martedì 24 maggio 2011

l’Unità 24.5.11
Il rapporto dell’Istat
Perché l’Italia ha bisogno degli immigrati
di Nicola Cacace


Bisogna ringraziare l’Istat per la diffusione periodica di dati sulla realtà socio-economica spesso ignorati dal dibattito politico. Il Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010, è prezioso per la ricchezza e la tempestività dei dati, anche se illustra un Paese più povero, con potere d’acquisto calato, con giovani, donne e Mezzogiorno sempre più colpiti da una crisi ormai svincolata da un resto d’Europa che, a parte Grecia e Spagna, ha ripreso a correre molto più di noi. I giovani che soffrono tra disoccupati, inattivi e “Neet” (inoccupati che non studiano e non lavorano) sfiorano i 4 milioni, senza parlare di altri milioni di precari. Il paradosso è che i giovani pur essendo merce rara da quando la natalità si è dimezzata, nel ’75, da un milione a mezzo milione di nati l’anno non trovano lavoro in un sistema che non cresce come quello italiano. Il Rapporto accenna ad un “mercato del lavoro duale” senza spiegarlo bene, ci dà due dati, intimamente connessi, senza spiegarne la logica che li lega: «nel biennio 2009-10 l’occupazione si è ridotta di 532mila unità e nel 2010 l’occupazione straniera è aumentata di 183mila unità». Come si spiegano i due dati? Col doppio mercato del lavoro, quello degli italiani che nel biennio ha perso 892mila occupati e quello degli stranieri che nel biennio ne ha guadagnato 360mila. I 532mila occupati in meno del biennio vengono da una forte riduzione degli occupati italiani e da un consistente aumento degli stranieri, perché il mercato dei lavori ”umili”, abbastanza insostituibili come badante, edile, manovale, addetto alla pulizia, etc. tira anche in periodi di crisi mentre quello dei lavori più qualificati tira solo quando il sistema paese è in salute. Non è che gli stranieri tolgono lavoro agli italiani. Il flusso di immigrati che ha invaso l’Italia nel decen-
nio è attratto dal buco demografico che crea un vuoto, soprattutto di offerta di lavori “umili”, che gli immigrati riempiono. Poiché nel decennio i giovani italiani di 15-30 anni si sono ridotti più di 2 milioni, per il dimezzamento delle nascite, nel decennio sono entrati quasi 4 milioni di immigrati, di cui quasi più di 2 milioni lavorano. È il buco demografico che ha fatto dell’Italia il Paese col più grande tasso di immigrazione del mondo occidentale, al pari di Paesi di immigrazione storica come Australia e Canada, avanti agli stessi Usa e ad altri paesi europei a bassa natalità come Spagna, Portogallo, Danimarca e Regno Unito. Peccato che neanche l’attenta Istat, non abbia spiegato agli italiani che gli immigrati “invadono” e invaderanno il Paese sinchè la natalità non riprende, perché il Paese ha bisogno di loro, non perché siamo maestri di ospitalità. E naturalmente la Lombardia ne ha bisogno più della Campania.

l’Unità 24.5.11
Rapporto Istat È allarme sugli squilibri di genere. Tutta al femminile l’assistenza in famiglia
Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore  alla cura informale (welfare non pagato)
Crisi, donne le prime vittime Fuori dal lavoro se sono incinte
Nel 2010 800mila donne hanno dichiarato di essere state costrette almeno una volta a lasciare il lavoro per via di una gravidanza. In aumento le dimissioni in bianco. Eppure restano i pilastri della rete di aiuti informali.
di Bianca Di Giovanni


Per le donne italiane la crisi è un tunnel ancora senza uscita. Rispetto alle loro «sorelle» europee le condizioni di lavoro sono peggiori su tutti i fronti: qualità dell’attività, salario medio (-20% rispetto agli uomini italiani), difficoltà di coniugare tempi di vita con quelli di lavoro. Le madri soffrono più delle single, le giovani nonne a loro volta hanno più difficoltà delle madri, con i nipotini da accudire e spesso anziani genitori da curare. nelle coppie c’è una forte asimmetria tra i ruoli maschili e femminili: e più si va avanti con l’età più l’asimmetria aumenta. Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore al lavoro di cura informale (cioè non pagato) su tre miliardi complessivi. Ma il dato più allarmante sta nella mancanza di libertà di scelta: molte italiane sono costrette a lasciare il lavoro contro la loro volontà, quando restano incinta. Nel biennio 2008-9 erano 800mila ad ammettere questa dura realtà: o licenziate o costrette a firmare dimissioni in bianco.
RAPPORTO
Un quadro forsco, quello scattato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat presentato ieri dal presidente dell’Istituto Enrico Giovannini, al presidente della Camera Gianfranco Fini alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. «I giovani e le donne hanno prospettive sempre più incerte di rientro nel mercato del lavoro ha detto Giovannini e ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità». I numeri sulla dicotomia tra mondo del lavoro e ruolo femminile appaiono disarmanti. Quelle 800mila costrette a starsene a casa, senza un reddito proprio, rappresentano l’8,7% delle donne che lavorano o hanno lavorato in passato: una quota rilevante. «Oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio si legge nel Rapporto non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne. A subire più spesso questo trattamento non sono quelle delle vecchie generazioni, ma le più giovani (segnale di una tendenza in aumento, ndr), cioè il 13% delle madri nate dopo il 1973; le residenti nel Mezzogiorno e le donne con un titolo di studio basso». Tra le madri espulse contro la loro volontà, solo il 40% riesce a trovare un’altra attività dopo che il figlio è cresciuto, ma quel dato è il saldo di una distanza abissale. Su 100 madri licenziate, riprendono a lavorare 51 nel nord e soltanto 23 nel Mezzogiorno. Le «dimissioni in bianco» stanno diventando un male endemico nel mercato del lavoro della Penisola.
La famiglia sottrae le donne al lavoro, ma è solo nel nucleo familiare che si ritrova quella rete di aiuti che spesso difende gli individui dalla crisi. in Italia è sempre stato così. E anche nel 2010 i cosiddetti «care giver» (quelli che assitono altre persone gratuitamente) sono aumentate, ma raggiungono sempre meno famiglie. «Le persone che si attivano nelle reti di solidarietà sono aumentate in misura significativa scrivono i ricercatori Dal 20,8% del 1983 al 26% 25 anni più tardi. Di contro sono diminuite le famiglie aiutate (dal 23,3% al 16,9%), soprattutto tra quelle di anziani». Il fatto è che la strututra famigliare si è modificata, parcellizzandosi sempre di più: diminuiscono le persone con cui condividere le cure, il numero di figli diminuisce e i genitori risultano sempre più bisognosi di attenzione.
L’assistenza alle famiglie con anziani viene fornita per lo più dalle reti informali (il 16,2% nel 2009). La quota di quelle raggiunte dal pubblico è di circa la metà (7,9%), mentre arriva al 14% quella a carico del privato. «Nel Mezzogiorno sono state aiutate meno famiglie, per quanto i bisogni siano stati maggiori continuano i ricercatori a causa di una povertà più diffusa, delle peggiori condizioni di salute degli anziani e un maggior numero di disabili». La distanza con il Nord est, regione ad alto livello di assitenza, è ancora aumentata.

l’Unità 24.5.11
Meno risparmi più povertà Italia lontana dall’Europa
Circa un quarto della popolazione sperimenta il rischio di povertà o esclusione. Il risparmio viene eroso, mentre la ripresa è ancora troppo fiacca per creare ricchezza. Giovannini (Istat): Paese vulnerabile.
di Bianca Di Giovanni


Nel biennio della crisi l’Italia ha perso oltre 500mila posti di lavoro, di cui più della metà a sud. Dietro le cifre secche si profila un impoverimento generalizzato del Paese. Stando all’ultimo rapporto Istat «circa un quarto delle popolazione (il 24,7%) sperimenta il rischio di povertà o esclusione». I segnali di una crisi profonda del tessuto sociale e produttivo ci sono tutti: bassa produttività, stallo dell’occupazione, calo del potere d’acquisto delle famiglie, aumento dell’indebitamento. Una condizione che ci allontana dalla media Ue, dove il rischio di povertà è del 23% più basso.
Mezzo milione di giovani under-30 ha perso il posto negli ultimi due anni, e chi ha un lavoro, in un caso su tre, può contare solo su un contratto «debole», a termine o di collaborazione. Nella fascia d’età tra i 18 e i 29 anni sono sfumati 182mila posti di lavoro (l’anno prima erano stati 300mila). In complesso tra i giovani l’occupazione cala 5 volte di più che nella media nazionale. Nel 2010, è occupato circa un giovane ogni due nel Nord, meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno.
Insieme alla precarietà crescono anche i fenomeni di scoraggiamento, tanto che il numero di chi né studia né ha un'occupazione, tra i 15 e i 29 anni, nel 2010 sale ancora, superando quota 2,1 milioni, vale a dire uno su cinque. L’anno prima erano 134mila in meno. Il fenomeno dei cosiddetti Neet (not in education, employment or training) è aumentato nel 2010 soprattutto tra i giovani del Nord-est (area particolarmente colpita dalla crisi economica) e si è diffuso anche tra gli stranieri, altra categoria «debole» che ha pagato un prezzo altissimo alla recessione. Gli immigrati guadagnano in media il 24% in meno degli italiani, e anche quando hanno studiato riescono a trovare solo lavori poco qualificati. La composizione di genere dei Neet è molto interessante. Tra loro, l’87,5% degli uomini vive con almeno un genitore, mentre tra le donne ancora nella famiglia d’origine la quota si ferma al 56%. Insomma, molte «scoraggiate» sono donne sposate o che comunque convivono con un partner con o senza figli. Nel 2010 erano 450mila. Il reddito a disposizione delle famiglie è tornato a crescere nel 2010, dopo una diminuzione l’anno prima. Ma l’aumento dell’inflazione ha comunque ridotto il loro potere d’acquisto di mezzo punto percentuale. Nel 2009 il calo era stato di oltre il 3%. Dunque, nessun recupero, ma ancora retrocessione. Anche la storica propensione al risparmio dell’Italia ha subito uno stop, tornando a livelli di 20 anni fa.
VULNERABILE
Uno scenario sociale di un Paese che, pur essendo uscito tecnicamente dalla recessione, cresce ancora troppo poco per garantire nuova ricchezza alle famiglie. «Il sistema Italia appare vulnerabile, e più vulnerabile di qualche anno fa ha spiegato Giovannini Se, però, alcuni aspetti della situazione attuale appaiono simili ad allora, è anche evidente che per fronteggiare le recenti difficoltà l'economia e la società italiana hanno eroso molte delle riserve disponibili. Ad esempio, le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per sostenere il loro tenore di vita e i vincoli di finanza pubblica rendono minimi gli spazi di manovra della politica fiscale». Per Giovannini l'Italia «ha bisogno di prendere coscienza dei propri problemi e dei propri punti di forza per mobilitare le tante risorse disponibili e accelerare il passo, in tutti i campi». Uno dei ritardi storici del paese riguarda il livello di produttività, che è fermo a 10 anni fa. Il sistema delle imprese mostra reazioni in chiaro-scuro: c’è un drappello di piccole e medie imprese che ha innovato ed è cresciuto, mentre le grandi hanno reagito molto male alla crisi globale.

La Stampa 24.5.11
L’Istat: sono 2,1 milioni i ragazzi che non studiano e non lavorano. In 800 mila senza impiego perché mamme
Crisi, pagano giovani e donne
Redditi in calo: più debiti e meno risparmi per mantenere il tenore di vita
Intervista
“Dove l’istruzione è di qualità migliore il Pil corre di più”
di Tonia Mastrobuoni


Eric Hanushek Sarà ospite oggi del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo

È uno dei maggiori studiosi al mondo del rapporto tra istruzione e crescita economica. Sarà ospite del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia Sanpaolo su «La sfida della valutazione» che si apre oggi a Torino. Ma l’arrivo dell’economista di Stanford Eric A. Hanushek nel giorno del rapporto dell’Istat è l’occasione per allargare il campo dalla stretta analisi sugli effetti benefici dell’istruzione a uno sguardo sul futuro del Paese.
Professore, c’è un rapporto tra la pessima media che risulta ormai ogni anno dai test Pisa Ocse sui rendimenti scolastici degli studenti italiani e il decennio di «crescita perduta», certificata dall’Istat?
«C’è un rapporto chiarissimo che rileviamo da tempo tra i tassi di crescita dei Paesi dell’Ocse e i risultati dei test Pisa. I paesi che fanno meglio, soprattutto nelle scienze, sono quelli che crescono di più. È un grande problema per l’Italia, all’inverso, avere da dieci anni risultati sotto la media Ocse. Se fosse come la Finlandia, i benefici sul Pil sarebbero di 16 miliardi di euro».
Fino agli anni Duemila il sistema scolastico finlandese era considerato pessimo. Adesso è in cima alla lista dei Paesi con i migliori rendimenti. Come ha fatto?
«A mio parere il loro segreto è l’importanza capitale che hanno assegnato alla scuola e al miglioramento dell’insegnamento, in questi ultimi anni. Così sono riusciti a conquistare per le scuole, ad esempio, i laureati migliori».
In Italia non avviene spesso.
«Infatti. E aggiungerei un altro elemento: i sindacati degli insegnanti in Finlandia lavorano assieme alle scuole per migliorare la qualità delle lezioni».
Quindi, come bisogna procedere?
«La prima cosa da fare è misurare il livello degli studenti. Poi bisogna premiare gli insegnanti che fanno bene il loro lavoro e aiutare quelli che non lo fanno bene a trovarsi un’altra occupazione...»
In Italia è inimmaginabile.
Anche negli Stati Uniti c’è un dibattito su questo. È anche un problema culturale, ovvio, oltre che sindacale. Ma per gli Usa abbiamo calcolato che se si sostituisse il 5-10% degli insegnanti peggiori con insegnanti di livello medio, le scuole americane raggiungerebbero la Finlandia. E lo stesso discorso vale per l’Italia. Si tratta di un cambiamento piccolo ma che avrebbe effetti enormi».
Come sono gli insegnanti italiani?
«Mancano troppi elementi per valutarli. Quando è stato fatto, finalmente, negli Stati Uniti, c’è stata una drammatica presa di coscienza su quanto fosse stato importante farlo...» C’è una polemica sull’Invalsi italiano, c’è chi la sta boicottando.
«Lo so. Ma torno a dire che i test misurano cose importanti. Le persone che hanno punteggi più alti guadagneranno di più, nella vita, avranno carriere migliori. Si possono sempre migliorare, ma non bisogna mai dire che i test non contano. È falso».

La Stampa 24.5.11
Rassegnazione, male italiano
di Irene Tinagli


Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.

Repubblica 24.5.11
Il 18,8% di ragazzi in Italia lascia gli studi subito dopo gli anni dell´obbligo e non cerca lavoro. In un anno il numero dei "Neet" è salito di 134.000 unità
Quei sedicenni annoiati che abbandonano la scuola così cresce la marea degli "inattivi": 2,1 milioni
di Maria Novella De Luca


Una generazione rassegnata alla precarietà che non dà nessun valore all´educazione
Gli esperti: "Aprire le aule, siamo l´unico paese che taglia l´istruzione in tempo di crisi"
Il fenomeno della dispersione scolastica è forte anche nelle regioni ricche del Nordest

ROMA - La crisi arriva tra i 16 e i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare faticosa, noiosa, staccata dalla realtà, i prof, poveracci, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe, e il lavoro poi, un miraggio, una chimera, e studiare o non studiare in fondo è lo stesso. Storie di ragazzi che un giorno hanno detto no. Che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe. Di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classe, voti, giudizi. Ma anche le cose belle della scuola, come le gite, gli amici, lo sport. C´è un numero enorme di giovani (il 18,8%) che in Italia continua ad abbandonare gli studi, subito dopo gli anni dell´obbligo, e che a vent´anni, quando si entra nell´età adulta, si ritrova sperduto, senza nulla in mano. Perché se è vero che il diploma conta poco, e la laurea poco di più, non averli vuol dire essere fuori, diventare invisibili, drop out, pronti ad entrare nell´esercito crescente dei Neet, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni, così si legge nel rapporto Istat 2011, che non lavorano, non studiano, non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli sfiduciati. in una parola Neet: not in education, employment or training. In un anno oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
C´è chi si aliena davanti al computer, nello stile degli hikikomori, quegli adolescenti che decidono che il mondo è nella loro camera da letto e nei rapporti virtuali della Rete. Oppure ci sono gli altri. Come Antonio, Camilla, Sharon, Lorenzo: basta entrare in un centro commerciale per trovarli. Passano il tempo guardando le cose, le merci, gli oggetti, ma non spendono, perché i soldi non ci sono, e i pochi a disposizione servono per il cellulare. Eccoli, a Roma, Cinecittà Due, megastore vicino agli storici studi cinematografici, ma loro non ci entrano, meglio l´aria condizionata indoor, la musica diffusa, l´odore di Big Mac. Camilla, 18 anni: «Facevo l´alberghiero, ma ero sempre l´ultima della classe. Mi annoiavo. I professori mi trattavano male. A mia madre hanno detto che non riuscivo ad apprendere. Insomma che ero cretina. Ho lasciato, mi sono iscritta al collocamento, e adesso quando capita faccio la cameriera nei bar... Tanto anche se avessi preso il diploma avrei fatto comunque la cameriera». Diversa (ma uguale) la storia di Lorenzo, che di anni ne ha 17, Ipod nelle orecchie, e fino a gennaio scorso studente del liceo scientifico "Isacco Newton". «I miei genitori dicono che sono pazzo. Che finirò male. Ma io a scuola non ce la facevo più. Non mi interessa. Non mi servirà a trovare lavoro. Mio zio ha un´officina, magari mi aiuta. Però i miei compagni li vedo: li aspetto ogni giorno alle 13,30 all´uscita e ci andiamo a prendere una birra».
Storie normali. Di ragazzi normali. Per i quali però, spiega Milena Santerini, docente di Pedagogia Generale all´università Cattolica di Milano, «la scuola ha perso completamente di significato, la spiegazione non si trova soltanto nei dati economici, nella mancanza di cultura delle famiglie d´origine, è che i giovani non capiscono più il senso di passare tanto tempo tra i banchi, tra professori che utilizzano un linguaggio anni luce lontano dal loro, in una società che anno dopo anno svaluta sempre di più il ruolo della cultura». E una fascia di giovanissimi, forse la più fragile, ormai cresciuta nella rassegnazione al precariato, aggiunge Milena Santerini, «alla prima difficoltà lascia, pensando magari di potercela fare con altri mezzi, in una visione irrealistica di sé e del mondo che li circonda».
Certo, non ci sono soltanto i potenziali Neet tra coloro che abbandonano la scuola. Perché la dispersione scolastica, il fenomeno è noto, è alta e costante anche nelle regioni ricche, dove il lavoro, seppure più scarso, c´è ancora. E allora i teenager del Nord Est mollano e vanno a bottega, racconta lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, che ne ha seguiti diversi nelle industrie del bresciano e del vicentino. «Questi ragazzi non capivano proprio perché continuare a perdere tempo all´istituto tecnico, quando potevano entrare nell´aziendina di famiglia e farsi le ossa, avendo anche un po´ di soldi in tasca. Non ho visto alcuna nostalgia della scuola in loro, ma anzi l´orgoglio di chi ha abbandonato un luogo da ragazzi, con i compiti, i prof, per entrare prestissimo nel mondo adulto... Ma questi sono i "fuggitivi" più fortunati. Chi lascia la scuola e non ha il paracadute del lavoro rischia grosso, rischia la deriva, il branco, rischia di deprimersi e chiudersi in se stesso».
E allora le famiglie corrono ai ripari. «I miei dicono che potrei fare due anni in uno privatamente, mi aiuteranno...». «Siamo l´unico paese in Europa che in tempo di crisi ha tagliato sulla scuola - dice sconfortato un pedagogista famoso, Benedetto Vertecchi - e poi ci meravigliamo se gli studenti se ne vanno. Apriamo le aule il pomeriggio, facciamoli suonare, fare teatro, laboratori, rendiamo la scuola un contenitore di vita e non soltanto di nozioni. I ragazzi non fuggiranno più. Ci hanno provato in Finlandia e il tasso di dispersione è drasticamente crollato. Perché non possiamo provarci noi?».

Repubblica 24.5.11
Alcolismo
Ragazzine dal bicchiere troppo facile
Prima causa di morte per under 24, cresce l´abuso tra le teenager. Ma l´accesso ai servizi per farmaci e psicoterapie resta scarso
Ora è disponibile in farmacia anche un medicinale in fascia A (ovvero gratis)
di Emilio Radice


«L´abuso di alcol è un grande problema, eppure nessuno dice nulla sul fatto che ogni giorno anche i giovanissimi vengono raggiunti da almeno dieci minuti di pubblicità che ne incentiva il consumo». Ad affermarlo non è uno qualunque ma il professor Mauro Ceccanti, docente di metodologia clinica e di semeiotica medica presso l´Università La Sapienza di Roma, nonché responsabile del Centro di riferimento alcologico della Regione Lazio. Poi il professor Alfio Lucchini, psichiatra, presidente nazionale della Federserd (l´associazione che rappresenta gli operatori dei Sert) aggiunge le cifre: «In Italia muoiono ogni anno circa 30.000 persone a causa dell´alcol, e l´alcol è la prima causa di decesso fra i giovani sotto i 24 anni. Secondo le stime dell´Istituto superiore di Sanità sono a rischio di abuso alcolico il 18,5% dei ragazzi e il 15,5 delle ragazze sotto i 16 anni di età. E, attenzione, la diffusione dell´alcol nella popolazione femminile non solo è in aumento ma avviene prevalentemente nell´età adolescenziale».
Sono dati e cifre che allarmano, diffuse in occasione di un recente incontro organizzato dalla casa farmaceutica Merck Serono per ufficializzare l´ingresso in fascia A di un prodotto, l´Acamprosato, da utilizzare nel contrasto alla alcol-dipendenza. Dunque, anche per l´alcol al pari di altre sostanze che creano dipendenza, si conferma la linea di considerare l´abuso cronicizzato non più come una devianza comportamentale ma, piuttosto, come una vera e propria malattia, da curarsi con tutti i mezzi a disposizione, farmaci compresi. Perché - come ha spiegato il professor Ceccanti - ogni uso, e a maggior ragione ogni abuso, esce alla fine dalla sfera dei comportamenti volontari, entra in profondità nella fisiologia del nostro corpo, ne modifica a volte in modo irreversibile gli equilibri e arriva persino a incidere sulla struttura genetica. Un esempio banale? Circa il 50% delle popolazioni orientali non può bere alcol perché sprovvista degli enzimi che metabolizzano l´acetaldeide. Insomma, come il precetto islamico di rifiuto dell´alcol ha prodotto tale incompatibilità genetica, così pure, al contrario, un consumo alcolico abituale produce l´effetto contrario. Insomma il dna - ha aggiunto il docente - non può essere considerato come una fotografia fissa e inalterabile dell´individuo». E l´abuso crea disastri, da combattere sia con psicoterapie che con medicine.
Ne dovrebbe derivare anche un approccio culturale, e politico, diverso verso tutto il tema tossicodipendenze. Ma, purtroppo, oltre la sfera specialistica e medica più informata - come ha spiegato Lucchini - il caos determinato dall´intreccio di competenze è incredibile: sopra e prima dei malati e dei medici ci sono, ognuno con i suoi delegati ad hoc, la Presidenza del Consiglio, il ministero della Salute, quello dell´Interno, quello dei Trasporti, le Regioni, i Comuni�risultato: «In Italia almeno un milione di persone ha bisogno di essere curata subito, adesso, e invece presso i nostri servizi alcologici - spiega il professor Lucchini - sono in trattamento non più di centomila pazienti, di cui solo 23mila anche con medicine». Cosa bisognerebbe fare nell´immediato per organizzare una risposta più efficace? «Bisogna migliorare gli accessi ai servizi».
E qui siamo tirati in ballo un po´ tutti, perché alla porta di un centro di trattamento anti-alcol si arriva per varie strade, fra cui la prima è la famiglia, poi i medici di base, poi la scuola� Ma occorre sensibilità e informazione, perché il pericolo è diffuso e dissimulato fra di noi. Si calcola che in Europa fra i 5 e i 9 milioni di bambini vivono in famiglie con problemi di alcol. Ma, dato ancor più preoccupante, sta aumentando in modo impressionante l´abuso di alcol fra i giovanissimi, associato ad altre droghe (soprattutto cocaina e amfetamine) e alla dipendenza da comportamenti compulsivi. «L´alcol - conclude Lucchini - ha un effetto fasico, eccitativo/sedativo, e come modulatore dei comportamenti ben si sposa con problematiche tipiche dei nostri tempi, come la dipendenza da Internet, lo shopping compulsivo, il gioco d´azzardo».

La Stampa 24.5.11
Milano
In un anno 6000 aziende fondate da musulmani
Crescita vertiginosa, doppia rispetto a quella assicurata dagli italiani
di Fabio Poletti


Silvio Berlusconi ha ragione ma sbaglia mira. Non è Giuliano Pisapia a volere una moschea in ogni quartiere di Milano. E’ il cardinale Dionigi Tettamanzi: lo ha detto il 6 dicembre del 2008 in occasione del discorso alla città per Sant’Ambrogio: «C’è bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della città, specie per le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam». Lo ha detto nel 2008 e lo ripete da allora, una convinzione che si è fatta ancora più forte dopo quella estemporanea preghiera in faccia al Duomo di un centinaio di musulmani, il 4 gennaio di due anni fa. Perché a Milano dove Umberto Bossi teme possa venire costruita la «più grande moschea di Europa», per ora di moschee non ce n’è nemmeno una. I tre centri islamici più attivi - via Porpora, viale Jenner, via Quaranta - non sono luoghi di preghiera. I musulmani dopo essersi inginocchiati all’Arena, al Palasharp, in qualche sottoscala, nella vicina moschea di Segrate sul confine tra Milano e la Milano 2 di Silvio Berlusconi, aspettano ancora di sapere dove possano riunirsi in santa pace per celebrare le loro funzioni.
Nel programma di Giuliano Pisapia si parla della necessità di costruire «un grande centro di cultura islamica che comprenda, oltre alla moschea, spazi di incontro e di aggregazione». Un po’ più generico di quanto già deciso dalla Giunta di Letizia Moratti nel Piano di governo del territorio approvato di fresco. Che possa piacere o meno, la necessità di un centro religioso islamico sembra evidente. Non fosse altro che a Milano e provincia ci sono 371 mila 670 extracomunitari censiti nel 2008 e oltre 40 mila clandestini. Quelli che spaventano di più non devono però essere i fedeli dell’Islam. Ma quei 19 mila e 425 extracomunitari denunciati e 6 mila e 25 arrestati nel 2006 - l’annus horribilis della criminalità a Milano - per rapine, furti in casa e stupri. Praticamente i due terzi dei responsabili di reati in città. Anche se allora questi numeri non sembravano preoccupare troppo il Prefetto Gian Valerio Lombardi: «Stiamo come in Europa, se non meglio».
Perché se gli extracomunitari che delinquono sono tanti, quelli che fanno girare l’economia anche in tempi di crisi sono molti di più. A Milano le imprese crescono al ritmo dell’1,8% all’anno. Quelle gestite da extracomunitari crescono del 3,2%, quasi del doppio. E tra le 17 mila aziende gestite da stranieri gli egiziani, presumibilmente musulmani, sono i più attivi con 4344 imprese, seguiti dai cinesi con 2675 e dai marocchini anche loro fedeli di Allah con 1438. Dal 2000 a oggi le aziende di ristorazione etnica sono cresciute del 72% in tutta Italia, del 147% in Lombardia, secondo la Camera di Commercio a Milano. Tanto che in città il 20% dei ristoranti sono gestiti da stranieri, come il 43% delle gastronomie, il 34% dei punti vendita ambulanti, il 15,5% delle macellerie, il 10% dei bar. Il loro lavoro a livello nazionale - secondo Banca d’Italia - vale 35 miliardi di euro l’anno, il 3,2% del Pil.
Ma se gli extracomunitari producono tanto, non è detto che siano i primi a beneficiare del loro lavoro. Secondo l’Istat il 42,3% degli immigrati svolge una mansione inferiore al loro grado di istruzione, guadagna il 24% in meno degli italiani che diventa il 30% se si calcolano le sole migranti donne. In compenso secondo l’Istat dal 2009 a oggi l’occupazione degli stranieri è aumentata di 183 mila unità ma «in più della metà dei casi in professioni non qualificate». Non solo il loro lavoro fa girare l’economia ma rimpingua le casse dell’Inps garantendo la pensione agli italiani. Gli extracomunitari in pensione erano in tutta Italia 96 mila nel 2007, destinati a diventare 252 mila nel 2015. Ma secondo la Caritas gli iscritti obbligatoriamente all’Inps erano 1 milione e 400. Segno che molti di loro dopo aver versato i contributi non percepiranno la pensione, perché faranno ritorno nel loro Paese. L’Inps ringrazia di certo. I pensionati italiani pure. Non si hanno invece conferme se, come sostiene l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio, «i fondamentalismi islamici, in primis Al Qaeda e lo stesso Al Zawahiri sarebbero felicissimi se Pisapia diventasse sindaco. E’ come se sul Duomo sventolasse la bandiera islamica».

Corriere della Sera 24.5.11
«In seminario accadevano cose terribili»
di Erika Dellacasa

qui
http://www.scribd.com/doc/56128346

il Fatto 24.5.11
“Un’infame emergenza non ancora superata”
Pedofilia, la Chiesa studia come collaborare con la giustizia civile. Nuova accusa per don Seppia
di Giovanna Gueci


“Linee guida” contro la pedofilia dei preti. È questo – spiega il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, in apertura della 63° Assemblea Generale dell’Episcopato Italiano – l’obiettivo a cui anche il nostro Paese lavorerà per far fronte a quella che lo stesso Bagnasco non esita a definire “l’infame emergenza che la Chiesa italiana è impegnata a fronteggiare e che non è stata ancora superata”. E per l’Italia, è ancora Bagnasco a rivelarlo, proprio su questo fronte è al lavoro da più di un anno su mandato della Presidenza Cei, un gruppo interdisciplinare di esperti. “L’esito dei lavori – promette il presidente della Conferenza Episcopale Italiana – sarà presto portato all’esame dei nostri organismi statutari”.
Un lavoro sul quale è stato mantenuto il riserbo e che dovrà aiutare i singoli vescovi - responsabili a trattare i delitti di abuso sui minori - nella salvaguardia delle vittime e delle loro famiglie, ma che servirà soprattutto a chiarire una volta per tutte la collaborazione con gli inquirenti, resi quasi sempre impotenti dalla procedura tutt’ora in vigore: quella che prevede, a fronte di un episodio di pedofilia, la richiesta di indagine canonica da parte del vescovo direttamente all’ex Sant’Uffizio, senza una comunicazione alla Cei.
L’esigenza sembra essere quella di allinearsi alle Conferenze episcopali nel mondo, ma soprattutto di poter costituire una “banca dati”, attraverso la raccolta di informazioni a livello nazionale, la denuncia di eventuali connivenze religiose e la collaborazione con la giustizia civile.
OGNI PAESE, comunque, non solo l’Italia, dovrà, attraverso le rispettive Conferenze Episcopali, rendere compatibili con la propria legislazione nazionale le Norme emanate il 21 maggio 2010 per aggiornare il “motu proprio” di Benedetto XVI “Sacramentorum sanctitatis tutela” del 30 aprile 2001, fino a raggiungere, entro il maggio 2012 (così chiede la circolare della Congregazione della dottrina per la fede della scorsa settimana) un orientamento comune all’interno di ogni Conferenza Episcopale nazionale.
L’intervento del cardinal Bagnasco (un “fuori programma” rispetto all’ordine del giorno dei lavori della Cei, riunita fino a venerdì) segna una forte inversione di tendenza proprio in ambito episcopale, perché, anche in assenza di un monitoraggio del fenomeno, non lascia spazio a numeri e statistiche: “Anche un solo caso sarebbe troppo – afferma Bagnasco –. Quando poi i casi si ripetono, lo strazio è indicibile e l’umiliazione totale. I danni a giovani vite e alle loro famiglie sono incalcolabili e a loro non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”.
Parole accorate, inequivocabili, che arrivano insieme alla decisione della Procura di Genova di contestare a don Riccardo Seppia (il parroco di Genova arrestato con le accuse di violenza sessuale su minori e cessione di stupefacenti) il reato di induzione alla prostituzione. La nuova contestazione è nata dopo le dichiarazioni di un ragazzino egiziano, che ha detto agli inquirenti di aver partecipato a un’orgia con il parroco e con un altro minorenne albanese e di aver ricevuto per questo rapporto del denaro. Il sacerdote nega l’accusa, che lo vede coinvolto insieme al suo amico ed ex seminarista Emanuele Alfano, 24 anni, accusato a sua volta di favoreggiamento e induzione alla prostituzione.
   IL PRESIDENTE dei vescovi italiani, che anche in veste di arcivescovo di Genova, era andato a presentare personalmente la sua solidarietà alle vittime e a tutta la comunità parrocchiale di don Seppia la sera stessa dell’arresto, ha ribadito “il grido amaro che già è risuonato nel-l’assemblea dello scorso anno: sull’integrità dei nostri sacerdoti non possiamo transigere, costi quel che costi”. Anche se, ha voluto concludere, questi crimini che pure sono commessi da uomini di Chiesa, non sono connotativi della Chiesa, come qualcuno vorrebbe sostenere. “Le ombre, anche le più gravi e dolorose, non possono oscurare il bene che c’è”. Tempestivamente la Curia Generalizia dei salesiani si è affrettata a condannare le dichiarazioni del vice provinciale della Congregazione per l'Olanda, padre Herman Spronck, che ha sostanzialmente difeso in un’intervista un suo confratello, il quale ritiene accettabile la pedofilia e ha militato in un movimento a suo favore.

La fuga di Antonione
di Alessandra Longo


Tanto giù di umore che volentieri farebbe a meno degli ultimi appuntamenti elettorali prima del voto. Così descrivono Roberto Antonione, candidato sindaco per il centrodestra a Trieste, e beniamino del premier. Difficile reggere il secondo tempo della competizione quando il primo round è finito 27 a 40 a favore di Roberto Cosolini, il candidato del centrosinistra. Antonione non è riuscito a fare nessun apparentamento e si è parecchio irritato. Davvero surreali le foto diffuse da «Il Piccolo». L´ex sottosegretario di due governi del Cavaliere viene sorpreso nel cuore della città vecchia dopo l´infruttuoso incontro con il leader di una lista locale che detiene l´undici per cento dei voti, (e poteva forse rimetterlo in gioco). Vede le telecamere e scappa. Un´autentica corsa a gambe levate, come un rapinatore dopo un colpo.

il Fatto 24.5.11
I Radicali denunciano in Procura l’invasione in tv del Cavaliere


Ieri mattina Emma Bonino e Marco Cappato hanno depositato una denuncia alle Procure della Repubblica di Roma e di Milano “contro Berlusconi e i direttori dei Tg che venerdì 20 maggio hanno trasmesso le pseudo-interviste registrate del presidente del Pdl”. Nell’esposto i Radicali rilevano come “gli interventi di Berlusconi nei Tg siano, per temi trattati, scenografia con tanto di simbolo elettorale alle spalle e montaggio del registrato, dei veri e propri spot elettorali assolutamente vietati nei notiziari”. Nell’esposto si evidenzia come, “se fosse stato Berlusconi a pretendere dai direttori dei telegiornali, mediante costringimento o induzione determinato dalla sua qualità, la contestuale messa in onda di questi spot, non ci sarebbe nulla di diverso - per la struttura della condotta, le qualità soggettive dei protagonisti e le evidenti utilità di cui ha beneficiato il presidente del Pdl - dalla concussione che i Pm di Milano hanno contestato al premier allorquando contattò telefonicamente il questore per far affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti, in contrasto con le norme di settore. Qualora invece i direttori dei tg fossero stati pienamente consenzienti e compartecipi allora sarebbe abuso d’ufficio”.

Corriere della Sera 24.5.11
La mente umana: siamo tutti animali razionali ma non troppo
di Maria Teresa Cometto


S appiamo che ci farebbe bene seguire una dieta sana, decidiamo di farlo, ma presto torniamo ad abbuffarci di junk food. I nostri risparmi sono stati bruciati dalla Bolla di Internet nel 2000, dalla Bolla immobiliare nel 2008, eppure oggi corriamo ancora a investire a qualsiasi prezzo in una dot. com di moda come Linkedin. E che dire degli uomini di potere che non sanno calcolare costi-benefici del dar sfogo alle loro pulsioni e per dieci minuti di piacere si rovinano la carriera? Le teorie classiche della razionalità non sanno spiegare perché gli uomini spesso si comportano in modo apparentemente contrario ai loro interessi. Ma negli ultimi dieci anni — da una parte per la spinta di eventi come lo scoppio delle bolle speculative in borsa e dall’altra grazie all’evoluzione di nuove discipline come la neuroscienza — è esploso un nuovo filone di ricerca, che parte dal concetto di «razionalità limitata» , introdotto per la prima volta dal Nobel per l’economia Herbert Simon (premiato nel 1978 e scomparso nel 2001). Quali sono gli sviluppi di questi studi nei campi più diversi — psicologia, filosofia, economia — e quale impatto possono avere sul futuro di quest’ultima disciplina, è stato il tema di un seminario all’Istituto italiano di cultura di New York. È stato il debutto pubblico della Herbert Simon Society, il club che raccoglie i principali economisti e studiosi di scienze cognitive del mondo, fondato due anni fa da Riccardo Viale, direttore dell’Istituto oltre che professore di Metodologia delle scienze sociali all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Fondazione Rosselli di Torino. Proprio nel capoluogo piemontese si terrà l’anno prossimo una conferenza internazionale sugli stessi temi; ieri si sono confrontati personaggi del calibro di Daniel Kahneman, secondo psicologo dopo Simon a ricevere il Nobel per l’economia; il pioniere dell’intelligenza artificiale Edward Feigenbaum, professore di Computer science alla Stanford University; l’economista della Luiss Massimo Egidi e il neuroscienziato dell’Università di Parma Giacomo Rizzolatti, famoso per aver scoperto i «neuroni specchio» , base fisiologica per spiegare perché proviamo empatia per i nostri simili, cioè sappiamo metterci nei panni degli altri. «Il concetto di razionalità limitata è spiegato dalla metafora delle forbici di Simon— ha detto Viale — una lama è la natura del nostro modo di ragionare e prendere decisioni con tutti i limiti di tempo e dati disponibili, l’altra lama è la natura dell’ambiente in cui prendiamo le decisioni. A volte la prima lama si combina bene con la seconda e le forbici della razionalità funzionano, altre volte non succede. Dipende dalla nostra capacità di adattarci all’ambiente» . Molti gli interrogativi aperti, con conseguenze anche sul piano politico. L’economia comportamentale, per esempio, cerca di misurare in modo diverso dal Pil, il prodotto interno lordo, il benessere degli individui e della società e di proporre strategie per aumentarlo con l’aiuto della psicologia. «Ma qual è il criterio oggettivo per questa misurazione?— si è chiesto Kahneman. Non lo sappiamo ancora. Dai miei esperimenti emerge che è molto diverso partire dall’osservazione di come la gente vive, minuto per minuto, piuttosto che da come la gente pensa di vivere o si ricorda delle esperienze fatte» .

Corriere della Sera 24.5.11
Dialoghi a Pistoia sulla natura umana
L’illusione di manipolare il corpo
Lo sforzo ridicolo di cancellare i segni del tempo. Trascurando lo spirito
di Marc Augé


Anticipiamo una sintesi del testo della conferenza sul tema «Quando il corpo parla» , che l’antropologo Marc Augé terrà sabato 28 maggio a Pistoia, in piazza del Duomo (ore 21), nell’ambito della manifestazione «Dialoghi sull’uomo» , che è in programma nella città toscana da venerdì 27 a domenica 29 maggio. Questa seconda edizione dell’evento, ideato e diretto da Giulia Cogoli, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia, è intitolata «Il corpo che siamo» . Partecipano tra gli altri: Umberto Galimberti, Marco Aime, Carlo Petrini, David Le Breton, Roberta De Monticelli, Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Stefanie Knauss.

In Togo, ho assistito a numerose sedute di «possessione» e ho creduto di potervi scorgere un rapporto particolare con il tempo. Quando infatti i pensionanti di un convento cominciano a danzare seguendo il ritmo imposto dai colpi dei tamburi, non si sa su quale cadrà una divinità, un vodun, per «cavalcarlo» e sconfiggerlo. Nella regione di Anfouin, nei conventi c’erano soltanto ospiti donne, ma era un fenomeno recente e altrove si trovavano ancora pensionanti maschi. Uomini o donne che fossero, erano tutti vodunsi, cioè «donne del vodun» . La metafora sessuale era esplicita, così come quella della cavalcatura e del cavaliere. La donna era posseduta e poteva entrare in uno stato di trance più o meno pronunciato: ma quando ne usciva e ritornava in sé, almeno ufficialmente aveva dimenticato tutto di quell’episodio. Questa necessità dell’oblio è attestata dovunque: è uno dei criteri determinanti dei fenomeni di possessione, che li distingue radicalmente dal sogno di cui, al contrario, è auspicabile conservare nella memoria anche i minimi particolari. Tuttavia era possibile anche un’altra lettura della possessione che corregge la metafora del cavaliere e della sua cavalcatura: in essa scorge soltanto un’immagine, perché in realtà il vodun si trova nel rene del posseduto e nel momento della possessione gli sale nella testa. Ora, se si accosta quest’osservazione a tutte le indicazioni che presentano gli dèi, i vodun, come uomini antichi, antenati, non si può che essere sensibili alla nostalgia che li induce a riprendere possesso di un corpo da cui forse non sono mai stati del tutto assenti. Ma il vodun non è una persona semplice, spesso assomma in sé molteplici identità ed entrambi i generi. Inoltre bisogna fare molta attenzione al fatto che non è mai la totalità della persona che ritorna nel corpo di un vivente. È soltanto una parte, certamente essenziale, ma che ha appunto bisogno di un corpo e di pochi altri elementi per rifare una persona completa. La possessione ideale, insomma, è quella in cui si è posseduti solo da se stessi, e non spossessati da se stessi, ma alla riconquista del proprio passato più lontano. Se l’oblio s’impone dopo la possessione, allora, non è perché non ci si può ricordare lla presenza di un altro in sé, ma al contrario perché non bisogna credersi un dio troppo a lungo, cioè non bisogna tollerare in sé la presenza di un morto. Di tanto in tanto si ascoltano dotte discussioni sugli effetti e sul ruolo della possessione. In Brasile, nei culti consacrati ai caboclo dai fedeli dell’umbanda, questi erano abbastanza evidenti: la celebrazione settimanale dava un orizzonte festivo alla routine quotidiana. Tutte le donne, di modestissima estrazione, che nella vita quotidiana si vestivano in maniera più o meno funzionale, in occasione delle sedute si trasformavano in reginette di bellezza: l’abbigliamento da possessione era particolarmente elegante, il trucco curato. E quando i corpi si accasciavano, oppure si dibattevano, quando le donne che non erano ancora entrate nel gioco della possessione venivano in aiuto alla loro compagna, il carattere sensuale dello spettacolo era avvertibile da tutti Appena sopraggiungeva il momento dell’arrivo del caboclo, nell’istante stesso in cui s’impadroniva del corpo della sua «cavalcatura» , esplodeva un applauso generale. La performance proseguiva, e dal quel momento in poi era attribuita al caboclo, che poteva discorrere e danzare fino a quando i canti si spegnevano, i corpi si placavano, la rappresentazione si concludeva, e si passava ai pasticcini. Ma i caboclo non andavano via subito: restavano ancora un po’ per partecipare alla festa e al banchetto. Una sera, ho chiacchierato con una donna della quale sapevo che sua figlia, scolara mediocre, le dava qualche preoccupazione. Ma in realtà quello che conversava con me era il suo caboclo, non ancora andato via. Abbiamo bevuto qualcosa insieme ed egli mi ha confidato, ricorrendo alla solita metafora: «Il mio cavallo è molto seccato; ha dei problemi con sua figlia…» , prima di scendere nei particolari. Una o due volte, la mia interlocutrice è stata sul punto di sbagliarsi e dire «io» anziché «lei» , ma si è ripresa, e di lì a poco è arrivata la fase finale, quella in cui la posseduta torna in se stessa, e deve per forza dire di aver dimenticato tutto. A quel punto abbiamo potuto passare a parlare della figlia che andava male a scuola, come se non avessimo ancora affrontato l’argomento. Tutte le esperienze di possessione hanno alcuni tratti comuni. Postulano una continuità fra via e morte, dèi e antenati, identità e alterità, che corrisponde a un mondo dell’immanenza in cui il corpo umano, superficie su cui si iscrivono segni decifrabili dagli specialisti, è portatore di messaggi che occorre saper decifrare per sopravvivere come individui o come collettività. La malattia e la morte stessa sono dei segni. La possessione è un segno provocato. Il sogno è una ricerca di segni. La nascita stessa è portatrice di segni che peseranno sul destino dell’individuo. Nel mondo dell’immanenza si passa il tempo a decifrare l’ineluttabile. In un certo senso si potrebbe pensare che l’interpretazione dei segni affretti l’avvento del destino, proprio come al contrario i rituali detti di inversione possono scongiurare le grandi catastrofi. Ma d’altra parte si vede bene che ciò che è scritto è scritto, o, più precisamente, che tutto ciò che accade era scritto; se la lettura retrospettiva è nondimeno importante, è perché dimostra che l’avvenimento non è stato pura contingenza, che tutto resta nell’ordine. Questo incessante richiamo all’ordine delle cose può eventualmente risultare tragico per i singoli, ma al tempo stesso relativizza la portata delle vicende individuali e suggerisce che tutto può sempre ricominciare e che nulla, neanche la morte, è mai definitivo. Si potrebbe dire che oggi, nelle aree più privilegiate del pianeta globale, ci sforziamo di far produrre al corpo umano i segni che idealmente gli assicurerebbero l’eterna giovinezza, o più modestamente l’eccezionale longevità che da lontano può sembrarne l’equivalente. Agiamo quindi all’indietro rispetto alla logica degli africani: per mezzo di diete e di interventi d’ogni genere, creiamo noi stessi i segni per non doverli interpretare. Questo sforzo un po’ ridicolo si ricollega alla grande intuizione che si trova al cuore di tutti i miti, in tutte le pratiche rituali: noi non siamo altro che il nostro corpo. Ma di questa intuizione ignora la conseguenza più saggia, e cioè: accettiamo il nostro corpo così com’è, accettiamo il passare del tempo. E non dimentichiamo il detto scientifico che riecheggia l’intuizione pagana: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. (Traduzione di Marina Astrologo)

Corriere della Sera 24.5.11
Se antisemitismo fa rima con islamofobia
di Luigi Manconi e Tobia Zevi


La provvisoria vittoria dell’America di Obama su Al Qaeda, celebrata nell’immenso cantiere di Ground Zero, non può cancellare i molti detriti di quella tragedia tuttora presenti nelle società occidentali. Anche sotto la forma antica dell’ansia da complotto e del sospetto verso i possibili autori. A partire dalla fobia antisemita: gli ebrei si sarebbero tenuti lontani dalle Torri Gemelle in quel fatidico undici settembre, perché informati dell’attacco, se non coinvolti in esso. Da quel giorno, poi, l’islamofobia si è nutrita della minaccia del terrorismo, della confusione tra straniero e musulmano, della presunta inadattabilità (meglio: inconciliabilità) dell’Islam rispetto ai costumi occidentali. Quella data fornisce dunque una suggestione importante: anti-semitismo e anti-islamismo, diversi per storia e contenuto, hanno molti punti di contatto. Un sentimento che ha attraversato tragicamente la storia europea e un’ostilità che negli ultimi anni ha preso quota con particolare veemenza e capacità di diffusione. Secondo una ricerca recente, commissionata dal comitato torinese «Passatopresente» (discussa lunedì 16 maggio alla Camera dei deputati, tra gli altri da Gianfranco Fini e Adriano Prosperi), la sovrapposizione tra i due fenomeni all’interno della società italiana risulta tanto intensa da apparire sorprendente. Sono le stesse persone a provare avversione, più o meno accentuata, verso ebrei e musulmani, una maggioranza di intervistati che si riconosce in alcuni connotati specifici (etnocentrismo, autoritarismo, sfiducia). L’islamofobia sembra oggi più capillare e radicata dell’antisemitismo, sempre più concentrato su Israele e sul conflitto israelo-palestinese che non sugli stereotipi classici dell’antigiudaismo europeo e cristiano. Le due pulsioni sono trasversali agli orientamenti politici: anche a sinistra è fortissima la diffidenza nei confronti dei musulmani, mentre a destra non manca una fetta consistente che si dichiara favorevole allo Stato d’Israele, ma che rivela tracce preoccupanti di antisemitismo. Si evidenziano, inoltre, alcuni meccanismi comuni. Sia l’Islam sia l’ebraismo godono di una simpatia maggiore rispetto ai singoli membri delle due comunità, il che contraddice l’ipotesi ottimista per la quale il pregiudizio va sradicato moltiplicando le occasioni di incontro. Non sempre è così. Peraltro, la parte più consistente del campione intervistato è persino favorevole alla costruzione delle moschee, bersaglio di molta agitazione xenofoba. La maggioranza degli italiani ritiene che le due tradizioni siano state importanti nella costruzione dell’identità europea, ma crede che i due gruppi siano tendenzialmente chiusi (pertanto disponibili al complotto) e conservatori, poco affidabili sul piano della lealtà nazionale, sfruttatori della loro condizione di vittime, e ne teme la dimensione non stanziale. Tutto ciò induce a una breve considerazione politica. La destra, che tende a blandire l’ostilità nei confronti di stranieri e musulmani, si trova oggi a dover «sorvegliare» un sentimento talmente diffuso da rivelarsi non più solamente incivile, ma addirittura pericoloso, nel momento in cui l’afflusso straordinario di persone dal Nord Africa deve essere comunque gestito. Ma anche la sinistra deve fare i conti con quel fenomeno: sebbene l’insieme degli elettori la consideri meno affidabile nell’affrontare il tema dell’immigrazione, la maggioranza di chi sceglie quella parte politica coltiva un pregiudizio radicato nei confronti dei musulmani (e, per altro verso, di Israele). Un bel grattacapo per tutti.
Luigi Manconi: A Buon Diritto onlus
Tobia Zevi: Associazione di cultura ebraica Hans Jonas