alla lingua che è alla base della nostra identità nazionale. Ed ha un grande significato che proprio nell’anno del 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia, le due «patrie» Dante si uniscano nel progetto comune Dante 2021. Ma quante sono le città di Dante? A girare per l’Italia le tracce del suo passaggio sono molte e largamente diffuse, soprattutto nel Nord. Certo l’esilio, ma anche lo studio (Bologna) e gli incarichi politici (Roma). Le vicende biografiche si riflettono nei tanti dialettismi della Commedia (da mo’ e issa dantesco De vulgari eloquentia. E poi musica, teatro, balletti L’inferno, di Emiliano Pellisari). Tra protagonisti, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e gli attori Pamela Villoresi e Virginio Gazzolo. Verrà promossa anche una mostra «dantesca» di artisti contemporanei, italiani e stranieri, e Premio Dante-Ravenna dedicato a chi, in ambiti e con strumenti diversi, si sia distinto nella diffusione della lingua, della letteratura e dei valori civili di Dante. Firenze, città natale di Dante e Ravenna, sua seconda e ultima patria, si uniscono così in un nuovo progetto comune, che consolida un rapporto di amicizia e collaborazione culturale. dall’ 8 al 10 settembre prossimo, sarà incentrato soprattutto sull’importanza linguistica dell’opera di Dante, sulla sua straordinaria visione poetica, sul suo contributo determinante alla creazione della lingua italiana, fattore decisivo della nostra identità nazionale. Per questo, Ravenna ha chiamato Firenze e l’Accademia della Crusca. Più di 400 anni fa, nel 1595, durate la preparazione del loro Vocabolario, gli Accademici inventarono la prima edizione critica della Commedia con l’obiettivo di avvicinarsi, attraverso la filologia, al testo autentico dell’opera. E già molti anni prima, Lionardo Salviati, il padre fondatore della Crusca, aveva scritto che Dante era un «miracolo» e che il «divino poema» era opera non superata «da alcuna in qual si voglia idioma composta» . Una conferma si ha da un semplice dato quantitativo: nelle prime quattro edizioni del Vocabolario (quelle digitalizzate e interrogabili attraverso il sito dell’Accademia www. accademiadellacrusca. it) Dante è l’autore più citato dopo Boccaccio, con oltre 60mila occorrenze. È anche grazie al recupero e al rilancio della Crusca che la lingua di Dante costituisce il nucleo fondamentale per l’italiano contemporaneo. Il festival prevede naturalmente spettacoli e letture dantesche ma si apre anche a momenti di riflessione su aspetti centrali della nostra lingua di oggi, da quella della Costituzione al rapporto sempre fertile tra italiano e dialetti.

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 25.5.11
E alla Nazionale si celebra il Vate dell’Unità


Opere d’arte, sculture, incisioni, fotografie, libri, cartoline, piccoli cimeli. Con protagonista assoluto Dante Alighieri. È la mostra che si inaugura il 31 maggio (ore 12) nella Tribuna Dantesca della Biblioteca Nazionale e propone un viaggio che dal Medioevo giunge al Risorgimento, quando il padre della lingua e idealmente della nazione diventa simbolo delle aspirazioni civili e identitarie. Assumendo anche il ruolo di guida ideale per i più importanti scrittori, intellettuali e storici: Leopardi, Foscolo, Monti, Mazzini, Tommaseo, de Sanctis. In particolare, a Firenze, la figura di Dante si riconcilia con la memoria della città. Nel 1888 nasce la Società Dantesca italiana e nel 1889 la Società Dante Alighieri, sotto la guida di Giosuè Carducci. L’esposizione, dal titolo Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’ 800 presenta, tra i dipinti, quelli di Carl Vogel von Vogelstein, Domenico Morelli, Francesco Saverio Altamura, Federico Faruffini, Gaetano Previati e poi le sculture di Vincenzo Vela, Pio Fedi e Paolo Troubetzkoy. Per tutta la durata della mostra (fino al 31 luglio) sempre alla Biblioteca Nazionale, sarà possibile assistere alla Maratona infernale: in 7 ore di video, trasmesse continuativamente, per la regia di Lamberto Lambertini, ideatore del progetto insieme a Paolo Peluffo, lo spettatore sarà proiettato in una rilettura in chiave contemporanea dei trentaquattro canti dell’Inferno. R. C.

La Stampa TuttoScienze 25.5.11
È vero che c’è chi nasce per rubare e uccidere?
Lombroso continua a far discutere psicologi e neuroscienziati Ecco come nacque l’identificazione tra epilessia e criminalità
di Francesco Monaco neurologo


«Che brutto ceffo!», è l'espressione «lombrosiana» più semplice e universalmente comprensibile, ovvero del modo di pensare di Cesare Lombroso (1835-1909), professore di psichiatria e antropologia criminale a Torino dal 1887, e uno dei più famosi neuropsichiatri del mondo. Tale affermazione si basa sul presupposto che esista una corrispondenza tra struttura anatomica del cervello (e del suo involucro, cioè il cranio e quindi il volto) e comportamento. Nel proporre questa teoria Lombroso si pose, in buona fede, come sostenitore di un'ipotesi biologica (geneticamente determinata) della malattia mentale, ma soprattutto, della cosiddetta «devianza» e quindi della criminalità, con poco spazio per attenuanti psicologiche o sociologiche. In altri termini, secondo Lombroso, criminali si nasce.
E' indubbio che una tale teoria (peraltro non sufficientemente scientifica) l’ha reso un personaggio discusso e per certi versi scomodo. Possiamo oggi veramente credere che «un brutto ceffo», cioè un individuo con fronte stretta e bassa, grosse sopracciglia, sottigliezza delle labbra, sporgenza degli zigomi, deformità del naso, prognatismo, sia sinonimo di «ladruncolo» o «vero delinquente» o comunque uno di cui non fidarsi? O, al contrario, possiamo escludere a priori che una persona di aspetto che definiremmo normale non sia un serial killer? Provate a ragionare sulle notizie di cronaca nera e vedrete che le vostre certezze dimuiniranno.
Ad un secolo dalla morte del nostro, tuttavia, il suo pensiero continua a permeare ogni settore della cultura e delle scienze e, per quanto negata razionalmente, la sua influenza è ancora fuori discussione. Non per nulla nel mondo anglosassone, così severo nel giudicare gli scienziati «stranieri», Lombroso è considerato uno studioso degno del massimo rispetto.
Le sue teorie nascono su basi darwiniane e positiviste, ovvero: 1) l'uomo discende dalle scimmie e quindi il criminale non è altro che un individuo regredito allo stato primitivo e 2) tutto può e deve essere osservato e descritto anche matematicamente. Ma è altrettanto vero che esse furono influenzate dalla situazione politica e culturale italiana dopo l'unificazione e che questa, a sua volta, fu la causa del suo successo. Infatti, dopo l'Unità le differenze tra il Nord ed il Sud divennero drammaticamente evidenti e i numerosi problemi sociali relativi ai «briganti» catturarono l'attenzione di Lombroso. La sua idea del «criminale atavico» divenne popolare perchè respingeva l'idea che il crimine facesse parte dei problemi della società, permettendo alla classe dominante di negare ogni responsabilità. A questo proposito ricordo che nel Museo di Psichiatria ed Antropologia di Torino sono conservati 904 teschi di cosiddetti briganti da lui raccolti e che un prete di Napoli ha richiesto che vengano seppelliti con una cerimonia religiosa. Allo stesso tempo il sindaco di Motta Santa Lucia, il paese calabrese nativo del brigante Giuseppe Vilella (il primo sul cui cranio Lombroso effettuò le valutazioni antropometriche), e discendente della stessa famiglia, ha richiesto che i resti dell’antenato tornino al luogo di origine.
Bisogna tuttavia riconoscere che le teorie lombrosiane rappresentarono il tentativo rivoluzionario e ben riuscito di incorporare gli studi criminologici nel campo delle scienze psicologiche e mediche, ovvero di «medicalizzare» il crimine, e quindi renderlo passibile di terapia: per quanto discutibili, i manicomi criminali sono la logica conseguenza del pensiero lombrosiano e all'inizio furono concepiti come un'alternativa al carcere più idonea a curare i criminali con disturbi mentali. Sfortunatamente, Lombroso ipotizzò poi una connessione tra la personalità criminale e l'epilessia, malattia caratterizzata spesso da crisi con perdita parziale o totale della coscienza, a volte accompagnate da gesti o atti dei quali il soggetto non serba memoria. Lombroso sottolineò che alcuni «crimini passionali» rappresentavano degli equivalenti di crisi epilettiche, concetto non lontano da quello moderno di crisi con componente affettiva (tipo i «déja vu»), per le quali proponiamo il termine più consono, mutuato dalla filosofia della mente, di «qualia emozionali epilettici». Tali teorie esercitano ancora oggi una profonda influenza negativa sia sull'opinione medica che su quella pubblica, contribuendo alla stigmatizzazione dei pazienti con epilessia. Come neurologi, non possiamo ignorare questa «area grigia» della scienza positivista del XIX secolo e per questo in un articolo sulla rivista «Epilepsia» abbiamo riportato, traducendoli in inglese, i passi dei lavori di Lombroso in cui si parla dei rapporti tra epilessia e criminalità.
La relazione tra Lombroso e l’epilessia inizia con un episodio di assoluta attualità. Il 13 marzo 1884, nella caserma di Pizzofalcone (Napoli) il soldato calabrese Salvatore Misdea, affetto da epilessia, uccide 7 camerati e ne ferisce 13, risparmandione solo due perché calabresi come lui.
Lombroso è nominato perito e nella perizia scrive: «La stessa fisognomia, le stesse anomalie dei denti, la stessa vanità, pigrizia, amore per l'orgia. Non mancava nulla: Misdea invero portava nel volto, nel teschio e nei suoi comportamenti gli aspetti del criminale nato estesi a tutto il corpo ed identificati al massimo grado». Il Misdea verrà quindi condannato e fucilato. Fu allora che nella mente di Lombroso balenò l'idea che «la grande criminalità fosse una forma di equivalenza di epilessia» e che la «pazzia morale» fosse una forma di «epilessia larvata cronica», stabilendo una «perfetta identità» tra il crimine e l'epilessia. Va anche detto che allo stesso tempo ipotizzò che epilessia e genialità potessero essere collegate, come nel caso di Lev Tolstoj, che Lombroso incontrò a Mosca nel 1897 e che nel suo libro «L' uomo di genio» definì un «genio prodotto dalla pazzia epilettica». Inoltre, a riprova della sua serietà intellettuale, riscontrò in successivi studi in alcuni pazienti con epilessia un correlato anatomo-patologico delle sue speculazioni teoriche (studiando campioni autoptici di cervelli). Verosimilmente, l'unico messaggio residuo di questa eredità lombrosiana nel 2000 è il seguente: i neuroscienziati e i criminologi possono oggi concordare sulla sua intuizione che in certi e limitati casi un cervello con una data alterazione anatomica può causare l'epilessia (e ciò e a volte dimostrato con la risonanza magnetica): ma rimane inaccettabile e politicamente incorretta l'ipotesi che i soggetti con epilessia possano diventare dei «mostri», capaci di crimini brutali in quanto portatori congeniti di un cervello«cattivo».
Le brillanti e a volte affascinanti intuizioni di Lombroso riuscirono a catturare l'immaginazione di artisti ed intellettuali: esempi sono «La resurrezione» di Tolstoj, «I miserabili» di Victor Hugo e «La bestia umana» di Emile Zola. Freud lo definì «grande e fantastico». Tuttavia ricordiamo che le sue teorie sulle basi biologiche della delinquenza contribuirono a creare un'atmosfera culturale favorevole alle politiche di eugenetica e persino dello sterminio del periodo nazifascista. Pertanto, il dibattito su Lombroso è lontano dall'essere concluso e la controversia sulla sua scientificità rimane in alto mare.

Terra 25.5.11
Meropur, cinque anni di allarmi inascoltati
di Federico Tulli


Terra 25.5.11
Al Reggio FilmFest il cinema è italiano
di Alessia Mazzenga

qui
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