La Stampa 16.5.11
Medio Oriente. L'incubo di una nuova Intifada
Israele, folle di palestinesi forzano i confini: 16 morti
Migliaia entrano disarmati da Libano e Siria, l’esercito fa fuoco
di Aldo Baquis
TEL AVIV Il nuovo Medio Oriente, in cui le masse si fanno protagoniste dei processi storici, ha cercato ieri di scuotere i reticolati di confine con Israele in occasione della Giornata della Naqba, l’anniversario di quello che per i palestinesi è il «disastro» della fondazione di Israele, 63 anni fa.
Questo primo incontro ravvicinato si è concluso nel sangue, ma anche con le immagini televisive di dimostranti arabi che sulle alture del Golan erano riusciti a sfondare a sassate le linee israeliane. Da ieri i vertici militari israeliani sono impegnati a cercare nuovi rimedi per quello che sembra stagliarsi come il nuovo insidioso strumento di lotta dei palestinesi, dopo aver compreso che l’arma del terrorismo è per loro controproducente. Da parte sua il premier Benjamin Netanyahu ha detto che ieri Israele ha dato prova di un grande autocontrollo. «In ogni modo - ha aggiunto - adesso è chiaro a tutti cosa vogliono i nemici di Israele». Vogliono cancellare il ricordo della Naqba, ossia - ha tradotto in ebraico - si oppongono non alla occupazione dei Territori ma alla esistenza stessa di Israele.
Anche se sui siti web arabi quella di ieri era già proclamata da tempo come l’inizio di una nuova intifada, Israele si è fatto cogliere di sorpresa. Per far fronte ai pericoli, aveva dislocato una decina di battaglioni in Cisgiordania e 10 mila agenti di polizia nel proprio territorio nazionale. Ma la minaccia si sarebbe manifestata ai confini. Prima a Gaza, dove centinaia di dimostranti, dopo aver superato i posti di blocco di Hamas, si sono lanciati a testa bassa verso il valico di Erez, arrecando danni alle infrastrutture. Il fuoco dei militari li ha respinti (decine i feriti, più un morto in un episodio separato).
Quindi l'attenzione si è spostata a Marun al-Ras, la roccaforte sciita del Libano meridionale dove su iniziativa degli Hezbollah sono convenuti migliaia di sostenitori della causa palestinese. Presto molti di loro si sono lanciati verso il vicino villaggio israeliano di Avivim (Alta Galilea), ostacolati a stento dall'esercito libanese. Sia i militari libanesi sia quelli israeliani hanno aperto il fuoco, e almeno 6 persone sono rimaste uccise. Un incidente simile (meno cruento) è avvenuto al confine con la Giordania.
Ma la sorpresa maggiore è giunta dalle alture del Golan, dove incidenti di confine non si segnalavano da 30 anni. Ieri però una sonora manifestazione di dimostranti filo-palestinesi giunti da Damasco si è trasformata in pochi minuti in una marcia verso la parte del Golan occupata da Israele. Un manipolo di militari israeliani si è trovato, impreparato, di fronte a un migliaio di dimostranti. Il sangue freddo di un ufficiale israeliano (pur ferito alla testa) ha evitato una strage di grandi dimensioni: in quegli attimi decisivi ha ordinato di lasciare passare le persone che sembravano innocue e di puntare alle gambe dei più facinorosi. Pochi minuti dopo 150 siriani (per lo più di origine palestinese) sono sciamati nel villaggio druso di Majdel Shams, che è stato subito circondato dall' esercito. In serata i responsabili drusi hanno provveduto a rispedire in Siria i dimostranti che avevano forzato il confine, assieme con le salme di una decina di vittime. In questi incidenti Israele ha rintracciato «chiare impronte digitali dell' Iran» ed un tentativo di Bashar Assad di scrollarsi di dosso le pressioni interne. Per tutta la giornata al-Manar (la tv degli Hezbollah) e al-Jazeera (autorizzata in via eccezionale a trasmettere dalla Siria) hanno seguito in diretta l’evolversi degli eventi e hanno mostrato dimostranti che innalzavano al cielo, come trofei, vecchie mine israeliane, ormai arrugginite ed inutilizzabili. Il messaggio implicito era che anche il mito della potenza militare di Israele appare arrugginito e che nuove marce di massa potrebbero ripetersi domani o fra settimane o fra mesi - anche altrove, lungo i confini dello Stato ebraico. Ossia, che una nuova intifada è forse in fase avanzata di gestazione.
La Stampa 16.5.11
Obama ora è ostaggio del “conflitto irrisolto”
Nel nuovo discorso agli arabi non potrà ignorare la Palestina
di Vittorio Emanuele Parsi
Assumono quest'anno un significato particolare i sanguinosi disordini che accompagnano la ricorrenza della Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo. Ci rammentano infatti che, mentre per la prima volta da molti decenni il mondo arabo è attraversato da inedite spinte al cambiamento, il Medio Oriente continua a restare ostaggio del suo grande, irrisolto conflitto. Il nuovo atteso discorso del Presidente ai popoli arabi, dopo quello del Cairo di quasi due anni orsono, arriverà a pochi giorni dal siluramento di George Mitchell da parte di Obama e non potrebbe cadere in un momento più delicato.
Nei mesi scorsi l'amministrazione statunitense aveva dovuto riguadagnare terreno dopo aver fornito l'impressione non tanto di essersi fatta cogliere di sorpresa dalla «grande rivolta araba del 2011», quanto soprattutto di aver faticato oltre misura ad articolare una reazione adeguata, dimostrando oltre a una comprensibile difficoltà in termini di pre-visione una meno giustificabile mancanza di visione riguardo a un'area del mondo dove gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti dalla fine della Guerra Fredda.
L’eliminazione di Osama bin Laden, un innegabile importante successo, era tornata a fornire l’immagine di una Casa Bianca nuovamente all'offensiva, capace di assumere l'iniziativa e di produrre fatti importanti in grado di bilanciare sia la sensazione di stallo nelle operazioni militari in Libia (dove peraltro l'America ha assunto una posizione defilata), sia la preoccupazione per la piega che gli eventi sembrano prendere in Egitto, dove i Fratelli Musulmani stanno lentamente ma costantemente riguadagnando il centro della scena politica, con la benevola neutralità delle forze armate, mentre l’infittirsi e il ripetersi di gravi episodi di violenza contro la minoranza copta getta ombre inquietanti sulla possibile evoluzione futura della rivoluzione.
Il discorso del Presidente avrebbe dovuto cercare di fornire una risposta coerente alle sfide poste da un regime ostile che non si riesce a ribaltare neppure con la forza militare e di uno alleato che appare sempre meno condizionabile, nonostante l'enorme messe di aiuti economici che riceve da Washington. Ma dopo quello che è successo ieri in Israele e ai confini con Siria e Libano, esso non potrà eludere l'eterna questione israelo-palestinese, cioè il tema peggiore, il più intrattabile per qualunque Presidente americano e per Obama in particolare. Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco.
Determinatissima, invece, è stata la reazione delle truppe israeliane ai tentativi di violazione della linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e il Libano e la Siria da parte di qualche migliaio di palestinesi. Impossibile che simili manifestazioni abbiano avuto luogo senza l’attivo «incoraggiamento» delle autorità siriane e delle milizie di Hezbollah (per quanto riguarda il Libano). Da molte settimane, il regime di Bashar Al Assad è in grave difficoltà per un'ondata di protesta che non accenna a scemare nonostante l'estrema brutalità della repressione, e non è irrealistico ritenere che il soffiare sul fuoco della tensione nel giorno della Naqba sia stata un' opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, allo scopo di tornare a posizionare la Siria come il «primo Paese sulla linea del fronte antisionista» e non come la brutale dittatura che pure è.
Evidentemente anche l’Iran non può che essere interessato a vedere tornare in primo piano la «tradizionale» chiave di lettura del Medio Oriente (il conflitto arabo-israeliano) rispetto a quella «nuova» di questi mesi (la domanda di libertà). Ma un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili.
Di tutte queste variabili Obama dovrà tener conto nel confezionare il suo discorso, attento anche a non cadere nel cliché di cui molti dei suoi critici lo accusano: di essere sìcuramente un Presidente che «ascolta prima di parlare», ma soprattutto un Presidente che «parla invece di agire».
La Stampa 16.5.11
Intervista
“Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67”
Lo scrittore palestinese Samih al-Qasim “Quelle di ieri vittime dell’occupazione”
Primavera araba. "La sfida alle dittature influenza positivamente il nostro popolo"
di Francesca Paci
Tra un dibattito letterario e un incontro con i lettori il poeta palestinese Samih al-Qasim siede nello stand dedicato alla sua terra del Salone del Libro di Torino e sgrana la misbaha, il rosario islamico. La sua calma esorcizza la frenesia dei connazionali dell’organizzazione che cercano di capire se gli scontri al confine con Siria e Libano debbano compromettere il meeting fissato con la comunità ebraica cittadina.
Cosa significano questi morti: siamo di nuovo al punto di rottura?
«Da 63 anni non contiamo quasi più i nostri morti: aspettiamo sempre il peggio. Questo non significa che siamo rassegnati, ma sappiamo che la politica non c’entra: quelle di ieri sono vittime dell’occupazione».
La tensione tra israeliani e palestinesi porterà alla terza intifada?
«La rabbia dei palestinesi è come un vulcano: ci sono movimenti tellurici, poi c’è l’esplosione, infine si avvertono nuovi assestamenti fino alla scossa successiva. Tocca al Richter-Obama di turno misurarne l’intensità. Noi non abbiamo “remote control”, è impossibile prevedere l’eruzione del vulcano perché non nasce dalla decisione politica di un leader ma dalla rabbia popolare repressa».
All’inizio di maggio Fatah e Hamas si sono stretti la mano. Ha fiducia?
«Sono entrato nelle carceri israeliane assai prima che esistesse Hamas, figuriamoci lo scontro con Fatah. Voglio dire che il destino dei palestinesi non dipende dalle fazioni e dai conflitti intestini ma dalla fine dell’occupazione. E comunque sono ottimista, conosco bene il mio popolo: le fratture si saneranno e torneremo uniti».
Che effetto fa ai palestinesi la primavera araba, l’intifada degli altri?
«Più che alla primavera, un’immagine bella ma europea, preferisco associare le rivolte arabe alla “nabtat assahara”, la pianta del deserto che viene sradicata e trasportata dal vento finché si posa, assorbe una goccia d’acqua e rifiorisce. Ogni regime arabo è diverso, in Egitto per esempio l’inimicizia tra regime e popolo era totale mentre in Siria c’è almeno un accordo sulla politica estera. Ma la sfida alle dittature e la richiesta di partecipazione influenzano positivamente i palestinesi».
In che modo?
«Non avremo mai pace senza democrazia. Le dittature alimentano le guerre, pensate a Hitler, Mussolini, Franco, Saddam, Gheddafi. I palestinesi hanno bisogno di democrazia».
È un messaggio ai leader in carica?
«Certo. Con leader rappresentativi non avremmo perso la Palestina. Ma allora, come oggi, avevamo capi reazionari che decisero il nostro destino insieme ai peggiori tra sionisti e britannici. Basta. È l’ora della democrazia palestinese».
Vale a dire?
«Mi risulta per esempio che la democrazia americana odi due cose: il razzismo e i neri. Mi piacerebbe sperimentare una democrazia non discriminatoria che non distingua bianchi/neri, ebrei/arabi, arabi/berberi, ma valga per tutti».
Una bella utopia. E nell’attesa? Razzi lanciati da Gaza e rappresaglie?
«Lo stallo dei negoziati di pace non dipende da noi. Israele mostra i muscoli e potrebbe anche lanciare nuove offensive, riprendersi il Sinai, chissà. Ma prima o poi dovrà accontentarsi dei confini stabiliti dall’Onu».
Si riferisce a quelli del ‘67?
«Personalmente preferirei uno Stato per due popoli perché ho amici israeliani, ci assomigliamo, abbiamo le stesse radici linguistiche. Il poeta sionista Bialik diceva di odiare gli arabi perché gli ricordavano i sefarditi. Insomma, potremmo vivere insieme».
Finché non ci pensi la demografia?
«Il problema demografico esiste, alla lunga Israele sparirà comunque. Penso che sarebbe più conveniente per tutti superare il razzismo. Ma alla fine vanno bene anche due Stati lungo i confini del ‘67: Hamas e Fatah hanno accettato. Israele che aspetta?».
Poeta della resistenza
CHI È SAMIH AL-QASIM È NATO NEL 1939 DA UNA FAMIGLIA DRUSA A ZARQA E HA VISSUTO IN GALILEA INTELLETTUALE NEGLI ANNI 50 È STATO UN ESPONENTE DEI «POETI DELLA RESISTENZA» ED È STATO IMPRIGIONATO PIÙ VOLTE DAGLI ISRAELIANI AUTORE HA SCRITTO UNA TRENTINA DI LIBRI DI POESIA, ROMANZI E DIVERSI SAGGI IN ITALIA HA PUBBLICATO NEL 2006 LA RACCOLTA «VERSI IN GALILEA»
Repubblica 16.5.11
Philip Roth
"Perché mi affascina la magia di Kafka"
di Antonio Monda
"Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c´è vita non è possibile creare della buona arte"
"Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci"
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell´autore della "Metamorfosi"
NEW YORK Philip Roth aveva appena compiuto quaranta anni quando scrisse Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, uno dei suoi scritti più inventivi, sofferti e bizzarri, che uscirà per Einaudi (pagg. 40, euro 8, traduzione di Norman Gobetti)). In quel periodo scoprì una fotografia dello scrittore ceco scattata quando Kafka aveva la sua stessa età. L´immagine lo colpì profondamente, e decise di scriverne: «È il 1924, con ogni probabilità l´anno più dolce e pieno di speranza della sua vita adulta, e l´anno della sua morte». La foto comunica in primo luogo angoscia, e Roth riflette sulla tragedia che avrebbe sconvolto il mondo da lì a pochi anni, che Kafka evitò a causa della morte per tubercolosi: «C´è un tratto familiare ebraico nel naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta – il naso di metà dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto, il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle minori. Ovviamente pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a chiunque altro ad Auschwitz. Ma lui morì troppo presto per l´olocausto».
Questo senso di cupa ineluttabilità e della relazione tra un dramma personale ed una tragedia universale è l´elemento principale di un testo strutturato in due sezioni: una riflessione su Kafka uomo e scrittore (la prima parte è il testo di una lezione all´Università della Pennsylvania) ed una folgorante invenzione letteraria, nella quale si immagina che Kafka si sia trasferito in America, divenga a sua volta docente, nonché amico della famiglia Roth, al punto che i genitori del futuro scrittore americano immaginano di presentargli Rodha, una zia nubile, perché convoli con lei a nozze. Nel breve testo Roth è un bambino di nove anni che insieme agli amici ribattezza Kafka Dr. Kishka, termine yiddish per "intestino", a causa dell´alito pesante. Il giovane Roth è tuttavia affascinato da Kafka, al punto da imitarne lo strano accento e dai suoi racconti scopre cosa sta succedendo in Europa. «Ovviamente tutto questo è immaginario» racconta lo scrittore nel suo appartamento dell´Upper West Side «ma è assolutamente vera la crescente fascinazione che ho vissuto nei confronti di Kafka, al punto da voler visitare i luoghi in cui ha vissuto e conoscere alcuni parenti».
Che importanza ha avuto per lei Kafka come scrittore?
«L´ho sempre considerato un mago, come Beckett e Bellow: quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirvi. C´è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario. Le prime cose che ho letto sono stati i racconti: La Metamorfosi e Nella Colonia Penale, poi il Processo, Il Castello, America, le lettere e quindi la biografia di Max Brody. Kafka mi affascina ancora di più come persona, con i suoi tormenti ed il suo particolarissimo punto di vista sul mondo. All´inizio degli anni settanta sono andato ogni primavera a Praga, dove ho conosciuto Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. Rimasi molto colpito dalla loro disperazione e questo mi avvicinò ulteriormente a Kafka. Conobbi anche Vera Saudkova, una delle sue nipoti, che aveva perso il lavoro per questioni politiche. Mi raccontò della madre, e delle altre due sorelle di Kafka, morte ad Auschwitz. Lei era riuscita miracolosamente a sopravvivere perché il padre non era ebreo. In quel periodo cercai di capire l´uomo ancora prima dello scrittore: ricordo che mi mostrò le foto, e i suoi luoghi di lavoro. Feci lo stesso anni dopo, quando conobbi, a Londra, Marianne Steiner, un´altra nipote, figlia della sorella Wally.
E. L. Doctorow ha detto che Kafka non appartiene ad alcuna nazionalità, perché è universale.
«È certamente universale, perché in grado di parlare a chiunque. Era tedesco, ebreo e ceco. Sono elementi essenziali per comprendere la sua intimità e la sua grandezza. La sua lingua era il tedesco, ma quando scriveva in ceco la sua fidanzata Milena supervisionava la scrittura».
L´elemento ebraico dell´opera e della personalità di Kafka hanno avuto molto peso nel modo in cui lei racconta il suo rapporto con l´ebraismo?
«Non ho mai messo le due cose in relazione diretta, certo in Kafka l´elemento ebraico è determinante. Per quanto mi riguarda, è evidente che si tratta del tema centrale di tutto il mio lavoro».
Che importanza ha avuto nella sua vita l´insegnamento?
«Ho sempre amato insegnare. Ho iniziato a Chicago subito dopo il servizio militare, ed avevo appena ventiquattro anni. Poi ho insegnato all´Università della Pennsylvania per dodici anni. È stata la mia vera educazione letteraria: dovevo studiare gli autori che insegnavo, per essere in grado di discutere con gli studenti».
Quali erano gli autori che prediligeva insegnare?
«Scrittori europei: tra gli italiani Ignazio Silone, Primo Levi e Carlo Levi. Tra i francesi Colette, Genet, Celine e Mauriac».
Ha avuto a sua volta buoni maestri?
«Ho studiato al Bucknell College, in Pennsylvania: non era una grande scuola, ma nel mio dipartimento c´erano degli ottimi professori, e ho capito quanto possa essere determinante una buona educazione. Ricordo in particolare le lezioni su Beowulf e Virginia Woolf».
Lei immagina che Kafka inviti la zia Rodha al cinema. Come mai?
«Perché era il modo per evadere dalla quotidianità, di sognare. Il luogo dove ci si poteva innamorare. Rodha è un personaggio inventato, ma avevo una zia che le assomigliava molto, che rimase nubile tutta la vita».
Kafka incoraggia la zia Rodha a recitare nelle Tre Sorelle di Cechov.
«È una idea che mi è venuta da una lettera di Kafka, nel quale cita Cechov, con evidente ammirazione».
Nella sua storia immaginaria in America, Kafka rimane un uomo alienato dalla società che lo circonda.
«Altrimenti avrei tradito il vero Kafka. La mia storia cerca di riproporre alcune sue caratteristiche: le angosce, le incertezze, le fragilità di un uomo tormentato, ma anche alcune insospettate certezze».
Saul Bellow ha scritto che "nella storie della tradizione ebraica il mondo, e persino l´universo, ha un significato umano. L´immaginazione ebraica si è resa colpevole di "sovraumanizzare" ogni cosa".
«In questo sono diverso da lui: io temo che la vita ci porti troppo spesso a "sottoumanizzare". Credo in altre parole che si debba partire sempre dagli esseri umani».
La cosa più tragica è che il Kafka immaginario "Non lascia nemmeno libri: niente Processo, niente Castello, niente diari". Sembra che l´arte sia più importante della stessa vita.
«No, assolutamente no. Come scrittore, e soprattutto come appassionato di Kafka lamento la possibile assenza di grandissimi libri, ma la vita viene sempre prima. Altrimenti non sarebbe possibile fare buona arte».
Repubblica 16.5.11
Fratelli d'Italia
A Fabriano il festival delle arti
di Francesca Giuliani
Ci sarà spazio per la musica con De Gregori e Goran Bregovic in chiusura
Francesca Merloni: l´attualità ci fa riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme
Mostre dedicate a San Francesco e alle famiglie artistiche: dagli Induno a De Chirico e Savinio ai Basaldella
Pittura, poesia, cultura, concerti: tornano i tre giorni di "Poiesis" dedicati al 150° anniversario dell´Unità
Un crocevia fra Caravaggio e Neri Marcorè, tra la musica di Emir Kusturica e le poesie di Patrizia Cavalli, tra le opere di Gilbert and George e le parole di Alessandro Bergonzoni, con le bande di strada e i fuochi d´artificio, tutto per sottolineare il diritto di cittadinanza a ogni diversità e mescolare le culture e i linguaggi: torna anche questa primavera il Festival Poiesis, nelle strade e nelle piazze di Fabriano dal 19 al 22 maggio, con un cartellone ricco di appuntamenti che spaziano tra arte, cinema, letteratura, musica e teatro. Quarta edizione e un´idea chiara in testa, l´omaggio alla patria, ai 150 anni di unità d´Italia rivista sotto la lente della solidarietà e dell´accoglienza intese come cose che "si fanno", si compiono e possono divenire altro. "Poiesis" è del resto il termine greco che indica proprio "il fare", è l´azione ricondotta a concetto filosofico, esplorato da maestri del pensiero, da Aristotele fino a Kant: e a Fabriano, come dice la radice stessa del toponimo, questa "operosità" è di casa. Per esempio nella fabbricazione della carta che ancora "si fa" a mano come nel Medioevo e che ha reso questa cittadina, così meravigliosamente fuorirotta e anche per questo custode di certe antiche tradizioni, famosa nel mondo. Dati che hanno contribuito a che l´idea di un festival incentrato sulla Poiesis abbia ricevuto, unico in Italia, il riconoscimento dell´Unesco che lo ha associato al festival delle diversità.
All´origine di Poiesis c´è un´idea di Francesca Merloni, poetessa e appassionata mecenate, che quest´anno ha lavorato (e fatto lavorare) sull´idea di Fratelli in Italia. Spiega: "Anche l´attualità ci invita a riflettere sul modo in cui tornare a stare insieme in questo Stato, proprio nelle settimane in cui in tanti vengono cui da noi in cerca di uno spazio per la loro vita. E´ importante, e dunque simbolico, l´incontro fra le arti in questo festival. A cominciare da musica e poesia, spaziando fino al cinema e alle arti figurative. Il senso ultimo è: io arrivo fino a un punto, poi continui tu. Questa polifonia è una sorta di fratellanza, comunque una condivisione profonda". "Fratelli in Italia" è dunque un filo rosso che si dipana fra le arti e vuole essere, spiegano ancora gli organizzatori, "esplicito richiamo alla solidarietà, all´accoglienza, alla necessità che il nostro sistema paese sia in grado di far sentire "fratello" chi, condividendo diritti e doveri, voglia vivere l´Italia come patria". Ed è questo il tema sul quale sono incentrati (tutti completamente gratuiti, ma realizzati con il sostegno di Ariston Thermo Group) gli incontri e i convegni, le letture e gli spettacoli.
Così anche le mostre in cartellone, a cura di Angelo Bucarelli. A cominciare da quella su San Francesco, quest´anno icona-simbolo di Poiesis nello spazio dello Spedale Santa Maria del Buon Gesù. Intitolata "Serafico in ardore" (parole di Dante nel canto XI del Paradiso), l´esposizione accosta quattro opere di maestri sul santo di Assisi. Il primo è il "San Francesco riceve le stimmate" di Tiziano, seguito dal "San Francesco sorretto da un angelo" di Orazio Gentileschi e dal San Francesco d´Assisi di Annibale Carracci per culminare nel "San Francesco in meditazione" di Caravaggio. Affiancano la mostra gli affreschi di Giotto sulle storie di San Francesco, oggetto di proiezioni dell´artista Paolo Buroni.
A guardarlo nell´arte contemporanea invece, "Fratelli in Italia" spazia "dal verismo al concettuale" in una rassegna che accosta le opere dei fratelli Induno, dei due De Chirico, dei tre fratelli Basaldella e della coppia artistica Gilbert and George. La pittura e la storia si intrecciano per esempio nelle opere degli Induno che hanno fermato sulla tela alcuni momenti costitutivi del Risorgimento. Poi De Chirico e Savinio, fratelli di diverso sentire, qui rappresentati tra la Metafisica del dipinto di Giorgio Piazza d´Italia con Arianna e la giocosa grecità di Savinio in un dipinto (senza titolo) che ripropone il tema della parodia del soggetto mitologico. Ancora, sono unite da legame di sangue le opere di Afro e Mirko Basaldella, fra l´acciaio della scultura e l´informale del dipinto "Madera". Per finire, l´opera del duo Gilbert&George "Stream" che incrocia lavoro fotografico e nudità classica, colore e astrattismo nell´opera forse più simbolica di questa piccola galleria, a testimoniare di una coppia d´artisti unita da un percorso comune di successo. Per amore di sinestesia, ovvero di mescolamento fra arti e sensazioni, a dare un senso di fratellanza italiana ecco anche la mostra fotografica "Ti ho incontrato a Firenze" (Palazzo del Podestà) con le immagini Alinari dell´alluvione del 1966.
Oltre l´arte figurativa, la scena a Fabriano sarà delle parole con i suoi innumerevoli protagonisti, primo fra tutti Giuliano Amato che guida il comitato per le celebrazioni dei 150 anni. Seguono in ordine sparso: la lettura filosofico-teatrale di Toni Servillo e Massimo Cacciari su San Francesco Giotto e Dante, "patroni d´Italia"; l´intervista di Luigi Ciotti, il monologo di Alessandro Bergonzoni "W l´Italia, se è desta!", Neri Marcorè che rivisita Gaber e Pasolini, David Riondino con uno spettacolo su Cavour e Garibaldi. E gli incontri con: Valerio Magrelli, Yves Bonnefoy, Alberto Arbasino, Bill Emmott, Lucio Caracciolo, Luis Godart, Patrizia Cavalli. Oltre alle interviste sul cinema di Tatti Sanguineti con i registi Ferzan Ozpetek e Giorgio Diritti. In musica, sono attesi Danilo Rea, Stefano Bollani, Francesco De Gregori. Il concerto di Goran Bregovic chiuderà il festival. Immancabile, un arrangiamento speciale dell´inno di Mameli del musicista Giorgio Battistelli. Nelle strade e nelle piazze di Fabriano lo suoneranno bande di musicisti immigrati, fratelli in una nuova Italia.
Repubblica 16.5.11
Come è nato e si è diffuso il nostro idioma
E Dante creò una lingua meticcia
La fatica con cui lo leggiamo dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso
di Valerio Magrelli
Fra le tante eccezioni di cui gode l´Italia, terra delle eccezioni, quella della lingua non è certo fra le più marginali. Come un unico fiume millenario, la sua letteratura deriva infatti da una sola sorgente, rappresentata da un singolo testo fondatore: La Divina Commedia. (Prendiamo per buona quest´approssimazione, sorvolando sulla scuola siciliana, toscana, bolognese, come su un autore quale Cavalcanti, e proviamo a sviluppare la metafora). Dalla cima di quell´opera somma, un autentico Everest europeo, scaturisce la lingua che irriga la nostra poesia, la nostra prosa, il nostro teatro. Ma in cosa consiste il segreto di un simile capolavoro? Direi in una capacità di concentrazione e immagazzinamento sillabico senza precedenti. Dante, cioè, procede a un inaudito stoccaggio del senso. La fatica con cui lo leggiamo, dipende dal fatto che ogni suo verso possiede un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Per ricorrere a un´altra analogia, siamo di fronte a una sorta di congelamento: ogni verso della Commedia reca in sé, sprofondata nel freddo, una massa di senso quasi intollerabile. Cosa fare, allora? Bisognerà passare questi versi al micro-onde del commento: il processo di comprensione richiede cioè di tradurre il cibo dell´autore in un nuovo stato fisico. Altrimenti detto, all´interno di quest´opera il commento equivale a un percorso di riconversione. Da qui la lentezza del procedere: è come se ogni verso fosse un nodo, un algoritmo, un´equazione da risolvere. Sotto questo aspetto, la lingua di Dante suona straniera, talmente straniera che in certo modo solo uno straniero ha saputo coglierne fino in fondo il segreto. Penso ovviamente al grande Ospi Mandel´stam, che ne affrontò la lettura usando la penna «come il martelletto del geologo». Mille immagini sgorgano dal suo saggio, tra cui questa osservazione illuminante: «Il commento è parte integrante della Commedia [...] la Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». Ma forse non è un caso che ad afferrare così bene la struttura dell´opera sia stato un poeta di un´altra lingua e di un´altra cultura, che amava sillabare Dante nei campi di prigionia, che usava Dante per resistere al silenzio della tirannia.
Ciò spiega quanto risulti profonda la sorgente della nostra letteratura, e aperta a chiunque voglia attingervi. Prodotta da quelle matrici latine, greche, provenzali, arabe, normanne che concorsero alla nascita del Dolce Stil Novo, la poesia, e dunque la lingua italiana, sorsero insomma meticce, e come tali sono pronte oggi a ricevere i lettori che giungono a noi da mondi lontani. È in questa prospettiva che va intesa la "funzione-Dante" descritta da un critico come Gianfranco Contini. Plurilinguismo, espressionismo, dinamicità, sono iscritti nel nostro testo fondatore come altrettante forme di accoglienza verso la parola dello straniero, l´ospite sacro venerato da Omero.
Repubblica 16.5.11
Se il Salone vuol far tacere la cultura
Censure, silenzi, par condicio per neutralizzare le opinioni
Gramsci cancellato, clamorosa dissociazione da Cordero, Palestina trascurata. Incidenti e polemiche hanno caratterizzato la manifestazione di quest´anno
I vertici della Fiera sono in scadenza. Circolano i nomi di Gian Arturo Ferrari e Alain Elkann
Ferrero: "Sono intervenuto di mia iniziativa". Sgarbi rivela la "protesta" di Berlusconi
TORINO Il Salone del Libro nell´anno dell´unità nazionale si è diviso in due: da un lato la passione del pubblico, soprattutto dei giovani, per gli appuntamenti dedicati ai temi politici e civili, alla difesa della democrazia e della Costituzione; dall´altra la tendenza degli organizzatori di Librolandia, complici le elezioni amministrative in corso, a congelare o, quantomeno, a sterilizzare le opinioni politiche e gli argomenti culturali più scomodi.
Una sterilizzazione, questa, che, se rischia di limitare la libertà di espressione, ha avuto a volte effetti addirittura grotteschi. Come nel caso di Piero Fassino, candidato a sindaco di Torino per il centrosinistra, indotto a tacere, per rispettare il silenzio elettorale, a un dibattito sulla Turchia; o in quello di Roberto Cota, governatore leghista del Piemonte, che all´ultimo ha disertato la presentazione di un libro per giunta nelle sue corde. Oppure, ancora, quando lo staff del salone si è intimorito per qualche citazione di un pensatore come Antonio Gramsci da parte di un magistrato, e le ha cassate dai comunicati ufficiali, per poi decidere persino di non far seguire dall´ufficio stampa gli incontri maggiormente caldi. A cominciare dal convegno per i venticinque anni di MicroMega, dove, in effetti, si è parlato male di Silvio Berlusconi e della sua riforma della giustizia, ma non sono stati risparmiati cenni critici al Quirinale e si è lanciata la candidatura di Margherita Hack a senatrice a vita.
L´irruzione di timori puramente politici in un dibattito che dovrebbe essere innanzitutto culturale ha prodotto prudenza, equidistanza, un colpo al cerchio e uno alla botte e un po´ di lottizazione. Così un ampio spazio è stato affidato a Lorenzo Del Boca, giornalista che piace alla Lega Nord ed è specializzato nella demolizione del Risorgimento, per promuovere una serie di dibattiti assai poco unitari. Senza dimenticare il ricorso a una sorta di manuale Cencelli dell´editoria per la mostra «1861-2011. L´Italia dei Libri». Anche perché i vertici della kermesse del Lingotto, da Rolando Picchioni a Ernesto Ferrero, passando per tutto il consiglio d´amministrazione, sono in scadenza. Circolano pertanto voci su un possibile ribaltone o, se non altro, su complesse alchimie politiche e di potere.
Si fanno già nomi di eventuali pretendenti al trono, da Alain Elkann a Gian Arturo Ferrari, curatore della discussa esposizione sui 150 libri che hanno fatto l´Italia e gli italiani. Si sa inoltre che la Lega vorrebbe dare maggiore peso a se stessa nella Fondazione per il libro, la musica e la cultura, che genera la fiera, dando una poltrona al citato Del Boca, già piazzato da Cota nel consiglio della Fondazione. Tutto ciò, pertanto, ha indotto i timonieri del Lingotto a procedere con i classici piedi di piombo.
Se la Russia ha avuto la sua vetrina, la Palestina sembra essere stata tenuta un po´ in disparte. Mentre è stata chiarissima la dissociazione di Picchioni e di Ferrero dai contenuti della lezione di Franco Cordero. Per la prima volta nei ventiquattro anni della storia di quello che si presenta come il più grande evento culturale di massa d´Europa (e che ha sempre ospitato senza problemi le voci più diverse), sono state dunque prese le distanze dalle idee di un autorevole ospite. Galeotto, come il libro dantesco, un passaggio sul Cavaliere. A mettere le mani avanti è stato Ferrero, il direttore della programmazione culturale, che prima dell´inizio dell´intervento del giurista e scrittore piemontese, ha letto una nota di censura. Spiega ora: «Di fronte a parole così violente, sopra le righe, eccessive, mi sono sentito in dovere di precisare che questo non è un luogo d´invettive, bensì di dialogo».
Ferrero sostiene di avere agito in piena autonomia, sebbene Vittorio Sgarbi, ieri in fiera, riveli: «Ho visto Berlusconi pochi giorni fa. Mi ha parlato degli attacchi contro di lui di Dario Fo, di Adriano Celentano e del professor Cordero, che lo ha paragonato a Hitler». S´incrociano, in una singolare coincidenza, le parole del Signor B. e la scelta del Salone del Libro, fermo restando le ragioni addotte dal direttore del salone. In ogni caso, la sua mossa non è piaciuta a tanti, fra i protagonisti presenti a Torino che lamentano l´inquinamento di criteri politici nel dibattito che dovrebbe essere libera circolazione delle idee. Stefano Mauri, editore del libro di Cordero con Bollati Boringhieri, preferisce evitare toni polemici, rammentando solo che evidentemente «le elezioni surriscaldano il clima». Mentre Lorenzo Fazio, della casa editrice Chiarelettere, dice che si tratta di «un fatto grave», e lo studioso della politica Marco Revelli aggiunge: «Conoscendo Ferrero, mi sembra impossibile che abbia fatto quelle affermazioni su Cordero, che sono la negazione della cultura e della sua libertà». E il sociologo Luciano Gallino parla di «una brutta pagina, un brutto segno». Il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi, poi, lo attribuisce «alle elezioni, nonché alla scadenza dei vertici del salone».
Chiude quindi in questa atmosfera l´edizione più cerchiobottista dal punto di vista istituzionale del Salone del Libro, che pure ha visto il pubblico, anche quest´anno a livelli record, affollare gli incontri di maggiore rilievo civile e politico. Una contraddizione stridente, insomma, e un grigio segno dei tempi.
Repubblica 16.5.11
Spaventati e irresponsabili così il cinema racconta i padri
di Curzio Maltese
E nell´era del 3D sbalordisce un film muto in bianco e nero
"Le gamin au vélo" è il film più ottimista dei fratelli Dardenne, i più amati a Cannes
"The Artist" del francese Michel Hazanavicius è un gioco raffinato eppure popolare
Dov´era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell´israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall´istituto e una volta fuori, montare sull´unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L´immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l´amore del padre, l´amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l´ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l´unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano.
È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L´enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell´estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un´ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s´illumina del sorriso dell´infanzia.
Il concorso di Cannes ha regalato ieri un altro tocco di genio, The Artist del francese Michel Hazanavicius. Un magnifico paradosso. In pieno trionfo del 3D, esaltato dai Pirati di Disney, il film più sbalorditivo visto finora è un film muto, in bianco e nero, ambientato negli anni Venti. Detto così, può sembrare una di quelle opere destinate a far cadere in deliquio i cinefili, mentre gli altri spettatori si abbandonano invece ad atti di vandalismo. E invece è un film divertentissimo, ironico, intorno a una bella storia d´amore. George Valentin (Jean Dujardin) è un divo del muto che cade in disgrazia con l´invenzione del sonoro. Verrà salvato dall´amore di Peppy Miller (Bérénice Béjo), ex fan diventata nuova star di Hollywood. Alcune scene sono da cineteca, in molti sensi. Divina quella dell´incubo del divo del muto, che è naturalmente un sogno dove si sentono voci e rumori. Omaggi assortiti alla magica Hollywood dei 20, da Douglas Fairbanks a Gloria Swanson, da Lubitsch a Murnau.
Un gioco meraviglioso, folle, raffinato eppure popolare, con passaggi comici irresistibili, nello spirito delle commedie di Billy Wilder. Attori bravissimi a reggere il gioco difficile, dai protagonisti ai comprimari, del livello di John Goodman e James Cromwell, più un cammeo di Malcom McDowell. Ma la rivelazione è il miglior amico del protagonista, un bastardino che meriterebbe un premio. La scommessa di riprendere nelle sale i soldi della costosa produzione è difficile, ma sarebbe bello se Hazanavicius vi riuscisse.
Repubblica 16.5.11
Una Tac desolante sulla scuola italiana
di Mario Pirani
Ogniqualvolta m´imbatto in qualche analisi seria sullo stato della nostra scuola, un senso di desolazione mi pervade e non mi consola unirmi al coro anti-Gelmini, non perché anche quest´ultima non abbia commesso i suoi errori, ma in quanto i colpi maggiori al nostro ordinamento vengono dai tagli massicci del bilancio, imposti da Tremonti per fronteggiare deficit e debito pubblici, un obbligo cui non si poteva deflettere, ma che si sarebbe dovuto suddividere su altre voci (di spesa e di entrata) così da salvaguardare l´istruzione e l´avvenire delle nuove generazioni, come è avvenuto negli altri Paesi europei che dimostrano ben altra sensibilità di fronte a questo snodo centrale del loro futuro. Del resto, i tagli sono cominciati nel 2004, col secondo governo Berlusconi, sono proseguiti anche in seguito e si sono ancor più accentuati negli ultimi anni. Lo prova ad abbondanza il dossier "Un´indagine sugli insegnanti italiani" presentato dal Cidi (Centro d´iniziativa democratica degli insegnanti, e-mail: insegnarecidi.it) che si potrebbe paragonare, per l´accuratezza della documentazione e dei dati, a una Tac sullo stato di salute (o meglio di malattia) di quella che un tempo orgogliosamente si chiamava Pubblica istruzione. Se a qualcuno sta ancora a cuore il tema se lo procuri con la modica spesa di 9 euro. Potrà riflettere, per citare qualche dato, sul fatto che gli insegnanti italiani sono i più vecchi e i peggio pagati d´Europa, con una età media superiore ai cinquant´anni e un´assunzione che risale almeno a vent´anni orsono. La mancanza di concorsi, la diminuzione di nuovi posti, il taglio di ore che proseguirà fino al 2015, l´andata in pensione senza rimpiazzo si tradurranno in un´ulteriore riduzione di organico anche senza licenziamenti. Nel contempo si cristallizzerà una condizione di precariato di lungo periodo, spesso sopra i 40 e talvolta i 50 anni di età, con un ulteriore invecchiamento del personale.
Ma quel che ha depauperato socialmente oltre che economicamente gli insegnanti, avvilendone sempre più il ruolo, è il progressivo calo delle retribuzioni reali, senza recupero del fiscal-drag e dell´inflazione accertata, accentuato dall´ultima Finanziaria che impone il blocco della contrattazione e degli scatti di anzianità fino al 2013, con ricadute sulle pensioni e sul trattamento di fine lavoro. A seconda dell´anzianità e del livello scolastico un insegnante guadagna al netto delle ritenute tra 1200 euro a inizio carriera a 2000 al suo termine. Non tenendo conto di questi ultimi aggravi, le statistiche Ocse al 2010 vedevano, a parità di potere d´acquisto, a fine carriera un insegnante italiano delle elementari a 38.000 dollari l´anno contro una media internazionale di 48.000, un docente della secondaria di I grado a 42.000 contro 51.000, un docente della secondaria superiore a 44.000 contro 55.000. Vi è inoltre da considerare che il massimo del livello viene raggiunto da noi dopo i 35 anni di servizio, contro i 25 della media Ocse. L´indagine del Cidi si sofferma a lungo su considerazioni che non possiamo neppure riassumere concernenti gli effetti negativi del declassamento economico sulla percezione sociale degli insegnanti come figure di riferimento e dello stesso studio concepito come un valore controcorrente se non inutile. Ne deriva un quadro deprimente della marginalità culturale del nostro Paese, in coda per numero di laureati in proporzione alle leve demografiche, per titolo di studio (meno della metà della popolazione ha un titolo secondario superiore contro l´85% della Germania), per spesa pubblica per l´istruzione (il 4,5% contro il 5,7% della media Ocse). Abbiamo elencato solo alcuni dati di un dossier che se vigesse un codice per punire i delitti sociali potrebbe costituire l´atto di incriminazione di una intera classe politica.
Repubblica 16.5.11
Xenofobia e libertà di parola
di Timothy Garton Ash
Qual è il modo migliore di contrastare i populisti xenofobi che oggi in molti Paesi europei determinano la linea politica? Questo mese si conoscerà il verdetto della giuria nel processo al deputato olandese Geert Wilders, finito in tribunale per le sue esternazioni anti islam - ha detto ad esempio che il Corano è un libro fascista, da vietare. Ma allo stesso tempo in Olanda il governo di minoranza di centrodestra deve la sua sopravvivenza alla "tolleranza" del Pvv, il Partito della libertà di Wilders, che alle ultime elezioni generali ha conquistato il 15 per cento dei suffragi. Nel prezzo imposto da Wilders era incluso l´impegno a vietare il burqa. In Olanda, come altrove in Europa, i partiti di centrodestra hanno cercato di riconquistare gli elettori passati a questo genere di populismo xenofobo adottando versioni edulcorate della sua retorica e della sua politica.
Così si chiede ai tribunali di fare quello che i politici non fanno. È sbagliato. Wilders non dovrebbe essere sotto processo per le sue dichiarazioni sull´Islam, questo sia per rispetto del principio di libertà di parola sia in omaggio alla cautela politica. Sarebbe meglio invece che i politici democratici tradizionali e altri opinion leader ne contestassero la retorica dirompente con maggior coraggio e in forma più diretta.
È proprio questo che pensano anche i pm olandesi. "Non v´è dubbio che le parole dell´imputato risultino offensive per un gran numero di musulmani", dichiararono al primo esame dei capi d´accusa , ma "la libertà di espressione assolve ad un ruolo fondamentale in una società democratica". Un gruppo composto da avvocati di gran nome, ong e gruppi di interesse ottenne in appello il rinvio a giudizio di Wilders. La corte sostenne che attaccando i simboli della religione islamica, Wilders aveva insultato i fedeli musulmani.
La sentenza esprime perfettamente la questione di principio: la confusione tra attacco ai fedeli e critica alla fede. Dobbiamo mantenere la libertà di criticare qualunque fede, anche in termini estremi. La religione non è assimilabile al colore della pelle. Non esistono argomentazioni razionali contro un qualsiasi colore di pelle. Esistono però argomentazioni razionali importanti contro l´Islam, il cristianesimo, il buddismo, Scientology o qualunque altro sistema di fede. I processi, pur se intesi a tutelare gli esseri umani, avranno un effetto inibitore sul dibattito relativo ai credo.
Il problema in questo caso è più ampio. Gli aderenti all´Organizzazione della conferenza islamica da tempo chiedono di rubricare come reato la "diffamazione della religione". Nel Paese in cui il regista Theo van Gogh è stato assassinato per aver offeso l´Islam, lo stesso Wilders è costretto a vivere sotto scorta a seguito delle minacce di morte da parte di estremisti islamisti.
Se Wilders con le sue affermazioni avesse incitato alla violenza meriterebbe di essere processato. Ma a quanto mi è dato di capire si è tenuto nei limiti. Se questo è vero, io difendo il suo diritto di usare parole profondamente offensive per gli stessi motivi per cui recentemente ho difeso il diritto di una donna a scegliere di indossare il burqa. Il biondo Wilders incarna, per così dire, il burqa della controparte.
Oltre ai motivi di principio, esiste un´importante considerazione di carattere pratico. Come è stato per il processo a David Irving in Austria, in questi frangenti l´accusato è messo in condizione di presentarsi come un martire, un paladino della libertà di parola. Wilders ha concluso la sua deposizione in tribunale citando George Washington: "Privati della libertà di parola possiamo esser condotti, muti e silenziosi, al macello, come pecore". Strano sentirlo dire da chi vuol vietare quello che per un miliardo e mezzo di persone è il libro sacro. Molti nel fare appello alla libertà di parola peccano di ipocrisia, ma Wilders supera tutti. Non si limita a chiedere il divieto di indossare il burqa e la messa al bando del Corano (definendolo libro fascista). In un discorso tenuto alla Camera dei Lord a Londra lo scorso anno – dopo la revoca del suo divieto di ingresso in Gran Bretagna, misura idiota imposta dal ministro dell´interno Jaqui Smith – ha sostenuto che in tutto l´Occidente dovrebbe essere vietato costruire nuove moschee.
Wilders non intende imbavagliare solo i musulmani, ma anche chi lo critica. A seguito delle pressioni esercitate dal suo partito, recentemente l´esimio storico della cultura Thomas von der Dunk si è visto annullare l´invito a tenere una conferenza in onore di un eroe della resistenza antinazista in Olanda. Si era infatti saputo che aveva intenzione di paragonare il ritratto che dei musulmani fa il Partito della Libertà con le calunnie mosse nei confronti degli ebrei negli anni ´30. Non basta. Un brano punk in cui Wilders è definito "Il Mussolini dei Paesi Bassi", è stato escluso da un festival organizzato per celebrare la liberazione dell´Olanda dai nazisti. La vignetta che mostrava Wilders nei panni di guardia di un campo di concentramento è stata rimossa da un sito web di sinistra dopo riferite minacce. In breve, per il Partito della libertà Wilders deve essere libero di definire fascista il Corano, ma nessuno dovrebbe essere libero di dare del fascista a Wilders.
Ma i partiti del centrodestra, che per restare al potere dipendono dalla "tolleranza" di Wilders, si allineano alla sua intolleranza, blandendolo. È vero che nella prefazione all´accordo di coalizione si fa un distinguo: il Partito popolare per la libertà e la democrazia (Vvd) e l´Alleanza cristiano democratica considerano l´Islam una religione e come tale la tratteranno – a differenza del Pvv. Ma, come in molti altri Paesi europei, i partiti tradizionali di centrodestra si affrettano ad accodarsi ai populisti illiberali, xenofobi e in particolare anti Islam, facendo loro concessioni, proprio come i partiti tradizionali di centrosinistra troppo spesso si sono piegati a rabbonire voci illiberali della sedicente "comunità musulmana".
Il gruppo di lavoro del Consiglio d´Europa di cui sono membro indica un approccio diverso. Il rapporto "Living Together: Combining Diversity and Freedom in 21st century Europe" (http://book.coe.int/ftp/3667.pdf) sostiene che le società europee devono rivendicare ed applicare il principio della pari libertà sotto un´unica legge. Il grande centro democratico dovrebbe farsi portavoce di un liberalismo forte. Ma non dobbiamo chiedere a chi ha origini migranti di abbandonare la sua fede, la sua cultura, le sue molteplici identità. Messaggi di intolleranza e xenofobia come quelli diffusi da Wilders dovrebbero essere contestati dall´opinione pubblica, non in tribunale. Il nostro motto è "minimizzare la coercizione, massimizzare la persuasione". I politici tradizionali, gli intellettuali, i giornalisti gli imprenditori, le stelle dello sport dovrebbero mobilitarsi tutti al fine di persuadere l´opinione pubblica dei Paesi europei che se si rispettano le norme fondamentali di una società libera si ha pieno diritto di cittadinanza, qualunque sia la religione professata. E che tutto questo è realizzabile.
Applicando questo principio al caso Wilders, non intendo coinvolgere altri membri del gruppo (http://www.coe.int/t/dc/files/events/groupe_eminentes_personnes/default_EN.asp) che potrebbero non concordare con me, ma a mio giudizio noi liberali – noi cioè che attribuiamo alla libertà individuale la massima priorità – dovremmo avere il coraggio delle nostre convinzioni, soprattutto quando ci portano a posizioni scomode. Wilders quindi dovrebbe essere libero di definire il Corano fascista, von der Donk dovrebbe essere libero di paragonare Wilders ai nazisti – e i politici dovrebbero smetterla di nascondersi dietro le toghe dei giudici. Devono invece uscire allo scoperto e combattere in prima persona la giusta battaglia.
(traduzione di Emilia Benghi)
Corriere della Sera 16.5.11
Zurigo vota sì all’eutanasia
Suicidio assistito anche per stranieri. La Roccella: basta turisti della morte
di Luigi Offeddu
L’hanno sempre chiamato il «turismo della morte» , che lo approvassero o no. E così continueranno a chiamarlo: resta aperta la porta del suicidio assistito e legale, in Svizzera, anche per gli stranieri in arrivo da ogni parte d’Europa e dagli Stati Uniti; due referendum proposti nel cantone di Zurigo da due diversi partiti avevano chiesto il divieto di questa forma di eutanasia, o almeno la sua limitazione ai residenti da almeno 10 anni, dunque l’esclusione degli stranieri; ma ieri ha votato per il «sì» appena il 20 per cento dei cittadini, troppo pochi per cambiare la legge, e per il «no» hanno votato tutti gli altri. Respinta perciò la proposta di trasformare in un reato penale l’assistenza «passiva» al suicidio, vale a dire l’atto di procurare il farmaco mortale, e di affiancare il paziente nelle sue ultime ore. Mentre rimane un reato, come lo è sempre stato, l’intervento «attivo» . Quello di Zurigo è il cantone più popoloso della Confederazione, e anche la sede di un noto istituto-appartamento dove appunto, a determinate condizioni, una miscela di barbiturici e sonniferi procura la morte a chi abbia espresso questa volontà. Nessun dolore, garantiscono gli organizzatori, e condizioni di massima serenità: la musica preferita, assistenza psicologica, e così via. Dicono le statistiche che ogni anno circa 200 persone scelgono questa fine in Svizzera, una fine legalizzata dal 1941 purché non vi siano in gioco «motivazioni egoistiche» come per esempio un’eredità che tarda (1.400 sono i suicidi in generale). Una sola associazione elvetica è autorizzata a offrire la «dolce morte» , si chiama «Dignitas» . Secondo i suoi dati, 1.138 persone in tutto hanno fatto questa scelta fino al 2010, tra cui: 592 tedeschi, 118 svizzeri, 102 francesi, 19 italiani (secondo altre fonti sono invece una trentina), 16 spagnoli, 18 statunitensi. I critici di questo particolare «turismo» ne hanno sempre evidenziato l’alone macabro, e hanno sempre espresso i loro sospetti su un presunto retroscena di grossi interessi finanziari: più o meno così la pensano i due partiti promotori dei referendum, l’Unione democratica federale di ispirazione cristiana e il partito evangelico; i sostenitori, al contrario, hanno sempre definito l’attività di «Dignitas» come una forma di civiltà e di rispetto delle libertà individuali, un sintomo di progresso laico. Pareri contrastanti che, puntualmente, si riflettono anche in Italia. Dove il voto referendario di Zurigo ha subito calamitato varie reazioni. «Uccidere non è un diritto, ma un delitto – ha commentato il cardinale Elio Sgreccia—. Il risultato del referendum in Svizzera incentiva una pratica che in altri paesi, compresa l’Italia, è considerata un delitto» . E ancora: «Per capirci, è come se si incentivasse la fuga di capitali o il riciclaggio di denaro sporco. Ma il delitto è molto più grave. Questa è complicità al male» . Sulla stessa linea Paola Binetti (Udc) e anche il sottosegretario Eugenia Roccella, che rileva: «L’esito del referendum dimostra che c’è una tendenza in Europa ad affermare l’eutanasia, e dunque la morte, come un diritto» , e questo «rende ancora più urgente fare in Italia una legge sul testamento biologico» in modo da evitare di lasciare aperte strade «per arrivare all’eutanasia» . Diametralmente opposto il parere di Ignazio Marino, Pd: «Il dibattito sul suicidio assistito non ha niente a che vedere con il lavoro parlamentare per l’introduzione del biotestamento: suicidio assistito vuol dire aiutare una persona a morire uccidendola con un veleno, seppure su sua richiesta. Niente a che fare con la libertà di scegliere le cure cui sottoporsi, obiettivo di una legge per l’introduzione delle direttive anticipate» . Nel frattempo, in Svizzera, già si profila un’altra polemica: c’è chi propone di inserire un reparto per il suicidio assistito in alcuni istituti per anziani.
Corriere della Sera 16.5.11
Gillo Dorfles
«L’arte è l’unica passione alla quale sono rimasto fedele
Saba era un vero presuntuoso, Svevo sempre adorabile»
di Paolo Di Stefano
B isogna essere cauti nel chiedere a Gillo Dorfles notizie del suo passato. Non risponderà volentieri e semmai preferisce parlare al passato prossimo che al passato remoto. I ricordi, per quest’uomo che ha superato i 101 camminando sempre diritto ed elegante, leggendo sempre a occhio nudo, parlando con tono fermo e voce chiara, sono un fastidio che lo fa sbuffare di noia: «Preferisco ricordare il presente e vorrei ricordare il futuro, naturalmente» . La sua quotidianità? «Niente di ufficiale» . Ma si sa che nella sua giornata, tra l’altro, c’è la pittura e c’è il pianoforte, che è qui in un angolo del salone. «Niente vita privata, e niente autobiografia, quella uno avrebbe diritto di farla solo dopo morto. Lo scriva, per piacere» . Scritto. Però almeno un accenno al papà ingegnere navale e alla sua città: «Sono rimasto a Trieste fino a 4 anni, quando è scoppiata la prima guerra ci siamo trasferiti a Genova, la città di mia madre. Poi sono tornato a Trieste in epoca di ginnasio» . Sono gli anni in cui Dorfles entra in contatto con l’intellighenzia locale. Tanti nomi, a cominciare da quello dell’amico del cuore Bobi Bazlen, lettore accanito, consulente editoriale e traduttore. «Da piccolo avevo la passione dei libri belli: un giorno nel negozio d’antiquariato di Saba ho chiesto ai miei genitori un volume antico, credo un classico. Saba mi ha detto: "Non xè par ti, non puoi capirlo...". In realtà a me interessava la rivestitura di cuoio, non il testo» . Poi, grazie all’amicizia stretta con la figlia Linuccia, il poeta sarà un incontro quasi quotidiano: «Aveva un carattere pessimo, poco espansivo, presuntuoso, nevrotico. Svevo era l’opposto, impacciato, affabile, simpatico...» . Il passato conterà anche poco per Dorfles, ma quanti possono dire oggi: ho conosciuto l’impiegato Ettore Schmitz... «Ero amico delle ragazze della famiglia, che faceva parte della buona borghesia triestina e aveva la capostipite in Olga Veneziani» . La Veneziani era proprietaria della fabbrica di vernici sottomarine in cui Svevo, dopo aver sposato Livia, la figlia di Olga, era stato assunto come impiegato. «Nella Villa Veneziani si riunivano ogni domenica amici che arrivavano anche dall’Italia, tipo Giacomino Debenedetti e Montale. Un giorno accompagnai Bazlen in posta a spedire in Francia una copia di Senilità. Nel ’ 25 era uscito l’omaggio di Montale ma prima dell’investitura Svevo era conosciuto da pochissimi e scriveva romanzi con grande irritazione della suocera, che considerava la sua passione letteraria una perdita di tempo. Svevo aveva un carattere delizioso, aureo direi» . Subito dopo la guerra, Dorfles scrisse un articolo sulla «Lettura» sulla casa bombardata dei Veneziani come il regno del cattivo gusto in cui Svevo era un incompreso: «Le figlie della vecchia Olga hanno scritto a mia madre chiedendole di punirmi per quell’articolo» . Già da tempo Dorfles era amico di Montale, Eusebio per i più intimi e dunque anche per Gillo: «L’ho conosciuto a Genova, grazie a Bobi. Avevo 18 anni. L’ho ritrovato poi a Firenze e a Milano. Io e mia moglie andavamo spesso a trovare lui e la Mosca, la sua compagna. La Mosca era furibonda di gelosia quando ha saputo dell’infatuazione di Montale per la Spaziani. Mia moglie a un certo punto le ha detto: ma non preoccuparti, sarà un amoraccio senile... Così la Mosca, offesissima, ha rotto i rapporti con noi. Eusebio da un lato era sensibile e gradevole, dall’altro riservato e scontroso. Sapeva quel che valeva, era ambizioso, ma anche timido» . Un passo indietro per ricordare che Gillo digerì giovanissimo la grande cultura mitteleuropea, a cominciare da Kafka, Strindberg, il «triestino» Joyce, la psicoanalisi che in città aveva un esponente illustre in Edoardo Weiss, allievo di Freud. Gli studi di medicina a Roma, con specializzazione in psichiatria, non lo avrebbero comunque distratto dall’arte. Ma prima ancora c’erano il servizio militare a Torino e la vicinanza alla casa editrice Einaudi: «Ero nel Nizza Cavalleria, di cui sempre mi vanto, essendo il reggimento chic del momento, frequentato da tutta la "haute"torinese e comandato dal genero del nostro reuccio. Per fortuna, poi, non sono stato richiamato, ho lasciato la Milano bombardata e ho passato il periodo della guerra vicino a Volterra con i miei genitori. Ma con la rottura della Linea Gotica e il passaggio del fronte, la situazione si era fatta pericolosa anche lì» . Le amicizie torinesi? «A Torino avevo conosciuto soprattutto Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Einaudi era un tipo non comodo, che voleva imporre le sue idee, ma grazie all’egemonia della sua casa editrice sono stato beneficiato della pubblicazione di sei libri. Negli anni Cinquanta avrei conosciuto Giulietto Bollati, una persona di prim’ordine, molto merito di quei libri era suo» . I primi interventi come critico d’arte del dottor Dorfles? «A vent’anni ho cominciato a collaborare con la "Fiera letteraria". L’arte è l’unica passione a cui sono rimasto sempre fedele, sin dalle prime folgorazioni dell’astrattismo di Klee e di Kandinsky. Nei due anni che ho passato a Milano prima di andare a studiare a Roma, ho conosciuto i vari Birolli e Cassinari, ma non mi interessavano più che tanto. Preferivo i primi astrattisti: Reggiani, Radice, Munari... Ho combattuto la mia battaglia per l’astrattismo che apriva la strada alle successive esperienze nucleari e spaziali, contro la banale figurazione paesaggistica» . L’incontro precoce con Lucio Fontana, negli anni romani, ha fatto il resto: «L’ho conosciuto prima della guerra, quando ancora faceva statue di ceramica e non era ancora l’artista bizzarro dei buchi nelle tele. Ma io sono stato tra i primi a insistere sulla sua grandezza, prima che fosse scoperto da decine di critici» . In un angolo della sala c’è un bel «concetto spaziale» di Fontana. Quante rotture nel Novecento artistico: «Il XIX secolo, anzi il XX (dimenticavo di averlo già passato...), è stato uno dei secoli più ricchi: futurismo, cubismo... gli anni Dieci sono stati i veri iniziatori dell’arte di oggi» . Che effetto fa avere attraversato un secolo intero, per di più un secolo come il Novecento, che sembra sommare tanti secoli in uno? Neanche un minimo di vertigine? «Nessun effetto particolare. Il passato ho cercato di dimenticarlo per fare spazio al presente e tenere un po’ di posto per il futuro» . Neanche guardando la Milano d’oggi viene voglia di confrontarla con quella di una volta? «Troppo facile dire che è decaduta. A suo tempo aveva una maggiore intimità e insieme un maggior entusiasmo. Ora si spera che con l’Expo riesplodano le nuove iniziative architettoniche che sembrano aver dormito per mezzo secolo: è l’unica speranza di Milano. Io ci credo. Spero di poter vedere qualche architettura importante dopo Palazzo Pirelli, Casa Moretti e la Torre Velasca: da allora non c’è stato più niente di nuovo» . Intanto, ci sono il design e la moda. Qualcuno dice il trionfo dell’effimero: «Io credo nella moda e nel design, che è la moda dell’arredamento. In Mode &modi dimostravo come sin dalle epoche barbariche l’uomo abbia voluto trasformare il suo vestiario e il suo modo di essere: il concetto di moda significa creare novità che non durino molto, perché dopo un po’ ci si annoia. Anche delle forme artistiche ci si annoia, per questo l’arte deve saper utilizzare la moda. Quel che non sopporto è il cattivo gusto, perché la moda può facilmente scivolare nel Kitsch» . Una sana dose di insofferenza (da cui il titolo di un suo libro, Irritazioni), del resto, fa parte del carattere di Dorfles. Per la religione, per esempio: «Non parlo di queste cose. È un problema che non mi riguarda» . Per la scaramanzia no: «Credo nella iella e nel malocchio: esistono persone che portano male e cerco di evitarle. Sono molto irrazionale, la mia attività, del resto, è irragionevole» . Per la televisione sì: «Non ha migliorato il gusto degli italiani. Potrebbe fare molto di più, anche nel campo della cultura, però si limita al Grande Fratello e all’Isola di non so cosa» . Per la politica: «Non ne parlo. Sono stato molto antifascista e me ne vanto. Ma non mi sono mai occupato di politica. Il problema destra-sinistra è aleatorio, sarebbe facile dire che sono di sinistra: in altri Paesi c’è una tradizione di destra accettabile, da noi non la vedo» . Per i giovani sì e no: «Un tempo, con i gruppi e i movimenti, c’era maggior adesione. Oggi vedo un individualismo sfrenato. Poco entusiasmo e poca coscienza sociale e politica» . Irritazioni e altre irritazioni: «Beh, per certi conformismi: perché tutti con i jeans? O con le giacche di incerata nera? O con la minigonna senza saperla portare? La persona veramente elegante è démodé. Il conformismo è una maniera comoda di adattarsi alla vita. Per non dire del conformismo del non conformismo: quelli che per non essere conformisti finiscono per diventare snob o radical-kitsch, sono molto frequenti, soprattutto nella buona società. L’eccesso di buone maniere è pericoloso come la maleducazione» . La carica (vitale) dei 101 (anni).
Corriere della Sera 16.5.11
Rossa, l’operaio che denunciò le Br
Giovanni Bianconi ricostruisce la vita del comunista genovese e quella del suo killer
di Corrado Stajano
Che cosa sanno i ragazzi di oggi del terrorismo che insanguinò e inquinò l’Italia, fece regredire il Paese, cancellò i movimenti giovanili, trasformò per lunghi anni in un incubo la vita di milioni di cittadini? Quelle livide mattine. Cominciava la giornata con il Giornale Radio delle 8 che faceva entrare nelle case le notizie dei primi morti ammazzati. Lo Stato imperialista delle multinazionali, ossessivo fantasma delle Brigate rosse, era impersonato da carabinieri, guardie carcerarie, agenti di polizia, sorveglianti di fabbrica, trovati accartocciati nelle loro macchine all’alba, colpiti dalle mitragliette, dalle pistole, dai kalashnikov. Era impersonato anche da magistrati, giornalisti, dirigenti industriali, i migliori, quelli, diversi dagli assassini, che si battevano per la democrazia, per lo Stato di diritto, per una vita migliore. Giovanni Bianconi, giornalista del «Corriere della Sera» , ha scritto un libro, Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli (Einaudi Stile libero) che potrebbe aiutare anche chi nulla sa e fargli capire come fu arduo superare quell’infame stagione della nostra storia nazionale inzuppata di sangue innocente che pesa ancora oggi. La vicenda di Guido Rossa, l’operaio metalmeccanico dell’Italsider di Cornigliano, Genova, delegato della Cgil nel Consiglio di fabbrica, iscritto al Pci, e quella del suo assassino, Vincenzo Guagliardo, si incastrano nel dolore di Sabina Rossa, l’allora sedicenne figlia dell’operaio. La mattina del 24 gennaio 1979, la ragazza andò a scuola di corsa e non si accorse della Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova, coi vetri rotti, i bossoli a terra e, dentro l’abitacolo, suo padre, il capo reclinato sul petto e appoggiato al volante, le gambe stese sul sedile accanto. «Una tragedia operaia» avrebbe potuto avere per titolo il libro. Non era mai accaduto neppure in quegli anni infuocati: operai che uccidono operai. Il serio, documentato, angosciante saggio di Bianconi è anche un tentativo di scavare nella psicologia— la rottura con il mondo degli affetti, la solitudine — e nella cultura politica dei terroristi. Va al di là dell’appassionato bisogno di verità di una figlia che in tutti questi anni si è prodigata per conoscere nel profondo le ragioni di quella morte e ha voluto saperlo dall’assassino di suo padre. È anche l’itinerario non pacificato che ha portato Guagliardo a comprendere com’era sbagliata, più che la linea politica, la scelta di fondo del terrorismo legato alla violenza. Guido Rossa è nato nel 1934 nel Bellunese, in una famiglia operaia. Comincia a lavorare a 14 anni, in una fabbrichetta di cuscinetti a sfere, poi a Torino, alla Fiat, come fresatore. Nel 1961 si trasferisce a Genova, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. L’itinerario di Guagliardo è all’opposto, inquieto. È nato in Tunisia, nel 1948, in una famiglia di emigranti siciliani. Suo padre fa il fabbro e il meccanico agricolo. Viene a mancare il lavoro e la famiglia, nel 1962, si trasferisce in Italia. In quegli anni del boom Torino è il miraggio, il padre trova subito lavoro alle catene di montaggio della Fiat, il figlio si iscrive all’istituto tecnico per geometri. La politica lo attrae subito. A disagio nella Federazione giovanile comunista, è attratto dai «Quaderni Rossi» , la rivista di Raniero Panzieri. Il Pci comincia presto a essere il nemico. Al contrario di Rossa, Guagliardo è un estremista, fa alla svelta a prendere contatto con gli emissari brigatisti torinesi. L’album di famiglia. Conosce Renato Curcio, è partecipe nel far nascere il primo nucleo delle Br a Torino. Che cosa sta succedendo nelle fabbriche? Le Br hanno dei fiancheggiatori, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà» . Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi, gira per lo stabilimento in bicicletta per consegnare bolle di carico, Rossa lo vede spesso accanto alle macchinette distributrici di caffè dove vengono lasciati i documenti delle Br. Il 25 ottobre 1978 alcuni operai gli mostrano l’ultima Risoluzione strategica trovata vicino alla solita macchinetta. L’impiegato si muove senza sosta, Rossa lo incontra anche in quell’occasione. Ha un sospetto rigonfiamento sotto la giacca. Va a segnalare quel che è successo alla Vigilanza dell’Italsider e quando esce dall’ufficio trova su una finestra vicina un’altra copia della Risoluzione strategica che poco prima non c’era. Nel Consiglio di fabbrica si apre un dibattito. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Rossa decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere. Per le Br è avvenuto un fatto grave. Che fare? L’idea iniziale è di mettere Rossa alla gogna, incatenato ai cancelli della fabbrica con un cartello che lo esponga al pubblico ludibrio come spia. Ma l’operazione è irrealizzabile. Gambizzazione, allora. Affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. L’ «inchiesta» è rapida. L’azione non va in porto come dovrebbe. Guagliardo spara tre colpi di pistola, colpisce Rossa alla gamba e al ginocchio. L’operazione dovrebbe essere compiuta. Dura, invece, che non avrebbe dovuto sparare, colpisce, con altre tre pallottole, Guido Rossa al cuore. L’operaio berlingueriano muore subito. Decine di migliaia di operai in piazza a Genova con il presidente Pertini gridano contro la violenza delle Br. Il libro di Bianconi — un tormento che fa ancora male — potrebbe finire qui, allarga invece il suo sguardo su tutto il terrorismo. Protagonista è sempre Guagliardo (quattro ergastoli) e quanto è accaduto in quegli anni. Sullo sfondo il sequestro Moro, il sequestro Dozier, la colonna veneta di cui è il capo, il massacro dei brigatisti in via Fracchia, a Genova (evitabile), l’ossessività dei delitti che punteggiano la vita quotidiana, il viaggio per mare, con un monoalbero, nel Libano a comprar armi dall’Olp, la distribuzione di mitragliette, mitra, fucili, missili alle diverse colonne con metodo ragionieresco. Guagliardo passa in carcere trent’anni, ha il tempo per pensarci su. Dal libro di Bianconi, che ha avuto con lui lunghe conversazioni, si capisce bene come i terroristi, chiusi nei loro covi, conoscano poco la società italiana e conoscano poco la natura umana con le sue debolezze. La militanza brigatista di Guagliardo si conclude nel 1983. Non è un «pentito» , non è un dissociato. Per il suo silenzio è considerato erroneamente un irriducibile. Quando è entrato nelle Br ha accettato «il male necessario della violenza» . Poi ha capito le ragioni della sconfitta, il fallimento, la moltiplicazione dei «pentiti» . La ristrutturazione industriale e la scomparsa dell’operaio massa hanno dato il colpo di grazia al brigatismo. In prigione non vuole mercanteggiare i benefici di legge con la giustizia, non vuole chiedere perdono ai figli e ai parenti delle vittime per ottenere vantaggi. Per riguardo, non per orgogliosa tracotanza. Con sua moglie, Nadia Ponti, anche lei ergastolana delle Br, lavora ora in una cooperativa, «Il Bivacco» , fa libri digitali per i ciechi. Solo nello scorso aprile ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Roma la libertà condizionale: una lunga lotta per riuscire ad averla in nome della Costituzione, si potrebbe dire. Il merito maggiore è di Sabina Rossa, ora deputata del Pd. Con il suo coraggio, il suo spirito di tolleranza e di libertà.
Repubblica 16.5.11
Un libro su Guagliardo, l´assassino di Guido Rossa
Così i terroristi uccisero un operaio
La lezione della figlia della vittima che ha voluto incontrare chi sparò a suo padre
di Benedetta Tobagi
Genova, anni Settanta. Il porto, i fumi delle grandi fabbriche. E il sangue: la locale colonna delle Brigate Rosse fu tra le più feroci. Qui il primo omicidio pianificato, nel 1976 (il giudice Coco e la sua scorta). Qui, un´alba di gennaio del 1979, nel quartiere popolare di Oregina, s´incrociano i destini di due uomini: Guido Rossa, operaio e sindacalista Cgil, appassionato di alpinismo, che aveva firmato, lui solo, la denuncia contro un fiancheggiatore delle Br all´Ansaldo, e Vincenzo Guagliardo, brigatista, che oggi Bianconi fa parlare per la prima volta. Operaio anche lui, nato a Tunisi, figlio di emigrati, dopo una militanza giovanile nel Pci, entusiasmato dai sequestri-lampo di Amerio e Macchiarini, ha impugnato la pistola per contestare con la violenza il sistema capitalistico e lo Stato, convinto che gli altri lavoratori, col tempo, seguiranno; operò a Milano, a Torino, a Genova e fu tra i fondatori della colonna veneta. La vittima e il suo carnefice.
Il brigatista e l´operaio è il titolo del saggio (Einaudi, pag. 332, euro 18,50) con cui il giornalista Giovanni Bianconi prosegue il racconto del terrorismo italiano a partire dalle voci degli ex brigatisti, ma forse "due operai" sarebbe stato più adatto. Colpisce più di ogni altra cosa il confronto tra queste due vite parallele e opposte. La "pazienza democratica" di Rossa, l´impazienza pseudorivoluzionaria di Guagliardo. La cieca durezza con cui il brigatista accetta la logica efferata dell´omicidio; il rigore con cui il sindacalista si espone al pericolo pur di contrastare la presenza dei terroristi in fabbrica.
È un tema difficile, a lungo rimosso e poco esplorato, quello che Bianconi torna ad affrontare. Anche se non riuscirono mai a conquistarle, proprio nelle fabbriche le Br cominciarono la loro attività, e lì, pur marginali, si giovarono a lungo del silenzio da parte degli operai. Un´opacità nutrita di rabbie antiche, della durezza delle condizioni di lavoro, del diffondersi di ideologie e metodi di lotta violenti, della paura di ritorsioni: fu la sfida più difficile per il Pci e i sindacati di allora. Un´opacità che sarà spezzata dall´omicidio Rossa. Guagliardo insiste che fu un errore: l´operaio doveva essere solo ferito, Riccardo Dura (che esplose i colpi fatali) non intendeva uccidere per "alzare il livello dello scontro", contro gli accordi presi, come suggerito da altre ricostruzioni giornalistiche – che adombrano l´esistenza di un doppio livello decisionale dentro le Br. Guagliardo disapprova, ma resta nell´organizzazione e va avanti (sarà condannato anche per gli omicidi dell´ingegnere Segio Gori, del commissario Alfredo Albanese). Solo l´arresto lo ferma.
In carcere non si è mai pentito né dissociato e rivendica questa scelta, che l´ha portato a scontare 31 anni di carcere, mentre gli altri ex terroristi via via uscivano: il contrasto tra "irriducibili" e chi ha collaborato o "ritrattato" è un altro tema difficile che percorre il libro. Per ragioni di "coerenza" col passato, per non tradire i compagni (è sintomatico come, nel racconto, scelga di usare i loro nomi di battaglia, che celano l´identità). Ma, se non fosse stato denunciato da un pentito, quando si sarebbe fermato? Sarebbe mai cominciato il percorso di ravvedimento che l´ha portato a dedicarsi con una cooperativa alla riscrittura dei classici della letteratura per i non vedenti? Basta questo dato a far crollare le argomentazioni di chi contesta la scelta dello Stato di adottare una legislazione sui "pentiti".
Servono tante voci per ricomporre il mosaico degli anni Settanta. Gli ex terroristi restano una fonte importante, se trattata con rigore e cautela, come fa Bianconi. Un solo appunto: riporta raramente la voce diretta di Guagliardo. Il racconto ne guadagna in scorrevolezza, ma perdiamo la materialità, magari ruvida e faticosa, delle parole "incrostate" di vecchie ideologie. Il linguaggio è essenziale nel percorso di avvicinamento agli anni Settanta: un valore aggiunto del libro sta proprio nel restituirci ampi stralci di volantini, articoli, e soprattutto brani inediti dai quaderni su cui Guido Rossa annotava con puntiglio i dibattiti delle riunioni in fabbrica, le sue convinzioni e le perplessità.
Da alcuni anni, infatti, nel lavoro di ricostruzione sono rientrate anche le voci delle vittime e dei loro famigliari. Pagine toccanti ci raccontano l´incontro tra l´ex terrorista che ha sempre rifiutato di parlare e la figlia di Rossa, Sabina. Lo cerca perché vuole sapere la verità da chi sparò a suo padre. Scopre innanzitutto un uomo trasformato dalla lunga carcerazione: la pena, per una volta, sembra aver conseguito i risultati prescritti dalla Costituzione. Con Sabina Rossa, Bianconi ci costringe a tornare a riflettere sulla funzione della pena, in particolare dell´ergastolo, sul senso di parole come giustizia e ravvedimento. Dopo due rifiuti, Guagliardo ha finalmente ottenuto la libertà condizionale, anche grazie all´impegno di Sabina Rossa presso il tribunale di sorveglianza. Un esempio di civiltà e fedeltà ai principi dello stato di diritto che onora la memoria di suo padre.
Corriere della Sera 16.5.11
La collana dei classici, l’esordio con Freud
Arriva in edicola, giovedì 19, insieme al Corriere della Sera (al prezzo di un euro, più il costo del quotidiano; gli altri 9,90 euro) il libro Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud. È il primo volume della collana «Biblioteca della mente» . Una raccolta con i trenta testi più rappresentativi, dal Novecento a oggi, selezionati da Vittorino Andreoli. Da Freud a Jung, da Goleman a Foucault. Ogni volume avrà prefazioni inedite di grandi studiosi che illustrano con chiarezza le pubblicazioni, spiegandone i riflessi pratici. L’esplorazione della mente, infatti, può insegnare molto ed è proprio per capirne a fondo il funzionamento e i possibili disagi e disturbi che nasce questa iniziativa. Per comprendersi meglio, rendendo la vita di tutti i giorni meno complicata e problematica. Molte persone si rivolgono al medico di fiducia per timori che in realtà sono disagi. Le risposte si possono trovare nella psicopatologia ovvero in quella disciplina scientifica che studia sentimenti e comportamenti. «Per avvicinarci a questa disciplina — scrive Vittorino Andreoli nella prefazione al primo volume in edicola giovedì prossimo — abbiamo pensato alla "Biblioteca della mente", una collana che raccoglierà opere fondamentali per conoscere gli aspetti della nostra mente, per comprenderne il funzionamento e le possibili deviazioni» . I volumi rappresentano un punto di riferimento per chi voglia confrontarsi con i più grandi studiosi della materia. Lo scopo è consentire ai lettori di affrontare in maniera equilibrata le difficoltà che la vita pone ogni giorno. «La lettura dei libri — prosegue Andreoli— potrà almeno essere utile, se necessario, a scegliere a chi rivolgersi: psichiatra, psicologo, psicoanalista. Il percorso inizia dalla mente e dalla sua struttura, così come l’hanno disegnata gli psicoanalisti e poi i fenomenologi. Affronteremo il rapporto tra la mente e il cervello, scoprendo come questo sia l’organo da cui emergono le funzioni psichiche. Percorreremo una storia stupenda di scoperte che riguardano la biologia del cervello» .
Corriere della Sera 16.5.11
Capire se stessi con gli impegni dimenticati
di Federica Mormando
«Congratulazioni!» esclamò nella costernazione degli astanti un’amica al funerale di un signore la cui dipartita rendeva molti liberi e ricchi… Mordersi le labbra a buoi scappati è inutile: ormai è fatta! Tanto più che il concetto di lapsus è così entrato a far parte del parlar comune, che pochi ci cascano: voce dal sen fuggita dice il vero. E fuggito, caduto, scivolato significa «lapsus» nel latino da cui è stato preso. Lapsus è una parola che scivola fra le maglie del controllo razionale ed entra, di solito sgradita, in società. È un vuoto di memoria imprevisto che ti lascia a bocca aperta, con l’assente sulla punta della lingua, o che abbandona chi ti aspettava ad attendere invano, visto che hai scordato l’appuntamento. È alterare o sostituire una parola con un’altra, parlando o scrivendo. È ricordare un fatto mai avvenuto. È un gesto che ci sfugge diverso da come dovrebbe. Ben elenca i lapsus Sigmund Freud, nella sua Psicopatologia della vita quotidiana, dove con meticolosità elenca e analizza una serie di evasioni dal controllo razionale di cui intuisce e spiega con cura il significato e il meccanismo di formazione. È affascinante aprire la finestra del mistero sollecitati da episodi anche minimi e quotidiani, da esperienze comuni a tutti. «La mia sola intenzione è raccogliere le cose della vita quotidiana e usarle scientificamente» , scrive Freud, e «non capisco perché mai la saggezza, che è il precipitato della comune esperienza di vita, non debba essere accolta fra le conquiste della scienza» . Del ricordare e dimenticare, la scienza sa assai poco, e l’indagine sul dimenticare è quasi ancor più interessante di quella sul ricordare. Abituati a comandare la nostra banca dati, la ribellione del lapsus è l’evasione di un prigioniero, di un noi stessi che riesce a sfuggire alle catene razionali e comunica a tutti qualcosa. Vale la pena di posare l’attenzione sui lapsus, sui nostri per meglio conoscerci, su quelli degli altri, per meglio conoscerli. Ad esempio, quante volte dimentichiamo di fare una cosa che abbiamo ben segnato su agende cartacee e mentali? Un impegno che abbiamo accettato per convenienza, o educazione, o vigliaccheria. Ci scusiamo, adducendo motivi superficiali che, almeno in apparenza, vengono creduti: stanchezza, iperlavoro, sbadataggine. Invece atti mancati sottendono un motivo, sono la risultante di un conflitto che non ci permette di dire no subito, ma ce lo fa dire poi in modo inevitabile coi fatti. Se ci abituiamo a chiederci perché non abbiamo fatto qualcosa, il che richiede indulgenza ed attenzione amorosa verso noi stessi, possiamo dopo la risposta passare al secondo tempo: trovare il modo di dire di no, o, in casi disperati, riuscire a ricordare. Il conflitto smascherato ha minor potenza di quello rannicchiato nelle grotte dell’inconscio. Dobbiamo renderci conto che poche azioni sono del tutto casuali. Se si rompono spesso cose di valore, forse si sente un’ostilità verso una ricchezza negata. Se un bimbo cade troppe volte, forse sta reclamando affetto e dichiarando insicurezza. Se all’esame si dimentica improvvisamente tutto, forse si sta affermando: non l’ho preparato bene. Dicendo: «Cercheremo di aumentare la disoccupazione e credo che ce la faremo» , Reagan lanciò il messaggio più incisivo di tutto il discorso. Buffi o tragici, i lapsus hanno la stessa origine psichica. Talora sono facili da capire. Ad esempio la segretaria che scrive «restituire i moduli complicati» invece che compilati, sta esortando a farli più semplici; la signora che alla domanda «in quale arma presta servizio suo figlio?» risponde «42 ° mortali» esprime la sua profonda angoscia. Lapsus manifestati con i gesti sono così comuni da essere nell’inconscio collettivo e trasformarsi in proverbi o superstizioni, come versare il sale o l’olio. Ma alcuni possono segnare per sempre la vita e chiarire, come Freud ha esortato per primo a fare, i nostri conflitti profondi non risolti potrebbe anche evitare tragedie. Quanti incidenti appaiono casuali e sono invece inconsciamente intenzionali? Quante volte un colpo sfuggito dal fucile viene dalle ombre dell’animo del cacciatore? E quante cose belle e utili potremmo realizzare se svanissero gli ostacoli che poniamo ad alcune nostre azioni, tendendo vani tanti sforzi! Ma «per superare il motivo ignoto, occorre qualcosa d’altro, oltre al proposito contrario cosciente: un lavoro psichico che riveli quell’ignoto alla coscienza» scrive Freud, attualissimo in Psicopatologia della vita quotidiana, lo scritto forse più vicino a ognuno di noi.
Repubblica 16.5.11
Permissiva, rilassata, libertaria la rivincita della mamma-agnello
Uno studio: il modello tigre è dannoso. "I figli non vanno vessati"
di Enrico Franceschini
Pizza, computer e tv: niente di male a lasciare che i ragazzi godano di questi momenti
"Impossibile trasformare i bambini in tanti piccoli Mozart o Einstein"
LONDRA - Rilassatevi, divertitevi, lasciate che i vostri figli stiano davanti al computer o alla tivù e per cena ordinategli la pizza. È l´inaspettato consiglio che un nuovo guru dell´infanzia (e adolescenza) dà ai genitori di oggi, spiegando che è impossibile programmare i bambini per farli diventare Einstein o Mozart. Sottoporli a impegni troppo gravosi e regole troppo severe può avere risultati controproducenti, ammonisce il professor Bryan Caplan in un nuovo manuale che fa discutere sulle due sponde dell´Atlantico: «Il talento e l´immaginazione non si possono insegnare, i figli vanno lasciati liberi di fare le scelte che desiderano, senza costringerli a una faticosa routine di sport, lezioni di danza e pianoforte, niente giochi e passatempi».
Suona come una risposta all´"Inno di battaglia della madre-tigre", il libro uscito lo scorso anno negli Stati Uniti fra mille polemiche, in cui Amy Chua, docente di diritto cinese-americana di Yale, esortava le famiglie occidentali ad adottare uno stile più simile a quello orientale nell´educazione dei figli: prendendo ad esempio le sue due bambine, cui erano vietati i pomeriggi a casa delle amiche o i pop-corn, obbligate a estenuanti lezioni di musica e a prendere sempre i voti più alti a scuola per non incorrere in punizioni, trattate come soldatini da addestrare. La tesi dell´autrice è che il permissivismo occidentale ha trasformato i ragazzi di oggi in una generazione perduta, non a caso destinata a essere superata a scuola e poi anche nella vita dagli ambiziosissimi studenti cinesi, indiani, coreani, che emigrano negli Usa o in Europa, eccellono all´università, ottengono i lavori migliori. Un´accusa che sembra una metafora del declino dell´Impero Americano davanti all´imminente sorpasso da parte della Cina e dell´Asia.
Ma in "Selfish reasons to have more kids: why being a great parent is less work and more fun than you think" (Ragioni egoistiche per fare più figli: perché essere un bravo genitore è meno faticoso e più divertente di quanto si pensi), Bryan Caplan, psicologo ed economista della George Mason University, ribalta questo genere di argomentazioni. Citando dati e statistiche su gemelli e figli adottivi, lo studioso dimostra che raramente il modo in cui i genitori allevano i figli ha un effetto su come diventeranno da adulti. «Sono molto più influenti i loro geni e le loro scelte autonome», sostiene l´accademico. «Per cui, se siete una persona a cui piacciono i bambini, fate figli e cercate di godervi l´esperienza». Ed ecco le sue regole, o meglio non-regole: non obbligare i figli a milioni di attività, se a loro non piacciono; non lamentarsi in continuazione perché guardano la tivù o stanno al computer, sono i passatempi della loro generazione; non arrabbiarsi se vogliono la pizza o il gelato, il che non significa farne fast-food dipendenti. In assoluto lasciarli più liberi, dare loro più autonomia di scelta e di giudizio.
Il ritorno del permissivismo? Non proprio, perché il libro di Caplan è consapevole dei rischi che esistono per i più giovani rispetto a droghe, alcolici o sesso non protetto. Il suo è tuttavia una sorta di "inno di battaglia" delle madri (e dei padri)-agnello, un rifiuto della disciplina inflessibile della madre-tigre. «È un approccio più rilassato e più giusto», commenta sull´Observer di Londra la dottoressa Ellie Lee, psicoterapeuta infantile della Kent University, «l´idea che il futuro dei nostri figli dipenda esclusivamente dall´intensità con cui facciamo i genitori è fuorviante». In fondo, concordano altri esperti, i genitori di oggi, che sono poi i figli del boom economico del dopoguerra, sono cresciuti senza essere ossessionati dalle ambizioni dei loro genitori, e il risultato non è stato tanto male.
Repubblica 16.5.11
Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelski sull´anomalia italiana e la crisi della sinistra
La democrazia felice e tutti i suoi nemici
di Simonetta Fiori
Era prevedibile che a Torino, città di tradizione operaia e storico laboratorio di cultura politica, una discussione sulla democrazia infiammasse la platea. Nel dialogo laterziano tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia), presentato ieri pomeriggio da Marco Revelli nell´affollata Sala Oval, non si parla solo di un assetto istituzionale oggi messo a dura prova, ma della distanza che passa tra la parola e la cosa, tra "gli ideali" e "la rozza materia", tra il concetto e la sua traduzione storica.
In questa forbice sempre crescente sono contenute tutte le criticità di cui oggi soffre la democrazia, dal populismo carismatico del premier alla questione del lavoro e dei suoi diritti, azzerati dall´economia globalizzata. «Dieci anni fa», dice Mauro, «mai avrei pensato di inserire in un libro sulla democrazia anche il lavoro: eravamo la società del welfare garantito e della crescita. Oggi che il capitale offre il lavoro in cambio dei diritti - è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori - mi pongo il problema se tutto questo sia compatibile con un contesto democratico». La platea del Lingotto sottolinea con lungo applauso la sua sintonia con il direttore di Repubblica, che incalza: «È stupefacente come la politica permetta questo scambio. La destra non vuole intervenire, ma è ancora più sorprendente che non lo faccia la sinistra, ormai incapace di pronunciare parole come libertà, eguaglianza e giustizia».
La morte della politica è uno dei temi del dialogo, ora ripreso con forza da Zagrebelsky. L´analisi non prevede sconti per nessuno. «L´attuale degrado della vita pubblica può essere ricondotto solo in parte al berlusconismo, che è certo una delle cause ma è soprattutto conseguenza di un processo più profondo. La politica è sparita. Sono morte le ideologie, ma è venuta a mancare anche la capacità di ragionare in grande. Se vogliamo combattere il potere carismatico di Berlusconi - io in verità non lo vedo tanto questo carisma - dobbiamo uscire dalla palude impolitica: l´amministrazione dell´esistente e l´occupazione del potere». Sarebbe sbagliato, tuttavia, confondere in un´unica zona grigia l´intera classe politica. «Rimane la distinzione tra persone perbene e persone non perbene», dice il costituzionalista che non rinuncia a civettare con la caricatura suggerita dai suoi avversari: «Così confermo la mia propensione per il puritanesimo». Applaude l´editore Giuseppe Laterza, seduto al tavolo. E applaude il pubblico, riconoscendosi nel richiamo morale.
La democrazia come il «regime delle promesse non mantenute» (copyright di Bobbio). Ma esiste una soglia - incalza Marco Revelli - oltre la quale la distanza tra la parola e la cosa minaccia il fondamento democratico? «Il rischio», risponde Mauro, «è che dietro la superficie levigata si nasconda un organismo malato». E se la democrazia - non come formula politica ma come esperienza - è in difficoltà anche altrove, in Italia vive in una condizione speciale. «Non sono accettabili paragoni con regimi del passato, tuttavia è indubbio che la destra italiana sia portatrice di molte gravi anomalie. Non succede altrove che il potere esecutivo usi il potere legislativo per difendersi dal potere giudiziario. Ma il populismo di Berlusconi è qualcosa di ancora più eversivo, una destra che chiede al sistema democratico di rinunciare alle regole per costituzionalizzare le sue anomalie». Un processo contrario alla "felicità della democrazia" invocata dal titolo del dialogo: condizione da ricercare «in un sistema di regole e libertà», molto più che «nella dismisura tipica dell´abuso e del privilegio».
La Stampa 16.5.11
Losanna
Picasso prima di Picasso
di Marco Vallora
LOSANNA E’ il 1900. Pablo Ruiz, che ha tolto dalla sua firma il patronimico d’un padre pittore soffocante, preferisce fuggire a Parigi, poverissimo, col solo cognome rubato alla madre d’origine ligure, e che porterà alla celebrità: Picasso. Ma allora è ancora un giovane infelice e perplesso, stralunato come alcune delle sue figure bislunghe e miserabiliste (su di lui la scoperta epocale del manierismo deforme di El Greco ha influito moltissimo, ma pure la visione di certi derelitti, emaciati e vinaccia, di Toulouse-Lautrec, corrosi dall’assenzio).
A Barcellona, ove ha esposto al celebre caffè intellettuale dei Quatre Gats, un nome che è già un programma, grazie al suo prodigioso virtuosismo di disegnatore sapiente, ha già una piccola fama, legata soprattutto ad alcuni pittori mondani e dandy, che daranno vita alla corrente del Modernismo Spagnolo. E sono appunto quelli esposti in questa divertente ed illuminante mostra, curata da William Hauptam, dedicata non soltanto a «Picasso prima di Picasso», ma a tutti quegli artisti, come Sorolla, Pinazo, Casas, Zuloaga, Anglada, Rusinol, che lavorano di gran concerto e in gran parte adottano il giovane non ancora troppo ribelle, e poi lo aiutano, quando giunto misero a Parigi collaborano a farlo sopravvivere. Perché il mondano Zuloaga è già popolarissimo, e ritorna a Madrid trascinandosi dietro Rodin. Casas, Rusinol e Miquel Utrillo prendono studio accanto al Moulin de la Galette. Sorolla vince il Gran Premio all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. E Regoyos (l’unico «impressionista» spagnolo) illustra la Espana negra del simbolista belga Verhaeren. Picasso è dunque molto più vicino alla pittura post-accademica di quanto i suoi sviluppi non lascerebbero pensare. Solo la morte sucida dell’amico Casagemas importa nella sua pittura i germi di quella tavolozza livida, bluastra, dissanguata, che lo condurrà al decisivo «periodo bleu».
EL MODERNISMO. DA SOROLLA A PICASSO. 1880-1919 LOSANNA. FONDATION DE L’HERMITAGE. FINO AL 28 MAGGIO