l’Unità 21.5.11
Il segretario Pd vede la «deriva bielorussa». E lamenta l’intervento «a babbo morto» del garante
L’Usigrai «Trasmesso un comizio scandaloso del premier». I consiglieri dell’authority: «Regole violate»
Bersani: «Incredibile diluvio mediatico. L’Agcom che fa?»
di Claudio Visani
Bersani dice no all’invasione televisiva di Berlusconi, annuncia per oggi un sit-in davanti all’Agcom e sfida il premier a un confronto a Ballarò. «A Milano vinceremo e nel Paese non so se la destra è ancora maggioranza».
Fiducia nei ballottaggi a Milano, «dov’è in corso una grande riscossa ci-
vica», e anche a Napoli, «dove si può vincere». Sfida a Berlusconi e alla sua «invasione televisiva». Bersani attacca il premier da Bologna, dove ieri pomeriggio ha presentato il suo libro-intervista “Per una buona ragione”. E annuncia per oggi «un sit-in davanti alla sede dell’Agcom, perchè non è accettabile che l’Autorità garante si riunisca mercoledì, a babbo morto», per valutare se il premier «possa intervenire a trasmissioni televisive e nei tg nazionali sui ballottaggi». In serata, il leader Pd rincara la dose: «Abbiamo assistito ad un incredibile diluvio mediatico del premier quasi a schermo unificato. Una vicenda insostenibile che umilia la coscienza democratica del Paese». «Non è accettabile che i cittadini di Milano, Napoli, Trieste e tante altre città vedano la loro libera scelta sull'amministrazione della loro città inficiata dalla vergognosa propaganda di chi dovrebbe essere impegnato a dare risposte ai problemi dell' Italia. Non è possibile che l'Autorità garante delle comunicazioni attenda oltre per intervenire con fermezza e non con i pannicelli caldi di blande misure ex post». «Se Berlusconi vuole discutere di elezioni in tv, a Ballarò o dove vuole lui lo sfida il segretario del Pd benissimo, andiamoci insieme, confrontiamoci io e lui, sono disponibilissimo». Diversamente «le tivù invitino i candidati», non concedano passerelle a chi non c’entra col voto delle comunali.
L’Agcom finisce nel mirino di tutte le opposizioni. «Il comizio di Berlusconi al Tg1 è semplicemente scandaloso», afferma Carlo Verna dell’Usigrai.
Foto di Giuseppe Giglia/Ansa
«I giornalisti della Rai hanno una loro dignità e si dissociano apertamente da questo uso spregiudicato e folle di una risorsa di tutti». Quattro commissari dell’Autorità garante sulle Comunicazioni reagiscono: «In diversi tg è stata messa sotto i piedi ogni minima regola di corretta informazione e violata in maniera macroscopica la par condicio. Si ricorda tra l'altro che i videomessaggi sono già stati proibiti», affermano Michele Lauria, Nicola D'Angelo, Sebastiano Sortino e Gianluigi Magri. «Per questo abbiamo chiesto una riunione urgente della Commissione servizi e prodotti dell'autorità dell'Autorità (che si occupa della par condicio)». D'Angelo, ha anche inviato una lettera al presidente Corrado Calabrò per sollecitare la vigilanza da parte dell'Autorità. In periodo elettorale, la Commissione può essere convocata ad horas ed è probabile che la riunione venga anticipata a lunedì.
Non è l’unica sfida che Bersani lancia da Bologna al Cavaliere. Ai giornalisti che gli chiedono un commento sulla tesi di Berlusconi che Pdl e Lega sarebbero maggioranza nel Paese, risponde: «Io dico di no. Se vuole verificarlo, quando è nel comodo andiamo a votare e vediamo chi ha la maggioranza». E su Milano, dove il premier vede troppe bandiere rosse, dice: «Oh, poverino, com’è sensibile. La faziosità politica l’hanno sollevata loro, ma il tentativo di mettere in un angolo Pisapia fallirà. Milano ha già risposto con il voto del primo turno. Se un sindaco ha governato bene non prende il 40%» contro il 48% del suo sfidante». «Io avevo detto ai milanesi qualche tempo fa: vinciamo facile scherza Bersani mi hanno guardato come fossi un marziano. Ma ora la riscossa civica è in atto. Noi la sosteniamo. Vinceremo a Milano».
Poi commenta la vittoria di Virginio Merola a Bologna. «L’avevo previsto che si poteva vincere al primo turno». E alla Lega che aveva ironizzato sulle origini meridionali di Merola: «Attenti Tremonti e Maroni, in Europa i terroni siete voi».
Il loro modello è il pedofilo sessantottino Daniel Cohn Bendit...
«Per anni l’errore fondamentale è stato schierarsi a sinistra sempre e comunque»
Corriere della Sera 21.5.11
I Verdi: basta con la sinistra sempre e comunque Bonelli lancia la Costituente ecologista
di Paolo Conti
Addio, estrema sinistra divoratrice. Addio, schieramento ideologico a priori che per tanti (troppi) anni ha cancellato l’autonomia del movimento Verde italiano schiacciandolo solo e soltanto verso una parte. Oggi e domani a Roma si tiene la prima Convention nazionale della Costituente ecologista. Il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, annuncia una autentica svolta: «Prima di tutto stupiremo molti parlando di politica monetaria, economica e industriale. Abbiamo compreso che nessuna proposta ecologista e ambientalista è credibile e verosimile se non è accompagnata da un’altra e parallela proposta, quella di un modello di sviluppo non semplicemente contestatario. Approccio che ci ha danneggiato molto in passato» . Un’autocritica chiara, una gran voglia di chiudere con un passato soffocante proprio perché ideologico. Bonelli, classe 1962, anticipa anche un altro cambiamento, quello generazionale: «Ci saranno moltissimi giovani, del mondo universitario e non solo. Proprio lo sblocco generazionale, e io per primo sono pronto a cedere il testimone, consentirà di dar vita a un movimento ecologista sganciato dai vincoli del passato» . I vincoli sono chiari: «Per anni l’errore fondamentale è stato schierarsi a sinistra, solo e soltanto, punto e basta, senza mai discutere. Invece certe idee forti legate al futuro di questo Pianeta, e quindi dei nostri figli, uniscono trasversalmente destra e sinistra. Anzi, dirò che su certi temi a sinistra trovo sempre più conservatori mentre a destra, dove penseresti di incontrarli, scopri invece una richiesta radicale di trasformazione. Sono convinto per esempio che Berlusconi non voglia il referendum sul nucleare e sull’acqua perché sa bene che il suo elettorato voterebbe come lui non vorrebbe» . Oggi alla Costituente, proprio nel segno della distanza dall’ideologia, parteciperà un mondo molto variegato: Dacia Maraini, il ricercatore Mario Tozzi, lo scrittore Michele Doti, il comico Giobbe Covatta, il presidente del Wwf Stefano Leoni, il presidente Slow Food Italia Roberto Burdese, il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza e una task force di sindaci ecologicamente virtuosi: Domenico Finiguerra, sindaco di Lugagnago (tra il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud di Milano), Enzo Cenname (sindaco di Camigliano), Marco Boschini (Colorno). L’addio alla sinistra «sempre e comunque» piace molto a chi ha scritto molte pagine della storia del movimento ecologista. Per esempio a Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia, tra il 1992 e il 1994 anche deputato dei Verdi: «Quel vincolo ideologico, quello schierarsi comunque a sinistra, è stata una scelta lunga e molto deleteria. Soprattutto ha tecnicamente impedito al mondo dei moderati di avvicinarsi al movimento ecologista. La forza dei Verdi francesi, per esempio, è quella di essersi svincolati da qualsiasi obbligo di schieramento. Questo si traduce in una grande potenzialità di saper affrontare i problemi veri, lontani da ideologismi» . Ottimista, Pratesi? «Lo sono per temperamento. Se non fossi un ottimista, avrei fatto il chirurgo....» . C’è un altro ex dei Verdi che guarda al passato ed esprime un giudizio analogo. Si tratta di Carlo Ripa di Meana, ex Commissario europeo alla Cultura e all’Ambiente, ex ministro dell’Ambiente nel primo governo Amato ed ex leader dei Verdi dal 1993 al 1996 e poi parlamentare europeo fino al 1999 per la stessa formazione. «Ricordo che qualche tempo fa, era il 2009, arrivò qui da noi Daniel Cohn Bendit che disse: cari Verdi italiani, ma dove credete di andare continuando a guardare solo e soltanto a sinistra? Ci fu qualche apprezzamento di maniera e di pura forma, poi tutto fini lì. Cohn Bendit aveva perfettamente ragione. Infatti fu sua l’intuizione di "trasversalizzare", a smuovere lo stagnante schema destra-sinistra. Quando i Verdi debuttarono nell’arena parlamentare, finirono con l’assorbire molti esponenti nati nell’estrema sinistra. E io stesso, lo riconosco, non riuscii ai tempi a invertire la rotta verso quel legame. Ora Bonelli ci prova. Auguri sinceri. Ma per ora vedo tutti al seguito del pifferaio Nichi Vendola...»
Repubblica 21.5.11
"Via dai balconi le bandiere pro referendum"
Una legge del ´56 le vieta. E il sindaco di Novellara deve mandare i vigili a rimuoverle
Il caso nato dopo un esposto del Pdl. E il primo cittadino (Pd) è costretto a intervenire
di Paolo Berizzi
NOVELLARA (REGGIO EMILIA) - Se avete in mente di esporre sul davanzale una bandiera che inneggia ai referendum sull´acqua del prossimo 12-13 giugno, non fatelo. Potreste trovarvi in casa i vigili che vi ordinano di toglierla, pena una bella multa da 1000 euro. Ma forse anche no. Uno scherzo? Per niente. È quello che è successo a Novellara, paese della pianura reggiana che, con nessuna buona pace del suo imbarazzatissimo sindaco - da una parte è firmatario e promotore dei referendum galeotti, dall´altra, per il ruolo che ricopre, è stato chiamato a fare pulizia dei drappi - sarà ricordato come il primo Comune italiano che vieta una bandiera sul balcone. Tutto comincia con una denuncia presentata dal capogruppo del Pdl Cristina Fantinati: oggetto dell´esposto, le decine di vessilli appesi dai novellaresi fuori dalle loro case con su la scritta «2 SI per l´acqua bene comune». L´indicazione di voto, pure se veicolata dai referendari nel perimetro delle proprie abitazioni, ai pidiellini proprio non va giù. Per sollecitare l´intervento della polizia municipale si ripesca una vecchia norma. Una circolare del ministero dell´Interno che risale a 31 anni fa e che, facendo riferimento a una legge del 1956, vieta l´esposizione di pubblicità - in questo caso per la campagna referendaria - in luoghi non consentiti dalla normativa elettorale. Le sanzioni, per i trasgressori, vanno da un minimo di 100 a un massimo di 1032 euro. Sarà anche roba da matti, ma siccome la legge è legge, il sindaco di Novellara, Raul Daoli, Pd, all´inizio si è dovuto adeguare. «Non mi sarei mai sognato di dover mandare i vigili a casa dei miei cittadini per una bandiera. Ma ho verificato in Prefettura e effettivamente questa norma esiste. Come sindaco - allarga le braccia - sono un ufficiale di governo, e dunque non posso oppormi. Scatterebbe il reato di omissione d´atti d´ufficio da parte della polizia municipale, che dipende da me». La morale? «Quando viene a mancare il buon senso e la ragionevolezza, poi si va a incappare in queste cose». Già. Ancora di più se, paradosso nel paradosso, Daoli, ci tiene a dirlo, è promotore e firmatario dei due referendum sull´acqua che verranno votati il 12 e 13 giugno. «Sono contrario alla privatizzazione dell´acqua e che si traggano profitti da essa». Per togliersi dall´impaccio il sindaco interpella un giurista. Salta fuori una sentenza della Corte costituzionale. Che nel ‘95 ha ritenuto irragionevole estendere anche alla propaganda referendaria i divieti relativi a quella elettorale nei 30 giorni che precedono il voto. Forte di questo provvedimento, Daoli invita ora gli agenti a «non perseguire i cittadini oltre il dovuto e a graduare le forze e gli interventi per garantire in primis la sicurezza dei cittadini ed i servizi istituzionali». Le bandiere, dunque, potranno restare esposte. «Voglio tutelare il libero diritto costituzionale di manifestare il proprio pensiero (in questo caso individuale e dalla propria abitazione, per quanto visibile dalla strada) - aggiunge il primo cittadino. Tra i 14 mila abitanti di Novellara, anche chi non sapeva un accidente del referendum sull´acqua ora - per forza di cose - sarà almeno un po´ informato. Domanda: ma perché in paese c´è una sensibilità così spiccata per la difesa dell´oro blu? Sarà anche una suggestione ma qualcuno rispolvera l´origine celtica del nome Novellara. Deriverebbe da due termini gallici: «ar», che significa «sopra» e «var», «acqua». In effetti il Comune prima delle bonifiche appariva come un´isola circondata dalle acque. Ma il punto vero, chiosa il sindaco imbrigliato nella sua doppia veste, è un altro: «Qui c´è un altissima tradizione civile. Spegnerla a suon di multe sarebbe assurdo». Qualcuno lo avvisi che intanto su un muro dell´oratorio è spuntato un nuovo striscione: «L´acqua è un bene di Dio».
il Fatto 21.5.11
Zapatero e la sindrome rivoluzione
Rischio scontri con la polizia per i giovani di Democrazia Real alla vigilia del voto
di Alessandro Oppes
La piazza è dei giovani, i politici si sono dovuti rifugiare all’interno di spazi chiusi e ben vigilati per celebrare – tra iscritti e fedelissimi ai partiti – l’atto finale di una campagna elettorale trasformatasi in un incubo. A mezzanotte, con l’inizio della giornata di riflessione che precede le amministrative di domani, è scattato il divieto di manifestazione deciso, tra le polemiche e con un solo voto di scarto, dalla Giunta centrale elettorale dopo sette ore di dibattito infuocato. Ma, mentre l’estrema destra mediatica gridava ieri mattina a un fantomatico “boicottaggio della democrazia” rappresentato dai ragazzi accampati alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole, il ministro dell’Interno Alfredo Pérez Rubalcaba ha chiarito con tre parole la linea del governo: “Opportunità, congruenza e proporzionalità”, ha spiegato il numero due di Zapatero, saranno i principi che guideranno l’azione della polizia nelle prossime ore. “Ciò che faremo è compiere il mandato costituzionale, e quello delle forze di sicurezza è applicare le leggi. Perché si capisca meglio, dove c’è un problema la polizia non ne crea un altro, nè altri due o tre”.
L’IMPEGNO, INSOMMA, sembra essere a non intervenire, visto che le proteste si sono svolte finora in forma completamente pacifica. Anche ammesso che le rivendicazioni del movimento Democracia Real Ya possano in qualche modo condizionare l’andamento della giornata elettorale, conseguenze ben più gravi sul voto avrebbe – come fa notare in un editoriale il quotidiano El País – l’eventuale decisione di sgombrare con la forza migliaia di persone riunite in piazza, tra l’altro sotto gli occhi delle tv di tutto il mondo. A subire un effetto devastante sarebbe, ovviamente, il governo socialista, già alle prese con una delicatissima tornata elettorale che, se si confermano le previsioni dei sondaggi, potrebbe dover fare i conti con la più clamorosa batosta da quando – sette anni fa – José Luis Rodríguez Zapatero andò al potere.
Il Psoe rischia di perdere alcune delle sue roccaforti storiche, come i municipi di Barcellona e Siviglia, dove governa da trent’anni, e la regione di Castiglia La Mancha. In bilico anche altri feudi socialisti come l’Estremadura, Aragona e le Asturie, mentre i popolari dovrebbero restare ben saldi al potere tanto a Madrid come a Valencia nonostante – in questa regione – il presidente Francisco Camps (paragonato ieri dal New York Times a Berlusconi) sia imputato di corruzione assieme ad altri quattro alti funzionari dell’amministrazione locale. Attesa anche per i risultati delle comunali nel Paese Basco dove, a 8 anni dalla messa fuorilegge di Batasuna, ritorna sulla scena la sinistra indipendentista con la lista Bildu: autorizzata nei giorni scorsi dal Tribunale costituzionale con una decisione che ha provocato durissime polemiche soprattutto tra le organizzazioni di vittime del terrorismo, potrebbe sfiorare il 20% dei consensi.
Ma l’andamento della giornata elettorale sembra essere tutt’altro che al centro delle preoccupazioni tra i protagonisti del “maggio spagnolo”. Nonostante i divieti, e le polemiche roventi che li circondano, loro hanno ben chiaro che questa esperienza di partecipazione è appena agli inizi. Scatta la giornata di riflessione? E allora “noi continuiamo con l’esercizio di riflessione collettiva”, assicurano.
E, visto che oggi è vietato manifestare, subito dopo la mezzanotte, alla Puerta del Sol, hanno risposto così: a centinaia, con la bocca coperta dal nastro adesivo, che tutti insieme hanno strappato via per lanciare un “grido muto al cielo”.
Corriere della Sera 21.5.11
Tam tam su Internet e l’Italia scopre i cortei «indignados»
Manifestazioni nelle maggiori città. Sit in a Roma
di Lorenzo Salvia
«Yo te voto, yo te pago, yo decido» . Scritta rossa su fondo bianco, il cartello che apre il sit in vicino a piazza di Spagna sembra romanesco ma è castigliano purissimo. Perché è vero che è arrivata in Italia la protesta degli indignados, i giovani che a Madrid occupano da una settimana Puerta del Sol per protestare contro una politica che li ignora e chiedere una democrazia diretta. Ma, almeno per il momento, non c’è nessun effetto a catena, nessuna macchia d’olio che si allarga come in Tunisia ed Egitto. A protestare in piazza sono gli spagnoli che vivono in Italia, quasi tutti studenti Erasmus. È così a Roma e Milano, ma anche a Firenze, Bologna, Napoli e in tutte le città coinvolte, ieri sera, dopo un tam tam su Internet e Twitter. Su Facebook la pagina «Italian revolution: democrazia reale ora» ha superato le 10 mila adesioni. E anche sul fratello minore, Twitter, quello degli indignados italiani è stato fra i temi più popolari. Molti avevano pensato a una costola nostrana del movimento, visto che precari e studenti senza futuro abbondano anche da noi, come pure il malessere verso la politica e le sue caste. Ma per il momento in piazza scendono solo gli spagnoli, a casa loro e negli altri Paesi dove vivono. Tra i pochi italiani che partecipano al sit in di Roma c’è il «barbuto» Marco Ferrando, l’ex candidato di Rifondazione espulso da Bertinotti dopo le sue dichiarazioni su Israele. Oggi guida il Partito dei comunisti lavoratori e tiene sotto braccio il suo appello di due mesi fa, quando invitava gli italiani a imitare la protesta dal basso del Maghreb. Non poteva mancare. «Se la protesta regge in Spagna — dice — vedrete che andrà avanti anche da noi. E ne vedremo delle belle» . In piazza un centinaio di ragazzi ripete, in spagnolo, gli slogan che conosciamo anche in Italia, «Noi la crisi non la paghiamo» . Dura un’ora poi tutti a casa. — scrive su Facebook Francesco Silenzi, solidarizzando con chi manifesta: «Anche in Spagna il primo giorno non ne parlava nessuno. Ora è la prima notizia di giornali e tv» . Vero, ma l’arrivo degli indignados in Italia è solo un fuoco di paglia, acceso dalla velocità dei soliti Facebook e Twitter? Oppure il movimento crescerà come in Spagna e alla fine anche la politica dovrà farci conti? Il programma è quello originale del movimento spagnolo, gira sulla rete e viene distribuito in piazza con volantini in due lingue. Gli indignados chiedono una «rivoluzione etica» , vogliono eliminare la «dittatura dei partiti» per arrivare alla democrazia diretta, «facilitando la partecipazione dei cittadini attraverso i canali diretti» . Un’idea molto simile a quella che da tempo sostiene Beppe Grillo. In questi giorni il comico genovese è a Barcellona. Un giornale spagnolo, Pùblico, ha accostato gli indignados proprio al suo Movimento 5 stelle che alle ultime elezioni è cresciuto ancora. E Grillo ne è ben contento, del paragone: «La rivoluzione dal basso ha superato Gibilterra— scrive sul suo blog— ed è arrivata in Spagna dai Paesi del Maghreb. Il contagio potrebbe espandersi in tutta Europa. Il 2011 potrebbe diventare come il 1848, quando le vecchie istituzioni vennero travolte. Un mondo nuovo sta nascendo, l’indignazione è il suo carburante» . La protesta è appoggiata anche dal Popolo viola, il movimento nato due anni fa con il no Berlusconi Day. Dai partiti ufficiali, invece, per ora non è arrivato nessun segnale. Tranne Ferrando, che si guarda intorno e sbotta trattenendo un sorriso: «Ma la sinistra, dov’è?» .
La Stampa 21.5.11
I confini del ’67 vanno rispettati
di Abraham B. Yehoshua
qui
http://www.scribd.com/doc/55932004
Corriere della Sera 21.5.11
Lite tra Netanyahu e Obama «Israele non accetterà un ritiro sui confini del 1967»
«Divergenze fra di noi» Resta il clima difficile fra Obama e israeliani
di Massimo Gaggi
Gelo tra il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Israele— ha detto quest’ultimo— non accetterà un ritiro sui confini del 1967» . Intanto a Damasco il movimento di protesta non si arrende, ma è ancora strage: 27 morti
Barack Obama cupo che, senza mai un sorriso e gli occhi fissi sui giornalisti davanti a lui, ribadisce l’amicizia nei confronti di Israele, l’impegno americano a garantire la sicurezza dell’alleato mediorientale, ma che poi certifica anche i dissensi che permangono «come spesso accade tra gli amici» . Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, seduto in poltrona al suo fianco, gli replica sporgendosi verso di lui, guardandolo sempre negli occhi. L’ira, se c’è, è ben dissimulata. I toni sono garbati ma pedagogici. Il leader alterna parole di grande fermezza agli accenti accorati: «Apprezzo molte cose dette ieri dal presidente degli Stati Uniti, ma non possiamo accettare il ritorno alle frontiere del 1967, per noi indifendibili. Vogliamo lavorare per la pace, ma su basi realistiche senza compromettere il futuro di Israele. Lo dico con orgoglio e umiltà, sapendo che un’intesa mal concepita potrebbe essere per noi disastrosa: non abbiamo molti margini d’errore, la storia non darà un’altra chance al popolo ebraico» . Le parole, le indiscrezioni e il «linguaggio del corpo» alla fine del tormentato incontro alla Casa Bianca tra il presidente americano e il leader di Israele hanno confermato quanto emerso già nella serata di venerdì, con l’immediata, furiosa reazione di Gerusalemme al discorso rivolto da Obama al mondo islamico. Netanyahu aveva cercato in tutti i modi, anche con una durissima telefonata dell’ultimo minuto al segretario di Stato, Hillary Clinton, di evitare ogni riferimento di Obama alle frontiere del ’ 67. Ma il presidente non ha ceduto e non ha cambiato idea: preso atto che comunque il negoziato israelo palestinese è bloccato — la frustrante situazione che ha spinto l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, George Mitchell, a dimettersi —, ha scelto di fissare i paletti della posizione Usa (sicurezza di Israele ma anche un’apertura al palestinese Abu Mazen) prima dell’arrivo in America del leader israeliano. I consiglieri della Casa Bianca temevano, infatti, che Netanyahu — in America per diversi giorni per i colloqui col presidente, gli incontri con l’Aipac, la «superlobby» ebraica, e il discorso che pronuncerà martedì al Congresso— potesse chiudere i residui spiragli con una proposta di pace inaccettabile per Abu Mazen: una situazione destinata, secondo la diplomazia Usa, a spingere sempre più i palestinesi moderati nelle braccia degli estremisti di Hamas. Il riferimento alle frontiere del ’ 67 (con le opportune correzioni imposte dagli insediamenti ebrei in Cisgiordania) per la Casa Bianca è solo la riproposizione di una linea già abbracciata da Bill Clinton alla fine del suo mandato e, in parte, ripresa anche da Bush: il presidente repubblicano nel 2004 aveva dichiarato irrealistiche le frontiere del ’ 67, ma l’anno dopo aveva giudicato una base molto simile (l’armistizio del 1948) un accettabile punto di partenza. Nella reazione a caldo di venerdì Netanyahu aveva fatto riferimento proprio alla posizione di Bush del 2004 con un «mi aspetto che Obama confermi quell’impegno» giudicato irriguardoso dalla Casa Bianca. In volo verso l’America il premier ha rincarato la dose facendo dire ai suoi consiglieri che Obama non comprende appieno la reale situazione mediorientale. Ieri, alla Casa Bianca, Netanyahu ha scelto toni diversi, ma la sostanza non cambia: il tempestoso «chiarimento» tra i due ha sconvolto l’agenda di Obama, col vertice iniziato in ritardo e durato ben 96 minuti. Dissensi che certamente riemergeranno davanti all’Aipac, che ascolterà oggi Netanyahu e domani lo stesso Obama, e poi al Congresso. Qui il premier israeliano conta sul pieno appoggio dei repubblicani, ieri molto critici con Obama («Il presidente ha gettato le relazioni con Israele sotto un autobus» , ha detto Mitt Romney). Tensioni elevate, ma che dovrebbero avere il tempo di decantare, visto che il dialogo coi palestinesi resterà comunque bloccato fino a quando dall’altra parte del tavolo ci sarà Hamas. Con un’organizzazione terroristica che non riconosce Israele non si negozia: su questo, nell’incontro ieri alla casa Bianca, erano tutti d’accordo.
Repubblica 21.5.11
La rabbia di Bibi contro Barack "Ignora le promesse fatte da Bush"
Lo sfogo del premier sull´aereo: "Non conosce la realtà"
"Il nuovo Stato palestinese non può nascere a spese della sicurezza d´Israele"
Netanyahu considera il leader americano un nemico. E spera che non sia rieletto
di Fabio Scuto
WASHINGTON - Centoventi minuti di drammatico confronto. Carte, mappe, analisi sul tavolino dello Studio Ovale non hanno spostato di un millimetro la posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu, la proposta del presidente Obama sulla pace con i palestinesi «è lontana dalla realtà». Mai finora le relazioni fra Stati Uniti e Israele avevano toccato un punto così basso, ai limiti della rottura. Già prima di salire sul volo di Stato per gli Stati Uniti, il volto di Netanyahu lasciava capire con grande evidenza che il suo umore era pessimo e si preparava allo scontro. Teso, con lo sguardo tirato, è salito a bordo del 747 che lo ha portato nella "tana" di quello che considera ormai quasi un suo nemico. Bibi, di solito allegro e ciarliero con i giornalisti che viaggiano con lui, questa volta ha passato tutto il tempo del volo discutendo con i suoi collaboratori più stretti e fidati, una lunga telefonata con l´ambasciatore israeliano a Washington, lo storico Michael Oren, per avere più dettagli su ciò che l´aspettava entrando alla Casa Bianca. Poi, un paio d´ore prima dell´atterraggio, si è concesso alla stampa nello stile informale che lo contraddistingue, ma le parole invece che essere improntate all´ironia sono state taglienti come lame perché le proposte di Obama sono esattamente ciò che non voleva sentire.
I due leader avvertono di essere a un punto di svolta delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e anche nel loro rapporto personale. Non si sono mai capiti e i rapporti sono sempre stati tiepidi. Obama non crede che Netanyahu sia davvero pronto a fare concessioni per arrivare a un accordo di pace con i palestinesi. Il premier israeliano ha visto il discorso di Obama sul Medio Oriente come una mezza trappola, «questa America non conosce la realtà», come testimonia una furiosa telefonata con Hillary Clinton poco prima di salire a bordo dell´aereo appena finito di ascoltare il discorso di Obama di giovedì.
Shock, stupore e amarezza. Così si potrebbe definire l´impatto delle parole di Obama sul premier israeliano, specie per quei passaggi dove il presidente americano sostiene la necessità che Israele accetti di ritirarsi lungo le linee antecedenti la guerra del 1967, sia pure con correzioni di confine, nel contesto di accordi di pace per arrivare a due Stati su quella terra da 63 anni sempre sull´orlo di una nuova guerra. «Lo Stato palestinese non può nascere a spese di Israele», commentava durante il lungo volo, «il ritorno alle frontiere del 1967 lascerebbe gran parte della Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) fuori dalle frontiere di Israele». E poi ancora più secco: «Ci sono cose che non possiamo nascondere sotto il tappeto».
All´origine dell´irritazione di Netanyahu ci sono non solo questioni di contenuto, ma anche di forma. Obama ha tenuto al buio fino all´ultimo l´alleato israeliano, né l´ambasciatore Michael Oren né il consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror - che era Washington fino all´altro ieri - avevano anticipato a quanto pare a Netanyahu che la "tempesta" che stava arrivando. «La pace non si può fondare su illusioni», ha esclamato con evidente disappunto.
Di fatto il premier israeliano accusa Obama di ignorare le "promesse" fatte da George W Bush nel 2004; di minimizzare la gravità dell´accordo di riconciliazione fra Al Fatah e Hamas e di ignorare la sua richiesta di mantenere - anche nel contesto di accordi di pace - una presenza militare sulle rive del Giordano. Israele non lo dice esplicitamente, ma il timore è che nel nuovo Medio Oriente anche il regime hashemita di re Abdallah possa subire scossoni come quello egiziano e che da un momento all´altro anche il "confine di pace" con la Giordania possa cessare di essere tale.
L´atmosfera che c´era ieri alla Casa Bianca era fredda come la colazione di lavoro che è seguita all´incontro. Ora Bibi Netanyahu spera di rifarsi con il discorso che terrà lunedì ai delegati dell´Aipac, la potente lobby statunitense filo-israeliana. Poi martedì prenderà la parola al Congresso. Lì spera di avere applausi scroscianti e che la maggioranza repubblicana - a cui senza mistero vanno le sue simpatie - possa riequilibrare i rapporti che con la Casa Bianca sono ormai su un piano inclinato. Ma intanto Netanyahu dovrà "concedere" qualcosa a questa Amministrazione perché ha disperatamente bisogno che gli Usa proteggano Israele, non solo con il veto al Consiglio di sicurezza ma anche con pressioni diplomatiche sugli alleati europei perché respingano la dichiarazione di indipendenza che il presidente palestinese Abu Mazen si accinge a portare in settembre alle Nazioni Unite. Ma ieri l´elenco dei leader europei d´accordo con la linea scelta della Casa Bianca si allungava ogni ora, compresa la Germania della Merkel, da sempre il più fidato alleato di Israele nel Vecchio Continente.
Ma non c´è dubbio che il primo ministro israeliano d´ora in poi tenterà in ogni modo di impedire la rielezione di Obama facendo leva sulle grandi lobby ebraiche negli States. Netanyahu in cuor suo vedeva già un repubblicano, magari l´amico Mitt Romney, alla Casa Bianca nel 2012 per allontanare il più possibile il momento delle "concessioni dolorose". Peccato che l´uccisione di Osama Bin Laden, il nemico numero 1 dell´America, sarà per Barak Obama una formidabile rampa di lancio per ottenere un secondo mandato.
Repubblica 21.5.11
L’arrocco di Gerusalemme
di Luca Caracciolo
Quando due leader alleati escono da un incontro ammettendo che fra loro esistono «differenze», significa che la loro conversazione è stata piuttosto animata. Netanyahu e Obama non si amano e il colloquio di ieri alla Casa Bianca non li ha resi più amici.
L´uno e l´altro sperano di restare in carica almeno il tempo necessario per confrontarsi con i rispettivi successori. Ma le "differenze" non sono solo di gusti personali. Gerusalemme e Washington sognano due mondi opposti.
Israele è l´unica democrazia del Medio Oriente. E intende restarlo. Gli Stati Uniti sono invece convinti che la regione possa finalmente evolvere verso qualche forma di democrazia, come confermerebbero le rivolte in corso, dalla Tunisia all´Egitto, dalla Libia alla Siria. Il ragionamento israeliano si vuole strettamente pragmatico. Nella linea americana convivono, come d´abitudine, idealismo e realismo. Ma alla fine la scelta di entrambi è guidata dalla sicurezza. Solo che la sicurezza di Israele secondo Netanyahu equivale all´insicurezza dell´America secondo Obama. E viceversa.
L´alleanza privilegiata dello Stato ebraico con gli Usa ha sempre poggiato sul fatto di essere la sola democrazia nella regione: un decisivo fattore di legittimazione presso il pubblico americano. Nel momento in cui perdesse questa sua unicità perché altri paesi mediorientali si fossero riconfigurati come democratici, l´influenza di Israele a Washington ne sarebbe seriamente intaccata. E con essa la sua sicurezza. Gli israeliani non apparirebbero più agli americani come una nazione "speciale", quasi sorella, ma rischierebbero di essere confusi con le democrazie arabe. La posizione negoziale di Gerusalemme ne sarebbe erosa. Una cosa è disputare con le classiche autocrazie più o meno islamiche. Altra è avere di fronte interlocutori dotati, almeno agli occhi dell´Occidente, di credenziali democratiche.
L´argomento con cui i recenti leader israeliani, da Sharon a Netanyahu, hanno costantemente respinto il negoziato con i palestinesi, gioca infatti sull´inaffidabilità di interlocutori non democratici, dunque non omologhi. Ai tempi della coppia George W. Bush-Sharon, questa linea era stata così codificata da Dov Weisglass, braccio destro dell´allora premier di Gerusalemme: «Ho concordato con gli americani che di una parte degli insediamenti non si discuterà affatto, quanto agli altri se ne tratterà quando i palestinesi si trasformeranno in finlandesi». Un modo elegante per dire mai.
Certo i palestinesi non sono ancora "finlandesi", se con questa metafora si intende una qualche affinità con le prassi di una consolidata democrazia liberale. Forse non lo saranno mai. Ma per Obama non c´è tempo da perdere. Bisogna negoziare adesso sulla base dei confini del 1967. Nessuna colonia ebraica in Cisgiordania può considerarsi intangibile.
Il presidente americano ci ha abituato a una retorica alta, seguita spesso da una prosa realistica, da azioni o inazioni contraddittorie con i valori proclamati. Ma stavolta non si possono trascurare le parole del capo della Casa Bianca, perché esprimono una sia pur vaga scelta di fondo: gli Stati Uniti intendono alzare la bandiera della democrazia in Nordafrica e in Medio Oriente. Non vogliono più rincorrere le rivoluzioni, anche se non necessariamente le promuoveranno. Certo a Washington non auspicano il rovesciamento del regime saudita e dei suoi satelliti nel Golfo, la cui rilevanza strategica ed energetica fa per ora premio sulle considerazioni di principio. Ma si augurano che l´onda del cambiamento proceda.
Come aveva detto Obama giovedì al Dipartimento di Stato: «Dopo aver accettato per decenni il mondo com´è nella regione, abbiamo la possibilità di perseguire il mondo come dovrebbe essere». Di più, «il nostro sostegno per questi principi non è un interesse secondario (…), è una priorità assoluta».
Non è solo né primariamente una questione ideale. È la coscienza che identificandosi con l´arrocco israeliano, come Bush figlio aveva fatto con Sharon e con Olmert, gli Stati Uniti perderebbero molta della loro residua credibilità in Medio Oriente. Ne scapiterebbe infine la loro stessa sicurezza.
Netanyahu resta fermo nella sua convinzione: meglio un autocrate amico – stile Mubarak - che uno pseudodemocratico nemico, quali sarebbero secondo Gerusalemme i Fratelli musulmani e la loro filiazione palestinese di Hamas, da lui equiparata ad al-Qaida. Ecco perché a Gerusalemme si è sempre tifato contro le rivolte che minacciavano non solo i dittatori amici, ma financo i «cari nemici»: molto meglio Ahmadinejad dell´«onda verde». Tanto più indifendibili i suoi nemici agli occhi degli americani, tanto più sicuro lo Stato ebraico.
Questo approccio manca di realismo. Non vuole prendere atto dei cambiamenti in corso nello scacchiere arabo. Esclude anzi che ne possano avvenire. Nel caso, rifiuterebbe di vederli, perché non conviene che gli arabi assomiglino ai "finlandesi". Certo, si può rimpiangere Mubarak e demonizzare l´apparente ricomposizione del campo palestinese. Anche con buoni argomenti. Ma questa non è una politica. E´ l´autocondanna all´immobilismo.
Il tempo non lavora per Israele. Restare fermi mentre tutt´intorno si corre, significa ridursi in prospettiva a due opzioni non confortevoli: il lento logoramento della propria potenza o nuove guerre. Ma a differenza di qualche anno fa, Israele non può confidare di vincere ogni futura partita militare. Per non cambiar nulla, lo Stato ebraico rischia di perdere tutto.
Haaretz.com 21.5.11
J Street, Israelis run ad urging recognition of a Palestinian state
New York Times ad signed by Israel Prize laureates, former Knesset members, former diplomats and former defense officials, calls to establish Palestinian state on the basis of the 1967 borders
by Ilan Lior
qui
http://www.haaretz.com/print-edition/news/j-street-israelis-run-ad-urging-recognition-of-a-palestinian-state-1.362886
Corriere della Sera 21.5.11
Le tecnologie raccontate Barriere virtuali Dentro la grande muraglia del web
Fang Binxing, il censore, contestato in patria: «Un sacrificio che accetto per il Paese»
di Marco Del Corona
L’uomo che in Cina attira su di sé gli accidenti di molti dei quasi 500 milioni di utenti di Internet se ne è fatta una ragione. «Mi insultano, lo so, è un sacrificio che accetto per il mio Paese» . Gli tirano magari uova e scarpe, come un presunto «eroe solitario» afferma di aver fatto giovedì scorso a Wuhan (la polizia indaga). Il Gran Censore, il padre della Grande Muraglia che blocca i siti sconvenienti, pericolosi, sovversivi o infidi, ha creato un meccanismo implacabile. Chi vuole, lo può aggirare, ma a costo di qualche fatica e/o di qualche dollaro. La Cina è riuscita a creare uno spazio web controllato, in grado di fornire format e contenuti che sostituiscono quasi completamente gli stessi format e gli stessi contenuti del mondo esterno. Facebook è bloccato? Il web cinese pullula di social network modellati sull’originale. Twitter non va? C'è Weibo. Niente YouTube? La Rete cinese tracima di video… Missione compiuta, per il professor Fang Binxing. La diga tiene, per lo meno abbastanza da scatenare l’indignazione dell’Occidente, con gli Usa tra i più attivi a reclamare il diritto a un web cinese non censurato. Lui ammette che il sistema può essere migliorato: «La tecnologia è ancora limitata» , e dunque basta che un articolo includa almeno una parola o un’espressione vietata, e diventa inaccessibile, anche se il contenuto è innocuo. «È un po’ come quando un passeggero in aeroporto non può portare a bordo la bottiglietta d’acqua. È perché ai controlli non è possibile capire se sia davvero acqua o nitroglicerina» , ha spiegato al quotidiano Global Times, costola spregiudicata del Quotidiano del Popolo. In attesa di perfezionare la propria creatura, il professor Fang sa di essere, suo malgrado, una celebrità. Nato ad Harbin nel ’ 60, rettore dell’Università delle Poste e telecomunicazioni, ha cominciato a lavorare alla grande muraglia censoria nella seconda metà degli anni Novanta: il ’ 98 viene considerato l’anno di svolta del web nella Repubblica Popolare, con il primo milione di utenti e con il debutto dei portali Sina. com e Sohu. com. Nel 2003 la barriera approdava sulla Rete: «Il mio progetto — ha raccontato in un’intervista — è stato accolto perché era di gran lunga il migliore. E al Paese, in quel momento, serviva urgentemente» . Adesso che la Cina rivendica orgogliosamente il diritto di pattugliare e «armonizzare» la sua Rete, Fang ricopre un ruolo delicatissimo. «Dopo l’Assemblea nazionale (la sessione annuale del Parlamento, svoltasi in marzo, ndr) non è opportuno che parli. Voi capite…» , ha fatto sapere al Corriere. Ma come la pensa non è un segreto. Quando all’inizio del 2010 Google ha annunciato di voler lasciare la Cina perché stanco di autocensurarsi, Fang ha dichiarato all’agenzia si stampa Xinhua che «se non segui le leggi cinesi allora è giusto lasciare la Cina» e che non capiva perché il motore di ricerca non abbandonasse anche il mercato tedesco, visto che in Germania esistono divieti e vincoli su alcuni contenuti (il professore cita in particolare la propaganda neonazista). Fang menziona poi «i 180 Paesi, inclusi Corea del Sud e Usa, che prevedono forme di monitoraggio e controllo della Rete» . La barriera del professore è oggi uno dei copyright della potenza cinese, del suo modello sociale e politico alternativo all’Occidente. Dittature e Stati variamente autoritari la imitano. Chi non è d’accordo— anche senza covare sentimenti politicamente ribelli — si attrezza con i proxy o le vpn, che scavalcano i blocchi. E Fang Binxing? Le prova anche lui, le vpn. «Ne ho sei istallate sul mio computer» . Non per leggere propaganda sovversiva: «Non mi interessa quella robaccia antigovernativa» , ha detto al Global Times. Il suo è solo un gioco: «Voglio vedere chi dei due vince, se il mio firewall o la vpn» .
Corriere della Sera 21.5.11
I neonati e il deficit di accudimento La psicoterapia insegna a capirli Vissuti Deficit dell’infanzia
di Silvia Vegetti Finzi
N el suo ultimo film, «Habemus Papam» , il regista Nanni Moretti presenta con lieve ironia la figura, interpretata da Margherita Buy (sua moglie e collega nella sceneggiatura), di una psicoanalista nota per rinviare tutti i sintomi nevrotici alla medesima causa. Anche al Pontefice appena eletto, bloccato da un profondo senso di inadeguatezza di fronte a un incarico così impegnativo, diagnostica: «Penso che lei abbia sofferto di un deficit di accudimento primario» . Rievoca questo episodio la psicoterapeuta Sara Micotti, responsabile scientifico del settore di Psicoterapia familiare del Centro Benedetta d’Intino Onlus di Milano, fondato e diretto da Cristina Mondadori. Sara Micotti si riferisce alle più recenti conoscenze sulle relazioni tra genitori e figli. Poiché gli artisti, come osserva Sigmund Freud, sono capaci di cogliere prima degli altri elementi di verità, quella sindrome, non solo esiste davvero, ma ora la si cura il più presto possibile. Tra i problemi più diffusi delle coppie di giovani genitori vi è infatti l’impreparazione con cui affrontano l’incontro con il nuovo nato. Cresciuti spesso come figli unici, non hanno mai visto da vicino una creatura di pochi giorni e rimangono sconcertati dall’espressione impenetrabile del volto, dalla fragilità delle piccole membra e dalla incredibile forza delle pulsioni istintuali che le agitano. Eppure quell’esserino li ha uniti, ancor prima di nascere, nell’impresa di diventare padre e madre. È significativo, in proposito, che l’Ospedale «Buzzi» di Milano, dove ha operato il grande psicoanalista Franco Fornari, abbia introdotto nelle cartelle cliniche dei neonati anche le ecografie del feto, immagini che i futuri genitori hanno visto e commentato con trepidazione. Ora il padre si sente già tale prima del parto, una mutazione antropologica di cui non sappiamo ancora cogliere tutte le conseguenze, ma che sta modificando profondamente le relazioni familiari. Di conseguenza, l’attenzione degli psicoterapeuti infantili, tradizionalmente concentrata sul rapporto tra la madre e il figlio, coinvolge ora anche i papà, altrettanto importanti nel creare il clima emotivo dell’attesa e del lieto evento. Perché possa accogliere con fiducia il nuovo nato la donna deve sentirsi contenuta dal partner, mentre l’uomo, per fargli spazio nella mente e nel cuore, deve sentirsi riconosciuto da lei come padre. Ma, benché diffusa, la condivisione delle cure materne suscita ancora negli uomini sentimenti di inadeguatezza Per superare il timore di danneggiare un essere fragile e vulnerabile come il neonato hanno bisogno di essere incoraggiati e confermati. Vi è il rischio, altrimenti, che la loro insicurezza si trasmetta ai figli, che cresceranno timorosi di deludere e di sbagliare. Sino a poco tempo fa lo studio delle relazioni parentali si basava sulle comunicazioni verbali, ma da quando la sonda analitica è scesa sino a intercettare gli scambi che accadono nel periodo perinatale, i mesi che trascorrono prima e dopo il parto, le terapie sono diventate sempre più precoci, brevi e interattive. La psicoterapeuta infantile non si limita a curare il disagio del bambino ma prende in considerazione la rete di affetti e di pensieri in cui s’inscrive ancor prima di nascere. Sullo stato d’animo con cui i genitori lo accolgono si proiettano le ombre lunghe delle vicende personali, in particolare il modo con cui hanno vissuto l’infanzia ed elaborato i primi, inevitabili traumi. Talvolta madre e figlio rimangono così coinvolti nella indistinzione originaria che il padre si sente escluso dal loro legame. L’intervento consiste allora nel costruire una geometria della famiglia ove ognuno trovi il suo posto e veda riconosciuta la funzione che gli compete, sempre relativa a quella degli altri. Una volta stabilite le giuste distanze e chiariti gli equivoci, le energie vitali riprendono a scorrere nelle vene delle relazioni familiari. Le conoscenze acquisite sulle relazioni precoci suggeriscono, oltre ad anticipare l’intervento terapeutico, di prevenire il disagio infantile sostenendo, sin dall’attesa, i genitori in difficoltà. Non si tratta di ammaestrarli ma di sollecitare le loro potenzialità, di sensibilizzarli a cogliere e interpretare anche i segnali non linguistici. La prima mossa, nei confronti del neonato, consiste nel mutare la sua posizione: da oggetto delle proiezioni parentali a soggetto della sua vita, da «parlato» a «parlante» . Considerarlo da subito una persona, non solo ne promuove l’evoluzione, ma aiuta i genitori a crescere con lui, insieme.
Corriere della Sera 21.5.11
Cleopatra, la condottiera colta
La vita della regina egizia oltre il ritratto che ne fece Shakespeare
di Livia Manera
D imenticatevi il tappeto arrotolato e la bellissima giovane che ne scivola fuori vestita da odalisca e ingioiellata come una regina. Con ogni probabilità l’incontro tra Cesare e Cleopatra è andato così: una ragazza di diciotto anni nascosta in un sacco di juta, non troppo bella né troppo elegantemente vestita, ne esce scarmigliata davanti a un Cesare di cinquantadue anni, più divertito che incantato. Ma la verità è che «non siamo nemmeno sicuri che sia uscita dal sacco davanti a lui. E in ogni caso, è assai improbabile che Cleopatra sia apparsa "maestosa"(come sostiene una fonte) o coperta di gemme e d’oro (come suggerisce un’altra), o che fosse anche solo ben pettinata» , puntualizza la biografa americana Stacy Schiff. A dispetto dell’interpretazione shakespeariana e di cinque secoli di storia dell’arte, l’ipotesi più probabile è che in quell’occasione la regina adolescente indossasse una semplice tunica di lino e un nastro sui capelli. Signori uomini, spiacenti: il fascino di Cleopatra era di essere sopra ogni cosa intelligente. Lo sostiene con acume, ironia e una salutare dose di scetticismo nei confronti delle fonti, il premio Pulitzer per la biografia Stacy Schiff nel suo libro Cleopatra, che sta per uscire da Mondadori nella traduzione di Francesca Gimelli (pagine 328, e 20). Un libro che si giova della prospettiva dell’outsider (la Schiff non è una storica dell’antichità, ma l’autrice di due delle migliori biografie pubblicate in America negli ultimi anni, su Saint-Exupéry e Vera Nabokov), per immergersi nel mare delle rappresentazioni di Cleopatra influenzate dalla misoginia e dalla propaganda imperiale romana, e riportarne in superficie una versione più attendibile, se non più vera, al di là del mito splendidamente maschilista della «harlot queen» . «Nefertiti è un volto senza regina. Cleopatra è una regina senza volto» diceva André Malraux. Ma Schiff trova abbastanza indizi per darle il volto e il corpo di una donna minuta, sottile e chiara di pelle, con un naso adunco e labbra carnose. Sottolineando che, in quanto discendente dai macedoni Tolomei e da Alessandro il Grande, «non era più egiziana di quanto lo fosse Liz Taylor» . Diciamolo: di fronte al ritratto da tabloid di una regina insaziabile e assetata di sangue che il suo nemico Augusto ci ha fatto pervenire; al fatto che la totalità delle fonti che hanno lavorato a questo ritratto erano eccezionalmente tendenziose; che alcuni storici hanno addirittura utilizzato come fonte Shakespeare, «compiendo una scelta che equivale a prendere le parole di George C. Scott per quelle di Patton» ; e che Hollywood ha completato il quadro patinando il mito, la vita di Cleopatra come ci è stata tramandata è una costruzione piena di buchi, in cui gli affari di stato sono scomparsi per lasciare il posto agli affari di cuore. Cioè l’amore con Cesare, da cui sono nati il figlio Cesarione e una serie di onorevoli riforme a Roma, a imitazione del modello alessandrino (una biblioteca, un censimento, ecc). E quello con Antonio che ha prodotto il sogno di un impero, tre figli, una sconfitta epocale e un finale che ha cementato la leggenda nella tragedia. «Si può dire niente di buono su una donna che è andata a letto con i due uomini più potenti del suo tempo?» , si chiede Stacy Schiff dando un’impronta contemporanea, e tipicamente americana, al contesto. Eccome se si può. Perché questa donna che non conosceva tabù né vergogna; che ha fatto uccidere fratelli, mariti, sorelle e amici; che ha perso un regno, lo ha riconquistato, lo ha perso ancora, ha fondato un impero e alla fine ha perso tutto, era una sovrana capace di costruire una flotta, domare un’insurrezione, controllare le finanze di un Paese e alleviare una carestia; era anche una donna colta che aveva letto Erodoto, Tucidide ed Esopo, parlava nove lingue tra cui l’ebraico e — prima nella sua dinastia — l’egiziano; che conosceva l’esistenza dell’equatore, la latitudine di Marsiglia e la prospettiva lineare; e che unendo come nessuna fascino intellettuale a fascino sessuale, godeva di un formidabile, potentissimo carisma. Persino Cicerone, che di lei scrisse «detesto la Regina» , ha lasciato una testimonianza in cui racconta che Cleopatra era capace di sostenere con lui conversazioni «di tipo letterario, non al di sotto del mio livello» , aggiungendo che avrebbe potuto «riferirle in un incontro pubblico» . Onore dunque a questa regina «orgogliosa e indomata fino alla fine» , la quale piuttosto che essere portata a Roma in catene si è data da sola «una morte onorevole, una morte dignitosa, una morte esemplare» , conquistando con quell’ultimo gesto il rispetto dei suoi peggiori detrattori. E anche se si fosse suicidata col veleno e non col morso di un aspide, come ipotizza Stacy Schiff, la sostanza non cambierebbe. «Persino agli occhi dei romani aveva fatto finalmente qualcosa di giusto, che andava oltre le aspettative del suo sesso» .
l’Unità 21.5.11
La mia longa vita «rossa»
La Resistenza, il Pci, l’impegno sociale Bianca Guidetti Serra si racconta in un libro che sarà premiato oggi
di Oreste Pivetti
Da sola non avrei mai pensato a scrivere una mia autobiografia. Ho sempre preferito esprimermi dal punto di vista del “noi” anziché dell' “io”, attenermi ai fatti piuttosto che alle impressioni e alla soggettività. Ed è ancora in quello spirito che ho cercato di riannodare i fili del mio passato... Le esperienze di ciascuno sono sempre un fatto di relazioni e di contesti, da cui nascono le scelte: è su questo intreccio che ho cercato di ripercorrere le vicende della mia vita, che attraversa quasi tutto un secolo di grandi conflitti e grandi trasformazioni».
In una rapida premessa, Bianca Guidetti Serra, ricordava gli intenti e i vincoli che si era posta immaginando la sua autobiografia, scritta con la preziosa collaborazione di una amica, Santina Mobiglia, autobiografia poi pubblicata da Einaudi. Stiamo parlando di un libro molto bello, che abbiamo già presentato (anche attraverso una lunga conversazione proprio con Bianca e Santina), un libro che molti ricorderanno e che molti, probabilmente, avranno letto: Bianca la rossa, storia individuale e storia collettiva.
Bianca Guidetti Serra è stata protagonista e testimone insieme della storia d’Italia novecentesca in alcuni dei suoi momenti cruciali: dalla Resistenza, condivisa con gli amici Primo Levi, Ada Gobetti e le migliaia di donne dei «Gruppi di difesa», istituiti proprio con Ada a Torino, alla militanza nel Partito comunista e poi alla fuoriuscita nel 1956 in seguito ai fatti d’Ungheria.
Fino alla scelta di perseguire l’impegno sociale attraverso la professione di avvocato penalista. Sono gli anni delle battaglie giudiziarie in difesa dei diritti e della salute dei lavoratori, delle donne e anche della tutela dell’infanzia, sono gli anni per intenderci delle schedature Fiat, quando l’azienda esercitava una vera e propria forma di spionaggio ai danni di lavoratori impegnati nel sindacato oppure con la fama d’esser comunisti o che semplicemente si trovarono una volta al centro di qualche protesta. Bianca patrocinò quei lavoratori spiati, quando la vicenda negli anni sessanta/ settanta finì in tribunale (a Napoli, non a Torino: per legittima suspicione, per timori di tensioni, così venne spiegato il trasferimento), quando un giovane magistrato concluse l’inchiesta con un rinvio a giudizio: quel giovane magistrato era Raffaele Guariniello, lo stesso magistrato che è stato pubblico ministero nella vicenda Thyssen. Un libro, naturalmente di Bianca e pubblicato da Ronsenberg & Sellier, documenta dettagliatamente quella storia.
Bianca la rossa è il racconto di un secolo: dall’Italia appena uscita dalla prima guerra mondiale fin quasi a oggi. Ne esce un ritratto/ autoritratto asciutto, sobrio, di una paese, di una città, Torino, di tante persone incontrate (avanti a tutti Primo Levi), di tante amicizie e soprattutto, naturalmente, di Bianca Guidetti Serra, donna straordinaria, intellettuale molto particolare. Vale la pena, per capire, di rileggere alcune righe dell’ultimo capitolo: «Non sono scontenta della mia vita, non ho particolari rimpianti o rammarichi. Ne ho raccontato il percorso, tra le tante storie di giustizia e ingiustizia, che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte. Mi è piaciuto il fare, e ho fatto quel che ho potuto, cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare, ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee...».
Abbiamo ricordato Bianca Guidetti Serra, che presto compirà novantadue anni, perché Bianca la rossa riceverà il premio letterario della Resistenza Città di Omegna, premio prestigioso, creato da Mario Soldati dopo la Liberazione, premio che elenca vincitori come Jean Paul Sartre, Frantz Fanon, Guenther Anders, Beppe Fenoglio, Camilla Cederna e, di recente, Nuto Revelli, Gherardo Colombo, Cesare Garboli, Giovanni Giudici, Ryszard Kapuscinski. La cerimonia di premiazione avverrà oggi, sabato, ad Omegna, al Forum, alle ore 17,30. Di Bianca e del suo libro parlerà Gian Giacomo Migone.
Repubblica Libri 21.5.11
Heidegger a Todnauberg, di Franco Toscani, Odissea edizioni, Pagg. 48, euro 10
Una visita alla baita di Todtnauberg consente di comprendere meglio come Heidegger abbia potuto pensare l'essere nei termini dell'intimità di tutto ciò che è, ponendo le premesse dell'abitare umano fra cielo e terra.
Repubblica Libri 21.5.11
Maria Zambrano. Etica della ragione poetica, di Adele Ricciotti, Mobydick
La filosofia di María Zambrano si presenta quale fondamentale contributo nella ricerca di un rinnovato sapere che vuole rispondere all'uomo nella sua totalità ontologica e storica restaurandone l'autenticità perduta.