l’Unità 17.5.11
Soffia forte il vento del Nord spazza via Berlusconi e Lega
Il vero sconfitto è il premier: nel capoluogo lombardo ci ha messo la faccia e ha perso Le primarie si sono rivelate un’occasione di scelta partecipata, ma anche di unità dopo le divisioni
di Oreste Pivetta
È naturale accogliere l’invito alla prudenza di Capezzone, uno dei tanti megafoni di Berlusconi. Occorre aspettare. Aspettare i ballottaggi e soprattutto il ballottaggio di Milano, il cuore di queste amministrative, per capire chi avrà vinto di più, per capire se finalmente verrà impedito, democraticamente, alla Moratti di far danni alla sua città e di combinare invece affari per alcuni dei suoi amici più cari. Ma intanto si può dire con certezza chi ha perso: ha perso Berlusconi, che «ci ha messo la faccia», come gli aveva ricordato l’alleato Umberto Bossi, che aveva preteso una sorta di pronunciamento referendario a proposito di giustizia e soprattutto su se stesso. Chiedeva Berlusconi che il suo attacco alla magistratura, che si era inasprito fino alla violenza più cupa, venisse salutato da un voto popolare. Berlusconi aveva armato la mano dell’attacchino Lassini, quello dei manifesti «Via le Br dalle procure», e spronato la Moratti a «tirar fuori le unghie» e lei aveva naturalmente obbedito, esibendosi nell’attacco vigliacco a fine trasmissione e a tempo scaduto, senza possibilità di replica, contro Giuliano Pisapia. Chiedeva ancora Berlusconi che venisse un’altra volta sancita l’insostituibilità della sua traballante, clientelare, maggioranza fino alla scadenza naturale, fino magari al Quirinale. Sicuramente gli elettori non hanno gradito, sicuramente gli elettori hanno bocciato Berlusconi, senza appello, bocciando con lui due volte la Moratti: intanto per il suo ossequio al capo, e poi, evidentemente, per la sua politica amministrativa, ispirata più da una miope vocazione immobiliarista che da uno sguardo aperto sull’orizzonte dei bisogni autentici della città e dei cittadini. Il segretario del Pd, Luigi Bersani, ha avuto la soddisfazione di leggere nelle percentuali come stia cambiando direzione il vento del Nord, «che si sta alzando contro il blocco Pdl-Lega». Se andrà avanti così, il Pd si ritroverà primo partito a Milano, in corsa al Nord anche alla provincia di Trieste e a quella di Mantova, ha già vinto a Torino con Piero Fassino, ha buone probabilità di vincere a Bologna e il centrosinistra, con il Pd in prima linea, potrebbe vincere a Milano. Per vincere a Milano conteranno le alleanze e il senso di responsabilità, la coerenza, la volontà di imprimere all’esistenza della città un percorso nuovo. A questo punto, considerando i dati, solo sommando tutto il resto che le sta attorno, la Moratti potrebbe vincere: non soltanto i voti di Forza nuova, ma anche quelli del Partito comunista dei lavoratori e naturalmente quelli del Movimento 5 stelle e quelli del Centro, che aveva candidato Manfredi Palmeri (durissimo nella sua campagna elettorale contro il sindaco). Che cosa succederà, è difficile immaginare. Sta di fatto che il terzo polo a Milano è passato e con il cinque per cento dei voti ha con qualche fondamento la possibilità di affermare la crisi del bipolarismo. Resta la Lega. Si sa di Bossi irritato. Avrebbe detto: sarebbe stato meglio andare da soli. E dove la Lega è andata da sola il confronto con il Pdl è andato a suo vantaggio. Forse l’alleanza con Berlusconi non aiuta più Bossi, forse Bossi sta cominciando a capire che non gli giova coprire in tutto e per tutto (e in particolare nei suoi attacchi alla giustizia) Berlusconi, per la ricompensa di uno straccio di federalismo. Infine, se il centrosinistra si ritrova in testa oltre questo primo traguardo lo si deve anche alla strada compiuta per arrivare a decidere chi fosse il candidato: le primarie si sono rivelate un’occasione di scelta partecipata, ma anche di unità dopo le divisioni. Pisapia e i suoi competitori, Boeri e Onida, hanno perfettamente compreso il valore unitario di quel passaggio. Pisapia è stato bravo a unire, con la forza di un programma concreto e la novità della ragionevolezza, del buon senso, persino delle buone maniere, davanti a tante esibizioni di arroganza, di prepotenza di volgarità.
l’Unità 17.5.11
Bersani festeggia la svolta: «Si apre una fase nuova». Marini: «Ha vinto la tua linea»
Il voto rafforza l’unità del partito. Veltroni: «Si aprono grandi spazi». Oggi riunione dei big
«Vinciamo noi Li ha travolti il vento del nord»
Bersani è convinto che il voto abbia aperto «una nuova fase». E se tra due settimane i ballottaggi confermeranno questa «inversione di tendenza», potrebbero aumentare le possibilità di un voto anticipato.
di Simone Collini
Con queste elezioni, dice Pier Luigi Bersani, «si apre una nuova fase». E anche se il segretario del Pd non lo dice esplicitamente come il suo vice Enrico Letta, ora aumenta la possibilità di un voto anticipato. Se finora era infatti soltanto l’opposizione a parlare di un «governo che non è in grado di governare», dalle urne è arrivata la conferma di una «crisi» che ora per Bersani «sicuramente si acuirà e arriverà a un punto di rottura». Soprattutto se tra due settimane i ballottaggi confermeranno l’«inversione di tendenza» registrata al primo turno.
Bersani incontra i giornalisti al quartier generale del Pd quando sono passate circa tre ore dalla chiusura dei seggi. Le percentuali date dalle proiezioni si sono abbastanza assestate. E la frase con cui tira le somme è decisamente sintetica: «Vinciamo noi e perdono loro». Il resto, le «possibili elucubrazioni» che già ha ascoltato mentre era nella sua stanza davanti alla tv, i vari La Russa e Gasparri che parlavano di una sconfitta del Pd perché a Milano e Napoli si sono imposti candidati non di questo partito, le liquida con un’alzata di spalle. E anzi, come già aveva fatto qualche minuto prima nei colloqui con Massimo D’Alema, Dario Franceschini, Walter Veltroni, rivendica il ruolo centrale del suo partito per il raggiungimento del risultato. Nel caso particolare di Milano: «I vincitori sono Pisapia e il Pd». E in generale in questa tornata elettorale: «Lo schieramento di centrosinistra, di cui il Pd è fondamentale protagonista, mostra la capacità di innestare una nuova fase. Il vento del Nord si è alzato contro il blocco Pdl-Lega. In questa campagna elettorale noi abbiamo parlato delle questioni che interessano agli italiani, di lavoro soprattutto. E abbiamo lasciato l’estremismo a Berlusconi. Ci ha voluto lanciare una sfida, che per lui si è rivelata un boomerang».
LA LINEA NON CAMBIA
Il risultato consente a Bersani non solo di lanciare una sorta di avviso di sfratto all’asse Pdl-Lega, ma anche di stoppare sul nascere la richiesta della minoranza interna di aprire una discussione sulla linea del partito. Se un paio di settimane fa Veltroni aveva annunciato la richiesta di un confronto dopo le amministrative (con qualche altro esponente di Modem che parlava anche della possibilità di un congresso anticipato), ora l’ex segretario si limita a commentare la «inequivoca sconfitta del centrodestra e della linea estremista di Berlusconi» e a sottolineare che ora «si aprono grandi spazi per il Pd e la sua sfida riformista».
Bersani ha convocato per oggi il coordinamento del partito, l’organismo di cui fanno parte tutti i big, per fare il punto. E a prescindere da come sarà andato nel corso della notte lo spoglio a Bologna, il segretario canterà vittoria, confermando un concetto, sulla gestione del partito e sulla politica delle alleanze: «La linea non cambia». Del resto, se qualcuno pensava di poter rimproverare qualcosa guardando alla città delle Due Torri, Bersani aveva detto in via preventiva a metà pomeriggio, quando Virginio Merola era dato stabilmente sotto il 50%: «Anche con Delbono, due anni fa, andammo al ballottaggio. Di che cosa stiamo parlando?».
Anche sulla strategia delle alleanze, Bersani difende l’impostazione data fin qui (e circa il fenomeno dei grillini ribadisce che «non si può dire che destra e sinistra sono uguali e non si può rimanere nell’infanzia, se si vuole fare politica bisogna assumersi delle responsabilità»), sapendo tra l’altro di poter contare sul rafforzamento dell’asse con gli ex-ppi che fanno capo a Franco Marini e Dario Franceschini. Non è casuale che poco dopo la chiusura delle urne l’ex presidente del Senato arrivi al quartier generale del Pd per brindare con Bersani, al quale porta una bottiglia di Montepulciano. Ma prima di entrare nella stanza del segretario, Marini si ferma a parlare con i giornalisti che incontra sulla terrazza del Nazareno: «Il voto premia la linea di Bersani, di un partito serio sul piano dei contenuti, che parla delle cose di cui la gente vuole sentire parlare. A cominciare dal lavoro».
Bersani incassa e si prepara alle prossime mosse. I ballottaggi, innanzitutto. E poi gli accordi di coalizione. «Il messaggio del Pd era, è e sarà creare l'alternativa a Berlusconi per ricostruire il Paese, con una convergenza tra forze progressiste e moderate. Sono sicuro che gli elettori capiscano, perché parliamo di Italia. Questo schema non ci ha portato male. E resta».
l’Unità 17.5.11
Perché il governo cadrà il 19 giugno
Le voci di Via Bellerio sono decisamente preoccupanti per Berlusconi. Certo brucia molto il fallimento di Letizia Moratti. Ma a Bossi fa ancora più male il sensibile calo della lista della Lega a Milano rispetto al dato raccolto nelle ultime regionali. Non c’è solo la prova che il candidato era sbagliato, non si evidenzia solo l’incapacità ormai conclamata del Cavaliere di fare la differenza in positivo, come invece accadde nel 2010 per la scelta dei governatori. Quello che nella sede del movimento padano hanno messo nero su bianco nell’esaminare i dati del voto milanese è soprattutto il fatto che con Berlusconi si perde mentre senza Berlusconi si vince, come evidenziato anche dai risultati raccolti dalle liste nordiste nelle realtà in cui sono state contrapposte a quelle del Pdl. Ovviamente adesso c’è da prepararsi al ballottaggio, tenendo conto che il Senatur potrà aumentare di molto il peso delle richieste avanzate fino ad ora, andando ben oltre la nomina di Matteo Salvini alla carica di vicesindaco in caso di vittoria della Moratti. A via Bellerio però ci si prepara allo scenario peggiore, una sua sconfitta al secondo turno, con una reazione destinata a terremotare l’attuale scena politica: «se vince Pisapia dicono dal Carroccio in ambienti vicini all’area maroniana scarichiamo Berlusconi». Il tutto avverrebbe con rito rigidamente padano, sul pratone di Pontida dove Bossi ha convocato il suo popolo per il prossimo 19 giugno. L’intenzione sarebbe quella di effettuare quel giorno un vero e proprio referendum-plebiscito sulla opportunità di rimanere o meno con Berlusconi. Il gruppo dirigente leghista durante la campagna elettorale ha infatti toccato con mano quanto la propria base non sopporti più il premier. E Bossi, che è un abilissimo manovratore, sa bene come un pronunciamento di Pontida negativo per Berlusconi gli consentirebbe poi di andare ad Arcore a chiedere un passo indietro al Cavaliere per dare vita ad un nuovo esecutivo, a guida Tremonti o Maroni.
Corriere della Sera 17.5.11
Lo schiaffo
di Massimo Franco
L’ «asse del Nord» mostra una sofferenza e una precarietà inaspettate: almeno, se con il termine si intende l’alleanza protagonista di una campagna incline all’estremismo, che si è manifestata nel voto amministrativo di ieri e l’altro ieri. Il ballottaggio a Milano umilia non tanto il sindaco uscente, Letizia Moratti, ma Silvio Berlusconi, che chiedeva un referendum su se stesso e sul governo e riceve uno schiaffo personale e politico; e in parallelo ridimensiona le ambizioni di sfondamento della Lega. Il silenzio di Umberto Bossi è più rumoroso di qualunque commento. Trasmette l’immagine di un Carroccio che fatica a saltare il recinto delle città medie e piccole; ed è costretto a farsi molte domande sul futuro. Ma l’effetto va oltre il capoluogo lombardo, che pure è destinato a diventare l’epicentro delle tensioni nel centrodestra. Un’opposizione rinfrancata dai risultati che si delineavano ieri notte già sogna la rottura fra Pdl e lumbard, una crisi di governo e l’archiviazione in tempi rapidi del berlusconismo. La situazione, in realtà, rimane aperta. Fra due settimane, i ballottaggi potrebbero restituire la vittoria alla maggioranza, che ieri a Milano e Napoli l’ha mancata anche per eccesso di sicurezza e di aggressività. E la silhouette delle opposizioni si tinge di un rosso forte, radicale, col «Polo dei moderati» allo stato embrionale. Insomma, il responso di ieri è netto nell’indicazione degli sconfitti; non altrettanto univoco nel presentare un’alternativa di governo: a meno che, in prospettiva, si ritenga davvero che l’Italia possa essere guidata da una sinistra dominata dagli eredi di Rifondazione comunista, dall’Idv e dai «grillini» , oggi in grado di imporre candidati al Pd. In attesa dei risultati definitivi, per il partito di Pier Luigi Bersani le uniche eccezioni, importanti, sono Torino e Bologna. Per il resto, la soddisfazione e il sollievo degli avversari sono un rimbalzo della battuta d’arresto berlusconiana. Anche nella sconfitta, il presidente del Consiglio disegna il territorio circostante e lo condiziona: nel proprio campo e in quello avverso. Ma con un rovesciamento della percezione del suo ruolo che fa prevedere un periodo di instabilità e di altre rese dei conti nel centrodestra. In fondo, se ne può intravedere un assaggio nei voti mancati alla Moratti: consensi che sarebbe ingeneroso attribuire solo ai suoi errori. Le frasi fatte filtrare dal «cerchio magico» di Bossi, secondo le quali con Berlusconi la Lega perde, sono un indizio. Trasformano il tocco berlusconiano, che ancora nel 2010 faceva vincere la quasi sconosciuta Renata Polverini nel Lazio, in un handicap da «re Mida alla rovescia» . Probabilmente era forzata la visione precedente, ed è eccessiva l’attuale. Ieri è cominciato il ridimensionamento di un leader che dopo essersi presentato ed essere stato considerato da militanti e alleati come un demiurgo ora rischia di diventarne il capro espiatorio.
Corriere della Sera 17.5.11
Piero Bassetti: «È come la liberazione dal fascismo nel ’ 45»«
Si è sollevata l’onda che seppellirà 17 anni di berlusconismo»
di Paolo Foschini
«È come la liberazione dal fascismo nel ’ 45, più o meno ci siamo anche coi tempi: il Duce è durato vent’anni, il berlusconismo diciassette. Era ora» . Piero Bassetti, vecchia coscienza critica della politica milanese, primo presidente della Regione Lombardia ormai mezzo secolo fa e adesso motore primo del «Comitato 51 per cento» a sostegno di Pisapia, lo sa benissimo che non è finita: «La partita vera comincia adesso» , dice. Ma stupito no, non lo è neanche un po’: «Si è semplicemente verificata l’ipotesi nella quale speravo» . Cioè? «La sollevazione dell’onda che finalmente seppellirà il berlusconismo, nella culla stessa in cui era nato» . Milano. «Certo, in Italia tutto nasce e muore qui: era successo con Mussolini, ora succede con Berlusconi. Perciò quel che è uscito dalle urne milanesi, questa volta più che mai, non è un episodio da collocare dentro i soliti giochini della politica, né una svolta di ordinaria amministrazione: è finalmente la sconfitta del coperchio berlusconiano, al cui servizio si era collocata Letizia Moratti» . Chi ha perso di più tra i due? «Beh, a trasformare il voto in un referendum è stato Berlusconi quindi il principale sconfitto è lui. Ma anche lei, ridotta soprattutto negli ultimi giorni a recitare un copione-patacca che non le apparteneva neppure, e la sua amministrazione non hanno consegnato nulla al futuro di questa città: e Milano, invece, è proprio di futuro che ha bisogno» . Ma l’Expo allora? «L’Expo di per sé è solo un nome che aveva e ha bisogno di contenuti, non di liti sui terreni. Ma il cambiamento ora arriverà» . Beh, prima c’è il ballottaggio... «E infatti, dicevo, non è finita comunque: anche perché il 51 per cento basta a vincere le elezioni, ma per governare Milano come si deve servirà molto di più» . Che deve fare Pisapia? «Per vincere il ballottaggio? Innanzitutto non spaventare i milanesi: e per far questo gli basterà confermare il suo desiderio, che io so essere sincero, di allargare la coalizione e aprirsi a tutte le forze che il cambiamento lo vogliono» . Cambiamento di cosa? «Cambiamento. Che poi era stata la promessa di Berlusconi diciassette anni fa: per questo Milano e l’Italia gli avevano creduto. E lui alla fine le ha deluse entrambe, perché il berlusconismo si è rivelato essere il contrario esatto della novità promessa: è stato un tappo. Finché Milano, per non soffocare, si è ribellata» . Che succederà adesso? «La prima cosa riguarda gli altri ed è che a Roma, intendo nel luogo della politica nazionale, dovranno trarre le conseguenze di questo segnale: che persino a prescindere dall’esito finale del ballottaggio, ripeto, indica come la città in cui il berlusconismo e Forza Italia erano nati ora li ha ripudiati» . E poi? «La seconda invece riguarda noi. Ed è che questa svolta, come era stato con la liberazione del fascismo e la fine del Duce, ci impone una grandissima responsabilità. Berlusconi ci ha lasciato molte macerie: è arrivato il momento di iniziare a ricostruire» .
Corriere della Sera 17.5.11
Governo, riappare lo spettro della crisi E si rafforza il ruolo del Quirinale
di Francesco Verderami
Sul tavolo della maggioranza anche gli scenari legati alla ricandidatura di Berlusconi
ROMA— È Napolitano il vero vincitore delle elezioni, è lui che agli occhi di Berlusconi è diventato oggi l’uomo forte della politica italiana, trasformandosi nell’unico punto di riferimento dentro e fuori il Palazzo, dopo che le urne hanno distribuito cocenti sconfitte e contraddittori successi. È sul Colle che secondo il Cavaliere siede il suo vero competitor, uscito rafforzato dal test delle Amministrative. Berlusconi infatti è consapevole che il risultato di Milano indebolisce il suo esecutivo e lo consegna nelle mani del Quirinale, più ancora che in quelle di Bossi. Se cadesse la «capitale» del patto tra il Cavaliere e il Senatùr, nulla andrebbe escluso: i maggiorenti del Pdl mettono nel conto persino una crisi di governo, nonostante i dati incoraggianti ottenuti sul resto del territorio nazionale, malgrado il centrodestra paia in procinto di allargare ulteriormente la propria maggioranza in Parlamento. Tutto (o quasi) inutile, dopo che il premier ha trasformato la sfida nel capoluogo lombardo in un referendum su se stesso. Già il responso del primo turno compromette le mosse future del Cavaliere, pregiudicando una sua possibile ricandidatura alle prossime Politiche, e confermando un convincimento maturato in questi mesi da Bossi, secondo cui il centrodestra perderebbe se Berlusconi si riproponesse per palazzo Chigi. Ma intanto c’è da gestire l’emergenza, il contraccolpo immediato, siccome la perdita di Milano rischierebbe di avere sull'attuale maggioranza lo stesso effetto che ebbe sul centrosinistra la perdita di Bologna. Le recriminazioni sulla debolezza del candidato sindaco non servono. Non basta rilevare il fatto che la Moratti abbia ottenuto meno voti delle liste di centrodestra, elemento che da oltre un mese emergeva dai sondaggi e che aveva allarmato il Cavaliere. E poco importa se la gestione della cosa pubblica non abbia convinto i cittadini, a causa di un’assenza di strategia su un grande evento come l’Expo. I cocci sono comunque del premier, tocca a lui pagare il conto: Bossi ieri gli ha mandato un preventivo della fattura. Non c’è dubbio che l’eventuale punto di rottura del berlusconismo passerebbe dalla faglia che si è aperta con il Carroccio. Ma l’arbitro della sfida è il Colle, e Verdini dice quel che il Cavaliere pensa: «In questa fase confusa è chiaro che il capo dello Stato assumerà un ruolo determinante» . Per capire fino a che punto ormai— agli occhi dei berlusconiani— si sia dilatato questo ruolo del Quirinale, il coordinatore del Pdl arriva a sussurrare con un sorriso amaro: «Ora Napolitano fa anche l’ambasciatore...» . Il riferimento è alle assicurazioni fornite ieri dal presidente della Repubblica alle autorità palestinesi, circa il rafforzamento delle relazioni diplomatiche con l’Italia. Così in Berlusconi si è rafforzato un sospetto che aveva preso corpo due settimane fa, quando Napolitano chiese — a sorpresa — un passaggio in Parlamento del governo dopo la nomina dei nuovi sottosegretari: «In passato non si sarebbe comportato in questo modo» , commentò allora il premier guardando la curva negativa dei propri sondaggi. Allora una parte dei dirigenti del Pdl interpretò quella esternazione del capo dello Stato come la prima mossa di una sorta di «operazione rompighiaccio» , tesa a preparare il terreno a nuovi equilibri dopo le Amministrative, nel caso di un capitombolo del centrodestra. Il capitombolo c’è stato, frutto di un’errata strategia politica e mediatica del Cavaliere, come gli ha contestato ieri lo stesso Giuliano Ferrara. E la Moratti — che scontava anche un handicap di gestione— è stata distanziata da Pisapia, candidato del centrosinistra, giunto a un passo dalla vittoria al primo turno. La rimonta non sarà facile, il premier avrà due settimane per tentare di ribaltare il risultato e non venire ribaltato, «e se la Lega non impazzisce— dice Verdini — non ci saranno problemi di governo» . Una sconfitta però metterebbe tutto in discussione. Comunque non c’è dubbio che dopo il ballottaggio di Milano si apriranno i giochi a Roma: «A quel punto — secondo il pidiellino Napoli— entrerà in scena il capo dello Stato, e lo farà con un ruolo da primattore» . Una cosa che -per usare un eufemismo — non piace a Berlusconi, ma che per certi versi è imposta dalla situazione generale della politica italiana. I successi del Pd a Torino e Bologna sono infatti condizionati dall’avanzata della sinistra alternativa e protestataria che si riconosce nei «grillini» , e che ipoteca future alleanze di governo. Lo stesso Di Pietro è minacciato nella sua leadership di partito dallo straordinario risultato di de Magistris a Napoli, patria di Napolitano, dove il Pd non arriva nemmeno al ballottaggio e deve sperare in un apparentamento con l’ex pm dell’Idv per non restare tagliata fuori. Quanto al terzo polo, non solo non riesce a diventare una forza determinante nello scontro elettorale — non riesce cioè ad attrarre il voto dei moderati delusi dal Pdl — ma è costretto a registrare una nuova spaccatura in Fli. In questo scenario polverizzato, con un governo indebolito dal risultato delle urne e attraversato da sospetti e accuse tra alleati, il Colle avrà giocoforza un ruolo crescente, mentre il premier sarà chiamato a gestire il rapporto con la Lega e a sopire le tensioni all’interno del suo partito, dove in molti già chiedono un «chiarimento interno» . Servirebbe un rilancio per uscire da una fase di logoramento che dura da tempo. Di un Berlusconi-bis, tuttavia, il Cavaliere non vuole sentir parlare: «Roba da prima Repubblica» . Ma dovrà pur trovare un rimedio per allontanare i fantasmi che periodicamente riappaiono, assumendo le sembianze di Tremonti. Non è dato sapere se attorno a questo nome possa davvero formarsi una maggioranza in Parlamento per un altro esecutivo, è certo però che l’Udc attende un segnale dalla Lega per capire se ci siano le condizioni per un nuovo assetto. «Senza una forza moderata non si governa» , ha detto ieri Casini, lasciando un pro memoria a Bossi. E al pari del capo dei centristi, anche Bersani attende di capire se il Senatùr imprimerà una svolta. Milano sarà lo spartiacque, dopo il quale ogni evoluzione del quadro politico nazionale passerà al vaglio di Napolitano, il presidente della Repubblica che— secondo Berlusconi— «ha trasformato il Quirinale nell’Eliseo» .
l’Unità 17.5.11
Il buco demografico
Immigrazione e natalità
Le verità nascoste agli italiani
di Nicola Cacace
Sull’immigrazione si gioca una partita degli equivoci. Le classifiche di qualificati enti internazionali, tra cui la Cia, mettono l’Italia ai vertici mondiali sia per tasso di immigrazione che per tasso di denatalità, mentre i partiti, soprattutto Lega e Pdl, continuano a raccontare agli elettori bugie del tipo «blocchiamo l’immigrazione» quando sanno benissimo che i consistenti flussi migratori dell’ultimo decennio, 360mila l’anno, continueranno almeno per altri vent’anni, come dice anche l’Istat. Perché? Perché nei flussi migratori vale il principio dei vasi comunicanti: non è infatti un caso che i Paesi più vecchi, quindi con più bisogno di braccia, siano quelli a più alto tasso di immigrazione. Gli immigrati vanno dove è più facile trovar lavoro. Poiché l’offerta di disperati non manca mai è naturale che quelli che partono rischiando tutto, tendono a premere di più sui Paesi in cui è più facile trovare lavoro. L’Italia è stata nel decennio 2000-2010, ed è tuttora, leader europeo ed occidentale del tasso di immigrazione sopravanzando nettamente non solo tutti i Paesi europei ma anche un altro Paese di immigrazione storica come gli Usa. Nelle classifiche internazionali del tasso netto di immigrazione («net immigration rate») l’Italia figura col 6 per mille, 6 immigrati ogni mille cittadini, pari ai 360mila immigrati annui dell’ultimo decennio, davanti a Spagna, 4 per mille, Portogallo e Gran Bretagna 3 per mille, Danimarca 2,4 per mille. Francia e Germania sono in fondo alla classifica con l’1 per mille. Perché l’Italia, la cui economia
nel decennio è cresciuta la metà del resto d’Europa, che non ha leggi e politiche di particolare «accoglienza» verso gli immigrati, ha attratto, attrae e attrarrà per alcuni decenni molti più immigrati di tutti gli altri Paesi industriali? L’Italia ha il più grosso buco demografico mondiale, che gli italiani ignorano o fingono di ignorare, pari a 500 mila giovani mancanti ogni anno, da nascite dimezzate da un milione a 500mila. Infatti colpisce la corrispondenza tra le due classifiche, i quattro Paesi che vengono subito dopo l’Italia nel tasso di immigrazione sono anche gli stessi che vengono subito dopo l’Italia nel tasso di natalità, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Danimarca. L’immigrazione richiamata dal buco demografico continuerà ancora, sinchè continua l’attuale tasso di denatalità. Nessuno vuole immigrati in casa ma nessuno spiega agli italiani che senza immigrati il sistema crollerebbe. Perché l’occupazione degli stranieri è aumentata, secondo l’Istat, anche negli anni di crisi quando l’occupazione degli italiani calava? Perché gli stranieri accettano lavori «umili» mentre diplomati e laureati italiani cercano all’estero quei lavori di qualità che un sistema a bassa innovazione non produce a sufficienza.
il Fatto 17.5.11
Anniversario di sangue
La carneficina nel giorno della nascita di Israele e della cacciata dei palestinesi
di Roberta Zunini
La celebrazione della naqba, il disastro, ha reso evidente a Israele che il vento della primavera araba non si ferma nemmeno davanti alle alture del Golan né di fronte alle armi sofisticate dei suoi soldati. Decine di figli e nipoti dei rifugiati palestinesi, che vivono nei campi profughi dei paesi limitrofi e di Gaza dal ‘48 - quando fu costituito lo stato israeliano - quest’anno hanno deciso di ricordare quel 15 maggio di 63 anni fa, entrando nei confini israeliani. Dalla Siria e dal Libano, la marcia dei profughi ha travolto steccati, calpestato fili spinati e sfidato con le bandiere palestinesi e gli slogan, la forza di Israele.
PROPRIO NEI GIORNI in cui il presidente Giorgio Napolitano, si trova in visita in Israele e in Cisgiordania, è risultato chiaro che gli sforzi diplomatici internazionali per far riprendere i negoziati di pace sono clamorosamente in ritardo rispetto alla strategia messa in atto dall’Iran e dalla Siria - secondo l’analista militare Amir Rappoport - per indurre i giovani arabi a coinvolgere anche Israele nelle rivolte, destabilizzandolo. Mentre secondo alcuni analisti europei ci sarebbe sì lo zampino dell’Iran, attraverso i suoi emissari-il siriano Assad e i libanesi Hezbollah, che infatti dominano il confine sud, al confine con Israele -. La marcia senza armi, teorizzata dallo studioso americano Glen Sharp, è una tecnica efficace per destabilizzare i giganti armati. Questo non significa che il colosso non reagirà ma la sproporzione della reazione lo renderà alla lunga fragile, danneggiando la sua immagine. Una conferma in questo senso arriva dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak che nota come “negli ultimi tempi i palestinesi abbiano abbandonato il ricorso alla forza, anzi si siano impegnati contro il terrorismo, per intraprendere invece contro di noi una forma di resistenza morbida, per poterci rappresentare come una forza di occupanti”. Dichiarazioni dure e spezzanti quelle dei vertici israeliani che mostrano una chiusura nei confronti di qualsiasi soluzione che non sia stata decisa da Israele. E che di conseguenza lascerebbe poco spazio a mediazioni straniere. Il presidente Napolitano dopo aver ribadito che “non è accettabile considerare la fondazione dello Stato di Israele una catastrofe (naqba), al di là delle interpretazioni che nel mondo arabo si danno di quell'evento storico”, incontrando il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha promesso di elevare la rappresentanza diplomatica in Italia dell’Anp. Dichiarazione che segue l’intento dell’Anp di proclamare in settembre all’Onu uno Stato Palestinese dopo il mancato blocco delle colonie ebraiche nei Territori Occupati. Gli Stati Uniti, di fronte ai venti morti tra i dimostranti, hanno chiesto a Israele moderazione. Pur ribadendo ha diritto di difendere i propri confini.
da una intervista pubblicata sul Corriere della Sera:
Il ministro israeliano Barak: «Difenderemo i nostri confini»
S'è sparato parecchio... «Lo rifaremmo. L'esercito ha l'ordine di tenere chiusi quei confini.
l’Unità 17.5.11
Missione Anp a Roma diventa ambasciata Abu Mazen: grazie Napolitano
Dopo i colloqui di domenica con Peres e Netanyahu, Giorgio Napolitano si è recato ieri nei Territori per incontrare Abu Mazen. Il rappresentante dell’Anp a Roma viene elevato al rango di ambasciatore.
di Marcella Ciarnelli
L’Autorità nazionale palestinese avrà il suo formale ambasciatore in Italia. Lo ha annunciato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al termine del colloquio con Abu Mazen a Betlemme, tappa importante della visita di due giorni in Israele e nei territori. «A nome del governo annuncio l’elevazione della delegazione al rango di missione diplomatica, e al rango di ambasciatore il rappresentante diplomatico palestinese» a Roma che sarà accreditato al Quirinale. «È un altro regalo che ci fa l'Italia»,ha sottolineato Abu Mazen.
Il presidente italiano aveva iniziato la sua visita accolto con gli onori militari nel cortile dell'edificio della sede distaccata a Betlemme dell’Anp. Picchetto d'onore con Abu Mazen. Poi una banda ha suonato gli inni nazionali, seguiti dalla marcia trionfale dell'Aida. È cominciato così l’incontro che era stato preceduto domenica da quello, con il presidente d’Israele, Shimon Peres, e poi da quello con il premier Netanyahu. Napolitano al termine del colloquio ha voluto ribadire che bisogna operare subito, «adesso, a maggio, a giugno, a luglio» per affidare la nascita dello Stato palestinese ad «un rilancio della prospettiva negoziale», invece di «aspettare ciò che accadrà a settembre» alludendo chiaramente alla preannunciata intenzione del presidente dell’Anp di proclamare appunto in settembre, in mancanza di alternative, la nascita dello Stato palestinese presso l’Onu. La strada maestra, per Napolitano, resta quella di «riaccendere un clima di dialogo fra le parti» in modo da far in modo che sia più di una speranza la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
GENEROSITÀ E LUNGIMIRANZA
L’Italia sosterrà la ricerca del dialogo chiamando l’Unione europea che condivide la responsabilità della pace in Medio Oriente a non sottrarsi all’impegno ma, al contrario, a dimostrare la massima «generosità e lungimiranza» secondo la formula «due popoli, due Stati» che presuppone la reciproca accettazione e la coesistenza pacifica. Una formula che entrambe le parti hanno accettato ed ora «si tratta di farne discendere accordi che permettano la concreta realizzazione» di un progetto che sembra allontanarsi davanti agli scontri sanguinosi che ci sono stati, soprattutto ai confini di Israele con Libano e Siria, nel giorno della «catastrofe».
Ma per Abu Mazen, che ha usato un tono molto netto nel dirlo, «l’Anp è disposta a tornare al tavolo del negoziato con Israele solo di fronte a uno stop alle colonie nei Territori occupati». Le assicurazioni dell’esponente palestinese che la riconciliazione fra Fatah e Hamas, e la nascita del nuovo governo «tecnico» non toglieranno all'Anp e allo stesso Abu Mazen la titolarità esclusiva di condurre il negoziato con Israele rispettando i principi fissati dal Quartetto formato da Onu, Russia, Usa ed Ue, da Napolitano sono state accolte positivamente.
La visita in Israele si è svolta mentre in Italia era in corso l'importante consultazione elettorale. Mentre iniziava lo spoglio Napolitano era al Tempio italiano. Nessun accenno, ovviamente. Men che mai un commento. Ma ben forte l’invito che «cerco di esprimere, in Italia e fuori dall’Italia di valorizzare quello che unisce gli italiani al di là delle dispute politiche e ideologiche pur legittime, ma che spesso vanno oltre il segno e il limite compatibile con un minimo di coesione e di unità nazionale, necessarie per affrontare le sfide che ci attendono».
il Fatto 17.5.11
Dal papa stretta sulla pedofilia, obbligo di collaborare con i giudici
Ma nella Circolare manca l’ordine di denuncia
di Marco Politi
Papa Ratzinger decide di pianificare la lotta contro gli abusi sessuali. Una circolare della Congregazione per la dottrina della fede impone agli episcopati di tutto il mondo di dotarsi di Linee guida entro un anno, in modo da affrontare con sistematicità il contrasto alla pedofilia nelle strutture ecclesiastiche. È la vittoria del metodo tedesco-americano sul metodo italiano, che sinora ha lasciato tutto nelle mani dei singoli vescovi senza procedure, responsabili, canali di ascolto organizzati a livello nazionale. Era il 2002 quando la segreteria della Cei dichiarò che non esisteva nessun piano per dotarsi di un osservatorio per monitorare il fenomeno e ancora l’anno scorso la Cei escluse che in Italia si sarebbe avuto un responsabile nazionale come esiste ad esempio in Germania dove si occupa del problema il vescovo di Tre-viri e nemmeno un numero verde.
IL PRESIDENTE della conferenza episcopale Bagnasco è intervenuto tempestivamente a Genova appena un sacerdote è stato arrestato per abusi, ma la questione non riguarda l’atteggiamento di un singolo vescovo bensì l’organizzazione specifica per prevenire, scoprire e sanzionare il fenomeno. E questo esige direttive precise e procedure controllabili dalla pubblica opinione. È precisamente quello che si prefigge la circolare diffusa dal cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede: approntare una “risposta adeguata”. Una formula diplomatica per scuotere quelle conferenze episcopali che ancora non si sono mobilitate. Benedetto XVI è angosciato dal problema dopo lo shock della valanga di rivelazioni dell’anno 2010 ed è deciso a stimolare gli episcopati ad una strategia di rigore. Oltre a chiedere l’elaborazione di Linee guida entro il maggio 2012, la circolare indica una serie di punti fermi. Organizzare l’ascolto e l’assistenza alle vittime, anzitutto. Il che suggerisce il Vaticano può richiedere anche che il vescovo nomini un delegato specifico per trattare la questione. Seconda esigenza: imparare dai programmi di prevenzione varati in alcune nazioni per insegnare a genitori, personale scolastico e sacerdoti a riconoscere i segni dell’abuso.
Fondamentale è il ruolo dei vescovi. Con linguaggio garbato la circolare li invita a non restare passivi, ma farsi parte attiva in questa battaglia. I vescovi devono essere pronti ad ascoltare le vittime, assicurare “ogni impegno” nel trattare le denunce, vigilare sulla selezione dei candidati al seminario e anche controllare i motivi per cui un candidato al sacerdozio si trasferisce da un seminario all’altro. Tocca a loro sospendere il sospettato dalle sue funzioni e non lasciarlo a contatto con minori. I compiti sono chiari: al vescovo locale l’indagine preliminare, al Sant’Uffizio il giudizio canonico.
Benedetto XVI vuole togliere ogni alibi a quel “lasciar correre”, che ha causato danni enormi alle vittime e di cui si troverà testimonianza negli archivi vaticani se un giorno saranno aperti.
IMPORTANTE è l’indicazione a cooperare con magistratura e polizia. “In particolare sottolinea il documento del Sant’Uffizio va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale (la confessione)”. Il che vale sia per il clero che per il personale laico che lavora nelle strutture ecclesiastiche: scuole, convitti, asili e così via. La circolare è molto chiara nel rammentare che l’abuso di minori non è solo un “delitto” per le norme canoniche, ma è un “crimine” per la legislazione statale. Altrettanto precisa la circolare è nell’esortare i vescovi a ricordare ai preti coinvolti le loro “responsabilità” dinanzi alla legge.
Ma qui c’è un elemento di ambiguità. Il testo del cardinale Levada registra che i rapporti con le autorità civili variano da stato a stato. In parole semplici: in Francia la legge prescrive al vescovo di denunciare il prete colpevole, in Italia e altri paesi no. Se il Vaticano intende agire fino in fondo per bonificare la situazione, allora dalla sede papale è necessario che arrivi l’ordine tassativo, senza equivoci, che le autorità ecclesiastiche denuncino sempre i preti predatori a magistratura e polizia.
Altrimenti succede come con il parroco romano di Selva Candida don Ruggero Conti, condannato in prima istanza a quindici anni per abusi su sette bambini: l’associazione “Caramella Buona” contattò anni prima vari prelati per metterli sull’avviso, ma nessuno le diede retta.
Corriere della Sera 17.5.11
Il Paese cresce se studiano tutti
De Mauro: «Tagliare nell’istruzione compromette il futuro»
di Tullio De Mauro
Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio» , al «fallimento» . E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda. Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo» a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi. E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola? U na prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010. La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro» . Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa. L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95%della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38%della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33%è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70%di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura. Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso.
Repubblica 17.5.11
La legge del desiderio
Perché così fan tutti. Il piacere secondo Mozart
di Tzvetan Tiodorov
Nella sua nuova raccolta di saggi Todorov analizza il linguaggio erotico delle "Nozze di Figaro"
Il gioco amoroso si svolge scandito da tre passaggi principali vissuti dai protagonisti: la seduzione, la gelosia e l´invidia
Il compositore non scrive i libretti delle sue opere ma ha le idee molto chiare sul ruolo svolto dalle parole: la musica è al loro servizio
Pubblichiamo un brano dalla nuova raccolta di saggi di Todorov pubblicata da Garzanti
Per Mozart, l´opera è il genere musicale più alto, dunque il suo sogno è di comporne una. «Il mio più grande desiderio: scrivere delle opere». «Invidio chiunque ne scriva una». Al solo pensiero si sente pervadere tutto il corpo da un fuoco. «Il mio scopo è l´opera». Si tratta di un componimento non di sola musica, perché si aggiungono immagini, teatro e, soprattutto, testo. Se Mozart non scrive i libretti delle proprie opere, ha comunque idee molto chiare sul ruolo che svolgono le parole: il compositore sarà il maestro, il suo compito sarà quello di dare l´orientamento generale; nello stesso tempo la sua musica deve seguire il più possibile da vicino il significato delle parole.
Il poeta si sottomette al compositore, ma la musica è al servizio delle parole. Mozart, dunque, interviene costantemente nella scrittura dei libretti e in particolar modo in quello di Schikaneder per Il flauto magico e in quelli di Lorenzo da Ponte (per la trilogia "erotica": Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte); si osserverà come nessuno degli altri libretti che scriverà Da Ponte raggiungerà mai la qualità di questi tre. Per questo motivo Mozart può essere considerato responsabile dell´integralità di ciascuna opera e non soltanto della partitura; ecco perché siamo autorizzati a cercare al suo interno l´espressione del pensiero del musicista.
È stata sua l´idea di scrivere un´opera a partire da uno spettacolo teatrale che in quel momento fa furore. Nelle Memorie, Da Ponte racconta: «Parlando un giorno con me, mi chiese se potessi facilmente mettere in dramma la commedia di Beaumarchais Il matrimonio di Figaro». La prima ebbe luogo nel 1784 a Parigi, anche se inizialmente era stata vietata. Nemmeno a Vienna la rappresentazione era stata autorizzata, ma Da Ponte è convinto di ottenere l´indulgenza imperiale. A tale scopo procede ad alcuni tagli dei passaggi ritenuti particolarmente sovversivi, pur preservando lo spirito generale dell´opera, e nel maggio del 1786 l´opera di Mozart viene rappresentata a Vienna.
Gli aspetti politici dell´opera sono un po´ attenuati nel suo adattamento musicale, ma non mancano. (...)
Tuttavia, il punto centrale delle Nozze di Figaro è altrove: è un´opera sull´amore. Non l´amore-carità, raccomandato dalla Chiesa cristiana, né l´amore-gioia caratteristico dei rapporti tra genitori e figli, o tra amici, o talvolta anche tra amanti; ma l´amore-desiderio: quello che nasce da una carenza e che vive finché essa dura; che i successi soffocano e gli ostacoli ravvivano. È la ricerca di una seduzione che sarà coronata da una conquista. In quest´opera, come nelle altre scritte in collaborazione con Da Ponte, è in gioco l´eros: le Nozze di Figaro, che vengono per prime, annunciano e preparano le due successive («Così fan tutte», canta già Basilio; quanto al Conte e anche al giovane Cherubino, essi condividono alcuni tratti di Don Juan, ma non la sua brutalità: violenze e bastonate non appartengono più allo spirito del loro tempo). Tutti i personaggi dell´opera sono familiari alla logica del desiderio, che alternativamente illustrano e analizzano: perfino Figaro, che pensa soltanto alle nozze, o Susanna, che respinge le profferte del Conte, o Marcellina, la Giocasta della commedia.
Il gioco erotico si svolge sempre a tre, tra soggetto e oggetto del desiderio s´intromette regolarmente un rivale. La prima figura di questo gioco è il tentativo di seduzione e la difficoltà deriva dall´iniziale mancanza di reciprocità: si desidera qualcuno, che a sua volta desidera un altro. Così Barbarina vorrebbe conquistare Cherubino, che aspira alla Contessa, che sogna il conte, che corre dietro a Susanna, che spera di sposare Figaro... Dall´altro lato, Marcellina vuole prendersi Figaro, che vorrebbe sposare Susanna. Se l´oggetto del desiderio fosse pronto a soddisfare la richiesta, l´amore finirebbe: ecco perché il Conte si annoia con la Contessa. La seconda figura è la gelosia: è provocata dal desiderio del rivale, mentre l´innamorato non prova affatto tale sentimento. Il Conte si preoccupa poco della Contessa, ma non può sopportare l´idea che qualcun altro – Cherubino, Figaro o un servo – le faccia la corte; all´opposto, si può immaginare che il carattere lunatico del Conte mantenga vivo il desiderio della Contessa. Essere infedeli e al contempo pretendere gelosamente la fedeltà di un altro appartiene alla logica di eros. L´invidia costituisce una terza figura: se non si può entrare nelle grazie di qualcuno, bisogna almeno impedire che ne possa godere qualcun altro. (...)
Mozart non si limita a mostrare l´influenza generale del desiderio, grande regolatore dei comportamenti umani, ma ne illustra contemporaneamente la vanità. Anche se non finisce all´inferno come Don Juan, il Conte sarà umiliato a causa della propria bulimia erotica. La ricerca incessante di nuove conquiste e le infedeltà che ne risultano sono condannate non perché immorali, ma perché frustranti: è una corsa ai miraggi che destina ciascuno a restare solo con sé stesso.
Tuttavia, Mozart non sostiene che il desiderio sia un´illusione: ne riconosce la forza, ma non vede in esso alcuna saggezza, che consiglierebbe non di fuggirlo, bensì di rendersi conto del suo carattere meccanico: solo così ci si può liberare dalla sua influenza. Alla fine delle Nozze e di Così fan tutte viene alla luce un altro atteggiamento: smettere di farsi illusioni sulle virtù degli esseri umani, rendersi conto delle loro debolezze, mostrando però indulgenza nei loro confronti, perché possono anche imparare a non essere semplici trastulli tra le mani di eros. (...)
L´esperienza rende questi personaggi migliori, la conoscenza li guida verso la libertà – e nello stesso tempo verso la clemenza: consapevoli delle proprie debolezze, perdonano più facilmente quelle degli altri. L´opera non si chiude con i festeggiamenti trionfali, come quelli a coronamento delle battaglie vinte, ma con la gioia calma e serena; la vera conquista non consiste nel cumulare le vittorie («mille e tre») e nello scoprire le infedeltà, ma nel vincere il desiderio inappagabile e nell´apprezzare la semplice esistenza dell´altro.
il Fatto 17.5.11
Rivoluzione, donne e champagne. Engels come Strauss-Kahn?
di Carlo Antonio Biscotto
Dominique Strauss-Kahn, colpevole o innocente che sia, ha sicuramente un progenitore illustre: Friedrich Engels. Lo storico e deputato laburista Tristram Hunt nella sua monumentale biografia dal titolo La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, recentemente tradotto anche in italiano, fa piazza pulita sia dell’Engels scientista e materialista sia del teorico che, nella coppia formata con Marx – come diceva egli stesso – era solo il “secondo violino” e preferì vivere sempre all’ombra dell’amico di cui dopo la morte disse: “Lui era un genio, noi tutt’al più avevamo un po’ di talento”.
In realtà Engels era un uomo affascinante, attraente, ottimista, oltremodo generoso. Ma soprattutto amante del lusso e degli agi, dotato di un umorismo malizioso, un po’ pettegolo, a volte persino perfido. Un vero e proprio “comunista in finanziera” come recita il sottotitolo della biografia di Hunt. Era cresciuto in una famiglia austera con il padre, un ricco industriale della Renania, fervente “pietista” e nemico di ogni forma di mondanita’. Aveva reagito diventando hegeliano prima e socialista poi e ammirando, fino ad imitarlo, lo stile di vita spavaldo, ribelle e priapico di Percy Bysshe Shelley.
Soprattutto, Engels fu sempre un bon vivant, un uomo di mondo, un gaudente. Grande conoscitore di vini – non di rado alzava il gomito – e autentico “tombeur de femmes”, condusse a Manchester una doppia vita come non di rado capitava nel-l’Inghilterra vittoriana dove abbondavano i dottor Jekyll e i Mr Hyde che sarebbero poi stati immortalati dalla penna di Stevenson. Industriale in finanziera, inserito nell’alta borghesia di Manchester di giorno e rivoluzionario la sera quando, al riparo da occhi indiscreti, si ritrovava in casa con la sua amante Mary Burns e sua sorella Lydia, due operaie irlandesi quasi analfabete che, al suo arrivo a Manchester, gli avevano fatto conoscere l’“altra Cottonopolis”, quella degli operai con il loro carico di sofferenza e privazioni. Una contraddizione che non sembrò pesargli più di tanto.
FORSE PERCHÉ, come disse molto tempo dopo un altro Marx, Groucho, “nella vita ci sono un sacco di cose più importanti del denaro, ma costano un mucchio di soldi”. Ed Engels i soldi li aveva: per le donne, per lo champagne di marca, per i club esclusivi, per gli abiti di sartoria, per le numerose donne che cedettero al suo fascino e anche per mantenere per 40 anni la famiglia dell’amico Marx. Un impegno non da poco: Marx ebbe dalla moglie sette figli. Un ottavo lo ebbe dalla cameriera Elena, ma l’amico Engels se ne attribuì generosamente la paternità . In compenso, non si sposò mai.
Certo il perbenismo borghese, cacciato dalla porta finì per rientrare dalla finestra. Engels non parlò mai alla sua famiglia di Mary Burns, compagna di una vita, anzi fu sempre attento a nascondere a tutti, tranne che a Marx, la sua relazione con l’umile operaia e alla fine relegò le due sorelle in una abitazione non lontana dalla sua. Inoltre, non smetteva mai di viaggiare. Nel 1849, dopo un anno e mezzo di speranze rivoluzionarie andate rovinosamente deluse, per consolarsi si rifugiò nella Loira dove ebbe modo di “gustare le delizie gastronomiche e sessuali della Francia”. Delle donne francesi era sempre stato un fervente ammiratore: “Se non ci fossero le francesi, non varrebbe la pena vivere”, soleva dire. Ma quando si trattava di piaceri non andava tanto per il sottile. Adorava lo champagne, ma non disdegnava una bella sbronza a base di birra. Cercava il favore delle eleganti signore dell’alta borghesia, ma non rifiutava la compagnia di quelle che allora i giovani rampolli bene chiamavano “grisette”, dal colore grigiastro degli abiti da lavoro che indossavano. Erano giovani fanciulle di basso ceto, sovente operaie o sartine, dalle abitudini disinvolte e per questo facili conquiste di studenti e borghesi.
Nel 1850, tornato a Manchester, decise di dedicarsi anima e corpo al lavoro nell’azienda tessile paterna anche per provvedere ai crescenti bisogni della famiglia Marx. Divenne un membro di spicco della buona società di Manchester: andava a cavallo, era socio dei prestigiosi Albert Club e Brazenose Club dove si faceva notare per l’affabilità, la distinzione, l’arguzia, il fascino. Era anche un uomo di straordinaria erudizione tanto da essersi guadagnato il nomignolo di “enciclopedia ambulante” affibbiatogli affettuosamente da Marx. In quegli anni si cementò il sodalizio con Marx – il più straordinario sodalizio della storia della filosofia occidentale, come hanno scritto in molti.
UN SODALIZIO che poggiava sulla comune passione politica, sulla collaborazione di studiosi, ma anche su una profonda amicizia. Si scrivevano tutti i giorni. Dal carteggio tra “Il Moro di Treviri”, così Marx veniva chiamato anche in famiglia, e il “Generale”, soprannome di Engels per le sue conoscenze nel campo della strategia militare e della guerriglia, emergono due rivoluzionari a tutto tondo, ma anche due eterni adolescenti che infarciscono i loro scritti di oscenità, pettegolezzi da osteria, storie di corna e di donne. In Occidente, almeno nell’ultimo secolo, le rivoluzioni hanno sempre avuto come nemico la borghesia e sono state sempre organizzate, concepite, sognate e realizzate da borghesi. Forse perché i poveri erano troppo occupati a sbarcare il lunario. Per questo spesso i rivoluzionari, o sedicenti tali, avevano gli stessi vizi, le stesse debolezze, gli stessi tic, le stesse abitudini degli odiati borghesi. Engels ha avuto il merito di non nasconderlo più di tanto.
La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels Tristram Hunt, ISBN, 390 PAGINE, 27 EURO
Corriere della Sera 17.5.11
Losurdo, l’apologeta di Stalin elogiato dal «Financial Times»
di Antonio Carioti
Non capita spesso che uno studioso italiano di matrice hegeliano marxista, autore anche di un saggio in difesa di Stalin, venga ampiamente recensito in termini elogiativi sul «Financial Times» espressione autorevole del capitalismo anglosassone. Ma evidentemente Domenico Losurdo, docente di Filosofia all’Università di Urbino, gode di più credito all’estero che in Italia, almeno a giudicare dal lungo articolo dedicato alla traduzione inglese della sua Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005) da Peter Clarke, autore di saggi su Keynes e sulla storia britannica del Novecento. Il libro, con una vasta messe di citazioni, denuncia la vocazione elitaria del liberalismo classico, il cui impegno per l’affermazione dei diritti individuali rimase a lungo circoscritto nell’ambito della borghesia, escludendo le classi più umili e legittimando addirittura la schiavitù per gli appartenenti ai popoli di colore. Clarke accetta questa ricostruzione, che pure in alcuni aspetti appare unilaterale, per volgerla in senso positivo. Se grandi pensatori del passato (da John Locke a Jeremy Bentham, da David Hume a Thomas Jefferson) hanno ritenuto che vaste categorie d’individui non dovessero godere dei diritti fondamentali per cui si battevano, queste «clausole d’esclusione» , osserva Clarke, non possono tuttavia essere ritenute «intrinseche ai valori centrali» del liberalismo. Quindi il libro di Losurdo può essere utile per definire una visione politica più aperta e inclusiva. D’altronde esistono molti tipi di liberalismo. E se, come ammette anche Losurdo, i liberali hanno saputo imparare dai loro avversari democratici e marxisti, fino a recepirne molte istanze, è perché la loro fiducia nello scambio delle idee, insieme alla consapevolezza di non possedere la verità assoluta, li predisponeva alla comprensione delle ragioni altrui. In fondo sta qui la vera grande forza del liberalismo, al di là delle umane incoerenze di tanti suoi esponenti.
l’Unità 17.5.11
L’inaugurazione venerdì nel quartiere che ospita la sede della Società Psicoanalitica
La città eterna fu una meta prima sognata e poi visitata più volte con entusiasmo
Un giardino che si chiama Freud: l’omaggio di Roma al padre della psicoanalisi
di Valeria Trigo
Venerdì viene inaugurato a Roma il «Giardino Sigmund Freud», omaggio della città e della Spi al padre della psicoanalisi che nutriva un’intensa passione per i tesori artistici e archeologici della capitale.
«Una volta sognai di vedere il Tevere e il ponte Sant’Angelo dal finestrino della carrozza; poi il treno si mette in moto e mi accorgo di non essere sceso neppure in città». È uno dei sogni «romani» che Sigmund Freud riporta nell’Interpretazione dei sogni. Roma «impossibile» è una terra promessa verso la quale lui non riesce ad andare. Supererà questa inibizione al movimento verso Sud nel 1901, data della prima visita, in compagnia del fratello, alla città eterna, verso la quale il padre della psicoanalisi nutriva una forte passione, legata a doppio filo a quella per i tesori dell’archeologia metafora del lavoro di scavo e indagine richiesto dalla sua teoria. Ne fu entusiasta, e lo comunicò ai familiari in esuberanti messaggi nei quali raccontava di aver ricavato «impressioni di cui ci si nutrirà per anni» e in cui confessa: «Ho infilato la mano nella Bocca della Verità giurando che sarei tornato qui». Ci riuscì, tornò molte altre volte. Ora Freud avrà il suo giardino nella città eterna: venerdì alle 12, infatti, verrà intitolato a lui il giardino nel quartiere Parioli, a pochi passi dalla sede della Società Psicoanalitica Italiana che, alle 18, ospiterà una conversazione tra il presidente Spi Stefano Bolognini e Eugenio Scalfari sul tema «La psicoanalisi: radici memorie costruzioni».
Freud colto, borghese illuminato, nutrito di cultura classica, sulle orme di Goethe e di tanti viaggiatori dell’Ottocento interpretò il viaggio a Roma come occasione di conoscenza e formazione, di nutrimento spirituale e di arricchimento conoscitivo. Accanto a questo aspetto, visse Roma come un normale turista dell’epoca.
Dalla sua corrispondenza privata alla famiglia, si evince chiaramente la preoccupazione per la ricerca di un alloggio comodo e accogliente o di un ristorante dove mangiar bene. Alloggia all’Hotel Milano, mangia alla «Rosetta», si ferma a una proiezione cinematografica su uno schermo in Piazza Colonna e si reca al Teatro Quirino per sentire una Carmen. Freud scarpina tra musei e rovine lamentandosi della torrida calura estiva e sui suoi appunti annota meticolosamente tutte le spese. Nel 1912 sale sul nuovo monumento a Vittorio Emanuele II e assiste alle celebrazioni per la presa di Roma. Ogni giorno fa una visita al Mosè, che lo ossessiona dalla sua prima vacanza romana, riproponendosi di scriverci qualcosa. Inoltre, va a caccia di souvenir e regali per moglie e figli lasciati a casa.
Nel 1913 Scrive ad Abraham comunicandogli buon umore e vivacità creativa: «A Roma, di una bellezza senza paragoni, ho ritrovato ben presto buon umore e voglia di lavorare, e nelle ore libere da viste a musei, chiose e località della campagna ho portato a termine il preambolo al libro su Totem e Tabù, ampliato la mia relazione al Congresso, e scritto lo schizzo di un saggio sul narcisismo, e inoltre provveduto a correggere il mio articolo di reclame per la Scientia». (Tutto questo dopo che al Quarto Congresso Psicoanalitico Internazionale di Monaco si era consumata la rottura definitiva con Jung).
Tra agosto e settembre, d’abitudine, Freud si separava dalla tribù familiare per due, tre, quattro settimane, e prendeva la strada verso il Sud. Non proprio da solo. Assai raramente Freud viaggiava da solo. In Italia venne spesso con il fratello minore, Alexander, e con lui intraprese il primo viaggio a Roma. Qualche volta si spostava con Minna, la cognata, da cui certe maliziose insinuazioni di Jung. Anche con Ferenczi condivise vari viaggi, e due volte sua compagna fu la figlia Anna con lei l’ultimo viaggio a Roma, nel 1923, dopo di che il cancro alla mascella, che cominciò a tormentarlo, pose fine ai viaggi.
Corriere della Sera 17.5.11
Cultura Spagna, così la sinistra aprì la strada a Franco
Violenze di classe e persecuzioni contro la Chiesa
di Paolo Mieli
Qualche anno fa Gabriele Ranzato ha pubblicato (con Bollati Boringhieri) un libro, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini (1931-1939), nel quale si proponeva (riuscendoci) di sfatare molte leggende che ancora avvolgono il conflitto che dal 1936, in Spagna, oppose le truppe del generale Francisco Franco alla Repubblica di Manuel Azaña. Adesso completa il quadro con La grande paura del 1936. Come la Spagna precipitò nella guerra civile (Laterza) in cui spiega approfonditamente come, in quell’occasione, torti e ragioni si ripartirono con modalità assai più complicate di quanto fin qui sia parso agli storici. Il saggio si apre con alcune significative parole di Indalecio Prieto, il leader socialista che fu ministro della Difesa della Spagna repubblicana nel corso della guerra civile: «Certo, tutti vorremmo essere liberi da colpe; ma l’autoassoluzione non può lasciarci tranquilli... Solo degli imbecilli che si credano onniscienti possono proclamarsi mondi da ogni errore o colpa, limitandosi ad accusare i nemici della parte opposta o gli amici che sono stati al loro fianco» . Nelle prime pagine del libro vengono individuati, come personaggi simbolo di tale complessità, due generali che in quei frangenti furono messi a morte dalle parti contrapposte. Il primo, Eduardo López Ochoa, era stato il comandante del corpo di spedizione che — su ordine del governo — nell’ottobre del 1934 aveva represso la rivoluzione delle Asturie. Ochoa era un moderato, negli anni Venti si era battuto contro la dittatura di Primo de Rivera e per questo aveva sofferto il carcere e l’esilio. Ma ciò non gli valse da attenuante: nell’agosto del ’ 36 fu buttato giù dal letto dell’ospedale di Madrid in cui era ricoverato da un manipolo di ultras repubblicani, per poi essere trascinato in strada e passato per le armi. Nelle ore successive il cadavere fu decapitato e la sua testa, infilzata sulla baionetta di un fucile, fu esibita per le strade dal tetto di un’automobile. Anche il secondo personaggio simbolo, Domingo Batet, era un moderato che si era opposto a Primo de Rivera per poi trovarsi — sempre nell’ottobre del ’ 34 e sempre su mandato del governo — a stroncare l’insurrezione indipendentista della Catalogna. Lui però fu ucciso nel ’ 36 non dai «rossi» bensì dai militari ribelli, perché si era rifiutato di passare dalla parte dei franchisti. È certo, osserva Ranzato, «che né l’uno né l’altro può essere inscritto in una delle due Spagne che si batterono a morte nella guerra civile» . Ochoa non era «tra i militari che avevano complottato contro la Repubblica, perché anzi era disprezzato dai cospiratori per aver trattato la resa dei rivoluzionari asturiani invece di schiacciarli senza badare a costi di vite umane» . Batet era stato consigliere militare del presidente della Repubblica Niceto Alcalá Zamora fino a quando questi era stato destituito dal Fronte popolare. Entrambi, Ochoa e Batet, pur nella diversità dei loro orientamenti politici, «erano servitori dello Stato, antifascisti e anticomunisti, rappresentanti di un’area sociale e di opinione consistente, fatta soprattutto da classi medie, ma sostanzialmente interclassista, desiderosa di vivere in un sistema liberale, democratico e capitalista, incline a favorire un’emancipazione, più o meno graduale, delle classi popolari dalla loro prevalente condizione di miseria estrema e a modernizzare la Spagna, seguendo il modello dei grandi paesi dell’Occidente» . Appartenevano cioè a quella Spagna che fu la vera vittima innocente della guerra civile. Ma riepiloghiamo sinteticamente i fatti storici che fanno da sfondo al libro di Ranzato. La Spagna aveva conosciuto dal 1923 al 1930 la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera. Nell’aprile del ’ 31 era stata fondata la Repubblica e per due anni aveva governato la sinistra sotto la guida di Manuel Azaña. Nel ’ 32 era stato sventato un golpe guidato dal generale José Sanjurjo. Poi, alle elezioni del novembre ’ 33, aveva vinto la destra che includeva la neonata cattolicissima Ceda (Confederazione spagnola delle destre autonome) di José María Gil Robles. Nell’ottobre del ’ 34 erano insorte le Asturie e la Catalogna ma la rivoluzione era fallita e il fallimento aveva portato con sé una non spietata repressione. Nel febbraio del ’ 36 si erano tenute nuove elezioni vinte, stavolta, dal Fronte popolare. Il 13 luglio veniva ucciso il leader monarchico José Calvo Sotelo e quattro giorni dopo si sarebbe avuta la ribellione militare di Franco, che nel giro di tre anni avrebbe sconfitto la Repubblica. Il tutto — già prima della guerra civile— in un contesto di odio, rancori, atrocità e scontri armati. Un contesto così feroce che il giornale monarchico anticomunista «Abc» , dopo il fallimento di quello che l’autore definisce «lo scriteriato tentativo di rivoluzione» dell’ottobre 1934, si sentì in dovere di scrivere: «L’Esercito, la Guardia Civil, la Guardia de Asalto, tutte le forze armate dello Stato hanno il diritto (e il dovere) di difendersi rispondendo al fuoco se sono attaccate; ma nel momento in cui i ribelli si convertono in prigionieri, le loro vite debbono essere rispettate. Nessuno tranne lo Stato, e dopo opportuna sentenza, può toglierle e non senza aver loro concesso quelle garanzie di difesa che in guerra come in pace si concedono ad ogni reo nei paesi civilizzati. Sappiano coloro che nella loro esaltazione vendicativa pensano diversamente che gli saremo sempre assolutamente contrari» . Ma quasi tutti volevano veder scorrere il sangue. Calvo Sotelo, in un discorso alle Cortes, protestò per il fatto che non fosse stata messa in atto nessuna esecuzione capitale nei confronti dei responsabili della rivoluzione nelle Asturie e in Catalogna del ’ 34, esaltando l’esempio della Francia repubblicana del 1871 che con le «quarantamila fucilazioni della Comune aveva assicurato sessant’anni di pace sociale» . Nel 1935 il presidente della Repubblica Alcalá Zamora manovrò tra le divisioni della destra, non concesse a Gil Robles la guida del governo, approfittò di uno scandalo che coinvolse l’ex presidente del consiglio Alejandro Lerroux per metterlo fuori gioco e pilotò la politica in modo da giungere alle elezioni del 16 febbraio 1936. Elezioni che erano state chieste a gran voce dalla sinistra. E fu la vittoria del Fronte popolare: 263 deputati contro i 156 della destra e i 54 del centro (ma, per quel che riguardava il numero dei voti, la sinistra ne aveva ottenuti quattro milioni e 700 mila, mentre centro e destra ne avevano conquistati cinque milioni). Nel Partito socialista, il radicale Francisco Largo Caballero, lusingato dai comunisti con l’appellativo di «Lenin spagnolo» (in campagna elettorale, nel corso di un comizio ad Alicante quel «Lenin» di Spagna aveva detto: «Se vincono le destre non ce ne staremo buoni e non ci daremo per vinti... Se vincono le destre non ci sarà remissione, dovremo andare per forza alla guerra civile» ), aveva prevalso sul moderato Indalecio Prieto. Scoccava l’ora delle ali estreme. Nei giorni successivi a quello del voto si ebbero le cosiddette «manifestazioni di giubilo» per la vittoria del Fronte popolare. Che tipo di giubilo? Rivolte nelle carceri, dove anche i detenuti comuni ottennero di essere rimessi in libertà, violenze contro chiunque non fosse di sinistra, atti vandalici contro chiese e luoghi di culto. Anche contro i luoghi simbolo degli agi borghesi: furono presi di mira i circoli dei notabili, i loro caffè, i teatri, i club di tennis. E, man mano che passavano le settimane, le «manifestazioni di giubilo» , anziché diminuire, andarono aumentando. La destra reagì. Ma, osserva Ranzato, «è certo che bastava la minima provocazione, vera o presunta, o un attacco, anche isolato e circoscritto, da parte di militanti di destra, perché scioperi e manifestazioni della sinistra operaia degenerassero in scontri con la forza pubblica, aggressioni e devastazioni» . Clamoroso, soprattutto sotto il profilo simbolico, fu poi quel che accadde ad Alcaudete, nella provincia di Jaén. Il 15 marzo— — un mese dopo le elezioni— ad Alcaudete parenti stretti del presidente della Repubblica Alcalá Za- mora, l’uomo (ricordiamolo) che aveva traghettato la Spagna dalla destra al Fronte popolare, con l’accusa di aver opposto resistenza all’invasione delle loro terre — occupazione attuata peraltro al di fuori di ogni norma di legge — furono tratti in arresto, imprigionati e trasferiti nel capoluogo tra lo scherno della popolazione dei paesi che dovettero attraversare. La condiscendenza delle autorità di polizia e dei giornali all’aggressione di cui erano stati oggetto i parenti di «don Niceto» Alcalá Zamora «implicava» , secondo Ranzato, «non solo un’evidente offesa al presidente in carica , ma soprattutto la tolleranza, l’ammissibilità di fatto di violazioni aperte del diritto delle persone; e della mancanza di rispetto per qualunque autorità istituzionale» . E lo stesso si può dire per quanto di analogo accadeva in tutto il Paese. In seguito le sinistre fecero ancora di più. Costrinsero alle dimissioni il succitato Alcalá Zamora, ricorrendo a un «codicillo» che prevedeva la sfiducia nel caso le nuove Cortes avessero giudicato «ingiustificato» il precedente scioglimento delle Cortes stesse. Accusarono cioè il presidente di aver fatto quel che gli avevano chiesto di fare. Don Niceto capì l’antifona e si fece da parte. Il suo posto fu preso da Azaña che— fallito, per l’opposizione di Caballero, un tentativo di affidare la guida del governo a Prieto— lasciò la leadership governativa nelle mani del debole Santiago Casares Quiroga. Perché questo ostracismo a Prieto? La destra aveva cominciato a corteggiare l’ala moderata della sinistra per dar vita a un governo, sempre di centrosinistra, guidato dal socialista Prieto, ma alternativo al Fronte popolare. Nel caso fosse mancato qualche voto, ci avrebbe pensato, dall’esterno, la Ceda. E si temeva che Alcalá Zamora, nei panni di presidente della Repubblica, favorisse l’operazione. Perciò fu destituito. Il siluramento di Alcalá Zamora (anche per i modi con cui venne attuato) fu il primo gravissimo errore delle sinistre spagnole vincitrici alle elezioni del ’ 36. Il secondo fu, da parte del successore di Alcalá Zamora, Manuel Azaña, la rimozione dei generali Francisco Franco ed Emilio Mola dalla carica di capo di stato maggiore e dal comando delle forze armate di stanza in Marocco. Ma soprattutto il loro trasferimento alle Canarie (Franco) molto vicine al Marocco stesso e a Pamplona (Mola), capitale del sanfedismo carlista, luoghi da cui era agevole ordire complotti. Terzo errore, non aver impedito che nel Paese si diffondesse— per via di occupazioni di terre, scontri, violenze— quello che Ranzato definisce il «lievito della paura» . «Non c’è dubbio— scrive lo storico — che la Repubblica democratica doveva liberare i contadini dalla loro condizione di disoccupazione quasi cronica e dalla sottomissione personale cui erano sottoposti dai grandi proprietari; ma l’idea propugnata dalla sinistra caballerista che quello scopo si potesse raggiungere, anziché con una riforma agraria compatibile con il sistema liberal-capitalista, solo mediante una rivoluzione comunista a breve termine, l’idea che a quella rivoluzione vittoriosa si sarebbe giunti attraverso le microguerre civili di cui si facevano protagoniste le milizie del popolo, in realtà rafforzavano le capacità di resistenza delle classi dominanti più chiuse a qualsiasi riforma e le loro possibilità di vittoria nella macroguerra civile che era in gestazione» . Tanto più che nessun leader della sinistra moderata trovò il coraggio di opporsi apertamente a quelle violenze. Gli esponenti della sinistra più ragionevole, nonostante la loro sostanziale arrendevolezza, furono presto definiti «nemici» dai compagni di partito che facevano riferimento a Caballero: compagni di partito che manifestavano la loro radicalità interrompendo i comizi dei socialisti più moderati e, talvolta, malmenandoli. Per parte loro, i seguaci di Gil Robles e di Calvo Sotelo non facevano nulla per intercettare i meno estremisti del fronte opposto. Alle Cortes i deputati della destra si rivolgevano a quelli della sinistra con altezzosità, cercando di offenderli tutti, senza distinzione: «Sua signoria prima si faccia la barba, poi potrà interrompere» ; «Sua signoria è una nullità, un pigmeo» , dicevano rivolgendosi a loro in pieno Parlamento. Così che il fossato tra i due schieramenti si fece in quei primi mesi del 1936 sempre più profondo. Quarto e più drammatico errore delle sinistre fu il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa. Anche qui non furono assenti colpe della Chiesa stessa. «In nessun altro Paese dell’Europa occidentale — scrive Ranzato — la Chiesa era così insensibile alle aspirazioni di emancipazione delle classi subalterne, così irrigidita in una visione del mondo basata su gerarchie sociali immutabili, così ostinata nell’opporre le sue opere di carità a "pretese"e diritti dei lavoratori, così incapace di rimonta rispetto a quel processo di "apostasia delle masse"che da tempo andava ridimensionando il suo ascendente sul popolo» . Ma, a fronte di tutto ciò, le sinistre spagnole misero in atto contro la Chiesa «una vera e propria persecuzione religiosa» . Il 17 marzo Manuel Azaña così scriveva al cognato: «Ho perso il conto delle località in cui hanno bruciato chiese e conventi» . Allo scoppio della guerra civile erano ben 239 i luoghi di culto dati alle fiamme. E in più si ebbero, ad opera delle sinistre, roghi di quadri confessionali precedentemente accatastati nelle piazze; violazione dei tabernacoli e delle ostie consacrate, che erano state sparse a terra per essere calpestate; disseppellimento dei cadaveri di parroci e vescovi; tassazione dei funerali cattolici (talvolta impedimento alla loro stessa celebrazione); divieto per i simboli cristiani sulle tombe; proibizione della processione pasquale; equiparazione della Settimana Santa a una «riunione clandestina» con conseguenti arresti; impedimento delle prime comunioni dei bambini; cani lasciati liberi di scorrazzare nelle città con un crocifisso al collare. «Non occorre essere credenti— puntualizza Ranzato — per sentire e capire quanto dolore e quanto risentimento provocassero queste ferite alle coscienze religiose, cui spesso si accompagnarono altre grandi e piccole vessazioni, come il divieto o la tassazione delle immagini esposte nella pubblica via, o dei rintocchi di campana» . Purtroppo questo virus contagiò in qualche modo anche esponenti della cultura liberale. Già all’inizio degli anni Trenta alcuni tra i massimi intellettuali del Paese— in testa José Ortega y Gasset— diedero alle stampe, su «El Sol» , un documento in cui condannavano sì l’incendio delle chiese, ma aggiungevano che gli autori di quei misfatti, se ispirati da autentici sentimenti democratici, anziché bruciare quegli edifici, avrebbero dovuto «utilizzarli per fini sociali» . «Questo suggerimento — chiosa l’autore — che in sostanza equivaleva anch’esso a una negazione della libertà di culto, soltanto meno cruenta, non solo fu diffusamente seguito nel corso della guerra civile, quando molte chiese furono destinate agli usi più diversi (magazzini, garage, mense, scuole, cantine), ma in diverse località cominciò a essere tradotto in pratica già nei mesi che la precedettero» . Inoltre «forse più degli atti vandalici contro gli edifici e i simboli religiosi colpisce la quasi inesistenza di un’opera di prevenzione e di repressione contro di essi» . Cosa che provocò il passaggio dalla parte di Franco di «legioni di cattolici incolleriti dalle fiamme delle loro chiese» . E fu, poi, la «leggenda delle caramelle avvelenate» . Nei mesi che precedettero il pronunciamento di Franco si diffuse la voce (ovviamente infondata) che suore e dame cattoliche andavano distribuendo tra i bimbi bonbon letali che avevano già prodotto un’ecatombe di bambini. Il deputato monarchico Juan Antonio Gamazo denunciò alle Cortes che una folla aveva aggredito monache e pie donne giudicate sospettate di aver provveduto a quegli avvelenamenti; misfatto per il quale le insegnanti di un istituto religioso erano state quasi linciate. Il deputato socialista Alvarez Angulo così rispose a Gamazo: «La colpa è vostra che avete mandato le donne con le caramelle» . E le persecuzioni proseguirono nell’ormai consueta indifferenza delle autorità di polizia. In Parlamento — a sinistra — si prese la consuetudine di rivolgersi gli uni agli altri con l’appellativo di «compagno» . Il resto dei deputati venivano definiti, ormai abitualmente, «fascisti» . «Fascisti» erano i proprietari, ma anche gli impiegati pubblici; persino coloro «che si opponevano agli assalti a viaggiatori pacifici, cui si imponevano contributi per mitigare, a quanto asserito, la fame del popolo» . «Roccaforte del fascismo» era la magistratura, rea di aver rimesso in libertà alcuni falangisti. In quel momento il leader della Falange, José Antonio Primo de Rivera (che sarà giustiziato ad Alicante nel novembre del ’ 36) «veniva tenuto in carcere— scrive Ranzato— sulla base di una sequenza di ben sei processi, con imputazioni il cui dosaggio può far lecitamente sospettare che ci fosse il proposito di impedirgli di tornare in libertà a breve termine e di riprendere il comando effettivo del suo movimento» . Fu dato vita a un tribunale speciale composto anche da «cittadini che avessero conseguito una qualunque laurea universitaria» ((a Madrid erano nella quasi totalità di sinistra), tribunale speciale che avrebbe dovuto stabilire le responsabilità penali e civili della magistratura giudicante. La destra protestò perché quei «laureati» non erano «tecnici del diritto» . Il ministro della Giustizia rispose: «Preferisco l’onesto giudizio di coloro che non sono ingolfati in disquisizioni di tipo giuridico a quello di natura esclusivamente tecnica; perché nel fondo di ogni coscienza c’è come una sorgente d’acqua viva, quel sentimento della giustizia immanente che sta al di sopra dei dottrinarismi» . Furono poi varate leggi per «ridurre il tasso di conservatorismo della giustizia» , leggi atte a colpire, scrive l’autore, «qualunque magistrato che non si conformasse alla volontà del potere politico dominante» . Vale a dire quello del Fronte popolare. A questo punto si ebbe l’uccisione del leader monarchico José Calvo Sotelo (13 luglio 1936) e, quattro giorni dopo, l'insurrezione militare nel Marocco spagnolo (17 luglio). Ranzato ricorda quanto Francisco Franco avesse esitato fino a poche ore prima del pronunciamento. Ma ricorda altresì gli abbagli del presidente del Consiglio Casares Quiroga, che definì gli allarmi iniziali per l’insubordinazione in Marocco come «esagerazioni provocate dalla menopausa» , per poi così concludere: «I militari si sollevano? E io me ne vado a dormire» . Ranzato mette in grande risalto la «stupefacente inerzia» di Casares e di Manuel Azaña nelle ore successive al delitto perpetrato contro Calvo Sotelo. «La condotta delle autorità repubblicane fu nella circostanza malaccorta e controproducente — scrive —, le misure che esse adottarono fanno apparire una loro volontà di tacere e coprire quanto più possibile, tale da rafforzare invece che stornare il sospetto di complicità» . E forse non è casuale che allo scoppio della guerra civile, mentre esponenti liberali accorrevano da tutto il mondo ad affiancare socialisti e comunisti (e anarchici) nella difesa della Repubblica iberica, i figli dei liberali spagnoli — a cominciare da quello di Ortega y Gasset— fuggirono all’estero o, addirittura, andarono volontari a combattere nell’esercito nazionalista. Neanche in una riga delle 316 pagine de La grande paura del 1936, Gabriele Ranzato mostra simpatia per la causa e l’operato di Francisco Franco. Ma, a conclusione di questo importante libro, l’autore definisce «discutibile» la perpetuazione dell’immagine della Spagna nella primavera 1936 «come quella di un Paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema politico-economico al riparo da qualsiasi sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista» . Poche, misurate parole per lasciare intendere che la storia della Spagna negli anni che precedettero (e in parte determinarono) la Seconda guerra mondiale si comincia a scrivere soltanto ora.
il Riformista 17.5.11
Il saggio di Duque e Vitiello
Celan riletto in salsa Heidegger
di Marco Pacioni
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http://www.scribd.com/doc/55601267
Terra 17.5.11
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