il Fatto 22.5.11
Referendum Da domani le tribune tv Ma chi le vedrà?
Il grande giorno previsto dal regolamento sulla par condicio, finalmente è arrivato: da domani la tv pubblica darà spazio ai dibattiti sui referendum del 12 e 13 giugno. Ma a guardare il calendario dei programmi, c’è poco da essere soddisfatti: per ogni quesito (i due sull’acqua, quello sul nucleare e l’ultimo sul legittimo impedimento) sono previsti cinque confronti, quasi tutti su Rai2: della durata di mezz’ora l’uno, vedranno confrontarsi esponenti del Sì e del No. Ma il problema sono gli orari: la maggior parte dei dibattiti è intorno alle 17, qualche altro alle 15. Non proprio momenti di grande audience. Non andrà meglio ai messaggi autogestiti a disposizione dei comitati: 3 appuntamenti da 12 minuti l’uno per ognuno dei quesiti. Ma su Rai3 alle nove del mattino. Ieri e oggi, inoltre, si è tenuto il weekend antinucleare: dieci catene umane attorno ai siti candidati ad ospitare nuove centrali “per dire a chi intende riportare l’atomo in Italia - spiega dal Comitato - che non ci stiamo e che, come ha dimostrato il plebiscito in Sardegna, gli italiani non accetteranno trucchetti”. A Caorso, vicino Piacenza, hanno partecipato in 3 mila.
il Riformista 22.5.11
Contro ogni personalismo
di Emanuele Macaluso
qui
http://www.scribd.com/doc/55985315
Corriere della Sera 22.5.11
Il peso nazionale delle Amministrative Per due italiani su tre sono una svolta
Al Nord cresce il Pd, la Lega interrompe la crescita e frena il Pdl. Ma al Sud i due partiti maggiori sono in calo
di Renato Mannheimer
Chi ha vinto e chi ha perso la prima tornata di Amministrative? Anche dopo diversi giorni dal voto, emergono, da parte delle diverse forze politiche, valutazioni contrastanti. In generale, le consultazioni sono risultate molto seguite, talvolta al pari delle politiche, anche da parecchi dei residenti in ambiti territoriali non direttamente coinvolti dal voto. Nell’insieme, dichiara di avere seguito con attenzione la vicenda elettorale il 50%dei cittadini, e la partecipazione risulta maggiore tra gli elettori del centrosinistra, che evidentemente hanno attribuito una valenza particolarmente importante a questo appuntamento elettorale. Tutte le analisi e i commenti succedutisi in questi giorni sono stati concordi nell’attribuire un significato politico nazionale— e di grande rilievo — a queste elezioni, specie a quelle per il sindaco di Milano e, malgrado la particolarità del contesto, a quelle per il sindaco di Napoli. Anche gli italiani nel loro complesso esprimono questa opinione: l’esito finale di queste elezioni è ritenuto, da quasi il 70%dei cittadini, assai significativo (anche) per lo scenario politico nazionale. Ancora una volta, sono di questa opinione in misura molto maggiore gli elettori dei partiti di opposizione, tra i quali più dell’ 80%attribuisce un’importanza generale alla consultazione. Secondo molti (65%), poi, già i risultati del primo turno delle Amministrative, specie quelli di Milano, rappresentano una vera e propria svolta per il Paese, lasciando presagire forse l’inizio di un nuovo ciclo politico. Quest’ultima opinione è diffusa tra tutti i votanti: infatti, pur essendo più gettonata (83%) dal centrosinistra, risulta coinvolgere anche la maggioranza (56%) degli elettori del centrodestra. Insomma, gli italiani pensano, a torto o a ragione, che ci troviamo di fronte a un momento importante della nostra vita politica. Ma è proprio così? Al di là del caso milanese, i risultati confermano questa analisi? E, se sì, quali potrebbero essere, secondo gli italiani, le conseguenze? Partiamo dai risultati, considerando le tre maggiori forze politiche. Nell’insieme delle tredici maggiori città (ossia i capoluoghi Regionali e/o i Comuni con almeno 100.000 abitanti) in cui si è votato, sappiamo, grazie alle sempre puntuali e precise analisi dell’Istituto Cattaneo, che il Pd, rispetto al voto regionale dello scorso anno, ha guadagnato circa 39.000 voti, mentre il Pdl ne ha persi 144.000. Anche estendendo l’analisi al complesso dei ventitré capoluoghi di Provincia ove si è votato quest’anno e l’anno scorso, si rileva un declino del Pdl di circa 118.000 voti, a fronte di una crescita del Pd di circa 54.000 voti. Questa tendenza positiva del Pd è però concentrata (e questa è una delle novità di queste consultazioni), come ha osservato anche Roberto D’Alimonte (sulle cui elaborazioni, pubblicate sul Sole 24 Ore, basiamo questi conteggi), specialmente nelle Regioni del settentrione: al Sud il Pd— ma anche il Pdl— perde. Si conferma, in altre parole, la tradizionale differenziazione delle modalità di scelta elettorale tra il settentrione e il meridione del Paese. E veniamo ai risultati della Lega. Nei Comuni più urbanizzati — dove però tradizionalmente è meno forte — il Carroccio perde rispetto all’anno scorso circa 25.000 voti. Un andamento analogo si rileva anche se si considera l'insieme dei capoluoghi di Provincia, ove il declino è maggiore e pari a 33.000 voti. È vero che rispetto alle Comunali precedenti la Lega, diversamente dal Pdl, ha incrementato (nei Comuni più urbanizzati con 78.000 voti in più) i suoi consensi. Ma è vero al tempo stesso che queste elezioni hanno interrotto il ciclo di crescita del Carroccio che perdurava da allora. Insomma, nel complesso il Pd guadagna in queste elezioni, specie al Nord, e le forze di centrodestra appaiono invece calanti. Alcuni hanno proposto, tuttavia, di distinguere nell’analisi il caso milanese da quello del resto del territorio, per verificare eventuali andamenti distinti. Ma i dati non confermano questa ipotesi. Anche escludendo Milano, troviamo una crescita, sia pure molto più modesta, del Pd (che si incrementa di poco meno di 4.000 voti nel resto dei Comuni più urbanizzati e di circa 19.000 voti nel resto delle Province) e una diminuzione di Pdl e Lega. Nell’insieme, dunque, il trend non appare disomogeneo. L'incremento del Pd e il calo del Pdl sono, più o meno, sempre confermati dal quadro d'insieme di queste consultazioni. Anche se bisogna tenere presente il caso di Napoli, ove il Pd diminuisce, e quello di Bologna, in cui il partito di Bersani mantiene, senza incrementarlo, il seguito del 2010, ma decresce rispetto alle ultime Comunali. Cosa comportano a livello politico generale questi risultati? Le opinioni degli italiani a questo riguardo non risultano univoche e si differenziano specialmente in relazione all'orientamento di ciascuno. Poco più della metà (54%nell'insieme, 73%tra gli elettori di centrosinistra, 42%tra quelli di centrodestra) degli italiani ritiene che, a seguito degli esiti elettorali di questo primo turno, il governo sia risultato complessivamente indebolito. Solo il 4%ritiene, abbastanza curiosamente, che ci troviamo di fronte ad un rafforzamento, mentre una minoranza consistente (32%, ma molti di più, il 47%, tra gli elettori del centrodestra) ritiene che, alla fine, per la stabilità del governo tutto resti come prima. Di converso, la maggioranza relativa (43%, ma il 67%, tra gli elettori del centrosinistra, a fronte di solo il 26%tra i votanti per il centrodestra) intravede un rafforzamento dell’opposizione. E, naturalmente, secondo più del 60%(e, significativamente, anche della maggioranza relativa — 47%— degli elettori del centrodestra), si manifesterà, specie se a Milano dovesse prevalere Pisapia, un’ulteriore caduta del livello di popolarità del premier. Insomma, sia i risultati veri, sia le opinioni dei cittadini, suggeriscono un quadro di più accentuata debolezza per il centrodestra, di cui si avvale a suo vantaggio il centrosinistra. Che verrebbe accentuato se quest’ultimo prevalesse anche nei ballottaggi. Ma solo l’esito del secondo turno potrà evidenziare lo scenario definitivo di questa tornata elettorale.
l’Unità 22.5.11
Gli indignati, un «contagio» che unisce l’Africa all’Europa
La crisi economica perdurante la vera causa dei moti popolari. Ma in Occidente si contesta l’utilità del voto a fronte dei fallimenti della politica, altrove si protesta per ottenere libere elezioni
di Loretta Napoleoni
Nouriel Roubini, il celeberrimo economista che ha predetto la crisi del credito, sostiene che il debito privato, e cioè quello accumulato dalle banche perseguendo una politica del credito scellerata, si è trasformato in debito pubblico. Fin qui siamo tutti d’accordo. Roubini però aggiunge che le politiche perseguite dal Fondo Monetario e dall’Europa Unita per arginare la crisi del debito sovrano stanno trascinando l’Europa lungo una spirale recessiva pericolosissima. La formula dell’austerità – riduzione della spesa pubblica e dei salari per contenere il debito – in realtà lo ingigantisce poiché riduce il reddito e quindi il gettito fiscale, il consumo e l’occupazione. E dato che le economie europee sono legate a doppio filo dalla globalizzazione, questa contrazione potrebbe a lungo andare contaminare anche quelle più floride, come la Germania e la Francia. Invece di tirare la cinghia, l’Europa dovrebbe inventarsi un piano di salvataggio dell’economia alla Keynes, un’iniezione massiccia di denaro da far confluire nell’economia reale non in quella virtuale degli hedge funds.
Mancano però in questo nostro mondo futurista, dove la tecnologia viaggia costantemente sulle ali dell’innovazione e del cambiamento, uomini come Keynes, gente che invece di creare l’ennesimo social network concepisca una via d’uscita dalla crisi del debito sovrano. Questa settimana abbiamo scoperto che alla guida di organizzazioni come il Fondo Monetario, concepita a Bretton Woods quale polmone d’acciaio delle economie in crisi, ci sono uomini che abusano dei propri poteri, anche nelle stanze d’albergo. Ed alla guida delle nazioni europee ce ne sono altri che sbandierano la loro (presunta) virilità quale qualità prima del proprio genio politico. Roubini non lo dice, ma tra le cause della crisi c’è anche un’eccessiva produzione di testosterone nell’era del viagra. E tanta è l’ebbrezza del potere maschio all’interno del cerchio dei potenti che non si presta attenzione a ciò che avviene al suo esterno, nel mondo.
Lo stesso giorno in cui a New York il capo del Fondo Monetario, Strauss-Khan, aggrediva sessualmente una cameriera in Spagna nasceva il movimento 15 Maggio. A guidarlo sono i cosiddetti indignati, per lo più giovani, appartenenti alla generazione millennium, quella che ha raggiunto la maggiore età negli ultimi dieci anni, meglio conosciuta come «generazione perduta», perché destinata al precariato ed alla disoccupazione a vita. Non a caso questo movimento europeo, che ha quali antenati i grillini italiani, si è dato una forma pseudo-istituzionale ed ha prodotto un manifesto proprio in Spagna, paese con un tasso di disoccupazione pari al 21,3%, equivalente a quasi 5 milioni di disoccupati, di cui il 40% giovani sotto i 35 anni.
Osservando i nostri figli e nipoti sfilare pacificamente per le strade delle capitali europee o bivaccare nelle piazze, a noi che abbiamo partecipato alla contestazione degli anni Settanta non tornano in mente gli anni in cui indossavamo pantaloni a zampa d’elefante e camicie fiorate, la generazione millennium non discende dai figli dei fiori ma ha legami di sangue con i fratelli della rivolta araba. Il modello infatti è identico: pacifico, niente ideologia e rifiuto di tutta, ma proprio tutta, la classe politica. Il sistema bipartitico, anima delle democrazie occidentali, rema contro la società civile perché la politica è marcia, questo in sintesi il messaggio del movimento. Come la rivolta araba, quella europea è dunque apolitica, l’elemento coesivo non è l’ideologia di destra o di sinistra, ma il malcontento nei confronti della gestione dell’economia nazionale: caro prezzi, disoccupazione, assenza di opportunità e di mobilità sociale, che esclude questi giovani dal sistema di produzione. «A che serve votare se poi non posso mantenermi?», domanda una ragazza disoccupata spagnola di 24 anni, laureata in scienze della comunicazione e che da tre giorni protesta alla Porta del Sol a Madrid. Dal Cairo a Madrid, da Tunisi ad Atene, la narrativa è quella che abbiamo già ascoltato nelle piazze arabe, come uguale è la radice del malcontento: una prolungata crisi economica ha messo in evidenza le falle del modello economico occidentale in tutto il bacino mediterraneo, un modello incapace di assorbire le nuove generazioni perché ha delocalizzato la produzione altrove. E paradossalmente mentre al sud del mediterraneo i giovani domandano il voto, nel sud d’Europa ne denunciano l’inutilità.
Il contagio del malessere politico si sta sovrapponendo a quello economico creando i presupposti per un’epidemia rivoluzionaria nuova, senza ideologia, né struttura istituzionale, ma ben radicata nella società civile. Un modello che il movimento Beppe Grillo ha già sperimentato in Italia con grande successo. E lo stato di diritto europeo, come quello oligarchico arabo, non sa proprio come relazionarsi con questo fenomeno.
il Fatto 22.5.11
Savater: “Gli Indignados? Esempio di cività e democrazia”
Lo scrittore appoggia il movimento dei giovani spagnoli
di Alessandro Oppes
Madrid “Fare un parallelo con le rivolte della primavera araba? Direi proprio che è impossibile. Mi sembra azzardato e fuorviante. Qui si dimostra la forza straordinaria di una democrazia, capace di accettare la sfida di una comunità che scende in piazza a rivendicare le proprie ragioni. Lì sono popoli disperati che chiedono il rispetto di diritti fondamentali, come la libertà, e a cui i regimi rispondono con la repressione, a volte sanguinaria”. Non è sorpreso, e tantomeno contrariato Fernando Savater, di fronte all’esplosione, improvvisa e pacifica, del movimento degli “indignados”. Anzi, dalle parole del filosofo e scrittore, uno dei più noti intellettuali spagnoli, universalmente conosciuto per il best-seller Etica per un figlio, sembra trasparire una moderata simpatia nei confronti dei ragazzi accampati da una settimana alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole.
Perché ora? E perché proprio in questo modo?
Francamente non c’è da stupirsi. In questo paese si è raggiunto un livello di disoccupazione molto alto, si sono toccati i limiti di guardia. I giovani, soprattutto i più preparati, capiscono di non avere prospettive e sono costretti ad andar via, all’estero, per cercare di costruirsi un futuro. C’era un livello di insoddisfazione crescente, quasi di impotenza. Forse non era prevedibile la forma in cui questo movimento è nato, più che altro perché eravamo abituati da tempo a un’inspiegabile apatia. Ma non mi sorprende affatto: sono appena rientrato dal Messico e ho visto che lì, nella capitale, nella piazza del Zócalo, ci sono giovani che si riuniscono e manifestano . E lo stesso accade in altre capitali dell’America Latina.
Dà un giudizio positivo sulle loro rivendicazioni?
Positivo nel senso che vedo giovani e meno giovani che simpatizzano , parlano, discutono liberamente in un esercizio salutare di partecipazione. È un esempio di civiltà, perché non è segnato da nessun tipo di violenza. Non si riuniscono per creare problemi, vogliono solo cercare di risolverli.
Eppure dà da pensare la rapidità con cui un movimento, nato dal nulla, è riuscito in pochi giorni a focalizzare l’attenzione del mondo intero.
Ciò che è cresciuto, a una velocità sorprendente, è la forma di convivenza. Il discorso, forse, è un altro quando si passa alla parte teorica. In fondo, almeno per il momento, tra le tante proposte che emergono ci sono parecchie cose che si erano già viste. Ci sono una serie di idee di buon senso, e altre un po’ meno, magari destinate a restare nel libro dei sogni.
Crede che questo improvviso risveglio sociale possa avere qualche conseguenza sul voto delle amministrative di oggi?
Sinceramente non so se potrà influire in qualche modo. A guardare freddamente i numeri, si può vedere che è un fenomeno molto vistoso ma che non sembra coinvolgere milioni di persone. Nelle democrazie abbiamo la tendenza a pensare che i problemi li devono risolvere i nostri rappresentanti. Vedremo alla chiusura delle urne se qualcuno avrà cambiato idea, e in che modo.
Chi sono questi giovani? Forse persone tradite da quello Zapatero che, sette anni fa, promise: Non vi deluderò?
Tra i tanti, uno dei più gravi errori commessi da Zapatero è stato quello di annunciare, tempo fa, che la crisi stava per terminare. Invece le cose sono andate sempre peggio. Se avesse preso misure capaci di dare qualche risultato, non ci troveremmo probabilmente a dover commentare la nascita di questo movimento. Certo che si sentono delusi e traditi.
Repubblica 22.5.11
Tra gli "indignati" spagnoli che non vogliono arrendersi
"Basta con i politici corrotti"
E oggi il voto nelle città può chiudere l´era Zapatero
di Omero Ciai
Alla Puerta del Sol, simbolo di Madrid, migliaia di giovani: "Senza il popolo non siete niente Questa non è più una democrazia"
Il direttore del Paìs "Vincerà la destra ma nessun partito potrà prescindere dal movimento nato in questi ultimi giorni"
MADRID - La marea sale ogni sera dopo il tramonto e riempie, ogni volta di più da una settimana, l´ampia vasca della Puerta del Sol, il chilometro zero da dove partono tutte le strade di Spagna. Durante il giorno gli indignados sono meno di un migliaio e si proteggono dal sole sotto una grande tenda accanto alla statua equestre di Carlos III ma quando scende la sera la piazza esplode e diventa impossibile camminare anche lungo le vie laterali.
Dall´altra sera l´happening è illegale perché alla vigilia del voto di oggi ogni manifestazione è proibita ma nessuno ha avuto il coraggio di sloggiarli. La determinazione dei giovani ha rotto i divieti e il ministro degli Interni, Rubalcaba, che è anche il più quotato candidato premier dei socialisti alle elezioni generali del prossimo anno, ha scelto il compromesso: «La polizia interverrà solo se ci saranno incidenti», ha detto, mentre allo scoccare della mezzanotte migliaia di mani aperte s´alzavano verso il cielo.
I politici sono storditi di fronte a questa protesta che s´allarga in tutto il paese fino alle piazze di Barcellona, Siviglia, Valencia, e che li mette al centro dell´ira popolare. «2011 System Update», «Aggiornamento del Sistema», si legge su uno striscione di stoffa nera e accanto: «La soluzione per il 50% dei nostri problemi? Vent´anni di galera ai politici corrotti». Per quanto ingenua negli obiettivi ed eterogenea nei partecipanti, questa spagnola è prima di tutto una rivolta contro caste e privilegi. Ieri sera un anziano signore, in giacca chiara e cappello, s´aggirava con un cartello: «Mi indigna che un deputato possa andare in pensione dopo 11 anni, io ho dovuto versare contributi per 37». Mentre Adriana, piccola imprenditrice quarantenne («Voto a destra», ci tiene a precisare), scende in piazza perché è stufa di «pagare tangenti».
Sotto la luna piena che riverbera nei vetri a specchio degli edifici più moderni ognuno espone il suo cartello. Contro la politica: «Senza il popolo non siete niente» e «La chiamate democrazia ma non lo è»; oppure ecologisti. «Ciò che consumi ha conseguenze sull´ecosistema»; giovanilisti: «Siamo stati figli delle comodità ma non saremo padri del conformismo»; economici: «Il mio stipendio finisce molto prima della fine del mese»; e perfino filosofici: «Penso, dunque disturbo».
Secondo Javier Moreno, il direttore di El Pais che ha i dati degli ultimi sondaggi sul voto di oggi, «accadrà come dopo il ‘68 in Francia, sarà la destra a vincere con un margine più ampio di quello già previsto ma sul lungo periodo nessun partito potrà prescindere dal movimento giovanile nato in questi giorni». La ragione è semplice: l´astensionismo aumenterà a sinistra, tra gli elettori disillusi del Psoe. «Ma - aggiunge Moreno - la protesta degli indignados ha generato così tante simpatie nella società spagnola che d´ora in poi i politici dovranno assumere la responsabilità di riavvicinare il sistema ai cittadini. «Non ci rappresentate», gridano in tutte le piazze del paese, e questa è una emergenza democratica che i partiti dovranno affrontare».
Al capolinea della stagione di "Bambi" Zapatero, il premier che dopo due mandati ha già annunciato che non si ripresenterà, il partito socialista è a pezzi. Senza risposte per i laureati che cercano lavoro, per i precari che gridano «offresi schiavo a 700 euro mensili», per i figli della classe media che studiano ma che già sanno di non avere prospettive. La crisi spagnola è implacabile: i disoccupati nel mese di maggio hanno sfondato il tetto dei 5 milioni, il 21,1% della forza lavoro. Cifra che diminuirà lievemente nei mesi estivi solo grazie ai lavori stagionali nel turismo.
L´imputato numero uno naturalmente è Zapatero, per due ragioni: la prima per le grandi speranze che aveva suscitato la sua doppia elezione, nel 2004 (dopo gli attentati dell´11 marzo, quando l´unica cosa che volevano gli spagnoli era ripudiare la politica bushiana di Aznar e ritirare i soldati dall´Iraq) e nel 2008; la seconda ragione per aver nascosto fino all´ultimo momento, due anni fa, l´ampiezza e la brutalità della crisi spagnola dopo l´esplosione della bolla finanziaria americana. Il successivo piano di austerity ha chiuso il cerchio condannando i socialisti ad una sconfitta elettorale ormai certa in queste elezioni amministrative e regionali dove rischiano di perdere dopo 32 anni il comune di Barcellona e un feudo storico, la città di Felipe Gonzalez - il leader socialista del post-franchismo - come Siviglia.
Ma quello che sta arrivando è anche peggio. Il centro destra che s´avvia a vincere le amministrative oggi e le politiche fra meno di un anno ha un solo programma: smantellare il welfare. Chiudere gli ospedali pubblici, dimagrire le pensioni, ristrutturare il sistema scolastico. Perché, ovvio, non ci sono fondi. Meno Stato più mercato. La più classica delle ricette per mantenere il paese in linea di galleggiamento e scongiurare l´incubo collettivo: una bancarotta all´Argentina.
Per gli accampati delle piazze di Spagna il passaggio delle elezioni di oggi è quasi superfluo. Non se ne disinteressano ma hanno altre prospettive. Sotto le tende hanno abolito l´alcool, creano commissioni di studio, preparano un «manifesto» di rivendicazioni nazionali. Per evitare che i mass media individuino tra loro un leader, solo a Madrid hanno nominato 36 portavoce («una vecchia tradizione anarchica», scrive El Pais), e continuano ad inventare slogan che scrivono dappertutto. L´ultimo: «Vogliamo un appartamentino come quello del principino», sbeffeggiando il principe Felipe, successore designato al trono di Juan Carlos. Oggi si vota e lunedì per la Puerta del Sol sarà il giorno della verità.
il Riformista 22.5.11
Gli “indignados” scompigliano le amministrative
I ragazzi accampati a Puerta del Sol rendono imprevedibile un
voto apparentemente scontato. Nei comuni più incerti possono far pendere
l’ago della bilancia. E i socialisti sperano che gli alleati riescano a
intercettare parte dello scontento, salvando così i feudi in pericolo
qui
http://www.scribd.com/doc/55985315
l’Unità 22.5.11
Trentaquattro milioni di cittadini sono chiamati alle urne per elezioni regionali e comunali
Nelle piazze continua la pacifica rivolta giovanile contro il sistema politico nel suo insieme
Spagna al voto, gli indignati rubano la scena ai partiti
Trentaquattro milioni di spagnoli chiamati alle urne oggi per le amministrative. Da una settimana attenzione concentrata sulla contestazione giovanile. Indignati in piazza anche nel giorno di silenzio elettorale.
di Claudia Cucchierato
«Se non ci lasciano sognare, non li lasciamo dormire». Scritto a pennarello su un lenzuolo 9x2m e issato all'ingresso sud-ovest della Plaça Catalunya di Barcellona, è questo il motto che definisce le intenzioni degli «indignati» riuniti in più di 160 piazze di Spagna. In effetti, non è un rumore assordante quello che fanno, bensì un rumore di fondo, costante, come un fischio nelle orecchie dei quasi 100.000 tra sindaci, consiglieri, presidenti regionali, deputati e procuratori che usciranno eletti dagli scrutini di questa notte.
SPUNTI PER IL DIBATTITO
Nella giornata dedicata alla riflessione, subito prima delle elezioni che si svolgono oggi in 8.116 comuni e 13 regioni spagnole, le piazze hanno registrato il tutto esaurito. L'urlo muto, che alla mezzanotte di venerdì ha inaugurato il silenzio imposto da una legge criticata nella cosiddetta «era digitale», ha fatto il giro del mondo. Molto più loquace di qualsiasi parola o dichiarazione dei candidati, la riflessione silenziosa e pacifica degli «indignati» monopolizza da una settimana il dibattito politico nel paese iberico. Ma cosa chiedono? Difficile dirlo. Un po' di tutto in realtà. Ogni proposta è accettata, ogni spunto per il dibattito accolto, depositato nell'apposita urna di cartone e sviscerato in lunghe discussioni dove la parola si prende alzando la mano e il grado di approvazione si misura con una specie di applausometro artigianale.
Tutti gli striscioni e i cartelli che facevano riferimento alle votazioni sono stati staccati dalle piazze, per evitare di dare scuse alla Giunta Elettorale per sciogliere i raduni, come imporrebbe la legge. Ne rimaneva solo uno ieri in Plaça Catalunya, penzolante in un cestino: «Non li votare, loro non lo farebbero». Più di 34 milioni di spagnoli sono chiamati alle urne e il voto in bianco, secondo tutte le inchieste e i sondaggi in circolazione, potrebbe essere molto più alto che in qualsiasi altra tornata amministrativa precedente.
CAMBIAMENTI STRUTTURALI Ma non è da imputare esclusivamente alle mobilitazioni nate dalla manifestazione del 15 maggio. Non è sulle elezioni che vogliono essere decisivi gli «indignati». Vogliono cambiamenti strutturali, dibattono giorno e notte su argomenti trasversali come l'acqua pubblica, la sanità, l'educazione, il diritto alla casa e al lavoro. Hanno raccolto centinaia di migliaia di firme contro gli sfratti coatti. Applicano la formula della partecipazione diretta, chiedono referendum per l'approvazione delle leggi più importanti, per bypassare la centralizzazione del potere.
I partiti in lizza per le elezioni li guardano da sette giorni con un misto di timore e rispetto. I conservatori del Partito Popolare cercano di minimizzare il movimento, adducendo ipotetiche connivenze con la sinistra. Di fatto, Izquierda Unida è stata l'unica formazione a presentare ricorso contro il veto ai presidi imposta dalla Giunta Elettorale. Dall'altra parte, il Partito Socialista, attualmente al governo, si trova di fronte a un dilemma ben più delicato. Sa che non può far finta di nulla, né nascondersi dietro un «non dipende da noi». Le previsioni di voto lo danno perdente anche in comuni storicamente di sinistra come Siviglia e Barcellona. Eppure, cavalcare l'onda rivoluzionaria potrebbe essere per il Psoe controproducente. È per questo che il Ministro degli Interni e vicepremier Alfredo Pérez Rubalcaba ha deciso di non sciogliere i raduni. Primo tra tutti quello che nella Puerta del Sol di Madrid conta da una settimana una media di 30.000 persone permanentemente connesse con Facebook e Twitter.
l’Unità 22.5.11
Socialisti rassegnati
Pagano i ritardi nell’affrontare la crisi
L’invito degli Indignati all’astensione si somma alla delusione dell’elettorato di sinistra per i tagli alle spese sociali decisi dal governo Zapatero e per l’elevata disoccupazione giovanile
di Leonardo Sacchetti
Indignazione fa rima con rassegnazione. E lo fa ancora di più in questi giorni nella Spagna alle prese con una campagna elettorale per le amministrative di oggi, segnata dal movimento giovanile degli Indignati. La rassegnazione è quella dei partiti, dei Socialisti e dei Popolari.
I primi sembrano incapaci di gestire la fase conclusiva del governo dell'ex enfant prodige José Luis Rodriguez Zapatero, invecchiato improvvisamente quando la crisi economica ha colto il suo esecutivo senza troppe idee. La sinistra spagnola lo ha abbandonato alla deriva, dimenticandosi di quando Zap erano le tre lettere più ammirate in gran parte dell'Europa progressista.
Adesso no: il Bambi della Moncloa (la sede del governo spagnolo) rischia di passare alla storia per il maggior taglio alle spese sociali della Spagna democratica. Zapatero non ha saputo gestire la fine della bonanza economica iberica, quella
dei costi bassi (delle case e del lavoro) e degli alti ricavi. Esplosa la bolla immobiliare – con dozzine di quartieri deserti e invenduti alle porte delle città -, la “nuova Spagna” si è ritrovata al palo, ai livelli di metà anni ottanta. La disoccupazione giovanile è esplosa, riempiendo di rabbia e disillusione le piazze di questi giorni.
Trentaquattro milioni di elettori, duecentomila seggi. Questi i numeri di una tornata elettorale molto politica e ben poco locale. Persino in Castilla-La Mancha, i socialisti rischiano di vedersi superare dai popolari. Idem nelle Asturie, patria di tante rivoluzioni socialiste del secolo passato. Il vento è cambiato, prima ancora che la sinistra spagnola fosse attrezzata.
Ieri, giornata di “riflessione”, i big sono rimasti in seconda fila, spaventanti da quanto potesse succedere in Puerta del Sol, dove gli Indignati ripetevano la loro dichiarazione di voto: nullo o bianco (nel 2007 fu del 5%) o astensione (36%). E stasera, sapremo quanto avranno pesato nel voto locale per 8.116 comuni (tra cui la capitale) e per 13 delle comunità che compongono la Spagna: Aragona (lieve vantaggio per il Psoe), Asturie, Baleari, Castilla-La Mancha (vantaggio Pp), Canarie, Cantabria, il feudo popolare di Castilla-Leon, Comunità Valenciana e Comunità di Madrid (Pp, seppur travolti dagli scandali), La Rioja, Extremadura, Murcia, Navarra e le enclave marocchine di Ceuta e Melilla.
Dall'altra parte, i conservatori dell'eterno Mariano Rajoy hanno deciso di non parlare, di non interferire in questo scontro che giudicano tutto a sinistra. Sanno che i risultati, per loro, arriveranno cospicui con la chiusura dei seggi. «Molti elettori di sinistra – ha detto Manuel Manonelles i Tarragò, direttore della Fondazione per una Cultura di Pace di Barcellona – oggi non andranno a votare, regalando comuni e provincie a Rajoy». Un biglietto da visita che i popolari son pronti a giocarsi in vista delle elezioni politiche, con Rajoy candidato contro l'attuale ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, inchiodato ai dubbi sul modo in cui gestire queste piazze indignate.
Così, si è parlato poco di amministrazioni di città come Siviglia (con scandali che hanno travolto anche esponenti comunisti di Izquierda Unida) o Avila (feudo popolare). Poco si è detto sul Paese Basco, dove – per la prima volta in 30 anni – c'è stata una campagna elettorale senza violenze di strada (la kale borroka dei giovani indipendentisti) e dove le urne daranno una risposta agli sforzi del radicalismo di sinistra (abertzale) che, con la disarticolazione dell' Eta, ha ripreso il viaggio di pace con la presentazione del cartello Bildu. Forse è proprio qui, nelle terre basche di Bilbao, che la sinistra spagnola può giocare la sua carta futura: buona amministrazione, attenzione ai temi sociali e una dirigenza capace di sfidare anche l'ultimo taboo politico, la fine dell'Eta. È una speranza che si chiama Patxi Lopez, il lehendakari (il presidente) socialista di Euskadi.
Repubblica 22.5.11
L’ultradestra vola anche in Austria "Nei sondaggi siamo il primo partito"
La gioia di Strache, leader Fpoe: "Non chiamateci razzisti"
"Il nostro successo è il fallimento di chi è incapace di capire i nuovi bisogni della gente"
Uno dei punti di riferimento resta Marine Le Pen Ma anche il premier ungherese Orban
di Andrea Tarquini
BERLINO - Svolta storica per l´Europa intera dall´Austria: per la prima volta in un paese membro dell´Unione europea, un partito della nuova destra radicale e nazionalpopulista è al primo posto nelle preferenze degli elettori. La Fpoe, il "Partito della libertà" austriaco guidato dal giovane erede politico di Haider, Heinz-Christian Strache, secondo i sondaggi supera sia i socialdemocratici sia i democristiani: 29 per cento contro, rispettivamente, 28 e 23. E ben 43 austriaci su cento si dicono a favore di una partecipazione del partito di Strache al governo, cosa che lo accredita per la nomina a cancelliere. Dopo i grandi successi elettorali delle nuove destre in Svezia e Finlandia, Olanda e Danimarca, dopo la svolta radicale della legge sulla stampa e della nuova Costituzione nell´Ungheria del premier nazionalconservatore Viktor Orban, dopo il volo di Marine Le Pen in Francia nei sondaggi, la sfida ai partiti storici delle democrazie postbelliche acquista una nuova dimensione nel Vecchio continente, e rimette in discussione ogni equilibrio.
«Il successo dei nuovi partiti democratici di destra in tutta Europa è prima di tutto l´espressione del fallimento dei partiti storici, a cominciare dai democristiani e liberalconservatori. Sono incapaci di capire i nuovi bisogni, le nuove priorità e i nuovi timori della gente comune», dice Heinz-Christian Strache. Sa di cosa parla: la maggioranza degli austriaci considera il suo partito come una forza politica normale, che va sdoganata e associata a pieno titolo al gioco del potere. Le sanzioni che Francia e Germania, con Chirac e Schroeder, vollero contro Vienna anni fa, quando l´allora cancelliere democristiano Wolfgang Schuessel portò il partito di Haider nella coalizione di governo, non hanno fatto cambiare idea agli elettori. In Austria soffia un forte vento di nuova destra, e per la prima volta in Europa non è più inconcepibile che il leader di un partito del neopensiero radicalnazionale diventi capo del governo.
«Noi non siamo razzisti, non siamo contro l´Islam, vogliamo però che chi vive da noi si integri», pensa Strache. E ancora: «La maggioranza degli immigrati è OK, i problemi vengono dalle minoranze violente, o integraliste». Giovane (ha 42 anni), telegenico, Strache sta tentando con crescente successo il grande passo: trasformare il suo partito da voce radicale in nuovo riferimento per l´elettorato conservatore e moderato deluso da democristiani e socialisti. «I problemi dell´immigrazione, i rischi d´immigrazione massiccia per i confini aperti con l´Est nella Ue, sono problemi di cui occorre parlare senza censura», sottolinea. Linguaggio insieme duro e chiaro ma anche soft, più articolato del «rimandarli a casa» di qualche campagna elettorale fa. «Rispettiamo ogni cultura e ogni religione, ma abbiamo il coraggio di parlare dei problemi reali», fa notare Strache. È per un richiamo forte alle tradizioni cristiane, e per un´Europa delle patrie. Spera che «i partiti patriottici europei trovino nuove forme di collaborazione»: il suo sogno sembra essere un terzo blocco all´Europarlamento, alternativo a popolari e socialisti. La sua mano tesa appare sempre più interessante a Marine Le Pen e ai ‘Veri finlandesi´, ai ‘Democratici di Svezia´ come al partito di Wilders in Olanda o forse anche alla Lega Nord.
Voglia d´identità come rifugio è il messaggio. E Strache lo cura correggendo gli eccessi del suo partito: cerca di diluire i contatti con le Burschenschaften (le unioni studentesche ultraconservatrici), con associazioni di reduci, con altre organizzazioni in odore d´ultradestra. Sul piano internazionale, è stato il primo leader delle nuove destre radicali europee a visitare Israele, ha anche reso omaggio allo Yad Vashem. Giorni fa, ha organizzato a Vienna una conferenza sulla crisi in Siria, aprendola soprattutto agli oppositori anti-Assad.
Parte dunque da Vienna il nuovo corso della destra radicale europea. Da Stoccolma a Helsinki, da Budapest alla Danimarca dove i populisti del "Partito popolare danese" hanno imposto il ripristino dei controlli alle frontiere, Strache è un nuovo simbolo. L´establishment austriaco reagisce inerte, indebolito e compromesso dagli scandali a ripetizione in cui democristiani e socialisti affondano. I partiti storici, secondo il top banker Andreas Treichl, «sono troppo stupidi e vili» per confrontarsi con la nuova situazione.
(ha collaborato Luca Faccio)
Repubblica 22.5.11
El General, un rap contro i dittatori "Canto la rabbia della rivoluzione"
L´artista tunisino è la colonna sonora della primavera araba
di Francesca Cafarri
Metto in musica ciò che il popolo pensa: chiedo libertà e giustizia. Per questo in tanti amano le mie canzoni
Signor Presidente, parlo a nome della gente che muore di fame. La polizia ci picchia, qui non c´è più giustizia
ROMA - Lo hanno chiamato "la voce della rivolta". Per il settimanale Time è uno dei 100 uomini più potenti della terra: 63simo nella classifica 2011, prima di Barack Obama e Xi Jinping, il presidente cinese designato. Nei video è avvolto dalla bandiera tunisina, in volto un´espressione truce: ma a guardarlo da vicino Hamada Ben Amor è un giovane normale, pantaloni larghi e aria da ragazzino per bene. Eppure a lui il destino ha affidato un compito speciale: dare voce alla rabbia di una generazione intera. Hamada, o El General come è meglio noto, è il rapper più famoso del mondo arabo. In questi mesi le sue canzoni hanno risuonato dalle piazze di Tunisi a quelle del Cairo, raggiungendo Sana´a e Manama. «Ho messo in musica quello che la gente pensava: ho chiesto libertà e giustizia. Per questo in tanti si sono riconosciuti nella mia musica. Ho mischiato politica e note: per chi fa rap è un fatto normale». Avvenuto però in un momento speciale.
Ventuno anni, di Sfax, tre ore da Tunisi, prima di essere El General, Hamada è il più giovane di 4 figli di una normale famiglia tunisina: padre medico, madre libraia. Nessuno fra i suoi aveva mai prestato particolare attenzione alla musica fino a quando, 3 anni fa, lui non ha cominciato a suonare, ispirato dall´americano Tupac Shakur e dai rapper francesi. Qualche piccolo successo qua e là, poi il boom di novembre. «Ho scritto questa canzone, Raìs Lebled (presidente della Repubblica in dialetto tunisino, ndr) - racconta alla vigilia del suo primo concerto romano, organizzato dal Collettivo pace e solidarietà internazionale di Rifondazione comunista e da Action-diritti in movimento - ci ho messo dentro quello che vedevo: la rabbia della gente, dei giovani prima di tutto. Fare musica in pubblico mi era già stato vietato, perché parlavo di politica. Così l´ho messa su Internet: ed è stata un successo immediato».
Le note sono quelle tipiche del rap: bisogna scorrere il testo per capire il segreto di Raìs Lebled. «Signor presidente della Repubblica, parlo a nome della gente che muore di fame, ma vorrebbe lavorare e vivere. Esci in strada e guardaci: siamo diventati animali: la polizia ci picchia, aggredisce le donne, non c´è più giustizia. Vieni in strada, guardaci: voglio farti piangere».
Così El General cantava a novembre. Il 17 dicembre il venditore ambulante Mohamed Boazizi si dava fuoco a Sidi Bouzid, accendendo il fuoco della rivolta in Tunisia. Il 24 Hamada Ben Amor veniva arrestato con l´accusa di sovversione. «Volevano sapere chi avevo dietro, chi mi spingeva: non avevano davvero capito nulla», ricorda oggi.
Da allora sembra passato un secolo: la pressione della folla, scesa in strada cantando Raìs Lebled, ha portato alla sua liberazione prima e a quella della Tunisia dopo. «Come tutti gli altri, sono rimasto sorpreso - dice il rapper - non mi aspettavo che saremmo davvero riusciti a cacciare Ben Ali. È stato il destino: la tensione e la paura accumulate in 23 anni sono esplose tutte insieme». Poi l´onda si è diffusa: l´Egitto è stato il primo a far risuonare le note di El General in Piazza Tahrir, altri Paesi lo hanno seguito. Il rapper è diventato la voce e il volto della rivolta.
Oggi è noto in tutto il mondo: passa da un concerto in Europa a uno nel mondo arabo, dove è una star di prima grandezza. «Mi rendo conto di essere una specie di portavoce - spiega - ed è una grande responsabilità. Quando ascolti migliaia di persone cantare in strada la tua musica è chiaro che qualcosa è successo, che non è più solo musica tua».
Sul futuro ha le idee chiare: «È una fase delicata - spiega - ma andrà bene. In Tunisia, ad esempio: chiunque vinca alle elezioni di luglio sarà meglio di Ben Ali». Islamici compresi, sostiene: «Voi occidentali dovreste smettere di avere paura. Io sono un musulmano: ma canto e suono. L´ho fatto anche quando tutti mi dicevano di tacere, perché era pericoloso. Essere un musulmano non vuol dire essere un terrorista».
Per chi guarda con ansia alla "sua" sponda del Mediterraneo, El General ha un messaggio: «Aiutateci a gestire questa transizione, ma poi non venite a dirci cosa dobbiamo fare: saremo amici su basi paritarie. Tutti vogliamo la pace». Un messaggio più preciso lo riserva per le prossime canzoni: «Le critiche stavolta saranno per gli Stati Uniti e per Israele: ma anche per voi italiani. Che aspettate a svegliarvi? Forse anche a voi serve una canzone: ve la scriverò». Promessa di generale, anzi di El General.
Repubblica 22.5.11
intervista La critica del premio Nobel Amartya Sen al sistema attuale
Quando le regole rendono più liberi
Un´economia di mercato ideale deve avere come obiettivi la lotta alla povertà, mantenere alta l´occupazione e continuare a garantire un welfare sociale
di Enrico Franceschini
«A volte le regole aumentano la libertà invece di restringerla, ma occorre prima mettersi d´accordo sul significato di libertà». Amartya Sen, 74enne economista indiano, cattedra ad Harvard, ora "in prestito" all´università di Cambridge, premio Nobel 1998, pronuncia la sua apparente provocazione in tono pacato, come un insegnante che corregge con dolcezza l´errore di uno dei suoi studenti. Gli ho appena chiesto di parlare dei limiti della libertà economica, il tema del suo intervento al Festival dell´Economia di Trento (il 26 maggio), ma il professore comincia con una precisazione: «La libertà non si deve mai limitare».
Eppure si discute molto di limiti alla libertà del mercato, dopo il collasso finanziario del 2008.
«Io non ragiono in termini di limitazioni alla libertà».(segue all´interno dell´inserto)
La libertà è la virtù più importante per l´uomo e va sempre preservata. Chiediamoci piuttosto quali sono i fattori che causano una diminuzione della libertà umana. Uno è sicuramente la disoccupazione: senza lavoro, un uomo diventa immediatamente meno libero, non è più libero di decidere il suo destino. Ecco dunque che dobbiamo guardare al problema dal versante opposto: cosa è necessario fare, a livello economico, per ampliare la libertà, intesa come libertà di tutti, degli individui, delle aziende, della collettività».
Quali devono essere, in tal senso, le priorità per l´economia di mercato?
«Molti anni fa ricevetti il premio Giovanni Agnelli per le questioni dell´etica a livello internazionale. Nel mio discorso parlai della libertà individuale come un impegno sociale da raggiungere e difendere, un tema che poi sviluppai in un libro, pubblicato in Italia da Laterza. Mantenere un alto livello occupazionale, diminuire o far scomparire la povertà, garantire un welfare sociale: questi, a mio avviso, gli obiettivi prioritari per un´economia di mercato che funzioni correttamente».
Che lezioni bisogna trarre dalla crisi globale, finanziaria ed economica, che ha investito il mondo tre anni fa?
«La prima è che è una crisi venuta da lontano. I semi di una folle deregulation finanziaria sono stati piantati già all´epoca della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e la semina è proseguita anche nel corso di amministrazioni e presidenze democratiche, raggiungendo l´Europa, estendendosi al mondo. Non ci si è resi conto che la libertà predicata in quel modo era una libertà fittizia per i mercati, perché creava dipendenze, inefficienze, debolezze strutturali, che avrebbero finito per privare della libertà economica sia le banche che le aziende che i privati cittadini. Perciò sostengo che le regole a volte aumentano la libertà, anziché limitarla».
È stato fatto abbastanza in questi due-tre anni per cancellare tali errori e ripristinare controlli e regole sull´economia globale che ne proteggano il funzionamento?
«Qualcosa è stato fatto, ma in modo insufficiente, specie negli Stati Uniti, il mercato che conosco meglio e che rimane più importante per come influenza gli altri».
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Repubblica 22.5.11
Dal capitalismo comunista della Cina all´economia emergente del Brasile socialdemocratico. Est e Sud del mondo sfidano le idee dell´Occidente
Modelli alternativi di nazioni in ascesa
di Federico Rampini
Alle prediche sugli ideali le nuove superpotenze rispondono che prima vengono problemi come fame, lavoro e mortalità infantile
Esiste una libertà alternativa alla nostra, un modello non occidentale che possa sfidarci? "I confini della libertà economica", per noi evocano limiti e regole che occorre dare al mercato in nome di valori superiori: la salute, l´ambiente, i diritti inalienabili del cittadino. Ma i confini della libertà economica possono anche rappresentare la nuova geografia dello sviluppo, un mondo di cui sono protagoniste nazioni in ascesa, dove l´idea di libertà si declina in modi diversi. L´Occidente rimpicciolisce e si ritira di fronte al dinamismo dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Sempre più spesso i Bric si alleano per restringere la nostra "libertà" di imporre l´agenda della governance globale, o le regole del gioco del commercio internazionale. Ma all´interno dei Bric si distinguono modelli molto diversi. La Cina, che fonde il capitalismo col potere monopolistico del partito comunista, non ha mai abbandonato l´idea marxista secondo cui la libertà dal bisogno conta più di tutte.
Alle prediche occidentali su libertà politiche, libertà di espressione, diritti umani, la Cina ribatte sottolineando il suo bilancio: dalla svolta capitalista di Deng XiaoPing nel 1978, la Repubblica Popolare ha liberato il popolo più numeroso della terra dallo spettro delle carestie. Ha sconfitto l´analfabetismo. Ha aumentato la speranza di vita portandola al livello degli Stati Uniti. Ha ridotto la mortalità infantile, che oggi a Shanghai è inferiore a quella di New York. Più di recente, nel corso della crisi del 2007-2009, la Cina ha difeso la libertà di lavorare: con un vigoroso intervento del suo governo, azionando le leve del capitalismo dirigistico di Stato (credito bancario, investimenti in infrastrutture), Pechino ha evitato la recessione. I giovani cinesi in possesso di un titolo di studio della secondaria superiore o dell´università, hanno oggi maggiori chance di accesso al lavoro rispetto ai loro coetanei europei o nordamericani. Questo è il bilancio di un modello di sviluppo "liberatorio", che i governanti cinesi oppongono a chi contesta la mancanza di altre libertà e altri diritti: per esempio il diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (che, curiosamente, la destra americana sta abolendo in diversi Stati Usa dove governa, a partire dal Wisconsin).
L´India rappresenta a sua volta un´alternativa possibile, una terza via, e la confutazione del teorema cinese secondo cui vaste nazioni emergenti di quelle dimensioni e con tante sacche di miseria al loro interno esigono metodi di governo autoritari. L´India mette a segno da anni una crescita "quasi" cinese, mediamente attorno all´otto per cento annuo, senza mettere la museruola alla libertà d´informazione e di dissenso, consentendo libere elezioni, alternanza di governo, uno Stato di diritto, una magistratura indipendente. E tuttavia anche l´India si guarda bene dall´adottare in toto un´idea "americana" di libertà economica: per esempio rifiuta che i mercati finanziari siano liberi di speculare sulle quotazioni delle derrate agricole.
Il Brasile è un modello quasi unico di socialdemocrazia in un´economia emergente. È riuscito laddove hanno fallito sia la Cina che l´India: nel bel mezzo di una fase di boom economico e di apertura ai mercati globali, ha ridotto le diseguaglianze. È la sola nazione di quelle dimensioni dove la distanza tra ricchi e poveri si è ridotta anziché allargarsi. Da Cardoso a Lula a Dilma Roussef, le politiche sociali brasiliane hanno posto un limite alla libertà dei ricchi di spiccare il volo allontanandosi dal resto della comunità nazionale.
L´Indonesia, quarta al mondo per dimensioni demografiche, è la più vasta nazione con una maggioranza di musulmani. Agganciata al decollo dei Bric, con un governo democratico, ha dimostrato che non c´è incompatibilità fra Islam, mercato, libertà di culto e d´opinione.
il Fatto 22.5.11
Ci mancava solo l’albo dei prof
di Marina Boscaino
L’avvocato Guercio di Livorno, che ha recentemente ottenuto parere favorevole per l’assunzione di 13 precari, in uno degli infiniti contenziosi che il Miur si trova ad affrontare, ha dimostrato come il precariato sia in contraddizione con l’art. 1 della Costituzione: on. Ceroni permettendo, naturalmente. Sarebbe il caso di riflettere. Invece continuano incessanti le proposte dei luogotenenti di Berlusconi, categoria antropologicamente davvero curiosa. Incuranti di aver ridotto la scuola pubblica a brandelli e tentato in ogni modo di spuntare le armi che essa aveva (e, nonostante la loro solerzia, ancora ha) per creare cittadinanza consapevole , continuano ad infliggerle colpi seguendo pedissequamente la pseudo-cultura del Capo. Trasformisti etici, manipolatori morali. Gareggiano a chi la dice più grossa, a chi viola con più cinismo il patto sociale e istituzionale che fonda la scuola pubblica e le nostre prerogative: di insegnanti, lavoratori e cittadini. Difendono – fino a coprirsi di ridicolo – il diritto di un uomo pubblico (presidente del Consiglio, per giunta) di fare ciò che vuole tra le mura domestiche (persino il pio Buttiglione si è reso protagonista di vibranti esternazioni in tal senso), irridendo alle ragionevoli affermazioni di chi solleva dubbi su tale libertà illimitata.
CONTEMPORANEAMENTE , però, negano un diritto costituzionale come la libertà di insegnamento. Il curriculum di Garagnani era già lungo e glorioso; balzò alle cronache nel 2001 per un 1-2 di tutto rispetto: presepe obbligatorio nelle scuole e telefoni-spia per i casi di “estrema politicizzazione, snaturamento dei fatti storici e di attacchi all'attuale governo”, contro i prof “comunisti”, vetero-pifferai inesausti, in cerca di prede indifese: "Segnalare esperienze di metodica e faziosa propaganda politica attuata da certi insegnanti nelle ore di lezione rientra nell'ambito della normale attività di un parlamentare". Quanto zelo! Da questa merito-ria attività da Kgb post-moderno non lo ha distratto nemmeno la transumanza dalla commissione Istruzione, a quella Bilancio e a quella Giustizia , di cui oggi fa parte. La caccia al dissenso continua a essere all'apice dei suoi interessi; estirparlo la sua mission. Ed ecco la recente proposta di sospendere fino a 3 mesi chi fa propaganda politica a scuola. Una definizione in positivo non serve al nostro aspirante Inquisitore: essa “non può trovare tutela nell’articolo 33 della Costituzione. Un conto è infatti tutelare la libertà di espressione del docente, un altro è consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica”. Voltiamo pagina. In una delle innumerevoli proposte di legge di cui è prima firmataria, Gabriella Carlucci prende di mira, dopo i libri di sinistra, i prof fannulloni: binomio ormai automatico. Evidentemente ignorando le ragioni (estensione dell’obbligo, unificazione della scuola media e così via) della crescita – da lei stigmatizzata – del numero di insegnanti dai 261.000 del 1957 al milione circa attuale, la novella Montessori lamenta l’attuale “impiegatizzazione dei docenti”, che vuole trasformare in “professionalismo”, mediante “ridefinizione del ruolo e delle competenze in rapporto ai nuovi compiti della scuola di massa in una società della conoscenza”. Ingredienti della formula, che novità!, meritocrazia e premi. E quindi punta ad "una figura di insegnante altamente professionale", introducendo l’albo nazionale dei docenti, con tre diversi inquadramenti: docente iniziale, ordinario ed esperto, nella direzione di un "riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata” dai singoli. Anche se è esclusa “sovraordinazione gerarchica" tra i livelli dei docenti, solo gli esperti potrebbero occuparsi di formare, aggiornare e valutare colleghi. Per gli iniziali e gli ordinari, si prevedono invece valutazioni periodiche da parte di apposite commissioni (preside ed esperti) di risultati didattici, progetti, apporto alla scuola e titoli professionali acquisiti: chi non raggiungesse gli obiettivi prefissati può essere vittima di sospensione temporanea della "progressione economica per anzianità". A definire i criteri e gli obiettivi esclusivamente il ministero, in un pericoloso meccanismo non solo autoreferenziale, ma antidemocratico. Chi vuol fare propaganda politica a scuola? È solo l’art. 1 a essere contraddetto da queste muscolari esibizioni di impraticabile rigore a senso unico?
«l’Orchestra fu fondata per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said»
Corriere della Sera 22.5.11
Le note del «ciclone» Baremboim. Quando la musica lascia il segno
di Enrico Girardi
Ogni volta che Barenboim arriva in Italia, è come se un ciclone si abbattesse sulla nostra vita culturale. Questa settimana ha riunito di nuovo i ragazzi arabi, palestinesi e israeliani dell’Orchestra del Divano, li ha portati a suonare presso le massime istituzioni musicali del Paese (Scala e Santa Cecilia), ha provato con loro pezzi nuovi da eseguire a Vienna, ha registrato con loro la bellissima puntata di «Che tempo che fa» andata in onda ieri sera, ha ricevuto dal presidente Napolitano (che ha «girato» l’intero ammontare del premio Dan David, un milione di dollari, appena ricevuto in Israele) un significativo sostegno materiale per coinvolgere nell’esperienza del Divano altri musicisti giovanissimi, ha raccontato quale significato rivesta l’aver portato un gruppo di musicisti europei a suonare Mozart a Gaza. Ma cosa significa tutto questo fare, fare, fare? O si tratta di quella forma di horror vacui che atterrisce decine e decine di artisti che han bisogno di far parlare di sé tutti i giorni per non sentirsi finiti; oppure si tratta di una passione feroce che si alimenta di continuo. E la risposta al quesito la danno non solo gli esiti artistici delle esecuzioni del Divano ma gli occhi, gli sguardi, le espressioni che abbiamo visto ieri sera sui volti dei ragazzi ospiti da Fazio. Volti aperti, belli, intelligenti, consapevoli che soddisfare un’attitudine alla musica e insieme recare al mondo un messaggio così forte di speranza, di condivisione, di solidarietà— sia pure nella diversità delle proprie opinioni politiche e religiose — è un privilegio impagabile. Il Divano è stato fondato nel 1999 per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said. Ma è ormai chiaro a tutti che questi 12 anni di vita hanno trasformato l’iniziativa in qualcosa di molto più prezioso di quanto i fondatori osassero probabilmente sperare: un segno permanente di civiltà che non cambierà il mondo ma che ha già cambiato il cuore di quanti, a qualunque titolo, hanno avuto a che fare con questi ragazzi. Anche da semplici telespettatori.
La Stampa 22.5.11
Megalopoli-fantasma del miracolo cinese
Grattacieli senza inquilini, strade vuote, interi quartieri deserti Prezzi alle stelle: i cinesi sono ancora troppo poveri per comprare
di Ilaria Maria Sala
Nascono fino a dieci nuove città l’anno, si edifica dovunque senza criterio
A comprare sono per lo più speculatori che sperano di rivendere a prezzi più alti
Ci sono centri pensati per ospitare 300 mila persone e abitati solo da 30 mila
Un’impiegata: «Non riuscirò mai a comprare una casa i costi sono troppo alti»
La città di Sanya, nell’isola tropicale cinese di Hainan, si affaccia su un bel mare trasparente, unico in tutto il Paese. Ma il boom costruttivo di Hainan non è diverso da quello che si può vedere altrove: i grattacieli poco lontani dal mare, che offrono viste sconfinate sul Mblu, sono senz’altro attraenti per i potenziali acquirenti, che arrivano sull’isola un aereo dopo l’altro. Alcuni sono qui per le prime vacanze al mare della loro vita. La maggior parte per visitare dei progetti immobiliari appena finiti o ancora in costruzione, per fare un investimento: «Bisognava comprare qualche anno fa», dice Bao Zhilong, direttrice di una piccola agenzia turistica che ormai dispera di potersi acquistare una casa: «I prezzi sono impazziti».
Eppure, appena un paio di chilometri più a Nord della spiaggia di Sanya, ecco che appare una delle tante città spettrali della Cina: una torre dietro l’altra, grattacieli a quaranta piani di una ventina d’appartamenti ciascuno, strade semideserte e gru in piena attività che continuano a costruire senza sosta. I grattacieli proseguono fino a dieci chilometri verso l’interno, ed è inevitabile restare perplessi chiedendosi chi mai vorrà comprarsi appartamenti e villette così lontani da alcuna attrazione.
A Chongqing, una municipalità di 31 milioni di abitanti nell’interno della Cina, il boom nelle costruzioni è spettacolare come a Sanya: Xu Lin, una giovane agente immobiliare, ha l’aria un po’ a disagio nel dire: «Sì, stanno costruendo troppo… non so davvero come verranno assorbiti tutti questi appartamenti, anche perché i prezzi salgono così in fretta!».
Deliri locali Ovunque, la stessa cosa: palazzoni, palazzoni, e ancora palazzoni, che espandono in modo incontrollato le città preesistenti, e creano anche dieci nuove città l’anno. Alcune di queste sono progetti interamente ideati dalle autorità locali per stimolare il Prodotto interno lordo, ma poi restano vuote. Come la città di Kangbashi, a trenta chilometri da Ordos, nelle steppe della Mongolia interna, una delle più famose «città fantasma» della Cina: costruita nel 2004 per ospitare 300 mila persone, oggi resta ancora semivuota. C’è un curioso museo d’arte dalla forma irregolare e un po’ bulbosa, viali alberati con villette e shopping malls. Per il momento è tutto vuoto. Gli abitanti sono meno di trentamila - per lo più impiegati governativi convinti a venire ad abitare qui dopo una serie di articoli della stampa cinese critici della megalomania e inutilità del progetto.
Dalla Mongolia interna al dinamico Guangdong, una delle regioni a più alto Pil dell’intera nazione, ecco che Dongguan (una delle città-fabbrica locali) ha costruito il più grande centro commerciale del mondo, il South China Mall. E’ talmente grande da essere attraversato da un canale, che si può percorrere in gondola - e infatti un’imitazione del campanile di San Marco a Venezia lo sovrasta, insieme a una replica dell’Arco di Trionfo di Parigi. I suoi 1500 negozi però sono quasi tutti chiusi e sfitti, e le uniche persone che percorrono il South China Mall sono gli addetti alle pulizie.
Qualche centinaio di chilometri più in là, a Daya Bay, c’è una nuova città costruita per contenere dodici milioni di persone. Il 70 per cento delle case costruite qui è ancora vuoto, cinque anni dopo. Non che nessuno stia comprando, qui e altrove: solo che gli acquirenti sono per lo più investitori, che hanno deciso che il boom immobiliare aiuterà ad aumentare il loro capitale, e aspettano per rivendere.
I nuovi ricchi in cerca di lusso Gillem Tulloch, direttore della Forensic Asia Ltd. di Hong Kong, non è di quest’avviso: «Siamo davanti a una bolla speculativa senza precedenti», dice, prevedendo una crisi di proporzioni significative: «Si calcola che ci siano circa 64 milioni di appartamenti vuoti in Cina. Aspettavamo i dati aggiornati in aprile, ma ancora non sono stati pubblicati. La Cina è un Paese a capitale chiuso, e c’è molto contante in circolazione: per superare la crisi del 2008 Pechino ha immesso fondi nel mercato, aumentando in modo insostenibile l’inflazione. Ad acquistare sono in particolare i nuovi ricchi cinesi che si interessano di proprietà di lusso. Questo mentre molti altri non possono permettersi nemmeno quello di cui hanno bisogno». Tulloch è pessimista sul futuro, e prevede che la bolla scoppierà di qui a due anni, portandosi dietro la valuta cinese «che dovrà svalutare in modo massiccio», dice, ricordando come prima della crisi delle monete del 1997, che ebbe origine in Thailandia, tutti reputassero le valute delle «tigri asiatiche» sottocosto. L’inflazione cinese (che continua a essere superiore al 5 per cento malgrado i tentativi del governo centrale di abbassarla) «sta facendo perdere competitività alla Cina, ma quel “ribilanciarsi” dell’economia di cui tanto si parla non è ancora in atto: la Cina è un Paese che continua ad avere le esportazioni come motore principale di crescita, i consumi restano molto indietro perché il salario medio è molto basso».
«La crisi è inevitabile» Le retribuzioni dei cinesi infatti restano sotto il livello di 1000 euro all’anno, secondo alcune statistiche. Tulloch non rimane convinto da nessuno degli argomenti solitamente avanzati per difendere la sostenibilità della crescita economica cinese (non ultimo quello che il governo di Pechino farà l’impossibile per impedire uno scoppio della bolla immobiliare), reputando che tutto quello che è avvenuto finora è servito soltanto a «ritardare l’inevitabile», peggiorando la situazione e rendendo più profondala crisi.
Quello che succederà è naturalmente ancora un mistero. Meno misteriosa invece è la desolazione di luoghi come Chenggong, nello Yunnan, dove si trova un campus costruito per ospitare 2,3 milioni di studenti. Ce ne sono undicimila. O di Zhengzhou, dove un intero nuovo quartiere di periferia appena finito, con alberghi, centri commerciali e torri residenziali, non ha nemmeno un pedone per la strada. Il dibattito sull’immobiliare cinese è aperto.
Corriere della Sera Salute 22.5.11
«Caso clinico» Un paziente importante, ma che nessun dottore avrebbe voluto avere
La vita di Joyce: un’odissea da uno specialista all’altro
di Elena Mieli
Un’odissea clinica. Così è stata definita la vita di James Joyce, il grande romanziere irlandese che vanta la produzione del testo ritenuto da molti il più illeggibile della storia, il poderoso «Ulisse» . Un titolo forse scelto non a caso, visto che anche l’autore è stato protagonista di un triste peregrinare durante tutto l’arco della sua esistenza. Non però fra le strade di Dublino, come il protagonista dell’Ulisse, Leopold Bloom, né tantomeno sugli epici mari della Grecia antica, come l’Odisseo-Ulisse. Joyce vagò per tutta la vita da un medico all’altro, nella speranza di trovare sollievo ai molti guai di salute che lo afflissero: fu in cura da ben 35 diversi dottori, ma è stato il paziente che nessuno di loro avrebbe mai voluto avere. Perché pure nella vita vera, e non solo quando scriveva, Joyce era un tipo difficile: vita sregolata, cattive abitudini, la pervicace tendenza a non dare ascolto ai consigli e l’assoluta indifferenza per le raccomandazioni mediche. Luca Ventura, anatomopatologo dell’Ospedale San Salvatore de L’Aquila, ha scritto un saggio sulla storia clinica di Joyce e osserva: «Molte delle sue malattie erano difficili da curare ai primi del ’ 900, ma è anche vero che parecchie complicazioni avrebbe potuto evitarsele se avesse ascoltato di più i consigli dei medici» . Come in ogni vita travagliata che si rispetti, le avvisaglie di guai si potevano già cogliere quando James era giovanissimo. I primi occhiali da vista da miope li inforcò infatti a 6 anni, nel 1888, e da allora iniziò la lotta contro problemi oculari man mano più pesanti; a 14 anni, poi, spese in un bordello i suoi primi guadagni, ricavato di premi scolastici, assecondando un’inclinazione per le prostitute che lo accompagnò tutta la vita procurandogli più di una malattia venerea. Furono proprio i disturbi alla vista e le infezioni, che gli causarono una specie di infiammazione generalizzata permanente, i due nemici contro cui Joyce lottò a lungo. I primi sintomi si fecero sentire ad appena 20 anni: mentre Joyce viveva da bohémien a Parigi, fra sbornie e donne di malaffare, accusò stanchezza e dolori probabilmente dovuti a una malattia venerea. M a la vera odissea cominciò nel 1905, quando la vista ebbe un calo repentino: a maggio Joyce divenne temporaneamente cieco, gli occhi gli facevano male, a tutto questo si aggiunsero dolori di stomaco e alla schiena che lo lasciarono prostrato per mesi. I medici diagnosticarono una febbre reumatica e secondo Ventura «l’ipotesi più probabile è che i ripetuti episodi infiammatori che hanno costellato la vita dello scrittore siano da attribuire a un’artrite reattiva o a una spondilite anchilosante. Malattie con una componente genetica e autoimmune che possono essere innescate da un agente esterno e comparire ad esempio proprio dopo una malattia venerea» . Queste patologie, infatti, possono avere conseguenze oculari analoghe ai disturbi di Joyce che, nel 1917, esplosero con violenza. I dolori agli occhi si fecero insopportabili a causa di un’infiammazione estesa dell’iride, complicata dal glaucoma; fu necessaria la prima di una serie di operazioni (11 in totale), ma la vista continuò a calare. L’infiammazione generale intanto non gli lasciava pace: intorno ai 40 anni soffriva di mal di schiena e artrite come un settantenne e dovette affrontare l’estrazione totale dei denti. Il suo nuovo (ennesimo) oculista infatti pensava che in questo modo avrebbe eliminato l’infiammazione provocata dalle numerose carie e risolto anche i guai agli occhi e l’artrite. Non accadde, anche perché il ribelle e anticonformista Joyce non faceva nulla per preservare la sua salute e non ne voleva proprio sapere di arrendersi a una vita morigerata: nonostante avesse ormai famiglia e figli con l’amata moglie Nora, continuava a frequentare bordelli, a bere a volontà, a mangiare poco e male. E non si presentava ai controlli, diventando la croce del suo ultimo oculista e maggior chirurgo oftalmico dell’epoca, il professor Alfred Vogt. J oyce arrivò da lui quasi cieco, alla fine degli anni ’ 20; Vogt lo operò, sollecitando poi visite di controllo regolari che lo scrittore disattese sistematicamente. Finché nel 1932 la situazione precipitò: il nervo ottico e la retina dell’occhio destro risultarono quasi atrofizzati. Joyce, ormai consapevole che la sua vista era del tutto compromessa, capì che avrebbe dovuto dar retta al suo medico e si pentì amaramente di non averlo fatto prima. Gli eventi che portarono alla morte dello scrittore, però, fanno capire che la lezione era ben lontana dall’essere capita fino in fondo. Dai 20 anni in poi Joyce, oltre ad affrontare vicissitudini oculistiche, problemi dentali, artrite e mal di schiena, soffrì anche di dolori addominali ricorrenti che quasi di certo erano provocati da un’ulcera e aggravati dal suo stile di vita (spesso, in gioventù, digiunava anche due giorni di fila perché non aveva soldi per il cibo). Qua, purtroppo, ci misero lo zampino medici non troppo zelanti secondo cui i problemi gastrointestinali erano tutta questione di "nervi", per colpa del caratteraccio di Joyce. Lui perciò credette che fossero disturbi psicosomatici e li trascurò per anni finché nel 1939 i dolori si ripresentarono, fortissimi. Inesorabilmente incapace di imparare dall’esperienza, Joyce non fece le radiografie prescritte. Con l’arrivo della guerra si stabilì in Svizzera, a Zurigo. Qui, la sera del 9 gennaio 1941, fu ricoverato in ospedale e operato d’urgenza. Peritonite, dovuta a un’ulcera gastrica trascurata. Joyce morì, il 13 gennaio. Fino all’ultimo, nonostante abbia disseminato i suoi lavori di riferimenti alle malattie, si rifiutò di curare davvero se stesso.
Corriere della Sera Salute 22.5.11
Ancora oggi la scarsa «aderenza» alle cure è tra i maggiori motivi d’insuccesso in medicina
U n caso clinico disastroso. «James Joyce rappresenta l’esempio tipico di quanto può essere dannoso trascurarsi e non ascoltare i consigli dei medici» . Così Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale, commenta l’atteggiamento dello scrittore nei confronti delle sue malattie. Certo, con le terapie attuali potrebbero essere curate meglio, ma come spiega Cricelli: «Tuttora il maggior peso nel successo o nell’insuccesso di un trattamento dipende da quanto il paziente aderisce alle raccomandazioni del medico, prendendo i farmaci come prescritto e per tutto il tempo necessario. Quanto più le cure sono semplici e brevi, tanto più cresce la probabilità di riuscita; in caso di terapie croniche, abbandoni ed errori sono frequenti. Molto dipende dal fatto che la gente, in fondo, teme i medicinali e gli interventi chirurgici: Joyce rimandava continuamente le sue operazioni, in tanti lo fanno anche oggi» . Purtroppo anche cercare di migliorare lo stile di vita è spesso una battaglia persa in partenza perché la motivazione, che è la vera spinta a non mollare quando si cerca di cambiare un’abitudine o un comportamento, è qualcosa di molto labile. «Quando si ha paura per qualche sintomo o si è appena ricevuta una diagnosi preoccupante è facile trovare la forza per smettere di fumare, mettersi a dieta, cominciare un’attività fisica— osserva Cricelli —. Poi, specie in caso di malattie croniche, la paura passa e con essa la voglia di mantenere le promesse fatte a se stessi: il tasso di chi segue davvero le indicazioni mediche è basso. C’entra anche il carattere: chi è tranquillo, equilibrato, razionale segue più facilmente le cure; chi è estroso, entusiasta e si butta a capofitto nelle imprese può iniziare la terapia con una gran voglia, ma spesso si "perde"per strada» . Esistono "trucchi"per migliorare l’aderenza alle prescrizioni? «Occorre coinvolgere il paziente e renderlo protagonista delle scelte, senza imporle dall’alto. Per verificare che il paziente si attenga al cambiamento dello stile di vita, bisogna riparlarne ogni volta che lo si vede, dando piccoli consigli regolari, e non fare la ramanzina una volta tanto. Il segreto è star dietro ai pazienti e non perderli d’occhio: oggi lo abbiamo capito bene, e un tipo come Joyce non avrebbe vita facile» conclude Cricelli.
Corriere della Sera 22.5.11
Tancredi, i colori e le forme dell’angoscia
di Stefano Bucci
C’è forse un motivo che, più di ogni altro, ha tenuto a lungo Tancredi (pseudonimo di Tancredi Parmeggiani, 1927-1964) confinato in una sorta di dimenticatoio della critica. Nonostante la costante passione dei collezionisti, a cominciare dalla mitica Peggy Guggenheim che lo ospiterà a Palazzo Venier dei Leoni (la Primavera che aveva dipinto per lei «con piccole pennellate quasi incontrollate» è oggi al Moma di New York). Nonostante le quotazioni raggiunte praticamente da subito (nel 2008 il suo olio Natura e contemplatività del 1957 era stato venduto da Christie’s per oltre mezzo milione di euro). Nonostante il suo eclettismo e la sua originalità. Ed è che, al di la dei colori spesso vivacissimi (Natura plastica) e delle forme quasi giocose (W l’arte informale), l’opera di Tancredi sembra riflettere, costantemente, l’angoscia anche esistenziale di un’artista che morirà suicida (il suo corpo verrà ritrovato nel Tevere all’altezza di Ponte Sisto) soltanto pochi giorni dopo aver scritto: «La vita è ancora tutta da scoprire» . L’esposizione in corso alla Galleria d’arte moderna Carlo Rizzarda di Feltre, curata da Luca Massimo Barbero, sembra voler raccontare, in primo luogo, proprio «il disperato entusiasmo per la vita» di Tancredi trasformandolo nel «fulcro di tutte le sue scelte artistiche» . Un «disperato entusiasmo» che provocherà, più o meno direttamente, la sua adesione allo Spazialismo informale come i suoi contatti con le avanguardie (attraverso le opere di Kandinskij, di Mondrian o di Pollock), con l’art autre di Dubuffet, con il Gruppo Cobra, con i capolavori di quell’Edward Munch che lo porterà «al recupero di una figurazione allucinata, ironica, grottesca come a una tragica riflessione sulla condizione umana» (i Matti, i collages «dalle inflessioni pop» ). Ed è davvero sorprendente scoprire come ognuna di queste svolte vissute dall’artista Tancredi sia legata a una svolta umana altrettanto importante. Dall’addio alla natìa Feltre (la stessa Feltre a cui dedicherà all’ultimo i suoi toccanti Diari paesani) all’arrivo a Venezia (dove incontrerà Vedova, Pizzinato, Tinto Brass) fino ai passaggi milanesi e romani. O all’esperienza di Parigi: in quella città «lacerata dalla guerra d’Algeria e scavata dal dolore» riscoprirà addirittura «la sofferenza che vedevo nella mia prima giovinezza» creando le Facezie. L’invito, sottinteso in questa mostra, è dunque quello di scoprire l’universo non soltanto artistico di Tancredi, che nel 1947 aveva raggiunto a piedi la Francia, per poi essere rimandato a casa con foglio di via in quanto clandestino e minorenne e che (una volta tornato forzatamente a Feltre) si improvviserà attore nel film La mascotte dei diavoli blu. Visto che persino la stessa scoperta del maestro del Grido appare indissolubilmente connessa con una svolta privata e personale: l’incontro (e il successivo matrimonio) con la pittrice norvegese Tove Dietrichson. Alla fine resta l’impressione di un’angoscia capace di superare il semplice effetto delle forme e del colore di opere comunque bellissime, così come le stesse scelte concettuali dell’artista (sia che si tratti di Omaggio a Wols, A proposito di Venezia, Una particolare luce estiva, Le mosche ronzano o di una Composizione spaziale). Un’angoscia che, oltretutto, ritorna nei ritratti fotografici di Tancredi (da quello firmato da Gianni Berengo Gardin a quello di Ugo Mulas). Un’angoscia da cui è, per fortuna, molto difficile rimanere indenni. E che, indirettamente, certifica il valore di un artista che di sè aveva detto: «Io non so scrivere, forse riuscirò a dipingere quello che sento» . © RIPRODUZIONE RISERVATA R La mostra: «Tancredi» , Feltre (Bl), Galleria d’arte moderna Carlo Rizzarda, fino al 28/8, Catalogo Silvana editoriale, pp. 256, e 35, info www. mostra: «Tancredi», Feltre eu
l’Unità 22.5.11
Mihaileanu, femminismo in salsa islamica
«La sorgente delle donne» del regista rumeno e «C’era un volta l’Anatolia» del turco Nuri Bilge Ceylan sono gli ultimi due film in concorso Ma non convincono. Il primo è un «falso», il secondo è esagerato...
di Alberto Crespi
Esistono i registi bravi ed esistono i registi furbi. Esistono anche registi che sono bravi e furbi. Radu Mihaileanu è un narratore di fiabe politicamente corrette, che a volte riescono ad incastrarsi con il reale creando corto-circuiti fulminanti.
È il caso di Train de vie, molto meno del Concerto, film in cui la fiaba prevale sulla verosimiglianza in modo troppo programmatico. Con La sorgente delle donne, che ha chiuso il concorso, Mihaileanu tocca il fondo del falso. Il suo è un film-cartolina, una passeggiata turistica in un parco a tema su tolleranza & femminismo in versione islamica.
Siamo in un paesino rurale, in qualche angolo imprecisato del Maghreb o dell’Arabia (è una didascalia iniziale a dircelo, non la nostra ignoranza). Il paesino non ha acqua né luce. Per portare a casa il prezioso liquido, le donne si sobbarcano da millenni una faticosa salita fino alla più vicina sorgente. Nel frattempo gli uomini stanno al bar (pare che nel paese nessuno lavori). Un bel giorno, guidate da una vecchia ribelle e da una giovane «straniera» (nel senso che arriva dal villaggio vicino), le donne dichiarano sciopero. Niente più sesso, finché gli uomini non andranno a raccogliere l’acqua con le loro forti spalle. Apriti cielo. C’è chi picchia la moglie, chi si rivolge all’imam, chi manda petizioni al governo e anche chi, come il giovane maestro di scuola (marito remissivo della «straniera»), sta dalla parte delle scioperanti. Tutto si aggiusta a tarallucci e vino, come nelle fiabe migliori.
Chi di voi ha fatto il liceo ha già capito chi denuncerà Mihaileanu per plagio: questa è la Lisistrata di Aristofane, altro che! Peccato che il sommo greco sia morto da circa 2.400 anni, e che il suo testo sia infinitamente più divertente di questo film. E peccato, soprattutto, che il regista tenti il bis di Train de vie, calando la fiaba in un contesto sociale bruciante che, a differenza dello shtetl ebreo del vecchio film, gli sfugge completamente. Spiccano, nella Sorgente, solo un paio di prove d’attrice: la protagonista Leila Bekhti, vista anche nella serie tv italiana Le cose che restano, e naturalmente la prodigiosa Biyouna, che interpreta una vecchia che meriterebbe di essere eletta presidente della repubblica.
Il turco Nuri Bilge Ceylan non ci sembra invece un furbo, ed è indiscutibilmente bravo, ma abbiamo la sensazione che stia esagerando. Dopo il magnifico Uzak, che sfiorò la Palma d’oro nel 2003, ha sempre più raffinato il suo stile fino a renderlo di un estetismo insopportabile. Ci vuole coraggio, per fare un film di 2 ore e mezza in cui un gruppo di poliziotti cerca un cadavere sepolto nelle steppe dell’Anatolia, guidato da un assassino che non ricoda più dove ha compiuto il delitto. Per una notte e il mattino seguente i personaggi – e con loro il film – girano a vuoto, cianciando di cose assurde (10 minuti di dialogo su quanto è buono lo yogurt di bufala) e abbandonandosi a pensose riflessioni sulla giustizia turca. L’intento del film è evidente, e sottolineato qua e là in modo molto didascalico: la ricerca e il ritrovamento del corpo sono il simbolo di una Turchia che scava nella propria memoria tribale e cerca affannosamente una modernità che la renda affidabile davanti al mondo (si parla anche dell’Unione Europea, come no?).
Ci ha ricordato certi film iraniani molto criptici, come Il sapore della ciliegia di Kiarostami, o certi classici sovietici che usavano le metafore per aggirare la censura. Non sappiamo se Ceylan persegue questo stile così ostico per scelta o per necessità. Se è vera la seconda, significa che per gli artisti turchi la vita è ancora molto dura.
il Fatto 22.5.11
Nerone, fuoco e finanze
A Roma una mostra racconta l’imperatore famoso per le passioni incendiarie: un ritratto oltre le leggende e il gossip degli storici d’epoca
di Luca Canali
D ietro le grandi riforme urbanistiche e artistiche (pittura e scultura) ci sono sempre una ideologia e una visione storica. Prima di occuparci degli eventi più famosi e spettacolari dell’età neroniana (per esempio l’incendio di Roma e la costruzione della Domus Aurea), occupiamoci brevemente della ideologia e della visione storica di questo discusso imperatore, mettendo da parte i pettegolezzi (anche se spesso veritieri) del biografo imperiale Svetonio Tranquillo.
LA PRIMA dinastia imperiale di Roma (la nobilissima ma anche miscelatissima Giulio-Claudia) è, nel suo complesso – giudicata anche da Apollòs, cristiano della colonia di Corinto, allievo e collaboratore di San Paolo –, un’epoca di profonda crisi politica e religiosa, tanto che la tradizione, non solo cristiana, ci tramanda così il succedersi degli imperatori di essa: Tiberio un ipocrita, Caligola pazzo, Claudio imbecille, Nerone istrione e sanguinario. Naturalmente non fu esattamente così. Soprattutto Nerone con i due periodi della sua vita, così distinti: prima guidato, giovanissimo, da Seneca e Burro (il prefetto del Pretorio), entrambi filo-aristocratici, fu anch’egli tale; dopo la loro caduta in disgrazia e la stessa loro condanna a morte per la loro partecipazione alla congiura di Pisone, Nerone, sulle orme del suo patrigno, l’imperatore Claudio, dà inizio a una politica “borghese”, alleato con una potente e persino governante gerarchia di liberti, schiavi liberati e giunti fino a governare lo Stato. Si ricordi che l’imperatore Claudio – nella tabula di Lione – patrocinò con decisione l’estensione della cittadinanza romana a quasi tutti i notabili delle provinciae, modernizzando e romanizzando in tal modo ampi strati di popolazioni non romane. Non per nulla l’ardente simpatia di Nerone per la Grecia cambiò radicalmente i suoi costumi, liberando questa provincia dalla soggezione a Roma. Abolì i brutali giochi circensi, e istituì i più gentili Iuvenilia e Neronia, prendendo egli stesso a recitare in pubblico poesie e canzoni, in cui quasi con umiltà si cimentava. Tutto ciò sembrò un’offesa alla tradizione aristocratica, e segnò il definitivo distacco da essa da parte di Nerone. Era in corso, nel frattempo, una profonda crisi finanziaria che egli cercò di “curare” con misure drastiche, ma tutt’altro che sciocche: capì che bisognava accrescere la circolazione di metalli per le monete (come del resto aveva già fatto in precedenza Caligola, il “pazzo”, non poi così pazzo, e amatissimo invece dalla plebecula, il “popolino”), e privilegiare il denarius (la moneta borghese dei traffici e dei commerci, e di una società “mobile”) contro l’aureus, la moneta dell’aristocrazia latifondista e del luxus senatorio. L’odio aristocratico per Nerone crebbe, mentre aumentava il favore del ceto medio e della plebe. Ci avrebbe pensato poi, inevitabilmente, l’inflazione galoppante a rendere ostilituttiiceticontroquelcapodi Stato forse troppo audace e innovatore.LeggereilSatyricondiPetronio, l’arbiter elegantiae di corte, è una vera, bellissima lezione di sociologia e psicologia, oltre che di grande letteratura. Alle congiure Nerone reagì con violenza e crudeltà: persino sua madre Agrippina, filo-aristocratica accanita e bellissima donna, insieme al suo fido Seneca, al giovane nipote Lucano, e allo stesso Petronio, caddero nella durissima repressione neroniana. L’incendio di Roma è un grande mistero: fu davvero Nerone a provocarloperpoi“ripulire”lacittà, distruggendo i quartieri più inaffidabili e ricostruendo ambienti più sani e, naturalmente, più eleganti? Ma non fece lo stesso Mussolini distruggendo la Suburra per costruire la Via dell’Impero? E non stanno pensando così anche i nostri architetti a proposito di Tor Bella Monaca, Spinaceto, Corviale? La strage di cristiani, compiuta perché forse ingiustamente accusati dell’incendio, esprime con chiarezza l’ostilità dei romani per questa comunità che il grande storico Tacito definiva una “abominevole” infiltrazione capeggiata da un certo Chrestus. Comunque il mistero resta, e Nerone infierì ferocemente, ma costruì poi la famosa Domus Aurea, i cui restauri veltroniani stanno già mostrando le crepe.
CERTO, una vena di malattia psichica tormentava l’intera dinastia Giulio-Claudia (Cesare soffriva di epilessia, Augusto di priapismo, Tiberio anche lui di eccessi di satiriasi nei rifugi di Rodi e di Capri, Caligola di allucinazioni e di perversioni incestuose, Claudio di grave fragilità psicofisica, Nerone di accessi anche omicidi d’ira familiare), ma confondere queste patologie con la loro direzione dell’Impero è segno d’ingenuità e di crassa ignoranza. È difficile infatti negare che, ad esempio, Giulio Cesare, come riteneva Napoleone e sosteneva Antonio Gramsci, è stato il più grande uomo e rivoluzionario “democratico” della storia. Del resto tutti i Giulio-Claudii (eccettuato forse il solo Augusto) pagarono tutti i loro possibili errori o delitti con la vita: Cesare massacrato da una congiura aristocratica, Tiberio forse avvelenato o ucciso dai suoi stravizi, Caligola ucciso dai suoi stessi pretoriani, Claudio avvelenato dalla moglie Agrippina, Nerone suicida con l’aiuto d’uno schiavo.