venerdì 20 maggio 2011

Corriere della Sera 20.5.11
Bellocchio: Lars inaccettabile ma quella censura è dannosa
di G. Ma.

«Frasi deliranti, forme di provocazione estrema... Magari in buona fede, ma inaccettabili...» . Marco Bellocchio, l’anno scorso protagonista a Cannes con una lezione di cinema, prossimo «Leone alla carriera» a Venezia, cerca con fatica le parole giuste per commentare l’ «incidente» Lars von Trier sulla «Croisette» . Cosa ne pensa? «Non sono a Cannes, non so come siano andate davvero le cose. Ho letto solo i giornali... Certo, mi sembra una faccenda grave quanto strana. Un festival è una ribalta mediatica, e Cannes lo è più di tutti. Ogni battuta lì rimbomba in modo spropositato in tutto il mondo. Von Trier non è un neofita, dovrebbe saperlo» . Lo sa bene anche lei, che di festival ne ha frequentati tanti. Spesso portando film-scandalo, forieri di polemiche, dai lontani «I pugni in tasca» a «Nel nome del padre» , dal «Diavolo in corpo» a «La condanna» a «L’ora di religione» ... «E due anni fa, proprio sulla Croisette, fu la volta di Vincere, che aveva scatenato dibattiti riaprendo il caso della moglie segreta di Mussolini. Se ne discusse molto, ma sempre in termini estremamente pacati» . Con il regista danese siamo su tutti altri fronti. Lui è andato oltre i confini consentiti dal vivere civile, ha elogiato un regime e un dittatore tra i più efferati. «Forse è stato un exploit di esibizionismo al limite della patologia. Le sue fisime sono note. O forse si è fatto trascinare su un terreno scivoloso... D’altra parte se è vero che ciascuno ha il diritto di dire quello che vuole, è anche vero che ci sono realtà storiche indiscutibili. Lars le ha travalicate con incosciente leggerezza» . Ha fatto bene quindi il Festival di Cannes a dichiararlo «persona non grata» e invitarlo ad andarsene immediatamente? «Esigere delle scuse era necessario. Non si poteva certo far finta di niente. Ma, una volta che lui le ha date, si poteva anche archiviare il caso. Quella condanna ufficiale così perentoria, a mio parere, lascia trasparire quasi una debolezza del Festival. Come essere umano sono del tutto in disaccordo con le idee di von Trier, non posso neanche immaginare che qualcuno provi simpatia per Hitler. Ma penso anche che una censura così radicale sia non solo inutile, ma alla fine anche dannosa» . Si spieghi meglio. «Se avessero chiuso la questione dopo le scuse ufficiali, non se ne sarebbe parlato più. Certe sciocchezze sfuggite di bocca, piuttosto che sottolinearle dandogli così una patente di serietà, è più sensato ignorarle» .

Repubblica 20.5.11
A Roma, nella sede della Società psicoanalitica italiana
Un incontro con Scalfari sotto il segno di Eros


ROMA - Un singolare dialogo tra il presidente della Società psicoanalitica italiana e il fondatore di Repubblica, tra Stefano Bolognini e Eugenio Scalfari, è in programma oggi a Roma nella sede della Società di via Panama (alle 18). Bolognini è un analista di successo, che spesso nei suoi libri manifesta un´inclinazione letteraria oltre che saggistica. Eugenio Scalfari è giornalista e autore di saggi percorsi da una domanda inquieta sulla modernità. L´incontro rimanda a un tema molto vasto "La psicoanalisi: radici memorie costruzioni", ma la conversazione riguarderà senz´altro anche il nuovo libro di Scalfari, appena uscito da Einaudi, Scuote l´anima mia Eros, un titolo dal sapore freudiano - come del resto lo era Incontro con io.
«Scalfari è tutt´altro che un analista, ma a noi che facciamo questo mestiere interessa moltissimo», dice Bolognini. «Non lo conosco personalmente, ma ho letto tutti i suoi libri trovandoli sempre appassionanti e appassionati, la testimonianza diretta di un´incredibile vivacità interiore. È sorprendente la sua capacità di esplorare la realtà interna con la stessa attenzione, la stessa ammirevole intensità con cui sa guardare ai fatti della politica e dell´economia. La potente vocazione esplorativa fa di Scalfari un interlocutore ideale per noi analisti».

La Stampa 20.5.11
Obama discorso ai popoli islamici
“Israele deve tornare ai confini del 1967”
“L’America sostiene le lotte per le riforme in tutto il Medio Oriente”
di Maurizio Molinari


Sostegno alle riforme, sfida ai dittatori, partnership economica con Medio Oriente e Nord Africa, e rilancio del negoziato israelo-palestinese.
Sono i quattro pilastri della posizione americana sui «grandi cambiamenti in atto» grazie alle rivolte arabe che Barack Obama illustra parlando per quasi 60 minuti dalla Franklyn Room del dipartimento di Stato.
È il richiamo alla questione israelo-palestinese, che il Presidente fa sul finire del suo discorso, a suscitare le reazioni delle parti in causa. Obama ammette le «attese deluse» per il fallimento di due anni di negoziati - che hanno portato alle dimissioni dell’inviato George Mitchell - ma non si dà per sconfitto e rilancia in avanti la sfida per «raggiungere la soluzione di due Stati per due popoli», con uno Stato palestinese «smilitarizzato», avanzando una ricetta negoziale che terrà banco sin dall’incontro odierno alla Casa Bianca con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È la prima volta che un Presidente americano si assume la responsabilità di formulare un approccio negozioale, senza lasciarlo al Segretario di Stato o inviati speciali, ed ecco di cosa si tratta: «Serve un accordo su confini e sicurezza per rinviare a dopo i temi più emotivi di Gerusalemme e dei profughi palestinesi». E per confini Obama intende quelli «del 1967 con scambi di territori concordati fra le parti». L’intento è accelerare la pace ove possibile. Il rimprovero a Israele è di «aver ripreso la costruzione di insediamenti» e all’Autorità nazionale palestinese di «aver siglato un accordo con Hamas che non riconosce Israele» come di perseguire una dichiarazione di indipendenza attraverso l’Onu e non un accordo con la controparte. «Serviranno risposte nelle prossime settimane» chiede Obama, dimostrandosi convinto che «i cambiamenti in atto possono far accelerare la pace».
L’affondo nulla toglie al fatto che il focus è la primavera araba sospinta dal vento delle rivolte. È a questo tema che il capo della Casa Bianca dedica gran parte dell’intervento. A quasi sei mesi dal gesto di ribellione con cui un venditore di frutta tunisino innescò «un cambiamento straordinario», il Presidente sceglie di dare seguito al discorso al Cairo del giugno 2009 per illustrare «la risposta degli Usa a quanto sta avvenendo». Il discorso è tradotto simultaneamente in arabo, persiano ed ebraico affinché il messaggio sia lo stesso per tutta la regione. La premessa è la sconfitta di Osama bin Laden perché era «un assassino di massa che era contro la democrazia» ed «aveva già perso quando lo abbiamo trovato» perché le rivolte dal Cairo a Bengasi «chiedono democrazia, non perseguono la violenza» e «sono riuscite a ottenere più cambiamenti in sei mesi che il terrorismo in anni di stragi». Obama si rivolge alla «nuova generazione» composta dai «giovani di Sana’a che cantano “la notte sta finendo”» e dalle donne siriane «che ai primi colpi ricevuti hanno detto di aver provato dignità». Sono tali rivolte «a favore di diritti e libertà» a «offrire una storica opportunità» a Medio Oriente e Nord Africa che gli Usa si propongono di sostenere impegnandosi in tre direzioni: «Opposizione all’uso della violenza contro i civili, difesa dei diritti universali degli individui e sostegno alle riforme economiche».
Da qui l’approccio duro a despoti e dittatori. Se contro Gheddafi l’intervento militare è stato «necessario perché minacciava orrendi massacri», il monito al siriano Bashar Assad è di «smettere di sparare sulla gente, aprire le porte ad osservatori umanitari e consentire le riforme» cessando di «imitare l’Iran nelle tattiche di repressione». È l’occasione per indicare in Teheran la capitale che «per prima ha represso i manifestanti» nel giugno 2009, dimostrandosi «ipocrita» perché «reprime le rivolte in casa e esprime sostegno per quelle degli altri» come in Egitto. «Anche il popolo iraniano merita che le sue aspirazioni siano ascoltate» sostiene l’inquilino della Casa Bianca, rincarando la dose alla volta del regime di Teheran per «il sostegno al terrorismo» ed il programma nucleare che continua a dispetto dei divieti nelle risoluzioni dell’Onu.
Ai governanti di Yemen e Bahrein, alleati di Washington, Obama chiede di «mantenere le promesse di transizione» mentre è all’intera regione che si rivolge quando invoca «libertà di religione» per ogni minoranza, dagli sciiti in Bahrein ai copti in Egitto, così come «rispetto per i diritti delle donne perché ove ciò avviene c’è più prosperità».
Parlando delle rivolte, esalta il ruolo dei nuovi media: «La televisione satellitare e Internet forniscono una finestra su un mondo che fa progressi incredibili in luoghi come India, Indonesia e Brasile». L’accento è su «telefoni cellulari e le reti sociali che permettono ai giovani di collegarsi, facendo emergere una nuova generazione la cui voce ci dice che il cambiamento non può essere negato», sottolinea con un’enfasi voluta. Fra le novità positive include anche la «multietnica democrazia irachena» spiegando che «ha un ruolo da giocare» nel cambiamento in atto: una frase che rivaluta a posteriori il lavoro svolto dall’amministrazione Bush a Baghdad. Da qui il tassello a cui Obama tiene di più ovvero il sostegno allo sviluppo economico delle nascenti democrazie: aperture commerciali a Tunisia e Egitto, cancellazione di un miliardo di debito del Cairo e un piano di sviluppo redatto dall’Fmi che verrà approvato dal G8 della prossima settimana.

La Stampa 20.5.11
Yossi Beilin. L’ex ministro pacifista
“Nessuno prima ha avuto il coraggio di citare quella data”


Da quando partecipò da protagonista agli accordi di Oslo il laburista Yossi Beilin, ex ministro della giustizia israeliano nonché ex leader del partito Meretz, non si entusiasma facilmente. Stavolta sì: «Quello di Obama è un discorso storico. Per la prima volta un presidente Usa menziona direttamente i confini del ‘67, non era mai successo finora. I suoi predecessori Clinton e Bush avevano usato formule più vaghe, il primo parlando di un ritiro ma senza definirne bene i parametri e il secondo chiedendo genericamente la fine dell’occupazione. Penso che sia un momento importante. Obama ha detto chiaramente che lo status quo non è più sostenibile. Certo, non gli piace l’idea della proclamazione unilaterale dello stato palestinese all’Onu ma suggerisce di ripartire subito dai confini e dalla sicurezza. Gerusalemme e i rifugiati seguiranno, non poteva affrontare tutti i nodi della questione. Il messaggio più importante mi sembra quello tra le righe indirizzato al premier israeliano Netanyahu, che oggi volerà a Washington. Bibi è avvertito: la Casa Bianca non accetterà che il suo governo usi la scusa dei cambiamenti in corso in Medioriente per restare arroccato su posizioni di chiusura. Personalmente non ho fiducia in Netanyahu, temo che finchè resterà in carica non sarà possibile alcun accordo».

Monicelli, Hessel, Castellina, Ingrao
il Fatto 20.5.11
La rivolta dei grandi vecchi
di Silvia Truzzi


La rivoluzione evocata (anzi: convocata) da Mario Monicelli, prima del volo. Il grido di Stéphane Hessel, ex partigiano francese 92enne, Indignatevi, fulmineo caso editoriale. Poi Luciana Castellina che scrive, nel pamphlet pubblicato con Aliberti: “Si tende a pensare che la propria generazione sia migliore di quelle che le sono succedute. Se a me piace molto il vecchissimo Hessel, che di anni ne ha 92, undici più di me che pure sono Matusalemme, è proprio perché, anziché chiudersi nella nostalgia del suo passato, lo usa come un altoparlante per mobilitare i giovani cercando di dar loro il massimo della fiducia. E li chiama a tramandare quanto di meglio è stato fatto prima che nascessero. Ecco la parola che, insieme a indignazione, ribellione e responsabilità, vorrei esaltare: tramandare”.
E UN ALTRO VEGLIARDO , Pietro Ingrao, che scavalca il muro dell’indignazione, perché “non basta”. Dice: “Nella primavera del 1940... facevo già parte di un gruppo clandestino, era piccola cosa, rischiava di diventare nulla. Fin da allora il mio impegno politico fu una resistenza al mio essere che rifiutava di adattarsi a vivere in un mondo segnato dalla possibile vittoria del nazifascismo. Ricordo di essermi posto, con il lutto nel cuore, la domanda secca: cosa faccio?”. Tra molti vitali novantenni, un filosofo 37enne: Pierandrea Amato che teorizza in un saggio uscito per Cronopio: “La rivolta è un’azione politica che inquieta la messinscena della democrazia cui ogni giorno assistiamo” (il libro sarà presentato martedì a Saint Denis, Librairie Folie d'encres, e venerdì 27 maggio alle 19 a Roma, presso Fandango incontri). Ultimo, ma solo in ordine di tempo (è in uscita in questi giorni), Massimo Ottolenghi, 95enne avvocato piemontese, militante del partito d’azione con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti, che ha intitolato il suo saggio Ribellarsi è giusto. Il limen tra indignazione – ultimo baluardo d’una resistenza borghese? – ribellione, rivoluzione e rivolta non è sottile, eppure tutte queste riflessioni partono da una necessità di profondo mutamento, comunemente avvertita all’alba di un millennio per nulla luminoso.
La fotografia del paese che Massimo Ottolenghi restituisce non risente di astigmatismo analitico: “L’Italia, che è stata nei secoli portatriceditantisplendori,apartire proprio dai giorni dell’unificazione, è rimasta la bella sognante. Immatura per gestire con efficienza la democrazia parlamentare conquistata con tanto sacrificio. Avvolta dai veli di un’ipocrita indifferenza, assonnata d’attesa, esposta a ogni violenza, abbandonata all’assenza di difensori validi . Circondata da un’élite di scrittori, professori, giornalisti, salvo rare eccezioni, spesso conniventi con il potere per comodo o anche solo per quieto vivere, è rimasta preda del cavaliere nero di turno in attesa che al più presto sparisse, chiamato altrove da quella provvidenza dalla quale si diceva inviato. Comunque un’Italia incapace di trasformare per tempo l’indignazione in azione, di reagire, di sollevarsi in difesa per prevenire. Viene allora da interrogarsi se solo la disperazione può soccorrere gli italiani”. Lontano dall’esser desti, gli italiani cominciano ad avvertire, nel disagio , il pericolo. Quale? “Il governo è all’attacco dello Stato e delle sue istituzioni: non era mai successo”, racconta Ottolenghi. “La Costituzione è la dimensione morale e giuridica dello Stato perché indica l’essenza e l’anima del nostro popolo. Non so se queste elezioni sono solo un sussulto, lo si vedrà. Spero che siano il principio di un mutamento, il sentimento di cittadini che non vogliono essere sudditi, ma che si vogliono prendere delle responsabilità. Vorrei che questo sussulto denunciasse davvero il passaggio di una democrazia in stato comatoso a una democrazia viva, che muove dall’indignazione all’azione”.
TORNA, nel libro di Ottolenghi, una parola d’altri tempi: epurazione: “Quando siamo arrivati alla Liberazione, il Partito d’azione voleva mettere al primo punto l’epurazione di tutti quelli che si erano macchiatidifattigravissimi.Parrifu sostenitore convinto di questa tesi: si prese del fesso da Togliatti. Una vecchia tara, pensare che tutto si sistemi conciliando”. Ecco perché, si legge nel libro: “Non si può, per rispetto della decenza, accettare che i responsabili diretti di reati specifici o i loro fruitori possano, grazie alla prescrizione e a leggi ad personam, conservare, a volto aperto, il potere o riacquistarlo grazie alla troppo speculata smemoratezza, per rimanere o ritornare magari in breve tempo riciclati in nuove spoglie, ai posti di comando sotto diversi simboli, così come avvenne nel 1945, ma anche dopo la scoperta della P2, nei cui elenchi risultano tuttora eminenti uomini politici e imprenditori”.

La Stampa 20.5.11
“Ha vinto il centrosinistra costruito con le primarie”
Vendola a D’Alema: il nostro popolo ci chiede un’alleanza tra Pd, Sel e Di Pietro
intervista di Riccardo Barenghi


L’ attacco di Bossi che dà del «matto» a Pisapia lo liquida così: «Buttarla in psichiatria rivela la crisi di nervi della destra». Dopo di che Nichi Vendola pensa a domani e a dopodomani. Il domani significa «vincere i ballottaggi di Milano e Napoli». E il dopodomani vuol dire «aprire il cantiere del nuovo centrosinistra. Un cantiere che di fatto è stato già aperto con queste elezioni amministrative direttamente dal nostro popolo. Grazie alle primarie ovviamente, che sono il vero vincitore di questa partita».
Prima di capire chi ha vinto, vediamo chi ha perso.
«Gli sconfitti sono tre. Il primo è il centrodestra in tutte le sue varianti. Non si tratta di una batosta ordinaria ma della fine di un ciclo politico, basti pensare che Berlusconi riesce a riempire solo una parte del suo Palasharp nella sua Milano, che diserta la festa del suo Milan nella sua piazza Duomo e che sfugge il suo popolo a Napoli. Un leader populista che si nega al popolo è la fotografia del suo declino».
Gli altri due sconfitti?
«Sono il politicismo e la politologia. Il primo che ancora pensa di orientare l’opinione pubblica e la società secondo formule fisse e astratte, la rincorsa al centro, il trasversalismo moderato... E il secondo che guarda alla politica come fosse un mondo a parte rispetto alla vita quotidiana. Prendiamo il politologo italiano più famoso, Giovanni Sartori: disse che in Puglia io avrei vinto le primarie ma non le secondarie. E fu seguito da tutto lo stato maggiore del centrosinistra. La storia ha detto il contrario per due volte».
Passiamo ai vincitori. Massimo D’Alema, intervistato ieri dal nostro giornale, dice che non ha vinto la sinistra radicale, ma il Pd.
«Io sono molto contento se vince il Pd, se vince Sel, se vince l’Idv, non mi appassiono alle gare su chi è arrivato primo. Penso invece che abbiano vinto tutti coloro che hanno saputo rendere credibile l’idea dell’alternativa al berlusconismo. Cioè ha vinto quel centrosinistra che non c’è ma che gli elettori stanno costruendo dal basso. Il nostro popolo considera naturale l’alleanza tra Bersani, Di Pietro e Vendola e ce la chiede, direi anzi che con queste elezioni ce la impone per il futuro. A meno che non si voglia seguire la Farmacopea di Enrico Letta che sull’Espresso di oggi sostiene sorprendentemente che queste elezioni incoraggiano l’alleanza tra Pd e Udc... Qualcuno dovrebbe dire a Enrico che l’unico posto in cui perdiamo in Toscana è Grossetto, dove il Pd si era alleato col Terzo Polo e non con noi».
Anche D’Alema però insiste sull’alleanza col Terzo Polo.
«Ma pure io sono pronto a collaborare col Terzo Polo, senza veti imposti o subiti. Ma il punto oggi non è questo, bensì concentrarci su quello che la nostra gente ci chiede, ossia una coalizione costruita dal basso che metta al primo posto i diritti: al lavoro, alla libertà e alla giustizia sociale (non al giustizialismo). Ho la sensazione che anche D’Alema si sia reso conto che non ha molto senso continuare ad usare etichette logore che funzionano solo nel ristretto giro del ceto politico: riformista, radicale, moderato...».
Tra l’altro parla bene delle primarie.
«Appunto, ha capito anche lui che portano un valore aggiunto. Faccio una domanda retorica: senza le primarie, il Pd avrebbe scelto Pisapia a Milano? Ovviamente no e probabilmente non avremmo vinto».
Per vincere sul serio però manca ancora la prova decisiva.
«Ma è una prova che possiamo superare bene, sia a Milano sia a Napoli. Mobilitando di nuovo tutti quelli che hanno partecipato a questa battaglia e allargando il campo. Per esempio ai grillini, che al di là del loro leader che non ha occhi per distinguere tra Moratti e Pisapia, devono essere assolutamente coinvolti nel cantiere del nuovo Centrosinistra».
Cantiere che avrà il clou nelle primarie per la premiership del Paese?
«Il cantiere serve a creare l’onda, le primarie a trasformare quest’onda in uno tsunami che sommergerà l’Italia peggiore vista in questi ultimi vent’anni».
E lei, Vendola, cavalcherà questo tsunami candidandosi alle primarie per il governo dell’Italia di domani?
Oggi per me è importante sottolineare che questo strumento è entrato nel cuore del nostro popolo. Mi fermo qui perché non vorrei che qualcuno si occupi del mio presunto narcisismo piuttosto che del sistema giusto per vincere».

il Fatto 20.5.11
Paolo Ferrero: “Nichi, smettila di ignorarmi”
Il segretario di Rifondazione: “La Federazione della sinistra ha preso gli stessi voti di Sel. Ora insieme”
di Beatrice Borromeo


La separazione da Nichi Vendola è stata tutt’altro che consensuale e, a tre anni dalla scissione della sinistra del partito, il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero non ha cambiato idea: “Per vincere dobbiamo tornare uniti, lo dicono le Amministrative”.
Segretario Ferrero, la Federazione della sinistra è andata molto meglio di quanto previsto dai sondaggisti. Come se lo spiega?
O i sondaggi sono orientati, oppure non li sanno fare. Dicevano che avremmo raccolto l’1 per cento dei voti, invece alle Provinciali abbiamo ottenuto lo stesso risultato di Sel: oltre il 4 per cento.
Voi avete appoggiato le due rivelazioni di questa tornata elettorale: Pisapia e De Magistris. Vinceranno al ballottaggio?
Ne sono certo. Abbiamo avuto oltre il 3 per cento di voti sia a Milano che a Napoli proprio perché abbiamo puntato sui migliori: candidati puliti, che spazzeranno via i giochi di potere che c’erano con la destra. Questo dimostra anche che gli elettori non vogliono una sinistra moderata, ma una sinistra vera.
E cosa impedisce la riconciliazione tra lei e Vendola?
Il fatto che lui mi ignora. Ho registrato due video-lettere proponendo di presentarci insieme alle elezioni: non mi ha nemmeno risposto.
Come mai?
Chiedetelo a lui, vorrei saperlo anche io. Localmente l’ha persino impedito. Non c’è altra strada che un polo della sinistra: Fds, Sel e Italia dei Valori devono stare insieme, se vogliono contare qualcosa dentro al Pd.
Quali sono gli ostacoli?
 Le differenze tra me e Vendola sono due: lui non è comunista e pensa che le primarie bastino a cambiare il sistema politico italiano. Per il resto abbiamo tutti le stesse idee.
Quali?
Siamo contro la guerra, appoggiamo la Fiom, abbiamo la stessa idea della società, dei diritti dei lavoratori. E dobbiamo combattere insieme per raggiungere il quorum ai referendum di giugno.
Sarà una prova generale di riavvicinamento?
Lo spero. Anche perché la battaglia contro il nucleare e per i beni comuni, come l’acqua, è la sfida più importante da affrontare. E potrebbe rappresentare la sconfitta definitiva del berlusconismo, dopo la stangata delle Amministrative.
Fds non ha fatto molta campagna elettorale. Come si spiega il miglioramento rispetto al risultato delle Politiche e delle Europee?
Dopo la caduta del governo Prodi abbiamo imparato la lezione: in questi anni siamo stati nelle fabbriche, con i lavoratori di Eutelia, con quelli della Fiat. Le tv non c’erano, ma gli operai ci hanno visti.
Lei per fare il ministro delle Politiche sociali aveva chiesto un’aspettativa: è ancora lavoratore dipendente?
Sì, sono un part time. Mi divido tra il partito e il lavoro in Regione Piemonte, per il gruppo di Rifondazione comunista. Ho fatto campagna elettorale spostandomi con la mia macchina, con pochi investimenti.
È felice o preoccupato per il successo dei grillini?
È una spia, deve farci capire che le cose non vanno. Ma la risposta di Grillo è pessima: non dare indicazioni di voto è pericoloso. Sostenere De Magistris, per esempio, vuol dire strappare Napoli dalle mani dei Casalesi, e i suoi elettori lo sanno. O pensa davvero che siano tutti uguali?

Corriere della Sera 20.5.11
Il Pd cambia linea dopo il voto: il terzo polo è meno necessario
Bersani frena il pressing di Vendola: primarie sì, ma non ora
di Maria Teresa Meli


ROMA— Forse scomodare un concetto come l’eterogenesi dei fini per la politica nostrana è un po’ troppo. Ma come descrivere altrimenti quel che è successo al Pd? Bersani non ha mai smesso di invocare la Santa Alleanza anti-Berlusconi, prima e durante la campagna elettorale, il voto, però, ha ridimensionato l’importanza di quella formula e ha dimostrato che il Pd non ha più bisogno di inseguire il terzo polo. Certo, in vista dei ballottaggi, quei voti servono e infatti vengono sollecitati, ma con toni assai diversi dal passato. Perché, come ha spiegato il segretario ad alcuni collaboratori: «Se quelli del terzo polo non si muovono rischiano la marginalità politica» . Persino D’Alema, l’ideologo dell’alleanza con Casini, all’improvviso ha cambiato idea. Prima lasciava intendere che il leader dell’Udc avrebbe potuto aspirare al posto di candidato premier, ora dichiara a «La Stampa» : «L’idea bipolare è ormai radicata nella testa degli elettori, e a volte la terzietà, se è fine a se stessa, si paga» . Del resto, i risultati delle amministrative rivelano che così è, tant’è vero che anche i leader del terzo polo lo hanno capito. Loro non possono pronunciarsi apertamente, ma, come ha notato il «Riformista» , il candidato centrista di Milano parla di «vento del cambiamento» (leggasi Pisapia) e quello di Napoli di legalità (leggasi de Magistris). Due indicazioni di voto per il centrosinistra, benché indirette. Nemmeno l’ottima performance dei candidati sponsorizzati da Vendola sembra impensierire il Pd. D’Alema, mutando ancora una volta opinione, definisce la Sel «una forza di governo» , fa i suoi complimenti al «governatore» della Puglia e lascia immaginare che di qui a un futuro non troppo lontano il Partito democratico e il movimento di Vendola potrebbero unificarsi. Una prospettiva che sembra non dispiacere a Fausto Bertinotti. Vendola, comunque, almeno per ora non molla la presa sull’onda dell’ottimo risultato di Pisapia: «Non c’è più tempo da perdere: il centrosinistra deve scegliere il candidato premier con le primarie» . Replica di Bersani: «Le primarie sono nel nostro Dna perché le abbiamo inventate noi, ma le faremo quando sarà il momento. Ora dobbiamo pensare all’Italia e non ai Bersani e ai Vendola» . Le primarie, che ancora ieri Veltroni ha esaltato, sono però un passaggio ineludibile anche (e soprattutto) se si punta a un unico soggetto politico che comprenda il Pd e la Sel (e questo Bersani lo sa bene). Dunque, il Partito democratico va avanti valutando attentamente le prossime mosse. C’è chi vorrebbe puntare sui referendum per la spallata, ma visto che il Pd non è in nessun comitato promotore e che non la pensa unanimemente sui quesiti, la questione è ancora allo studio. In compenso alcune tappe future sono state definite, le illustra Letta: «Portare Chiamparino in cabina di regia, lanciare subito Zingaretti a Roma, e, soprattutto, non pensare che sia fatta: c’è un problema profondo al Sud, in Calabria e in Campania, dove abbiamo governato male, per non parlare della confusione in Sicilia» . Già, perché se il Pd è in risalita in Lombardia, Piemonte e Veneto, dal Lazio in giù è quasi sparito.

La Stampa 20.5.11
Le lacrime di Bagnasco “Quel prete ha ferito il volto della Chiesa”
Il capo della Cei sconvolto: “Dolore improvviso e inatteso” E ribadisce: nessuno sapeva nulla di ciò che succedeva
di Ale. Pie.


GENOVA Frena le lacrime dietro le palpebre serrate, ma non riesce a proseguire oltre, la voce sempre più incrinata finché non si spezza del tutto: il cardinale Angelo Bagnasco ha appena finito di leggere la parte più significativa e intensa della sua omelia quando la commozione lo vince, là, sul pulpito del Santuario della Madonna della Guardia, davanti a 170 religiosi, la metà del clero genovese, riunito per la Giornata di Santificazione sacerdotale.
«Siamo qui per invocare la benedizione di Cristo sul nostro ministero, ma non senza aver prima dato voce al nostro dolore per ogni forma di peccato e di male che, se risulterà realmente commesso da un nostro confratello, sfigura la bellezza dell’anima, scandalizza le anime, ferisce il volto della chiesa». E poi risponde indirettamente a quanti si sono chiesti, dopo l’arresto di don Riccardo Seppia, se qualcuno sapeva, se qualcuno, in qualche modo, avrebbe potuto fermarlo.
«Il nostro dolore è tanto più sconvolgente quanto improvviso e inatteso, perché nulla lo faceva presagire ai nostri occhi. Ci sentiamo percossi ma non abbattuti. Vogliamo affidare alla Madonna quanti hanno subìto scandalo in qualunque modo, e dire a loro la nostra vicinanza umile e sincera». È a questo punto che la voce viene meno, il pianto viene nascosto da una prima pausa, un colpo di tosse, poi un altro.
Il presidente della Cei è provato, pallido. Quella che doveva essere una giornata di festa per sei seminaristi diventati lettori e per i religiosi arrivati a 25, 50 e 60 anni di sacerdozio, si è trasformata in un momento di dolore.
Ai sacerdoti, giovani e anziani, il cardinale arcivescovo di Genova si rivolge con parole inusuali, invitandoli a confidarsi, a parlare, a chiedere aiuto. Lui, che come dicono i suoi più stretti collaboratori, non riesce a darsi pace per non essersi accorto di quanto stava accadendo proprio nella sua diocesi al parroco di Sestri Ponente, sottolinea come «la prova e il senso di sgomento ci porteranno a salutari riflessioni su quel cammino di conversione dal quale nessuno è mai esente, ma che interpella senza sosta ogni discepolo di Cristo, ogni vero ministro di Dio».
Le lacrime premono, quando riesce a proseguire: «Come figli docili chiediamo dunque alla Vergine Maria di avere ognuno il coraggio della verità, di guardarci nel profondo per cantare le opere del Signore, ma anche per riconoscere le ombre da fugare, le pieghe da affrontare, la sensibilità spirituale da curare perchè non venga meno, la nostra sensibilità spirituale, la preghiera quotidiana, la confessione sacramentale regolare e frequente, la vita fraterna fatta di appuntamenti puntuali, di occasioni programmate e occasionali, di amicizia sacerdotale che significa aiutarci nella fedeltà alla vocazione senza reticenze, e diventare santi».
Anche durante la celebrazione della funzione, solenne e parzialmente in latino, la voce si incrina. Lo sostengono i 170 sacerdoti presenti quando tutti insieme partecipano alla consacrazione dell’Eucarestia.
La commozione si stempera alla fine della celebrazione, con i festeggiamenti dei religiosi più anziani. «Siamo felici dell’esempio di fedeltà e perseveranza. Anche noi - dice il cardinale - come tante coppie sposate dobbiamo essere fedeli e perseveranti nel nostro impegno». Quando alla fine dà l’appuntamento per la processione del Corpus Domini sottolinea ancora una volta, con forza, che «abbiamo bisogno in modo particolare in questo momento di stringerci intorno a Gesù».
«Lunedì scorso ho incontrato il Papa - conclude commosso il cardinale - gli ho parlato di noi. Mi ha detto “porti alla sua diocesi e al suo clero la mia benedizione’’. Anche voi ditelo quando potete alle nostre comunità cristiane».

Corriere della Sera 20.5.11
L’uomo predatore e lo stupro «virile» : quell’odioso mito che riporta a Zeus
di Eva Cantarella


Tra i molti interrogativi posti dal caso DSK, ce n’è uno al quale non si è finora prestata l’attenzione che mi pare meriti. È quello del modello maschile incarnato da DSK. L’uomo forte, il duro, il seduttore seriale, il conquistatore che non deve chiedere mai, per il quale anche il sesso è potere. Un modello antico, che ha radici lontanissime nella storia e trova precedenti persino nel mito. Come ben noto, gli dei greci non erano diversi dagli esseri umani, avevano i pregi e i difetti di questi, le loro invidie, debolezze e gelosie. Erano immortali, ma i loro comportamenti erano umani. Ebbene, come si comportava con le donne Zeus, il loro re e capo dall’incontrastato potere? Quando veniva preso dal desiderio di possedere un essere di sesso femminile (divino, umano, o semiumano che fosse), come spesso gli accadeva, Zeus non ascoltava ragioni, non conosceva ostacoli, soddisfaceva il suo desiderio senza pensarci un attimo, senza riflettere sulle conseguenze e i rischi (nel suo caso, una moglie gelosissima e vendicativa). Per riuscire a farlo non badava a mezzi. Ben poco gli importava che l’oggetto del suo desiderio fosse o meno consenziente. Come le sue infinite avventure amorose stanno a dimostrare. Tra di esse, a ben vedere, quella che più si avvicina a un corteggiamento (sia pur molto particolare, ma siamo nel mito), e che meno di tutte le altre assomiglia a un vero e proprio stupro è la sua storia con Europa, la ragazza che ha dato il nome al nostro continente. Un giorno, mentre giocava con le amiche sulla spiaggia di Sidone (in Asia Minore, dove viveva) Zeus vide Europa e per sedurla si trasformò in un toro. Affascinata dalla bellezza dell’animale, Europa carezzò il suo mantello, lo abbracciò e infine gli salì in groppa. La trappola era scattata: Zeus-toro si rizzò sulle zampe e si tuffò nel mare, trasportando la ragazza fino a una spiaggia di Creta, dove ovviamente la fece sua. Una storia quasi romantica, rispetto ad altre, come, ad esempio, quella con la ninfa Callisto (la Bellissima), seguace di Artemide, che come la dea aveva fatto voto di castità. Vedendola mentre riposava nei boschi, Zeus, colto dal solito irrefrenabile desiderio, prese le sembianze di Apollo, fratello di Artemide, e la possedette, mettendola incinta e provocando la sua espulsione dal gruppo delle seguaci della dea. I confini tra una simile avventura e uno stupro sono molto difficili da segnare, così come quelli della sua storia con Leda, moglie fedelissima di Tindaro, re di Sparta, per unirsi alla quale, sempre senza tenere in alcun conto la volontà di lei, Zeus si trasformò in cigno. Era questo il modello maschile del seduttore prospettato dal mito. A ben vedere — passando dal mito alla storia — non molto diverso da quello entusiasticamente accolto e praticato dai nostri antenati romani. Educati fin dalla più tenera età a essere dei dominatori del mondo (tu regere imperio populos Romane memento: «Romano, ricordati che devi reggere gli altri popoli con il tuo imperium» , ricordava loro Virgilio) i romani, in ogni occasione, pubblica o privata, dovevano imporsi: sui nemici con la forza delle armi e la superiorità delle leggi, sui concittadini con l'uso politico della parola, sulle donne possedendole. La virilità, così intesa, era una manifestazione di romanità. È qui, in questo tipo di etica politica, che affonda le radici una sessualità a proposito della quale un grande storico di Roma, Paul Veyne, ha giustamente parlato di «virilità di stupro» , per stupro intendendo non solo la vera e propria violenza sessuale, ma più in genere una concezione predatoria dell’uso dell’organo virile. Ci sono impressionanti fili di continuità tra il «modello DSK» e questa plurimillenaria concezione del vero uomo. Ebbene, se pensavamo che gli esemplari che lo incarnavano fossero scomparsi dobbiamo ricrederci, e non solo constatare che è ancora presente, ma anche riflettere sulla indulgenza nei suoi confronti manifestatasi con tutta evidenza non appena il caso è scoppiato. Non credo sia solo per ragioni politiche e per antica antipatia verso gli americani che il 57%dei francesi crede fermamente nella tesi in parte assolutoria del complotto: «Anche se il rapporto c’è stato, è stata lei a provocarlo» . Un copione inaccettabile, così vecchio e frusto da lasciare sconcertati, che indigna le donne che ben ricordano i tanti processi per stupro nei quali hanno visto riproporre lo stesso schema, con la presunta vittima oggetto di ogni di sospetto. Non so quale sia la percentuale di donne nel 57%dei complottisti, ma il fatto che le prime a rompere il muro della solidarietà a DSK siano state delle donne fa pensare (sono impressioni personali, ovviamente) che la stragrande maggioranza delle donne non abbia affatto un atteggiamento assolutorio nei confronti dei «veri uomini» superstiti: che di quel modello, in realtà, le donne non vogliano neppure più sentir parlare; che il rapporto tra generi che desiderano sia radicalmente diverso, che gli uomini che vogliono come compagni siano meno «maschi» , che non vuol dire deboli.

La Stampa 20.5.11
Con gli indignados anche la Spagna ha la sua primavera
Cinque milioni di senza lavoro, 30 piazze occupate Zapatero: la polizia non risolve, dobbiamo ascoltare
di Gian Antonio Orighi


Il modello arabo La protesta spagnola ha due elementi in comune con quella araba: l’uso di Twitter e le tende montate nelle piazze: non ce ne andremo finché non ci ascolterete
Tende e Twitter. Manifesti e assemblee. Una marea di gente e una solidarietà di massa attraversa la Puerta del Sol, la centralissima piazza di Madrid. Qui si sono accampati i protagonisti della protesta, in salsa madrilena, gli “Indignados”, che da domenica occupano la piazza della capitale e altre trenta agorà del Paese.
Il quotidiano spagnolo El País , ha ribattezzato la protesta come la República del Sol, un autobus elettorale per il Partito popolare, principale candidato alla vittoria alle regionali e comunali di dopodomani. Proprio il Partito popolare spiega con appena 5 parole la ragione di una protesta che è dilagata come la benzina sul fuoco in una pianura secca: «Zapatero, 5 milioni di disoccupati». Non c’è famiglia che non patisca o conosca un familiare o un amico senza lavoro. Una nonna ha portato alle centinaia di Indignados che dormivano nella Puerta del Sol con sacchi a pelo e tendine da spiaggia nonostante il diluvio, 400 frittelle ancora calde per la prima colazione.
I manifestanti, età media 25 anni, molti universitari e tutti disoccupati (come il 45% dei loro coetanei) mangiano gratis, grazie ai madrileni. Un ristoratore, Javier, è arrivato col suo furgone e ha montato in un baleno tre tavoli con enormi pentole fumanti di fagioli e maccheroni. L’esplosivo c’era già: la tassa di senza lavoro più alta della Ue: ben 4 milioni 920 mila persone disoccupate. Per la miccia è bastata una manifestazione spontanea, via Twitter e Facebook, senza partiti o sindacati dietro, lo scorso 15 maggio, il nome che va per la maggiore in un movimento che si definisce anche Democrazia Vera Adesso.
«Ho 24 anni, sono laureata in Economia, non riesco a trovare un lavoro, devo vivere ancora in casa coi miei genitori che adesso sono disoccupati tutti e due - protesta María mentre sta scrivendo l’ennesimo striscione che tuona contro le agenzie internazionali di rating, il governo socialista del premier Zapatero, i popolari, l’Fmi e la Ue. Il Sol è attorniato da uno stuolo di blindati della polizia di Stato, che guarda, controlla ma non interviene. Troppa gente, troppo caro il castigo per il governo alle amministrative. «La polizia risolve i problemi, non li crea», si schernisce il ministro delgi Interni, Rubalcaba. «Bisogna ascoltare, essere sensibili, perché ci sono delle ragioni che esprimono questo scontento e questa critica», dice, in tono colpevole, Zapatero. La piazza sembra un formicaio. Giovani ed anziani, madri ed immigrati (regolari, non si sa mai). Gli strisconi ricordano il ‘68: «Se non ci lasciate sognare, non vi lasceremo dormire». Ma anche la stagione delle vacche magre e della corruzione. «Molti ladri, poco pane». E si vive una anarchia organizzata. Una impresa ha portato 4 wc chimici gratis mentre gli indignati, tra un assemblea twitatta in tempo reale e ripresa subito da tutti i giornali online, spazzano la strada. «Siamo apolitici, non ci smuoveranno», assicura Luis, architetto, mentre smanetta l’iPad. La primavera madrilena è un attacco al cuore della democrazia dei partiti. Di questi partiti. «La democrazia reale si oppone al lento discredito delle Istituzioni che dicono di rappresentarla e che é al servizio del potere finanziario internazionale. Vogliamo che il nostro voto abbia una influenza vera nella nostra vita», sostengono gli Indignati. Sembrano Grillo.
Bond, deficit e debito pubblico, euro in crisi, salvataggi, Spagna sotto osservazione? Concetti stranieri. Il Sol contuinua a riempirsi. Arrivano nonni con i nipotini, genitori con i figli. L’ultima assemblea ha appena votato la richiesta di cambiare il sistema elettorale. L’utopia al potere, tutto e subito. Un déjà vu. Le proteste dureranno almeno fino a domenica. Intanto l’eco della protesta dilaga all’estero. La disoccupazione non ha frontiere nella Ue. Neanche gli indignati.

Repubblica 20.5.11
"Pane e giustizia la sfida al potere degli indignados"
"In strada ci sono persone che chiedono solo una democrazia migliore"
"Per la prima volta c´è una generazione che non ha prospettive di miglioramento"
di Omero Ciai


«Lo confesso subito: ho una grande simpatia per gli occupanti della Puerta del Sol, per questi ragazzi che stanno protestando nel centro di Madrid accampati in una piazza come gli egiziani di piazza Tahrir. Con la situazione sociale che stiamo vivendo è strano che non sia accaduto prima». Lo scrittore spagnolo Javier Cercas, premiato per la sua opera all´ultimo Festival del libro di Torino, si sta appassionando al movimento di protesta che ha attratto tutta l´attenzione mediatica alla vigilia delle elezioni amministrative e regionali di domenica prossima.
Chi sono? Che cosa sta succedendo in Spagna?
«Sono architetti, avvocati, insegnanti, studenti universitari. Ragazzi giovani che hanno studiato, e ai quali le famiglie e i governanti hanno promesso un futuro e che non lo trovano. Non c´è. Per la prima volta dalla Guerra Civile in Spagna c´è una generazione che non ha prospettive di migliorare la propria vita. Mio nonno lasciò un Paese e una vita migliore a mio padre. E lo stesso accadde tra mio padre e me. Invece, oggi, io rischio di lasciare a mio figlio una situazione economicamente peggiore. Oggi ha sedici anni, ma se non succede nulla quando sarà più grande dovrà ricordare con nostalgia come viveva grazie allo stipendio di suo padre. Non avrà uno stipendio per vivere e da vecchio non avrà una pensione. La maggioranza dei giovani non trova lavoro e chi lo trova guadagna meno di mille euro al mese. Non si può vivere in un Paese europeo con meno di mille euro. A Madrid ne servono 700 solo per affittare una casa. E dunque? Sono giovani che non hanno alcuna prospettiva di diventare adulti. Hanno studiato, si sono laureati, hanno viaggiato, sono preparati, ma non hanno alcuna chance».
Che fine ha fatto la Spagna del boom? Quella che supera l´Italia tra le prime dieci potenze economiche mondiali? Che fa da battistrada per i riformisti di tutta Europa con i suoi progressi nei diritti civili e nelle libertà individuali?
«Era un´illusione, in gran parte. Abbiamo vissuto una stagione molto al di sopra delle nostre possibilità e i giovani di oggi stanno pagando il conto».
Non è incredibile la parabola di Zapatero, un leader che ha saputo sorprendere l´Europa con le leggi a favore dei diritti (divorzio espresso, matrimoni gay, aborto per le minorenni, coppie di fatto) e ora è travolto dall´economia?
«In Italia avete avuto una visione sempre troppo ottimista di Zapatero. È facile governare quando l´economia va bene ma il leader di un paese va giudicato di fronte alle crisi. Ritirarsi dall´Iraq fu un gesto di grande forza simbolica. Ma un politico si misura nelle crisi, nella capacità di reagire e di proporre soluzioni. E nella crisi economica Zapatero è stato un disastro. Non ha capito cosa stava accadendo e non ha saputo dare al Paese risposte concrete. La Spagna fashion, la Spagna di moda che vince i mondiali di calcio, produce i film di Woody Allen, abolisce perfino la corrida e si arrampica nel benessere era una irrealtà cui tutti abbiamo creduto e dalla quale nessun politico ci ha messo in guardia. Anzi. Io penso che l´immagine vera della Spagna di oggi, insieme ai laureati disoccupati o precari accampati alla Puerta del Sol, il chilometro zero, il punto dal quale si misurano tutte le distanze, sia Seseña, una urbanizzazione moderna alla periferia di Madrid che avrebbe dovuto accogliere 60mila abitanti e che oggi è praticamente vuota, abbandonata. Seseña è il simbolo del boom economico spagnolo sospinto dalla bolla della speculazione immobiliare. La bolla è scoppiata affondando tutto e i ragazzi piantano le tende al chilometro zero».
È proprio pessimista?
«No, credo nella Spagna ma condivido le ragioni di questa protesta. In piazza non ci sono degli idealisti rivoluzionari ma solo persone che chiedono una democrazia migliore. La democrazia perfetta non esiste, siamo tutti d´accordo, solo le dittature possono essere orrendamente perfette, ma la democrazia si può migliorare. Faccio un esempio: quando è iniziata la crisi finanziaria in Spagna abbiamo fatto come Obama negli Stati Uniti. Abbiamo aiutato le banche a non fallire perché se fosse saltato il sistema saltava tutto. Bene, ma si era anche detto che dopo sarebbero state messe delle regole. Invece non è cambiato nulla: quando ci sono difficoltà economiche paghiamo tutti mentre appena c´è da guadagnare qualcosa…».
Ma in Spagna c´è una "dittatura partitocratica" come dicono i giovani della Puerta del Sol?
«Credo di sì. La politica avrebbe bisogno di una vasta riforma. Per prima cosa andrebbero abolite le liste chiuse grazie alle quali le gerarchie dei partiti eleggono chi vogliono. L´elettore vota il partito, non le persone. E questo è sbagliato, regala un potere immenso alle élite dei partiti».
Un altro movimento nato grazie ai social network. Quanto assomigliano le proteste di Madrid alla primavera araba?
«Non darei troppa importanza ai social network. Sono strumenti. Twitter è lo strumento della protesta di oggi come nel ´68 erano i ciclostili. Invece riguardo alla primavera araba credo che Puerta del Sol le assomigli moltissimo. Al Cairo chiedevano la democrazia, a Madrid giustizia sociale e riforme. È un vento nuovo che sfida i politici di qualsiasi orientamento».

Repubblica 20.5.11
Fang Binxing ha inventato i filtri web di Pechino. Ieri attaccato dagli studenti nella sua università
L'ora della rabbia scarpe e uova al padre della censura
di Giampaolo Visetti


Censurato il papà della censura. La Cina, se c´è di mezzo il controllo del dissenso, non teme i paradossi. Anche a costo di alimentare il contrappasso di misteri online, rilanciati da un Rete che ogni giorno di più sfugge al guinzaglio del potere.
Il popolo virtuale cinese è stato scosso ieri da una notizia non verificabile. Che sia vera o no, non è secondario. Ma la potenza e l´immediatezza dell´eco di internet ormai è tale, che sono le reazioni ad essere diventate il fatto. E le prime, sorprendentemente, sembrano aver spaventato Pechino più del solito. Uno studente dell´università di Wuhan, capoluogo dell´Hubei, ha scritto su Weibo, il twitter cinese, di aver lanciato uova e le sue scarpe al mattino contro Fang Binxing, preside della facoltà di Telecomunicazioni dell´università della capitale.
Non è un professore qualunque. La stessa stampa del partito comunista, intervistandolo in febbraio, lo ha accreditato del titolo di «inventore della Grande Muraglia di fuoco», il sistema che dal 1998 oscura il libero web e armonizza i siti disobbedienti. Il sedicente studente, nickname "Hanunyi", ha assicurato di aver centrato Fang Binxing solo con una scarpa, prima di darsi alla fuga a piedi scalzi. Nessuna prova, testimonianze dirette di altri, o un filmato. Solo due fotografie: una porta macchiata e l´irriconoscibile busto di un giovane in t-shirt nera, da cui spunta un pugno che stringe un uovo. Ad avvalorare l´annuncio anonimo ci hanno pensato il popolo degli internauti e l´esercito dei suoi censori. In poche ore centinaia di messaggi hanno rimbalzato la presunta contestazione in tutto il mondo, mentre le sentinelle elettroniche della Città Proibita si affannavano a cancellare i commenti e a bloccare le reazioni.
L´aggressione contro la mente del Grande Fratello made in China ha acquisito l´e-titolo «Fottiti Fang Binxing» e un coraggioso coro entusiasta ha salutato la prodezza studentesca. Tra gli incoraggiamenti a continuare la «lotta per la libertà di internet», anche l´avvertimento «siamo all´inizio, non alla fine», e un pensiero per Ai Weiwei, l´archistar dissidente in arresto dal 3 aprile: «Visto che non volete liberare lui, arrestate noi».
Ieri però, stranamente, nessuno sembra aver arrestato nessuno e il lanciatore di uova e scarpe ha potuto spiegare alla Rete di essersi esibito per «esprimere la rabbia contro il bavaglio di Stato al web». La mancanza di reazione della polizia ha fatto sospettare la beffa e dubitare del racconto, reso invece plausibile dall´affanno degli allievi censori di Fang Binxing. Il nome del padre di tutti i blocchi è stato subito bloccato, mentre Weibo e Sina.com, colosso dei portali nazionali, sono stati freneticamente ripuliti per ore.
Poter lanciare uova e scarpe contro il mastino di Internet, e raccontarlo online al mondo senza essere immediatamente sbattuti in carcere, sarebbe in Cina un evento memorabile. Più del dubbio originario vale però la presa d´atto di una montante inquietudine dentro scuole e università della nazione, di una inarginabile voglia di libertà delle generazioni cinesi cresciute dentro il villaggio globale dei social network.
Mercoledì Fang Binxing aveva scatenato l´ira dei compatrioti internauti. Aveva giustificato lentezza e interruzioni della Rete, scaricando la colpa sui provider nazionali. Questi, su ordine delle autorità, rifiuterebbero di pagare il conto del traffico internazionale online, scoraggiando i cinesi a dotarsi di filtri speciali per visitare i siti stranieri. Ora però tutto è bloccato. E anche i bloccatori, con i blocchi, si bloccano.

l’Unità 20.5.11
Cantando sotto l’arancia meccanica
Una delle scene-chiave del film di Kubrick nacque per caso: lo ricorda il protagonista Malcom McDowell
di Alberto Crespi


La Palma d’oro di Cannes 2011 è contesa da due capolavori: il francese Les enfants du Paradis di Marcel Carné, e l’anglo-americano Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Come dite? Li avete già visti, sono film vecchi? Effettivamente: il francese è degli anni ’30, Arancia meccanica è uscito nel 1971. Ma sono di gran lunga i due film migliori del festival. Sono stati proiettati entrambi nella sezione Cine Classics, dedicata a capolavori del passato restaurati. Les enfants du Paradis, in una nuova copia lunga oltre 3 ore, sarà presentato anche al festival bolognese del Cinema Ritrovato, forse addirittura in Piazza Maggiore: prenotate gli strapuntini.
Arancia meccanica è passato ieri sera alla presenza dell’attore protagonista Malcolm McDowell, della vedova di Kubrick – la signora Christiane Harlan – e del suo cognato e produttore, Jan Harlan. Qui in Francia sarà presto disponibile in una nuova edizione Blu-Ray (è probabile che la Warner esca anche in altri paesi, Italia compresa) che avrà, tra gli extra, il documentario francese Il etait une fois.. Orange mecanique di Antoine de Gaudemar, realizzato con il contributo di Michel Ciment che di Kubrick è il massimo studioso. Ciment, oggi, condurrà la consueta lezione di cinema che ogni anno Cannes affida a cineasti di gran nome. Per la prima volta, tocca a un attore: Malcolm McDowell, appunto. Che però, credeteci, in certi casi è stato più di un attore. Lavorando con Kubrick e con Lindsay Anderson (con cui esordì in If..., Palma d’oro del 1969) è
stato un vero e proprio co-autore. Siamo sicuri che oggi racconterà di nuovo quella che è «la» storia su Arancia meccanica, che è anche nel documentario e che gli abbiamo sentito narrare, anche di persona, diverse volte. È bellissima, e ve la riproponiamo.
«Stavamo girando la scena dello stupro della moglie del dottor Alexander, e non ne venivamo fuori. Ogni prova sembrava o troppo violenta, o troppo moscia. A un certo punto, Stanley mi chiese: Malcolm, sai ballare? Io, da vero sbruffone qual ero, risposi “yeeees!” e mi misi a fare un ballo assurdo cantando a squarciagola Singin’ in the Rain. Stanley scoppiò a ridere, mi disse di fare tutta la scena cantando quella canzone. Poi si attaccò al telefono e disse ai produttori della Warner di chiamare la Metro Goldwyn Mayer e di comprare i diritti del pezzo a qualunque costo. È rimasta una scena centrale nella storia del cinema, e avevamo ragione: quando la canta Gene Kelly è l’epitome dell’euforia e dell’allegria hollywoodiana, e Alex è totalmente euforico mentre prende a calci lo scrittore. E come spesso succede, accadde per caso. L’anno dopo andai per la prima volta a Hollywood e ad un party mi presentarono Gene Kelly. Non mi disse una parola: mi squadrò dall’alto in basso e se ne andò».
Per fortuna, Stanley Donen – il regista di Cantando sotto la pioggia – è invece onorato che il suo omonimo Kubrick gli abbia «rubato» e decontestualizzato la canzone. E il merito fu di McDowell, che ebbe l’idea; e di Kubrick, che come tutti i grandi registi era geniale nel riconoscere la bontà delle idee altrui.

l'Unità 20.5.11
«Tolstoj insegnò il pacifismo a Ghandi»
A colloquio con il bisnipote del grande scrittore, in Italia per partecipare al Festival «è Storia»
di Jolanda Bufalini


Tatjana Suchotina era bambina quando il grande nonno fuggì rocambolescamente da Jasnaja Poljana, la tenuta nel governatorato di Tula dove aveva trascorso la sua vita adulta, per andare a morire nella sperduta stazione di Astapovo. Esiste un raccontino inedito della nipotina che precede di qualche mese la fuga. Bambina viziata, era a Jasnaja Poljana per festeggiare il suo onomastico. Solo il nonno, a tarda mattinata, non le aveva ancora reso omaggio. A quell’ora Tolstoj era nello studio e nessuno era autorizzato a disturbarlo, ma la bambina sapeva di potere, sfuggì agli adulti ed entrò di corsa dal nonno: «È il mio onomastico e tu non mi hai ancora fatto il regalo». Tolstoj prese dalla scrivania una scatola di colori e li regalò alla nipotina.
Vivere a 125 chilometri da Mosca non isolava Tolstoj dal mondo, Jasnaja Poljana era meta del pellegrinaggio dei grandi intellettuali dell’epoca con cui il conte si teneva in contatto epistolare, elaborando la sua visione sempre più originale e di radicale pacifismo che in-
fluì, con «Dio è dentro di noi», sul Mahatma Gandhi.
Jasnaja Poljana consentiva a Tolstoj il distacco dalla mondanità moscovita, che egli dipinge in modo impareggiabile nei romanzi, per tenerlo a contatto con la natura, con i bambini e i contadini, con lo sforzo fisico e con il suo amato popolo, fonte diretta e profonda del suo non imbelle pacifismo.
Oggi Jasnaja Poljana è casa museo, luogo di studio, di seminari e di iniziative come quella che a luglio vedrà a Recanati la mostra dedicata a Leopardi e Tolstoj. I discendenti Tolstoj, sparsi nel mondo, dall’Italia, agli Stati Uniti, alla Svezia, Canada, circa 350, vi si ritrovano ogni quattro anni, per conoscersi fra loro e per tenere viva la memoria della famiglia e del grande scrittore.
La dirige Vladimir Tolstoj, bisnipote dello scrittore che domani sarà a Gorizia nell’ambito di «èStoria» con lo storico Roberto Coaloa e (domenica) con Armando Torno. Al centro dell’incontro alcuni passi inediti di Ricredetevi, scritto nel 1904, agli albori della guerra russo-giapponese. «Come ragni in un bicchiere», la condizione umana descritta da Tolstoj nella guerra. Pamphlet che non solo è contro la carneficina: «Di nuovo sofferenze che non servono a nessuno, di nuovo le menzogne, e di nuovo l’istupidimento universale, l’imbestiarsi degli uomini...». È anche contro il razzismo e l’ipocrisia degli istruiti: «I dotti ... trattano diffusamente delle leggi delle migrazioni dei popoli, dei rapporti tra la razza gialla e quella bianca, tra il buddismo e il cristianesimo, e in base a tali loro deduzioni e considerazioni giustificano l'uccisione di uomini ...». E mostra in modo inequivocabile la matrice tolstojana della non violenza gandhiana: «io non posso agire in nessun altro mo-
do se non come esige da me Dio, e perciò io, in quanto uomo, non posso prender parte a nessuna guerra, né direttamente né per interposta persona, né dando ordini, né cooperandovi in qualsiasi forma, né incitando ad essa, non posso, non voglio e non lo farò».
Domandiamo a Vladimir Ilich cosa tenga insieme lo scrittore di Guerra e pace con il saggista religioso e pacifista. «L’idea di popolo certamente ha una grande influenza sul suo pacifismo» ed la medesima che c’è in Sebastopoli e in Guerra e Pace, dove si racconta l’eroismo popolare e lo smarrimento dei giovani aristocratici attratti dagli alamari della divisa cosacca. C’è un rapporto forte fra lo scrittore e il pensatore però, chiediamo, Nabokov diceva che ciò che fa grande lo scrittore sono i particolari, la descrizione dei riccioli sul collo di Anna Karenina. È d’accordo? «No risponde nell’opera di Tolstoj ci sono diversi periodi e, ad un certo punto, decise che era più importante scrivere racconti per bambini, elaborare programmi per l’educazione dei bambini e considerava che questo fosse più importante di Guerra e pace o Anna Karenina. Anche io penso che questo periodo è molto importante, altrettanto importante di quello dei romanzi, poiché era lui a valutare così».
Il radicalismo dell’ultima parte della vita di Tolstoj, per quanto egli fosse un mostro sacro, lo portò ad entrare in contrasto non solo con il potere (Ricredetevi fu censurato) ma anche con la chiesa ortodossa. La pubblicazione dell’ultimo grande romanzo Resurrezione costò allo scrittore la scomunica, ciò fu motivo di sofferenza per lui? «Sì, dopo la rappresentazione ironica che Tolstoj fece della chiesa ortodossa in Resurrezione, nel 1901 ci fu la scomunica. Ma lui era assolutamente
tranquillo di fronte alla scomunica, rispose in modo chiaro e univoco al Sinodo». Se ho rinnegato la Chiesa, scriveva Tolstoj, «non è perché io sia insorto contro il Signore; al contrario ... . Prima di ripudiare la chiesa e quella comunione con il mio popolo che mi era indicibilmente cara, io ho dedicato parecchi anni ad una analisi teorica e pratica della dottrina della chiesa». A soffrirne moltissimo fu invece, spiega Vladimir, «la moglie Sofìa Andreevna. Per lei sì,
No alla guerra
«Resurrezione» fu censurato: non sono insorto contro Dio
Scomunica
«Era tranquillo anche di fronte alla scomunica, a soffrirne fu la moglie»
fu una tragedia». Gli ultimi anni del grande vec-
chio, i suoi tentativi di vivere in coerenza con l’elaborazione filosofica, saranno fonte di drammi, di gelosia e divisioni. Fino alla fuga, estremo atto di libertà ma anche di rottura verso la moglie che non riusciva più a capirlo e una parte dei figli.

il Fatto 20.5.11
Sky cancella Current Tv Al Gore: aria brutta in Italia...
di Valeria Trigo


Current tv ha ricevuto una notifica da parte di Sky: il canale italiano del network «alternativo» fondato da Al Gore sarà cancellato dalla piattaforma. Lo rende noto la stessa emittente f sei anni fa con l'obiettivo si legge in una nota «di democratizzare lo scenario televisivo attraverso nuovi strumenti partecipativi di accesso ai media (integrando web e tv)». L'emittente rende noto che lo stesso ex vicepresidente americano è volato ieri Roma dove nel pomeriggio ha avuto un incontro a porte chiuse con i blogger, dando il via a una campagna di opinione pubblica da parte degli spettatori e della community di Current per richiedere a Sky di rivedere la decisione. «Decisione sostiene la nota che arriva improvvisa e inaspettata dopo tre anni di successi di Current Italia. Il canale ha recentemente vinto il prestigioso Hot Bird Tv Award 2010 come Miglior Canale News Europeo, premio condiviso pari merito con Bbc World News, ed è visto ogni settimana da più di un terzo dell’intera audience di Sky. La crescita del canale nell'ultimo triennio e stata del 270% di share in day time e del 550% in prime time (fonte: ricerca Auditel-Starcom 2010) mentre gli ascolti della piattaforma Sky nello stesso periodo restavano sostanzialmente piatti. E evidente che non si tratti di una decisione di business presa dal management». Secondo Current, la cancellazione del canale sarebbe imminente, forse a fine luglio.
«Noi a Current abbiamo dedicato il nostro network internazionale a liberare dal guinzaglio chi racconta la verità; e per chi racconta la verità in Italia non c'è momento più critico di questo», così ha detto Al Gore ieri prima di partecipare ad Annozero. Sky Italia, da parte sua, risponde affermando che l’ascolto medio giornaliero nel 2011 è stato finora di 2952 telespettatori, con una perdita del 20% rispetto ai 3.600 spettatori medi del 2010».

Repubblica 20.5.11
I bambini sono filosofi
Scoprire a cinque anni le meraviglie del pensiero

"A chi dubita che sia troppo presto rispondiamo: venite a vedere resterete stupiti"
Un singolare esperimento nelle scuole materne di Modena. La sorprendente capacità dei piccoli di affrontare le sfide dell´etica e della logica

MODENA. Esmeralda non ci ha dormito. All´inizio sembrava tutto così facile: un´isola disabitata, una città tutta da inventare a piacere, senza neanche un consiglio dei grandi, per viverci bene ed essere felici. E invece tutto s´è complicato. Se non si può far del male a nessuno, neanche a un animale, mangeremo solo i tremendi finocchi bolliti? Visto che abbiamo proibito tutte le armi, come faremo a fermare i cattivi? Anzi, come si riconosce un cattivo? È sempre cattivo o può diventare buono? E cos´è la bontà? Mamma mia, tata mia, che cosa strana progettare un´Utopia se hai solo cinque anni.
Ma che cosa entusiasmante vederli al lavoro, i piccoli Thomas More, i mini Tommaso Campanella della scuola materna "Loris Malaguzzi" di Modena, in cerchio come un consiglio di anziani, compresi nel ruolo, un bosco di mani alzate, e nessuno che scantona via con la scusa che gli scappa la pipì. Sono le "Piccole ragioni", già al lavoro da qualche settimana, è l´esperimento di filosofia con i bambini forse più precoce tra quelli finora tentati qua e là. È stata la Fondazione San Carlo, che organizza ogni anno il Festival filosofia, a donare il progetto al Comune di Modena e alle sue celebri scuole d´infanzia (questa è intitolata al pedagogista reggiano che fu il padre degli "asili più belli del mondo"), e dopo un corso preparatorio tenuto da due docenti di filosofia, Alfonso M. Iacono e Maria Antonella Galanti, adesso ognuna delle ventidue scuole materne della città ha un´insegnante maieuta, che sa come portare per mano i bambini nell´avventura del pensiero astratto, nei labirinti dell´intelligenza cognitiva. Qui si chiama Giovanna Pradelli, eccola sulla soglia del pensatoio: «La stupiranno», anticipa ammiccante, «hanno stupito anche me».
Ha ragione. Al momento, seduti sulle microseggioline, Marco Matilde Matteo Federico e tutti gli altri stanno dirimendo una questione rognosa. Sull´isola dei bambini filosofi è arrivato un ladro, dicendo: «Se mi ospitate, io a voi non ruberò, anzi vi regalerò cose che ho rubato ad altri». «È un cattivo», «Ma a me non ha mica rubato niente», «Però può farlo», «No, ha promesso», «Magari è bugiardo e si ruba tutta l´isola per lui», «Allora lo arrestiamo», «Ma non abbiamo ancora deciso che c´è la polizia sull´isola», «Ha detto che ci fa dei regali», «Io non voglio regali rubati», «Così diventiamo ladri anche noi». Luca Mori, col pupazzo del ladro in mano, si è limitato a lanciare l´argomento e ora dà la parola a chi la chiede. «Non facciamo una lezione di filosofia ai bambini, facciamo filosofia con i bambini». È operatore del laboratorio filosofico Ichnos, e in questa fase d´avvio del progetto ci mette l´esperienza maturata a Rosignano Marittimo, in Toscana, già dal 2005, per iniziativa del Comune e dell´Università di Pisa. Che qui a Modena scende di qualche gradino nell´età anagrafica, fino a soglie che qualcuno potrebbe ritenere inappropriate. Filosofi a cinque anni? «I bambini sono filosofi, è proprio questa l´età dei perché», taglia corto l´assessore alla scuola Adriana Querzé. «Quando il bambino era bambino, era l´epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu? Perché sono qui, e perché non sono lì?», cantilenava la Canzone dell´infanzia di Peter Handke per Il cielo sopra Berlino di Wenders.
E poi la filosofia è un´isola gigantesca e ospitale. E qui si esplora, per cominciare, la sua provincia meno metafisica: l´etica, la filosofia delle relazioni. Tema: "Il bene e il male", mica spiccioli. Lo scopo? «Filosofi ne abbiamo già tanti», ironizza Roberto Franchini, presidente della Fondazione San Carlo, «non sarebbe male avere qualche cittadino in più». Ma non è una forma sofisticata di educazione civica, no. È pensiero che nasce dal pensiero e non dallo studio. Insiste Iacono: «Non portiamo una nuova materia a scuola, ma un nuovo strumento per governare i contenuti: abilità che è più importante dell´informazione». «Per questo», spiega Carlo Altini, curatore del progetto per la Fondazione, «abbiamo scartato tutti i protocolli stranieri sulla "Filosofia spiegata ai bambini", per quanto siano abilissimi e accattivanti». Non c´è ipse dixit, neanche ben confezionato, neanche colorato come un fumetto. Per pensare basta avere il pensiero, e il pensiero infantile è un territorio smisurato tutto da esplorare. E del tutto privo di ipocrisie e imbarazzi. «Ho cambiato idea!» garrisce una biondina con le efelidi, orgogliosa come se annunciasse di aver fatto la scoperta più bella del mondo. Azzardatevi voi.
Luca sapientemente inserisce ogni tanto uno stimolo. La discussione sulle armi è giunta a un punto morto (si può usare un´arma per il bene? Può un´arma spingerti a fare il male? Si può usare violenza per combattere la violenza?), ed ecco che si presenta un Re: «Ciao Ragazzi, se volete penso a tutto io, decido io e le colpe sono mie». «Sììììì», sollevati, entusiasti. «Ma se poi decide di farmi del male?», accidenti al dubbio metodico: siamo daccapo. «Sei buono o cattivo?», «Io? Buonissimo!», «E se fa finta?», «Facciamo che decidi tu, ma prima chiedi a noi», «Secondo me vuole venire per fare come gli pare a lui», «Lo mandiamo via?». Si vota. Vincono gli scettici. Exit il Re in affitto.
«Pensiero ipotetico», commenta soddisfatto a parte Luca, «a questa età è sviluppatissimo, sorprendente. Le prime risposte sono sempre quelle già sentite dai genitori. Ma poi si affaccia il dubbio e devono buttarsi avanti da soli». Esplorare il mare un po´ spaventoso che c´è fra realtà e desiderio, esistente e possibile, ipotesi e contraddizione. Un capelli-spazzola si blocca a metà ragionamento: «Aspetta, te lo dico dopo, adesso ci devo pensare». La scoperta emozionante dell´argomentazione.
Sull´isola, intanto, è sbarcato un mago: «Perché fare tanta fatica? Se volete, ecco una bacchetta magica, e quello che volete si realizza subito, senza stare tanto a pensarci». È un colpo basso. Il popolo di Piccola Utopia vacilla. «Lo prendiamo?». Pensare è fatica, in fondo. Ed è quasi ora di merenda. «Puoi fare tutto tutto? Basta volerlo?». Che tentazione. Ma Esmeralda, merenda o no, non è una che si fa fregare: «Se pensa a tutto la bacchetta magica noi smettiamo di pensare, e se smettiamo di pensare il cervello non esiste più». Lo capisce anche un bambino. Chissà se ci arriva perfino un adulto.