l’Unità 18.5.11
Bersani convinto che «il governo non dura fino al 2013». Veltroni “chiama” l’applauso per il leader
D’Alema: «Gli italiani vogliono qualcosa di nuovo». Big defilati nella campagna per i ballottaggi
«Il premier doveva dimettersi Ormai c’è solo la strada del voto»
Bersani è convinto che la legislatura non andrà avanti fino al 2013: «E di fronte a una crisi non ci sarebbe altra strada che le elezioni». Il risultato del voto compatta il Pd. Veltroni “chiama” l’applauso per il segretario.
di Simone Collini
«Bravo!», gli gridano dal gruppetto che si è creato davanti alla sede del Pd, turisti e romani di passaggio attirati dalle telecamere e dai giornalisti che aspettano coi taccuini in mano. Bersani scende dall’auto e prima di infilarsi nel portone del Nazareno assicura con un sorriso: «Questo è solo il primo colpo». E via con l’applauso.
Da tempo non si assisteva a una scena simile, davanti al quartier generale dei Democratici. E anche tra i dirigenti riuniti al terzo piano di questa palazzina del centro il clima è piuttosto euforico. D’Alema, Veltroni, Franceschini, Finocchiaro e tutti gli altri big (anche Chiamparino entra nel coordinamento) sono stati chiamati da Bersani per fare il punto dopo il primo turno. Il leader del Pd rivendica il ruolo giocato e il risultato ottenuto dal suo partito (supportato in questo da Franceschini, Marini, Meta, oltre che dagli esponenti della maggioranza), dicendosi convinto che dopo questa «scoppola micidiale» il governo è a rischio e bisogna prepararsi a tutti gli scenari, voto anticipato compreso. «Il governo non durerà fino al 2013 e di fronte a una crisi non ci sarebbe altra strada che le elezioni».
LA STRATEGIA PER I BALLOTTAGGI
Bersani finisce di parlare davanti agli altri dirigenti ed è lo stesso Veltroni che nelle scorse settimane aveva chiesto un confronto dopo le amministrative «per capire se il percorso scelto dal partito è quello giusto» che comincia per primo a battere le mani e a innescare il secondo applauso che il leader del Pd incassa in giornata. «Condividiamo la relazione, il dibattito non serve», dice l’ex segretario lasciando la sede del partito. Bersani minimizza il dato, di fronte a chi gli fa notare che questo voto ha avuto come conseguenza anche quella di compattare il Pd: «Non è questo il problema, il problema è l’Italia». Ma l’unità interna può dare una marcia in più per affrontare le prossime sfide. Nell’immediato c’è la campagna per i ballottaggi, alla quale i big parteciperanno solo «se necessario» e «se richiesto» dai candidati (in una riunione ristretta si è valutato più opportu-
no al fine di allargare i consensi dare un’impronta più localistica e meno di partito). Ma poi potrebbe arrivare la sfida grossa, quella in cui mettere in campo l’«alternativa di governo». Perché, come dice D’Alema, queste giornate hanno dimostrato che «gli italiani vogliono qualcosa di nuovo».
Per Bersani il governo «si sarebbe dovuto dimettere ieri», ma a questo punto è solo questione di tempo. Il leader del Pd è infatti convinto che l’asse Pdl-Lega non reggerà all’urto di questo voto (e stuzzica il Carroccio chiedendo «dov’è la Lega di una volta?»), che potrebbe essere ancora più pesante se riuscirà l’impresa di conquistare al secondo turno Milano e Napoli (contatti col Terzo polo ci sono stati, e oggi Casini e Fini scioglieranno le riserve sulle indicazioni di voto). Bersani ironizza sulle parole del coordinatore del Pdl Verdini, che parla di «pareggio»: «Ieri io non sorridevo per rispetto al loro dolore, ma visto che oggi dicono che pareggiano, rido e rido di gusto». E dice che «davanti alla botta che hanno preso è ora di cambiare l’agenda del governo e di affrontare i problemi del Paese con un pacchetto di riforme»: «Noi siamo pronti a discuterne con le nostre proposte ma se loro non sono in condizione, vadano a casa».
l’Unità 18.5.11
I flussi
Da Nord a Sud la sconfitta del Pdl
Cresce il Pd, i candidati trainano la coalizione
Le dinamiche del voto secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo: non mancano le sorprese. L’emorragia del Popolo delle libertà, l’arretramento leghista rispetto alle regionali. Male l’Udc... e peggio ancora se si allea con la destra
di Roberto Brunelli
Non parlano la lingua di Arcore, i numeri. Stanno lì, e nella loro sintetica brutalità vanno presi per quel che sono: una specie di mutazione genetica dell’Italia, consumatasi in meno di due anni. Una piccola rivoluzione copernicana, che riserva molte sorprese, soprattutto nel campo del centrodestra, ma anche a sinistra. Certo, ci sono gli undici sindaci del centrosinistra eletti al primo turno (tra questi Torino e Bologna), c’è il «boom Pisapia», c’è quel 28,63% del Pd a Milano, pericolosamente vicino al 28,74% del Popolo delle libertà, c’è il 34,5% conquistato sempre dal Partito democratico nella capitale sabauda ed il 38,27% di Bologna. Ma la vera notizia, aggregando i risultati su base nazionale, è una sola: lo sconfitto numero uno della consultazione è il Pdl.
Seguendo le analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna elaborate a urne ancora «calde» e sui dati definitivi, il quadro è limpido: mentre il centrodestra nel suo complesso raccoglie 885 mila voti, perdendo 56 mila voti rispetto alle comunali del 2006, il Pdl da solo sacrifica sul terreno 164 mila voti in confronti a quelli guadagnati da Forza Italia e An nelle precedenti consultazioni municipali. «L’emorragia scrive l’istituto bolognese è forte sia al nord (116 mila voti, 29,8%), sia al centro-sud (-68 mila voti, uguale ad un 28,7% dei consensi).
Va detto che rispetto alle comunali del 2006 è cambiato il mondo, come sottolinea lo stesso Istituto Cattaneo. La maggior parte delle precedenti consultazioni nelle città si erano svolti prima della nascita del Pd e del Pdl, «sull’onda della vittoria di Prodi nelle politiche, e dunque in un contesto notevolmente diverso». Nel mezzo c’è stata la caduta del governo di centrosinistra e la «marcia trionfale» di Berlusconi alle politiche, alle regionali e alle europee. Proprio per questo, il Cattaneo confronta i risultati di ieri con le regionali, quasi tutte svoltesi nel 2010, confronto considerato «più corretto sul piano strettamente politico». Ecco che la batosta del Pdl appare ancora più significativa: il Popolo delle libertà perde 22,3%, con un arretramento meno marcato al Nord (-12,8%) ma deciso al centro-sud (-32,1%). Fli? Non c’entra: le sue liste «non hanno avuto un’affermazione forte in queste elezioni».
Ovviamente ci guadagna la Lega dall’emoragia del Pdl. Nel raffronto con le comunali, le camicie verdi guadagnano 78 mila voti nelle tredici città, con un aumento del 149%, mentre in termini relativi, attirano nuovi consensi più in Emilia Romagna che altrove. Ma anche per gli uomini di Bossi son dolori: infatti, rispetto alle regionali perdono ben 25 mila voti (-16%), una perdita secca concentrata, significativamente, a Milano e Torino. Più sfumato il discorso per quel che riguarda il centrodestra nel suo complesso: rispetto alle comunali, ha raccolto 885 mila voti, ossia 56 mila in meno. Perde soprattutto al Nord e sono perdite severe (quattro città, 83 mila voti, uguali ad un 16,6%), ma va bene nelle sei città del centro-sud, guadagnando 40 mila voti.
E il centrosinistra? Soffre rispetto alle comunali, ma guadagna rispetto alle regionali. Ha raccolto, nelle consultazioni di domenica e lunedì, 1 milione 42 mila voti contro 1 milione e 217 mila nel precedente voto per i municipi, ovvero meno 175 mila voti (14,4%). Specularmente al centrodestra, la perdita è stata contenuta al nord, più marcato in Emilia, e sostanziosa al centro-sud (soprattutto a Napoli, che conferma la sua caratura di «caso a parte»). Il fatto, però, che il centrosinistra avanza di diverse posizioni rispetto alle regionali: 66 mila voti in più (+6,8%), in particolare al nord e in parte anche in Emilia, mentre mantiene il calo (-6,7%) al centro-sud. Analoga la performance del Pd: lascia sul terreno 111 mila voti rispetto ai consensi raccolti illo tempore da Ds, Magherita o Ulivo, ma cresce con nettezza rispetto alle regionali: più 39 mila voti (+ 73%).
E l’Idv? I dipietristi realizzano secondo i dati del Cattaneo un buon risultato rispetto alle comunali (+ 36 mila voti), ma arrancano in confronto alle regionali, lasciando sul terreno 62 mila voti. Altra notizia: va male l’Udc, che perde sia rispetto alle precedenti comunali (-25%), sia rispetto alle regionali (-1,6%), mentre si registra una sostanziale stasi dell’elettorato complessivo di Sinistra e Libertà insieme alla Federazione della sinistra rispetto alle precedenti municipali, laddove è notevole l’avanzata sulle regionali: +11,5 mila voti, il 60,6%. Come noto, si sono fatti notare le liste a «5 Stelle»: complessivamente hanno raggranellato oltre 93 mila elettori in undici delle tredici città. Ebbene, in tutte le città del Nord e dell’Emilia Romagna, i grillini hanno battuto l’Udc. «In misura netta», scrive il Cattaneo. Da notare che l’Udc va leggermente meglio dove presenta candidati «terzi» rispetto a dove si allea con il centrodestra.
Va da sé che una delle caratteristiche più evidenti di questa tornata elettorale sia la personalizzazione del voto. Un «effetto carisma» determinato da due comportamenti distinti: votare una lista e contemporaneamente esprimere una preferenza per un candidato sindaco non sostenuto dalla lista votata; votare solo un candidato, sindaco, senza indicare alcun voto di lista. L’incidenza del voto personalizzato è più forte al nord, ma l’elemento locale è, comunque, fortissimo: per esempio Cosolino fa man bassa a Trieste (20,4%), a Cagliari c’è l’affermazione di di Zedda (12,7%) a Napoli il caso De Magistris (12%), che ha ricevuto quasi 60 mila consensi «personali», pari al 46,5% sul voto delle liste a lui collegate.
Marco Pannella 58 preferenze (da La Stampa)
il Fatto 18.5.11
L’appello
Due settimane per salvare la democrazia
di Paolo Flores d’Arcais
L’Italia civile c’è, e ha battuto un colpo. Energico ed eloquente. Ma non ci si culli sugli allori: l’esito dello scontro fra lo Stato della Costituzione repubblicana (nata dalla Resistenza) e l’Antistato del golpe strisciante e delle cricche di regime si avrà solo tra due settimane, e i nemici delle libertà getteranno sul piatto della bilancia tutta la loro potenza di fuoco mediatica e corruttiva per impedire la vittoria di Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli.
Sia chiaro, non voglio affatto minimizzare le ragioni di gioia che la buona novella uscita dalle urne comunali ci porta. Il Narcisocrate di Arcore aveva sproloquiato che il voto era un referendum sulla propria leadership, sull’amore degli italiani nei suoi confronti. Ha ricevuto una raffica di disprezzo. Il compagno di merende di Putin e Gheddafi aveva vomitato che il voto per la Moratti era in realtà un voto contro Ilda Boccassini e gli altri magistrati. Ha ricevuto la lezione che tanta infamia meritava. L’ometto che un tempo Bossi chiamava “Berluscaz” pretendeva un plebiscito per poter “estirpare” quel “cancro” che sono i giudici onesti, che prendono sul serio “la legge eguale per tutti”, ma ad essere amputate - a metà! - sono state solo le sue preferenze.
I suoi scherani travestiti da onorevoli, i suoi prezzolati travestiti da giornalisti, le sue santanchè esibite da santanchè, hanno a tal punto ululato menzogne e distillato odio, pur di gridare agli “estremisti”, che i moderati di Milano hanno trovato rassicurante l’avvocato Pisapia, come era giusto , e quelli di Napoli l’ex magistrato De Magistris, per poter sconfiggere tra due settimane il candidato del camorrista Cosentino.
L’Italia civile c’è. Ora deve solo evitare di disperdersi. Sarebbe criminale se i dirigenti del centro-sinistra non mobilitassero tutte le energie organizzative di cui dispongono a sostegno di Pisapia e De Magistris, mettendo la parola fine all’insopportabile almanaccare su quello che il terzo polo vorrà fare da grande. Alle volte sembrano pendere dalle labbra dei Casini, Fini e financo Rutelli come dai responsi della Sibilla Cumana. Lascino perdere. Chi nel terzo polo vorrà scegliere l’Italia civile voterà ovviamente per Pisapia e De Magistris. Gli altri si denunceranno per quel che sono: ascari del protettore della nipote di Mubarak .
L’Italia civile c’è. In queste due settimane di passione civile, che potrebbero propiziare l’avvitamento del regime (“avvitamento” proprio nel senso aeronautico del termine: la perdita di controllo che conclude nella catastrofe), è necessario che ci siano, con assoluta disponibilità e in prima linea, gli intellettuali e gli artisti, le personalità del mondo della cultura, della scienza e dello spettacolo, come si diceva un tempo. Nell’epoca dell’“audience” hanno doveri e responsabilità supplementari, proporzionali alla visibilità di ciascuno.
Intellettuali e artisti sono (siamo) cittadini privilegiati. Almeno tre volte. Perché possono far coincidere il lavoro con la propria vocazione, perché per questo lavoro-vocazione ottengono redditi mediamente superiori, perché infine hanno il privilegio impagabile di “essere ascoltati”, poco o tanto che sia, per iscritto o sul piccolo schermo. Nello scontro di civiltà fra la democrazia repubblicana e il regime della menzogna, della corruzione, delle mafie, sono in gioco i valori elementari di cui intellettuali e artisti - se vogliono restare tali - sono i naturali custodi: le libertà costituzionali, la verità dei fatti, lo spirito critico, l’eguale dignità di ciascuno.
Ecco perché credo che nei prossimi giorni dovrebbero partecipare tutti, ma proprio tutti (come in molti del resto hanno già fatto), giorno per giorno, con tutto il peso della propria visibilità, alla pacifica guerra di civiltà che si combatte sugli spalti delle urne elettorali di Milano e Napoli. Berlusconi vuole una rivincita, che gli consenta di insediarsi fra due anni al Quirinale e realizzare il lugubre progetto di fascismo post-moderno sulle macerie della Costituzione distrutta. Da Milano e Napoli possiamo invece far cominciare una nuova Italia, che la Costituzione la realizzi davvero.
Corriere della Sera 18.5.11
Valanga di post sul blog di Grillo «Non lasciare che vinca la Moratti»
di Alessandra Arachi
ROMA — Il giorno dopo Beppe Grillo, a Parigi in tournée per uno spettacolo in teatro, tace. Preferisce dispensare i suoi commenti nelle pagine del suo sito: «Signori, abbiamo messo in crisi, come era d’altronde l’intento, questa politica ormai fumosa, finita, che non dice più niente...» . E anche se il suo blog ieri si è ingolfato per le pressioni in favore del candidato del centrosinistra di Milano, il comico genovese non si è smosso di una virgola. Non ha voluto dare indicazioni di voto. Proclama Grillo sul web: «Non siamo il terzo polo di nessuno, Casini, Fini, Rutelli, questi fantasmi. Non ci aggreghiamo con nessuno. Destra e sinistra sono la stessa cosa. Che facciano Pisapia o Moratti sindaco, faranno sempre l’Expo e milioni di metri cubi di cemento. Che ci sia Fassino, che è un dipendente di De Benedetti, sicuramente vorrà fare la Tav e fare gli inceneritori...» . E poco importa che il blog di Grillo sia diventato rovente nella pagina elettronica dedicata a Mattia Calise, 20 anni, neoeletto consigliere comunale di Milano, del Movimento Cinque Stelle. Il popolo del web ribolle. Letteralmente. «Siete un branco di cog..» , il post d’esordio che ieri ha dato il via ad una sequela di commenti, tra cui molti improperi. Unico scopo: far convergere i voti dei grillini sul candidato Giuliano Pisapia. Inutilmente. Anche Mattia Calise non si scompone. Reduce dai festeggiamenti che a Milano hanno visto la sua lista superare il 3 per cento e lui entrare al primo turno a Palazzo Marino, non si turba davanti ai messaggi della Rete. Forti i giudizi: «Avete regalato il ballottaggio alla Moratti e, forse, le avete ridato la speranza di diventare sindaco...» . Ma anche: «Se dovesse vincere la Moratti per i pochi voti dati ai grillini giuro, mi roderebbe troppo...» . Mattia Calise spiega: «È la libertà della Rete. La libertà di manifestare il libero pensiero. Ma con il criterio di sempre: ogni giudizio vale un voto. E ognuno decide per sé» . Oggi hanno annunciato una conferenza stampa, i grillini di Milano, Per ripetere la loro posizione, rimasta inalterata anche di fronte al risultato di lunedì: nessuna indicazione di voto. Per nessun motivo. Il ventenne Calise si stupisce: «È così facile da capire: ognuno ha libertà di esprimere la propria opinione. Il proprio giudizio. Il proprio pensiero. Funzionerà così anche all’interno del Consiglio comunale o dei Consigli di zona. Non ci saranno mai indicazioni di voto calate dall’alto. Verranno votati i progetti, seguendo un unico criterio: il beneficio dei cittadini. Non i baroni, i potentati, gli interessi economici. Solo ed esclusivamente i cittadini» .
Corriere della Sera 18.5.11
La ricetta per il futuro: navigare tra i due scogli
Il Pd non può scegliere tra Vendola e Terzo polo
di Paolo Franchi
V inciamo noi, perdono loro, dice Pier Luigi Bersani, fino a ieri rappresentato come l’uomo che, quasi per antonomasia, prende gli schiaffi. La sintesi sarà pure un po’ brutale, nel senso che «loro» sicuramente perdono, ma sul fatto che «noi vinciamo» ci sarebbe da ragionare. Però, non c’è dubbio, ha una sua efficacia. Specie per una sinistra che da un pezzo ha perso l’abitudine a commentare un successo, e ad analizzarne le luci e le ombre. Vinciamo noi, perdono loro. «Vinciamo» ? Sì, almeno là dove il Pd si è messo nelle condizioni di giocare la sua partita (quindi, siamo onesti, non a Napoli, dove pure il centrodestra è andato nettamente al di sotto delle previsioni più caute, e nemmeno in Calabria, dove invece il Pdl si è affermato quasi dappertutto). È vero a Torino, grazie al cambio della guardia non solo tra due sindaci, ma tra due quadri, come si diceva una volta, più che sperimentati, Sergio Chiamparino e Piero Fassino. È vero a Bologna, che dopo tante traversie non si è lasciata non diremo schiantare, ma nemmeno portare al secondo turno da un leghista, sebbene per Palazzo d’Accursio il Pd abbia dovuto fare affidamento su un candidato, Virginio Merola, ignaro persino del fatto che l’amata squadra di casa gioca in serie A. Ed è vero pure, e forse soprattutto, a Milano, l’epicentro della sfida. Perché certo, la candidatura di Giuliano Pisapia, vittorioso nelle primarie, il Pd l’ha subita. Ma è altrettanto certo che è stato abile prima nell’ostentare buon viso a cattivo gioco, poi nel fare squadra, e ne è stato ripagato anche in termini di voti di lista, se è vero, come è vero, che adesso in città è solo uno zero virgola a separarlo dal Pdl. Vinciamo noi, perdono loro. Sì, il giudizio suona un po’ semplicistico, perché all’indomani del primo turno di questo voto amministrativo (già l’esito dei ballottaggi non è affatto scontato) resta da dimostrare che il Pd, la sinistra, il centrosinistra si ritrovino d’incanto in grado di competere per il governo del Paese, e di vincere la prova. Ma intanto da lunedì pomeriggio è agli atti che l’impresa, fino a pochi mesi fa letteralmente inimmaginabile, è nell’ordine delle cose possibili; e che il declino evidente di Silvio Berlusconi e del berlusconismo non si consumerà necessariamente tutto dentro le mura del centrodestra, prendendo le fattezze di una crisi di regime. Non è davvero poco, specie se si considera che per queste ore c’era nel Pd chi autorevolmente aveva messo in programma una «verifica» , e cioè un tiro al segretario piccione sconfitto e invece la gente di sinistra è per strada a far festa. Bersani pedestre, Bersani così realista da sembrare surreale, Bersani incapace di volare alto? Sarà. Ma il punto, tra mille e una difficoltà, è riuscito a tenerlo. E non c’è che da dargliene atto, anche se Berlusconi che, soprattutto a Milano, ha voluto incautamente trasformare il voto in un referendum su se medesimo, affidandone oltretutto la regia alla signora Santanchè, gli ha di sicuro dato una mano preziosa. Vinciamo noi, perdono loro. Guardando al voto di domenica e lunedì, in larga misura è così. Guardando oltre, le cose si complicano: prima o poi, più prima che poi, anzi, se possibile praticamente subito, bisognerà pure guardare dentro quel «vinciamo noi» . A cominciare dal voto di Milano che, tra le sue tante indicazioni, segnala pure una verità in sé quasi ovvia, ma sin qui pressoché universalmente dimenticata. La sinistra sinistra, che è cosa diversa dall’estremismo, e ancor più dal giustizialismo, con le elezioni del 2008 è scomparsa dal Parlamento, soprattutto in ragione di un diffuso astensionismo, non certo dalla società italiana; e Nichi Vendola è riuscito a restituirle voce non contro, ma in concorrenza con il Pd. Se non ne riguadagna il voto, o addirittura se di fatto lo rifiuta per mettersi in caccia degli elettori moderati, il centrosinistra riformista perde in partenza; se se ne fa condizionare oltre misura, perde in partenza lo stesso, perché il consenso dei moderati e la possibilità di un’intesa con il terzo polo se li preclude da solo. Paradossalmente ma non troppo il problema sembra più serio per il Pd che per il candidato sindaco. Pisapia, che di questo mondo (meno estraneo di quanto si creda a una parte significativa della borghesia milanese) è espressione, sin qui è riuscito a navigare tra questi due scogli molto meglio di quanto pensassero un po’ stolidamente i suoi avversari e pure di quanto avessero fatto i suoi predecessori «moderati» . Bersani ha di che compiacersi e di che preoccuparsi nello stesso tempo. Se il Pd non vuole essere solo il partito elettoralmente più forte del centrosinistra, ma l’architrave di un’alternativa, è ora che deve dimostrarlo. Incassando il successo. E ragionandoci su.
Repubblica 18.5.11
Cambiare è possibile
di Ezio Mauro
Vinta dal Pd la corsa per Torino e per Bologna, bisogna ancora giocare il secondo tempo della partita per Napoli e per Milano, coi ballottaggi. Ma dopo quasi vent´anni la percezione dei cittadini oggi è che l´Italia abbia deciso di voltare pagina, stufa delle bugie, del parossismo, dell´estremismo che Silvio Berlusconi ha disseminato a piene mani nella campagna elettorale, spinto dall´ansia per un giudizio popolare non soltanto sul suo governo, ma sull´insieme della sua avventura politica. Mentre ancora si deve scegliere il sindaco, quel giudizio c´è stato, e netto. Il Paese vuole cambiare. Ha riscoperto il diritto di credere che il cambiamento è possibile.
È come la riscoperta della politica. Perché quel che è mancato in Italia, negli ultimi due anni, è proprio la politica, nel Paese e nel governo. Entrato a Palazzo Chigi con una maggioranza parlamentare enorme, il Premier l´ha distrutta con le sue mani, confermando nella frattura con Fini quell´incapacità di esercitare la leadership che già aveva manifestato nel ´94, rompendo con Bossi. Ha cercato di rimediare comperando singoli parlamentari in offerta speciale, garantendosi così i numeri per le leggi ad personam, confezionate per tagliare prescrizioni e allungare processi, in modo da sfuggire ai suoi giudici e all´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma oltre i numeri non ha saputo costruire una strategia, un´alleanza e soprattutto una politica, perché non sono in vendita sul mercato.
Il risultato è un Paese non governato, senza politica estera, senza credibilità internazionale, con una politica economica che bypassa il Premier, prigioniero di un mantra che oscilla tra il negazionismo della crisi e della mancata crescita e il velleitarismo liberista del taglio delle tasse.
È difficile credere che la prudenza, l´equilibrio, l´autocontrollo possano essere le virtù del Cavaliere e, nel 2011, l´archetipo politico del berlusconismo. È arduo pensare che nei prossimi quindici giorni, e infine in quel che resta della legislatura, il presidente del Consiglio possa rimpannucciarsi negli abiti dell´imprenditore onesto e competente, del leader liberalmoderato interessato soltanto alle fortune del Paese, del custode dei valori della famiglia, del guardiano dei buoni costumi. È difficile credere al «ritorno al futuro» del premier per ragioni che andrebbero radicalmente rimosse e non possono ragionevolmente esserlo. Il passato della sua storta avventura imprenditoriale lo perseguita e gli rende impossibile affrontarne oggi gli esiti, spogliato dalle guarentigie del potere. Il nodo è sempre quello, dunque: l´impunità di Silvio Berlusconi. È il nodo che lo ha convinto, diciassette anni fa, a farsi capo partito. È lo stesso nodo che, da quasi venti anni, tiene sotto sequestro il destino politico del Paese. Come scioglierlo? Può essere la «moderazione», la via?
Si deve esaminare ciò che abbiamo avuto sotto gli occhi in queste settimane. Il presidente del Consiglio si è convinto ad accelerare rumorosamente il rifiuto dello Stato di diritto come sistema di vincoli imposti al potere. Naturalmente, non era un ghiribizzo e meno che mai volontà riformatrice. C´era al fondo una necessità tangibile. La liquidazione della sostanza della democrazia costituzionale – con l´esplicito progetto di annullare il sistema di separazioni e contrappesi, di funzioni e istituzioni di garanzia – non era, non è la strada per affrontare la crisi italiana che egli – capo del governo – è chiamato a superare. Era, è l´antidoto al disfacimento della mitologia dell´«uomo del fare». È il rimedio al suo personale collasso di uomo pubblico. Ha tre processi penali in corso. Raccontano di quale trama è tessuto il suo successo. Ha corrotto un testimone per salvarsi da due severe condanne. Con la frode fiscale e l´appropriazione indebita ha spogliato a suo vantaggio le ricchezze di Mediaset, quotata in borsa. Un giudizio civile d´appello deve presto quantificare – in centinaia di milioni di euro – il danno prodotto dalla corruzione di un giudice che gli ha consentito di mettere le mani abusivamente sulla Mondadori. Un quarto processo penale dà notizia non delle sue abitudini private, come ripetono i cortigiani, ma di un´irresponsabilità politica e di una sexual addiction che lo espone al ricatto mentre vìola (è l´accusa che deve affrontare) il corpo di una minorenne. Sono tutte qui – concretissime, dunque – le ragioni dell´estremismo politico che lo ha convinto a «decostituzionalizzare il sistema politico italiano». L´accusa di «brigatismo giudiziario»; i manifesti contro le Brigate rosse in toga; la denuncia dei patti scellerati tra i suoi oppositori politici e i pubblici ministeri; la denigrazione della Carta fondamentale; il disprezzo per la Corte costituzionale; la denuncia dei «troppi poteri» del Capo dello Stato; il rimpianto per l´impunità parlamentare; la minaccia di punitive inchieste parlamentari; la responsabilità civile dei giudici (vuole castigarli nel portafoglio) – in una parola l´estremismo politico, ideologico, urlatissimo di Berlusconi non è altro che il dispositivo per seppellire il (suo) passato, neutralizzare un presente processuale, garantirsi con una «riforma epocale della magistratura» un futuro di quiete e la conquista del Quirinale.
A questi obiettivi Berlusconi ha voluto piegare un voto amministrativo. Ha animato il suo messaggio propagandistico nel ridotto del Palazzo di Giustizia di Milano dove si è trascinato simulando di voler partecipare a processi che lo hanno visto sempre fuggiasco (c´è da giurarci, da quelle parti non si farà più vedere). In modo esplicito, il Cavaliere ha chiesto un ricco consenso contro la magistratura e un sontuoso plebiscito per se stesso, per la sua storia opaca, per la sua impunità, per la manomissione degli equilibri costituzionali: «A Milano sono elezioni politiche nazionali», ha gridato sentito da tutti. Ora, quale che sia il risultato del ballottaggio tra Pisapia e Moratti, la volontà popolare si è fatta sentire: lo ha bocciato dimezzandogli i voti e negandogli il plebiscito. Cosi che, a urne chiuse, sarà davvero difficile proporre in Parlamento la «prescrizione breve», il «processo lungo», la paralisi dei processi sui cui pende un conflitto di attribuzione, l´inutilizzabilità delle intercettazioni nel processo penale, la riforma costituzionale della giustizia, «epocale».
La scena consegna il capo del governo a un´alternativa del diavolo. O, per proteggere la sua declinante leadership politica, si fa «moderato» e rinuncia al conflitto con la magistratura e al programma immunitario. O, contrabbandando la sua urgenza privata come interesse nazionale, mette mano alla annunciata neutralizzazione del sistema di regole. In questo caso, rischia di rompere il precario equilibrio del governo perché la Lega non può pagare altri prezzi alle leggi ad personam. Nel primo caso, il prezzo lo ha pagato soltanto lui, Berlusconi: come ogni cittadino, egli dovrebbe accettare di dimostrare le sue ragioni e quindi la sua innocenza nel processo nei modi e nei tempi previsti dal codice senza il conforto di leggi scritte ad hoc. Ma Silvio Berlusconi può permetterselo? I suoi comportamenti di ieri e di oggi glielo consentono? È legittimo dubitarne come è ragionevole credere che gli sia preclusa ogni moderazione politica e istituzionale. Il premier non ha alternative: se non vuole perdere il potere, non può accettare stati di quiete. Se vuole difenderlo, deve accrescerlo, il suo potere. Non ha altra chance. È quel che farà o tenterà di fare. Costi quel che costi. La profezia è facile. Con buona pace di un´improponibile moderazione.
l’Unità 18.5.11
Intervista a Yasser Abed Rabbo
«Israele colga con noi il vento di novità che soffia in Medio Oriente»
Per il segretario Olp il presidente Napolitano è uno statista lungimirante e superpartes. «La trasformazione della delegazione palestinese a Roma in ambasciata non è puro make-up come dice il ministro degli Esteri Barak»
di Umberto De Giovannangeli
Il Presidente Napolitano si è dimostrato ancora una volta uno statista lungimirante, sincero sostenitore di una pace giusta, duratura, in Medio Oriente: una pace che passa per la creazione di uno Stato indipendente di Palestina a fianco d’Israele». A sostenerlo è uno dei più autorevoli dirigenti palestinesi: Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp. In questa intervista a l’Unità, Rabbo conferma la volontà della dirigenza palestinese di presentare la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in programma a settembre: «Non si tratta – spiega Rabbo – di una forzatura unilaterale come vorrebbe far credere Israele, ma di fronte a una controparte indisponibile nei fatti a un vero negoziato di pace, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a riaprire da subito il tavolo delle trattative per dare realizzazione a un accordo di pace fondato sul principio “due popoli, due Stati”, ma non siamo più disposti ad accettare i tempi, infiniti, d’Israele. Netanyahu non può più giocare con le parole e illudersi che sia possibile mantenere l’attuale status quo».
Le ambasciate dell'Autorità nazionale palestinese in alcuni Paesi europei “sono solo make up”: così ha affermato il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, dopo che l’altro ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha annunciato la decisione di «accreditare il capo della missione diplomatica dell’Anp in Italia con il rango di ambasciatore palestinese a Roma». «Il Presidente Napolitano si è dimostrato ancora una volta uno statista lungimirante, davvero super partes, amico dei due popoli. La decisione annunciata nel corso del suo incontro con il presidente Abbas (Abu Mazen) non può essere liquidata in modo sprezzante da Barak come una operazione di “make up”. Si tratta invece di un importante segnale politico che Israele sbaglierebbe a banalizzare e peggio ancora a interpretare come un atto ostile».
Quale sarebbe questo segnale?
«L’intero Medio Oriente sta cambiando sotto la spinta di rivolte che rivendicano diritti, libertà, democrazia, giustizia. Questa spinta al cambiamento reclama una soluzione negoziale del conflitto israelo-palestinese, e la Comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. Il Presidente Napolitano ha colto appieno la portata epocale della “Primavera araba” e ha sollecitato Israeliani e Palestinesi a coglierne la valenza positiva, ad esserne in sintonia, a non perdere un’occasione forse irripetibile».
Il che significa?
«Lavorare ad un accordo di pace globale, che affronti tutte le questioni cruciali: i confini dei due Stati, lo status di Gerusalemme, il controllo delle risorse idriche, il diritto al ritorno dei rifugiati. Su ognuno di questi punti è possibile raggiungere un compromesso accettabile da ambedue le parti, ed è possibile farlo in pochi mesi, se c’è la volontà politica».
Ma se questa volontà non si dovesse manifestare da parte israeliana? «Allora sarà inevitabile ricercare altre vie, politiche, diplomatiche, non violente, per realizzare il diritto del popolo palestinese a veder riconosciuto il diritto ad uno Stato nella sede che rappresenta più di ogni altra il consesso degli Stati: le Nazioni Unite».
Ma è credibile parlare di negoziato da parte palestinese dopo la firma di un accordo di riconciliazione nazionale con una fazione, Hamas, che rigetta ogni trattativa con il «Nemico sionista»?
«Su questo l’accordo del Cairo è molto chiaro: a condurre i negoziati sarà esclusivamente il presidente Abbas. E sotto quell’accordo c’è anche la firma di Khaled Meshaal (il leader in esilio di Hamas, ndr). Israele non cerchi alibi: l’unità in campo palestinese rende più forte il leader chiamato a negoziare un accordo di pace. Ma forse è proprio questo che Netanyahu teme».
Repubblica 18.5.11
L´impegno per la pace
Parla il ministro degli Esteri del Cairo, prossimo segretario generale della Lega araba
El Arabi: "Hamas è pronta a trattare ma ora via libera allo Stato palestinese"
Vogliamo lavorare rapidamente per arrivare alla pace: è la cosa più conveniente sia per Israele che per gli arabi
di Vincenzo Nigro
ROMA - «L´ho chiesto chiaramente all´Italia, lo chiedo all´Europa: bisogna riconoscere uno Stato palestinese, perché adesso fra Israele e Palestina bisogna costruire la pace, non continuare semplicemente a gestire in eterno un processo che non porta da nessuna parte». Nabil el Arabi, ex ambasciatore all´Onu, da due mesi è il ministro degli Esteri del nuovo governo egiziano, e da due giorni è stato eletto segretario generale della Lega araba. Si insedierà a luglio alla guida dall´unione di tutti i Paesi arabi, ma nel frattempo lavora a pieno regime a ridisegnare il profilo della politica estera del Cairo. E soprattutto al piano, politicamente esplosivo per il Medio Oriente, per convincere gli stati membri dell´Onu a riconoscere la Palestina anche senza un accordo di pace con Israele.
Ministro, il vostro primo passo è stato rafforzare le relazioni con Hamas, favorendo l´accordo con Fatah: ma Israele non negozierà mai con un governo in cui c´è Hamas.
«Noi abbiamo fatto una cosa molto semplice: abbiamo provato a creare un vero interlocutore, una parte palestinese unitaria e credibile. Con questa parte palestinese unita Israele può negoziare per davvero, può portare a compimento l´applicazione della risoluzione 181 del 1947 che chiedeva uno stato israeliano e uno palestinese».
Ma Hamas dagli Usa, dall´Europa, soprattutto da Israele è considerato un gruppo terroristico.
«Anche George Washington era considerato un terrorista, anche Menachem Begin e Yitzhak Shamir: e sicuramente all´interno di Hamas ci saranno ancora alcuni che credono che sia possibile ancora usare le armi. Noi vogliamo lavorare rapidamente a costruire una pace, che convinca chi non crede ancora alla pace che questa è la cosa più conveniente. Le dico una cosa: Hamas ha accettato responsabilmente che ci siano negoziati con Israele, ci sarà ancora qualcuno contrario: ma Hamas tratterà. Noi, l´Egitto, proponiamo di organizzare questi negoziati con gli Stati Uniti per fare quello che Clinton, Bush e Obama hanno chiesto: dare vita a uno Stato israeliano e uno palestinese».
L´Italia avrebbe già garantito a Israele che non riconoscerà la Palestina: non si andrà oltre il rango di "ambasciatore" offerto al delegato palestinese a Roma.
«Il presidente Berlusconi ha studiato legge, lui in persona sa benissimo che tutte le dichiarazioni di indipendenza sono state fatte unilateralmente, a partire da quella degli Stati Uniti. Lo stesso è avvenuto per la fondazione di Israele. Partiamo così, creiamo una parte palestinese più forte e più stabile, e poi continuiamo con il negoziato».
l’Unità 18.5.11
Nel «Divan» di Barenboim prendono posto armonia e tolleranza
L’orchestra fondata nel 1999 dal direttore assieme a Edward Said mette insieme musicisti arabi e israeliani, facendo prevalere le ragioni musicali. Ieri in concerto alla Scala e oggi a Santa Cecilia a Roma con diretta su Radio3.
di Paolo Petazzi
«La qualità musicale è sempre essenziale», osserva Daniel Barenboim a proposito dell’orchestra fondata nel 1999 da lui insieme con Edward Said, per far incontrare e lavorare insieme musicisti provenienti dalla Palestina, da Israele, Egitto, Libano, Siria e altri paesi arabi. Non sono in primo luogo le ragioni musicali che suscitano ammirazione per il coraggio dell’insigne direttore israelo-argentino e del grande intellettuale palestinese (scomparso nel 2003); ma Barenboim sottolinea che «tutto il lavoro deve puntare al massimo». E in verità la assoluta adesione che si deve all’iniziativa non può essere separata dal riconoscimento dello straordinario livello raggiunto dall’orchestra che ha preso nome di «West-Eastern Divan» dal titolo del «Divano occidentale-orientale» di Goethe. Ieri alla Scala e oggi a Santa Cecilia (con diretta su Radio 3) sono in programma la Terza Sinfonia di Beethoven e l’Adagio della incompiuta Decima di Mahler. La Scala aveva già ospitato la giovane orchestra qualche anno fa, e già allora l’esecuzione delle difficilissime Variazioni op. 31 di Schönberg aveva dimostrato che i giovani musicisti guidati da Barenboim erano diventati una vera orchestra di alto livello. Da poco è stata pubblicata la registrazione del loro concerto a Salisburgo del 2007 con le Variazioni di Schönberg e la Patetica di Ciajkovskij, ed è incredibile che siano bastati otto anni per raggiungere simili risultati. Merito di Barenboim, della bravura di ognuno dei giovani musicisti, e della specifica formazione
Il maestro Daniel Barenboim offerta loro da membri della Staa-
tskapelle di Berlino (l’orchestra della Staatsoper di cui Barenboim è direttore stabile) nelle giornate di lavoro che hanno luogo in Andalusia, la regione autonoma che anche in nome del proprio passato storico offre indispensabile sostegno, borse di studio e ospitalità all’iniziativa. Non c’è e non ci può essere unanimità di opinioni, soprattutto di natura storica e politica, tra i musicisti della Divan; ma si impara a conoscere e a cercare di capire la logica dell’altro, osserva Barenboim. Si parla insieme senza sentirsi obbligati a essere d’accordo. E dopo una giornata di lavoro musicale fianco a fianco, impegnati nello sforzo di raggiungere la massima fusione, se si parla di altri argomenti si discute in un altro modo.
Il concerto scaligero era a favore di «Children in Crisis Italy», una associazione che si adopera per migliorare attraverso l’istruzione e l’assistenza medica le condizioni di vita dei bambini più indifesi, vittime di conflitti, povertà o altre situazioni di grave disagio in diverse parti del mondo.
il Riformista 18.5.11
Barenboim tra Israele e Palestina «l’umanità» della Divan Orchestra
di Fabio Vitta
qui
http://www.scribd.com/doc/55698473
l’Unità 18.5.11
La Nakba, 63 anni dopo
di Edvino Ugolini
A 63 anni dalla Nakba che vide la cacciata di quasi un milione di palestinesi dalla loro terra e la distruzione di 500 villaggi, si è celebrata questa giornata tra speranze e paure. La speranza per una Palestina finalmente libera e la paura per un ritorno allo scontro armato che ha pesantemente segnato la ricorrenza. La speranza è data dall’accordo siglato tra le due più importanti fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, che come seguito avrà a settembre l’annuncio per la nascita di uno Stato sovrano e indipendente da Israele. Per quella data, il governo israeliano sta valutando anche l’ipotesi per il ritiro delle sue truppe, come riferisce il quotidiano Haaretz. Sta di fatto che circa quattro milioni di palestinesi continuano a vivere da profughi in Cisgiordania, Gaza, Libano e negli altri stati arabi confinanti. Tutti attendono il diritto al ritorno previsto dalla risoluzione n.194 dell’Onu, risalente al 1948, ma che non ha trovato a tutt’oggi una soluzione concreta, al contrario, essa viene ritenuta dalle autorità israeliane una questione non negoziabile. Proprio in questi giorni il Convoglio restiamo umani, composto da una ottantina di attivisti, ha raggiunto Gaza, per ricordare il volontario italiano Vittorio Arrigoni ad un mese dalla sua morte.
l’Unità 18.5.11
Digiuno di protesta
Fine vita, il legislatore pecca contro l’umanità e la costituzione
di Carlo Troilo, Associazione Luca Coscioni
Montanelli diceva che la vita è degna di essere vissuta finché si è in grado di andare in bagno da soli. Mio fratello Michele la pensava allo stesso modo. Malato terminale di leucemia, aveva sopportato stoicamente sofferenze e terapie. Poi, una sera, aveva avuto un primo episodio di incontinenza, con tutte le umilianti conseguenze del caso. Poche ore dopo, all’alba, si è gettato dal quarto piano. Eluana Englaro era in uno stato in cui non si poteva parlare, a rigore, di sofferenze fisiche, data la sua condizione «vegetativa». Ecco come ne descrisse le condizioni Francesco Paolo Casavola, cattolico «adulto», già presidente della Corte Costituzionale e del Comitato Nazionale di Bioetica: «Per 16 anni Eluana è stata priva della funzione cognitiva, ma non di quella vegetativa. Estranea ad ogni realtà esterna, ha però conservato respiro, circolazione del sangue, ritmo veglia-sonno, è stata alimentata con la sonda, idratata, liberata delle feci con clisteri, delle urine con cateteri, spostata dal letto alla postura in poltrona, è stata vista aprire meccanicamente gli occhi incapaci di vedere». Alla vigilia della possibile approvazione, alla Camera, della legge sul testamento biologico, del terzo presidio organizzato a Montecitorio, domani e il 19 maggio, dalla Associazione Coscioni e da altre dieci associazioni laiche e del mio terzo «digiuno di dialogo», ho fatto riferimento ad una caustica battuta di Montanelli, alla vicenda di mio fratello ed al dramma indicibile di Eluana Englaro per evidenziare un tema che mi è apparso trascurato nel dibattito sul testamento biologico. In questo dibattito si è molto parlato del divieto, formulato nell’articolo 32 della Costituzione, di imporre terapie a chi non le vuole. Si è però trascurato il fatto che l’articolo 32 contiene un’altra affermazione tassativa: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Dunque, la dignità della persona non può essere violata, né dai medici né tanto meno da pessimi legislatori. Non c’è bisogno che il malato sopporti sofferenze atroci. Dovrebbe bastare, per consentirgli di morire in pace, che egli – malato terminale, sventurata creatura in stato vegetativo permanente o anziano abbrutito dalla fase più acuta di un Alzheimer – abbia dichiarato in anticipo di non voler vedere offesi e calpestati la sua umanità, il suo pudore.
Che rispetto hanno della «persona umana» coloro che vogliono imporre per legge un trattamento come quello inflitto ad Eluana? Mi auguro ancora che questa legge, inumana e incostituzionale, non giunga mai ad essere approvata dal Parlamento. Ma in questo caso penso che essa – se non interverranno prima il Capo dello Stato o la Corte Costituzionale – sarà spazzata via da un referendum abrogativo che questa volta nessun Ruini sarà in grado di far fallire.
l’Unità 18.5.11
Anniversari Il 18 maggio 1911 moriva il compositore, «profeta» di sinfonie sterminate e universali
Ascolti La sua è musica da meditazione, che oggi sembra aver conquistato un posto privilegiato
Cento anni per riscoprire Mahler trasvolatore di continenti sonori
Mahler: nome per grandi orchestre e grandi bacchette, ma difficile da abbordare per il gusto comune. Oggi, tuttavia, il suo talento visionario, il suo scavalcamento di frontiere, è pronto per essere apprezzato da tutti.
di Giordano Montecchi
Mahler. Gustav Mahler. Nome anfibio. Che oggi evoca scintillanti serate concertistiche, di quelle da non perdere, con grandi orchestre ospiti e grandi bacchette sul podio. Ma che, per i più, suggerisce anche una musica difficile da raggiungere, «musica in tedesco», che non entra nelle hit parade del gusto comune come Chopin, Mozart, Vivaldi e gli altri beniamini di chi ogni tanto, per dirla con l’Istat, «ascolta musica classica» e magari, al centro commerciale, quando passa col carrello della spesa davanti al banco dei cd, si ferma e cerca qualcosa da mettere come sottofondo per una serata rilassante. Non sceglierà Mahler. Primo perché difficilmente lo troverà esposto in prima fila fra i titoli da adescamento. Secondo perché il nome gli dice poco o niente o gli ispira scarsa fiducia: «Meglio andare sul sicuro, qualcosa tipo L’Adagio di Albinoni e altre gemme del Barocco, cosa ne dici?».
Mahler sarebbe in effetti un errore madornale e la seratina risulterebbe musicalmente un disastro, con una musica che per dieci minuti non si sente quasi niente e poi improvvisamente si scatena un putiferio e poi daccapo... «insomma sei a tavola e ti devi alzare in continuazione per andare ad abbassare e alzare lo stereo, non è possibile!». Parliamo di Gustav Mahler perché è morto giusto un secolo fa, il 18 maggio 1911, perché è così che si usa fare quando il conta-passi della storia segna un numero tondo. Ma per chi ama la musica e la desidera, Mahler, come i libri che si tengono sul comodino, è il tipico auteur de chevet: ci sta idealmente accanto come confidente, maestro, filosofo, poeta. Lui che di parole ci ha lasciato solo lettere e qualche poesia, della musica d’oggi (e del mondo d’oggi) ci dice molto più dei tanti che hanno riempito quaderni e volumi di memorie e riflessioni.
Mahler è ritratto spesso nei panni del profeta che all’alba del secolo scorso presentì i cambiamenti traumatici imminenti e li annunciò vibrando ferite profondissime alla sua musica, alle sue sinfonie sterminate e universalizzanti. Fino al punto, secondo taluni, da demolire interiormente queste sue immense cattedrali sonore, deturpate dagli schizzi del triviale quotidiano. Ovvero, secondo altri, sospingendole verso una frontiera inaudita, capace di coniugare tutto e il contrario di tutto, il sublime insegnatoci dai Romantici e la volgarità assordante dell’attualità, trasfigurandoli entrambi e mostrandoceli (come nessun altro ha più saputo fare) sotto l’aspetto di realtà complementari e fatalmente incatenate.
Nessuno più di Mahler ha interpretato l’etimologia della «sinfonia», del risuonare insieme di tutte le cose in una musica che racchiude «tutto un mondo»: amori e orrori, estasi e ossessioni. Nessuno più profondamente di Mahler possiede un tratto shakespeariano nel concepire questi suoi drammi sonori, dove non sai più il buono e il cattivo, dove il ciarpame e il diamante si avvinghiano vicendevolmente, dove le certezze sbandano, si smarriscono, eppure si cammina sul filo, come ubriachi ma trionfanti, e non si cade mai giù, anche se ne hai sempre il presentimento. Drammi interiori o Sinfonie o Lieder (stessa cosa per lui) che pochi ammirarono e fra questi Arnold Schönberg che, a questo riguardo, si ricordò di quel che disse Arthur Schopenhauer quando raccomandava che «le cose più straordinarie fossero dette con le parole più comuni».
L’enfatizzazione della sua musica come «crollo» ha prodotto lo stereotipo del Mahler cantore della tragedia imminente, aggrappato come un naufrago a questi enormi relitti di un’epoca moribonda, ossia le sue quasi dieci Sinfonie (dell’ultima, la Decima, resta solo quell’Adagio abissale). Ma quella del Mahler tragico è una narrazione miope. Mahler non è un Titanic della musica, è più un Lindbergh, che riesce nell’impresa impossibile. E però un aspetto tragico c’è, ed è il fatto che questo trasvolatore di continenti sonori sia sempre rimasto fuori posto in un mondo che ha sempre parlato un’altra lingua.
Per Mahler, che definì se stesso der große Unzeitgemässe, «il grande inattuale» ma che confidava nel momento in cui la sua musica sarebbe stata amata, sembrava essere maturato finalmente il tempo della riscoperta. Da sessant’anni a questa parte, la sua pianta iniziò a germogliare incontenibile, le lunghe fronde cariche di concerti memorabili, di incisioni imperdibili, di meditazioni sui destini della musica. Da Mitropoulos a Kubelik, da Bernstein ad Abbado, l’inesauribile sorgente poetica di Mahler non ha ancora finito di sgorgare e di rivelarsi, conquistandosi un posto privilegiato nell’immaginario musicale di oggi. Eppure Gustav Mahler resta eroicamente inattuale. Perché contraddice prepotentemente le opposte derive dei tanti che nel classico cercano una musica confortevole e sentimentalmente maneggevole; o di chi pensa che una musica è sbagliata se richiede un’attenzione superiore a qualche minuto. Ma anche di chi, leggendo in Mahler la cronaca di un naufragio, ritiene disdicevole continuare a crogiolarsi in nostalgie consolato-
rie. Mahler è inattuale perché è inclusivo anziché esclusivo, perché detestando quella volgarità che ci soffoca la trasforma nel lievito del suo sublime, perché non crede all’illusione di costruire una nuova lingua buttando la vecchia nel cestino, perché non finge di abbattere barriere, ma anzi le rimarca, facendo di quelle differenze esplosive la benzina della sua prodigiosa macchina inventiva. Oggi lo amiamo infinitamente eppure abbiamo imparato poco da Mahler, purtroppo. È questo il tragico.
La Stampa TuttoScienze 18.5.11
Analisi
La psiche sotto l’occhio di Darwin
di Maurilio Orbecchi
Le grandi domande sull'uomo hanno determinato la nascita di tre settori culturali: la religione, la filosofia e, recentemente, la psicologia. Sono discipline che derivano da persone con idee eterogenee su aspetti essenziali della vita, e producono pertanto differenti visioni del mondo.
La scienza, invece, in radicale antitesi a questo modo di procedere, porta a risultati che possono essere controllati empiricamente. Per questo motivo riesce a superare le differenze tra le diverse opinioni e a imporsi nel mondo contemporaneo come il più importante elemento di condivisione interculturale e universale tra gli esseri umani (se non prendiamo in considerazione le frange di quanti hanno problemi con il pensiero razionale).
I risultati scientifici sono di tale rilevanza, rispetto alla conoscenza che l'uomo ha di se stesso, da incidere direttamente anche negli altri settori. Religione, filosofia e psicologia conservano certo una loro libertà espressiva, ma non hanno più tutta la libertà: il limite risiede proprio nell'impossibilità di contraddire in maniera troppo palese le scoperte scientifiche. Se un tempo era possibile costruire una filosofia che individuava nell'acqua e nel fuoco il principio di ogni cosa, oggi sarebbe insensato continuare a farlo.
Fino a 150 anni fa il libro della Genesi era sostanzialmente proposto come verità letterale, mentre oggi perfino il Papa sostiene che è una narrazione simbolica.
Alcuni elementi offerti dall'evoluzionismo stanno cambiando anche il quadro teorico attraverso il quale l'uomo interpreta se stesso. Darwin sosteneva che la vita emozionale degli esseri umani condivide molte espressioni comuni con gli altri animali e lo spiegava per mezzo di una discendenza comune. Tuttavia si sono dovuti attendere gli Anni 70 del secolo scorso perché i biologi si occupassero anche della mente dell'uomo, oltre che del corpo. Tra questi va segnalato Robert Trivers, definito da Steven Pinker «uno dei grandi pensatori del mondo occidentale».
Trivers ha avuto grande impatto nella biologia evoluzionistica. Tra i suoi contributi, lo studio sull'«altruismo reciproco», un meccanismo geneticamente determinato che porta l'individuo a ridurre temporaneamente la propria «fitness», in vista del ricambio successivo da parte dell'individuo beneficiato; quindi la teoria dell'investimento parentale differente tra maschi e femmine, un comportamento che deriva dalla limitata capacità riproduttiva delle femmine rispetto ai maschi. Per questo motivo le femmine sono un bene di valore, per il quale i maschi lottano tra loro. O ancora, la comprensione del conflitto genitori-figli su base genetica, che deriva dal fatto che ogni membro di una famiglia è imparentato al 100% con se stesso e solo al 50% con gli altri. La conseguenza è che ciascun fratello ritiene equa una spartizione in cui riceva il doppio dell'altro. Purtroppo, però, anche gli altri la pensano allo stesso modo, con risultati immaginabili.
Una delle teorie più affascinanti di Trivers di cui uscirà in autunno «Deceit and Self-Deception» - è quella sull'autoinganno, interpretato come una forma aggressiva di inganno. Il tentativo di raggiro è presente in tutto il mondo biologico e deriva dalla necessità degli organismi di mantenersi in vita e raggiungere il successo riproduttivo. Secondo Trivers, l'autoinganno, come l'inganno, ha una funzione di adattamento all'ambiente perché nascondendo la verità anche a se stessi, permette a chi lo attua di sembrare più vero. Questo meccanismo porta a raggiungere i propri scopi di manipolazione più facilmente: non c'è miglior impostore di chi si convince di essere autentico, proprio quando mente. L'autoinganno, geneticamente predisposto negli individui, diventa così una delle maggiori fonti di conflitto nella vita perché ogni persona si rappresenta - ingannandosi - migliore di quanto non sia. Ha sempre l'impressione che in ogni rapporto e in ogni compromesso sia l'altro a guadagnarci.
Contributi come questi sono importanti non solo perché danno la possibilità di capire quanto l'uomo sia simile agli altri animali, ma soprattutto perché permettono di comprendere quanto la teoria dell'evoluzione sia una chiave interpretativa dalla quale non si può prescindere se si vuol davvero capire l'uomo.
La Stampa TuttoScienze 18.5.11
Il giorno che scoprimmo le gambe
I due più celebri cacciatori di fossili si incontrano a New York: “Ecco come siamo diventati umani”
di Gabriele Beccaria
Siamo tutti africani e nessuno lo mette in dubbio. Sappiamo anche che l’Homo Sapiens - la nostra specie che sta per allargarsi a sette miliardi di individui - è comparso 200 mila anni fa, in un altopiano tra Etiopia e Sud Africa, ma non riusciamo a capire perché ci abbia messo così tanto a uscire dal continente originario, intorno a 60 mila anni fa, quando è migrato verso Medio Oriente, Asia, Europa. Che differenza c’era tra i primi Sapiens - decisamente pigri - e i nipotini, animati da un inestinguibile spirito d’avventura?
Famosi per una memorabile litigata, 30 anni fa, quando erano aggressivi come i remoti Sapiens colonizzatori, Richard Leakey e Donald Johanson si sono incontrati di nuovo, al Museo di storia naturale di New York: ma stavolta - era il 5 maggio - i due grandi della paleoantropologia, sebbene appesantiti dall’età, erano rilassati, inclini alle battute e a reciproche cortesie. «E’ una serata storica, anzi preistorica!», ha scherzato Johanson e Leakey, con una benda sulla fronte, ha mormorato con un ghigno: «Vi assicuro che è il lavoro di un medico, non di un collega!».
Fedeli allo spirito riconciliatorio dell’evento, non si sono stancati di condannare «l’arroganza dei vecchi studiosi eurocentrici» e hanno ripetutamente evocato «l’umiltà che il genere umano deve dimostrare verso la natura», svelando l’immensità del lavoro che grava sui loro team e sui giovani che vorranno imitarne le imprese. Quanto siamo diversi dalle scimmie e perché abbiamo avuto tanto successo? Domande più impegnative è difficile immaginarne e aspettano risposte convincenti.
La vecchia controversia da specialisti, intanto, è evaporata. A Leakey, lo scopritore del «Turkana boy», un Erectus di 1.5 milioni di anni, e a Johanson, che ha portato alla luce «Lucy», un Australopithecus ancora più antico (di 3.2 milioni), non interessa più bisticciare in pubblico sulle posizioni di un paio di mucchietti di ossa fossili nel frustrante albero dell’evoluzione che periodicamente si arricchisce di nuovi rami. «Quando atterrai a Nairobi, nel ‘70, erano state censite solo cinque specie del nostro genus Homo e tre di Australopithecus - ha raccontato Johanson -. Ora le cose sono diventate più complicate». E Leakey gli ha dato ragione, spiegando che la questione che oggi li lega al di là delle rivalità professionali e che riesce ad appassionare anche un turista in gita in Africa è la nascita del bipedismo: «Mia madre, Mary, scoprì nel 1978, in Tanzania, le impronte fossili di due ominidi risalenti a 3.6 milioni di anni. Forse erano una coppia di Australopithecus in luna di miele - ha aggiunto ammiccando - o una madre con il suo piccolo». Di certo, camminavano su due gambe, e bene.
Questa capacità - ha aggiunto Johanson - è probabilmente l’enigma degli enigmi: rappresenta la rivoluzione senza la quale non saremmo diventati umani e che continua a essere retrodatata. Le prime tracce risalgono a 6 milioni di anni fa, ma la stima è controversa. Emblema del giallo è l’Ardipithecus ramidus, datato 4.4 milioni di anni: le ricostruzioni virtuali dello scheletro dimostrano che sugli alberi camminava, anziché appendersi, e che a terra poteva stare eretto.
«Quando abbiamo iniziato a spostarci sulle gambe - ha osservato Leakey - sono cambiati anche i rapporti sociali e i legami tra individui. Quegli ominidi non sarebbero riusciti a sopravvivere, se non avessero trasformato il loro modo di agire e comportarsi». Devono essere sbocciate idee inedite e archetipi di sentimenti. «E’ stato un travagliato tunnel evoluzionistico», ha specificato Johanson, in cui tanti elementi si sono intrecciati, dal bipedismo, appunto, alla crescita del cervello e all’ideazione di utensili, fino all’altro straordinario e misterioso salto: «Il pensiero simbolico». Se i primi Sapiens, gli «antenati», erano silenziosi, i «pronipoti», che lasciarono l’Africa - sostiene Leakey dovevano possedere un linguaggio sofisticato, oltre che la propensione a decorarsi il corpo e a usare le rocce come lavagne per schizzi e disegni.
I due ex nemici si sono quindi detti d’accordo sul fatto che nuove scoperte - inevitabilmente emozionanti - sono prossime: c’è da riempire lo spazio compreso tra 2.4 e 3 milioni di anni fa, quando è comparso il genere Homo di cui siamo gli ultimi discendenti, e un altro più remoto, in cui ominidi e scimmie si sono separati, prendendo strade divergenti. «Poi è arrivato l’Australopithecus, un adattamento di enorme impatto che tuttavia - ha ammonito Johanson - non è andato da nessuna parte ed è scomparso, come molti ominidi che l’hanno seguito. E’ un messaggio importante: l’evoluzione non è stata una marcia lineare dai primati agli angeli». Lanciando uno sguardo indietro, è evidente che le estinzioni hanno prevalso sui successi (i «processi di speciazione») e non ci sono segni che il futuro sarà diverso. Leakey e Johanson l’hanno ricordato a un entusiasta pubblico d’élite, diverso da quello standard americano, in cui quattro su 10 considerano Charles Darwin un ciarlatano e allo scopritore di Lucy fanno domande così: «Ma lei ha mai trovato qualcos’altro?».
La Stampa TuttoScienze 18.5.11
“Noi, sparsi in tre continenti e uniti dai lampi di raggi gamma”
Tre cervelli in fuga realizzano la prima simulazione completa dello scontro tra stelle di neutroni
di Valentina Arcovio
OLTRE IL BUCO NERO «E’ la ricostruzione più accurata mai fatta e basata sulla Relatività»
IL PROSSIMO PASSO «Studieremo le onde gravitazionali che sono pieghe nello spazio-tempo»
Luca Baiotti, Bruno Giacomazzo e Luciano Rezzolla. Tre cervelli in fuga. Tre destinazioni diverse: Università di Osaka in Giappone, Università del Maryland negli Usa, e Albert Einstein Institute in Germania. Tre occasioni perse per il nostro Paese e, probabilmente, una lezione da imparare. Perché, oltre a ribadire la cronica incapacità di trattenere menti brillanti dentro i confini, la storia di questi tre scienziati dimostra che con una struttura affidabile alle spalle fare sistema, anche da un angolo all'altro del pianeta, è possibile. Tutta questione di intelligenza e volontà, quella degli scienziati, certo, ma anche di impegno da parte di chi ha il compito di sostenere la ricerca.
Utilizzando supercomputer paralleli, i tre scienziati hanno completato una nuova simulazione in grado di analizzare la collisione tra due stelle di neutroni e studiare come cambiano i loro campi magnetici e come possono portare alla nascita di strutture che sono la fonte ultima dei misteriosi «gamma-ray bursts» (lampi di raggi gamma), noti in gergo come «Grb». I tre scienziati italiani, di fatto, sono riusciti a trovare l'anello mancante che lega le osservazioni con i modelli teorici della fisica di base sulle esplosioni più energetiche nell'Universo.
«I “gamma ray bursts” - spiega Baiotti - sono intensissimi lampi di raggi gamma che possono durare da pochi millisecondi a decine di minuti, e in alcuni casi anche di più, e che si presume siano causati dall'accrescimento di materia su un buco nero». E' dallo studio del processo di «coalescenza» tra due stelle di neutroni che gli scienziati hanno costruito un modello da utilizzare nel supercomputer «Damiana», installato all’Albert Einstein Institute, ed è così che hanno seguito il fenomeno dall'inizio alla fine, quando, appunto, si producono molte delle condizioni necessarie per generare le straordinarie esplosioni di raggi gamma.
In questo caso tutto avviene in meno di 35 millisecondi, un tempo tre volte più veloce di un battito di ciglia. Due stelle, compatte e magnetizzate, orbitano a soli 45 chilometri di distanza l'una dall'altra. Ognuna presenta una massa di 1,5 volte quella del Sole, ma compressa in una sfera con un raggio di appena 14 chilometri, e con un campo magnetico di circa un trilione di volte più potente del Sole stesso.
In 15 millisecondi le due stelle di neutroni spiraleggiano fino a fondersi, dando vita ad un collasso gravitazionale che genera un buco nero in rapidissima rotazione che «pesa» circa 2,9 volte il Sole. Tutt'intorno gira una materia superdensa, con temperature di miliardi di gradi centigradi. Nei successivi 11 millisecondi il gas ruota vertiginosamente, raggiungendo una velocità vicina a quella della luce, e il campo magnetico diventa oltre mille volte più potente di quello che era il campo magnetico originario delle stelle di neutroni da cui si è formato. Allo stesso tempo il campo passa da una condizione caotica ad una struttura «ordinata» e gradualmente assume la forma di una coppia di «tunnel» diretti verso l'esterno e centrati lungo l'asse di rotazione del buco nero appena formato. E' proprio questa la configurazione necessaria per accelerare le particelle presenti nei getti e produrre i «Grb».
«Per la prima volta - sottolinea Rezzolla - siamo riusciti a far proseguire la simulazione oltre la fase della collisione e la formazione del buco nero. Si tratta della più lunga "ricostruzione" mai fatta del processo. Risolvendo le equazioni della Relatività di Einstein con una precisione come mai prima e lasciando che la natura segua il suo corso, abbiamo svelato un'importante connessione tra la teoria e le osservazioni dei “Grb”». La ricerca, però, non si ferma qui. In un articolo su «The Astrophysical Journal Letters» i ricercatori fanno notare che la prova ultima della validità del modello verrà dal rilevamento di onde gravitazionali che sono delle «pieghe» nello spazio-tempo prodotte da due corpi in orbita strettissima e con una forza di gravità tale da distorcere lo spazio-tempo stesso. Molti rivelatori nel mondo lavorano proprio su queste onde gravitazionali in una delle gare scientifiche più entusiasmanti del momento. Una gara che i tre scienziati continueranno a giocare fuori casa, ma non senza malinconia.
«Mi piacerebbe tornare in Italia, ma credo che sia impossibile», dice Baiotti, 34 anni. Come dargli torto? Giacomazzo, 32 anni, viene definito «postdoc», cioè un ricercatore con un contratto a tempo determinato. «Rispetto a un italiano - dice - prendo uno stipendio più che doppio. Con la situazione attuale non mi sembra ci siano le condizioni per il ritorno a breve». Neanche per Rezzolla, 43 anni - che ha seguito i due ricercatori prima in Italia (Baiotti e Giacomazzo hanno conseguito il dottorato alla Sissa di Trieste sotto la sua supervisione) e guidato la loro esperienza in Germania - ci sarebbero i presupposti per un rientro. «Sono da cinque anni in Germania - racconta - e posso contare su fondi molto superiori e su un gruppo numeroso di collaboratori. Andarmene dall'Italia si è rivelata un'ottima scelta da un punto scientifico, ma sarei contento di tornare se avessi condizioni confrontabili per sviluppare la mia ricerca».
La Stampa 18.5.11
Il rifiuto totale della violenza fa prosperare la razza dei violenti
Una lettera del 1993: “Sono un uomo pacifico, non un pacifista assoluto Se per strada vedo un uomo che maltratta un bambino, devo stare a guardare?”
di Norberto Bobbio
NEI RAPPORTI DI CONVIVENZA L’etica delle buone intenzioni deve essere accompagnata dall’etica della responsabilità
A PROPOSITO DEL DISARMO Che tutti tranne uno gettino le armi non serve: quest’uno diventerà padrone della terra
Caro prof. Peyretti, da tempo, da quando ho ricevuto la sua lettera della fine di luglio, rimugino questa risposta. Non si preoccupi: non rispondo per cortesia, né tanto meno per obbligo, ma per il bisogno e il piacere di chiarirmi le idee.
Sono, o credo di essere, un uomo pacifico, ma non sono, e mi considero sempre meno, un pacifista assoluto, come lei e i suoi amici. (Sono, se mai, un pacifista relativo, ma questo è un lungo discorso che faremo se mai una prossima volta). (Non sono, del resto, né un liberale assoluto, né un socialista assoluto non essendo l’assolutismo una mia categoria mentale). Come uomo pacifico, o, se vuole, come uomo di pace, non ho mai portato armi, neppure durante la Resistenza. Agisco generalmente da non violento, pur col dubbio che la mia non violenza sia stata spesso quella del debole e non quella del forte.
Personalmente, come individuo singolo, sono, ripeto, un uomo pacifico. Ma io non sono solo al mondo. Vivo con altri, con moltissimi altri, con tutti gli altri. La massima che seguo: «Meglio morire come Abele che vivere come Caino» vale per me, come uomo singolo, che può decidere liberamente del proprio destino. Ma vale anche per me, come uomo che vive in società, in una società in cui non posso chiudere gli occhi (e se li chiudo è soltanto per viltà) di fronte all’esistenza di uomini e gruppi violenti (e lo stesso vale nella società degli Stati)? Sono per la strada: a un tratto vedo un uomo che maltratta un bambino. Siccome sono un non violento sto a guardare? Non intervengo, non corro a chiamare la polizia che so in anticipo che userà violenza contro il violento? lascio che il bambino venga maltrattato e il violento rimanga impunito?
Possibile che non venga mai il sospetto al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti, e finisca per aumentare la violenza nel mondo? (L’oppressione non è una forma di violenza continuata?).
Lei sembra addirittura dar credito a coloro che mettono in dubbio la giustezza della guerra contro Hitler. Lei è allora disposto ad accettare le conseguenze di questo aspetto del continuato revisionismo di questi anni – che io considero stolido e irresponsabile: «Meglio nazisti che morti»?
Ripeto: io posso decidere di me quello che credo. Ma non posso decidere quello che voglio in un mondo, che è stato dominato, come lei stessa riconosce, dalla volontà di potenza. Se i Serbi, una volta vinta la guerra nell’ex Jugoslavia, pretendessero anche Trieste, come ci comporteremo? Lasciamo fare perché siamo pacifisti, e invocheremo l’art. 11, ecc. ecc. Lei non pensa che dichiarare sin d’ora che noi non combatteremo, incoraggi l’aggressore? Lei non pensa che l’etica delle buone intenzioni, anzi buonissime, non debba essere accompagnata, nei rapporti di convivenza, dall’etica della responsabilità? A proposito del disarmo, cavallo di battaglia dei pacifisti: che io butti via le mie armi non serve a niente. Né serve a qualche cosa che le buttino via tutti tranne uno, perché quest’uno diventerà il padrone della terra.
Continuare a dichiarare il proprio pacifismo assoluto serve a salvare la propria anima. Serve anche a salvare il mondo?
Alla base del nostro dissenso c’è forse la sua affermazione che le tendenze dominatrici e distruttrici sono patologiche e non fisiologiche nella natura umana. Tanto lei che io sappiamo ben poco della natura umana. Ma dalle testimonianze della storia e dei fatti che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, sarei più prudente, o almeno distribuirei in parti eguali quello che appartiene alla grandezza e quello che appartiene alla miseria dell’uomo. In questi giorni i giornali ci danno contemporaneamente notizia della nobile gara di solidarietà per salvare qualche bambino di Sarajevo, e della brutale uccisione nelle grandi città del Brasile dei «bambini di strada», come fossero topi. Che cosa è più fisiologico, che cosa è più patologico?
Accolga i miei più cordiali saluti, e i miei ripetuti rallegramenti per il foglio .
Breuil-Cervinia, 16 agosto 1993