l’Unità 15.5.11
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Il Paese ci incoraggia Il voto può accelerare la fine di Berlusconi»
Il segretario Pd: «Ovunque ho visto un partito in salute e combattivo Il premier cerca la rissa per non parlare dei problemi veri, ma questa volta il gioco non gli riuscirà. La fase iniziata col voto del 2008 è al tramonto»
di Simone Collini
Pier Luigi Bersani “tira il fiato” nella sua Piacenza dopo una campagna elettorale di cui il segretario del Pd si dice pienamente soddisfatto, per quel che riguarda la sua parte. «In queste settimane si è visto chi è mosso da valori in cui crede, chi ha parlato di lavoro, di redditi, dei temi che interessano agli italiani, e chi invece cerca la rissa per eccitare gli animi, per evitare di parlare dei problemi veri e trasformare gli elettori in tifoserie contrapposte». Squadra che vince non si cambia, è il detto, e finora Berlusconi ha ottenuto belle soddisfazioni con l'accoppiata vittimismo e contrapposizione.
«Finora. Ma ho l'impressione che questa volta il gioco non gli riuscirà. Girando per il Paese ho trovato un Pd in salute e molto combattivo. E sono convinto che la fase aperta nel 2008, gli anni tribolati che ci hanno visto sempre in difficoltà, sta cominciando a chiudersi. In questo confronto elettorale si è vista una marcia in più e sono fiducioso che avremo dei risultati incoraggianti».
E altri scoraggianti, li ha messi in conto? «Guardi, anche dove non avremo un risultato subito, abbiamo seminato per il futuro. Abbiamo in tanti luoghi candidati freschi, seri, credibili, nuove energie che dal giorno dopo la chiusura delle urne dovremo valorizzare. Sia nelle città in cui vinceremo che in quelle in cui non ci riusciremo». Prima di pensare all'esito delle urne, pensa che da questa campagna elettorale il Pd abbia acquisito credibilità come alternativa di governo? «A parte che la nostra credibilità come forza di governo, momentaneamente all'opposizione, ci è data dalle tante città in cui abbiamo ben amministrato e alla cui guida ora verremo riconfermati. Dopodiché, certamente in questa campagna elettorale si è capito che noi siamo un partito che ha nella partecipazione, nella mobilitazione nelle primarie un tratto distintivo, un partito che ha parole d'ordine univoche, a cominciare dal tema del lavoro, un partito con la passione per il sociale e che rivendica una politica onesta, sobria, un'amministrazione rigorosa, alternativa alla destra anche in termini di valori. Un partito che considera lo sviluppo solo nella chiave della qualità, della valorizzazione ambientale e della conoscenza”. E che però al momento non fa parte di una coalizione sufficientemente forte e credibile per essere maggioranza...
«Ma in queste elezioni, salvo eccezioni, in tutte le sfide ho trovato aggregazioni larghe e convinte di centrosinistra, alleate anche a molte liste civiche rispetto alle quali noi del Pd siamo stati generosi, mettendo da parte il nostro interesse di partito rispetto a candidature espressione di civismo. Per questo mi aspetto, nel confronto rispetto alla fase che si è aperta nel 2008, un’inversione di tendenza in tutta Italia».
Andiamo nello specifico: Milano, Torino, Bologna e Napoli. Il vostro obiettivo? «Intanto, ricordiamoci che ci sonno molte altre sfide rilevanti di cui bisogna tener conto e che non dovremo sottovalutare. Per quel che riguarda queste quattro città, ci aspettiamo un risultato vincente a Torino e Bologna, auspicabilmente al primo turno, e arrivare al secondo turno per poi giocarcela a Milano e Napoli». «Auspicabilmente al primo turno», a Torino e Bologna?
«C'è un problema di elevata frammentazione delle liste di cui bisogna tener conto». In entrambe le città potrebbero prendere un bel po' di consensi i candidati grillini.
«Spero che le persone che provano una certa disaffezione nei confronti della politica, che ancora stanno pensando se non andare alle urne o magari andare a votare per Beppe Grillo, ci ragionino bene. Non si può dire che siamo tutti uguali, destra e sinistra. Noi non abbiamo approvato condoni o licenziato insegnanti, noi non vogliamo il nucleare. Soprattutto a chi cavalca certi sentimenti voglio dire che non è consentito stare eternamente nell’infanzia, che se intendono fare politica devono assumersi delle responsabilità. Anche perché abbiamo già visto con le regionali in Piemonte cosa succede a dire sono tutti uguali. Succede che vincono la Lega e Berlusconi. Vogliono questo? Bene. Però lo dicano chiaramente».
Non sono solo i grillini a dire sono tutti uguali. Anche Casini sostiene che hanno sbagliato sia Berlusconi e Letizia Moratti ad alzare in quel modo il livello dello scontro, che voi del centrosinsitra, che a Milano avete candidato un “non moderato” come Pisapia. Cosa dice agli esponenti del Terzo polo, con cui dovrete pur tentare degli accorpamenti ai ballottaggi? «Che conoscono la nostra impostazione generale, e cioè trovare una convergenza tra progressisti e moderati, forze diverse che però si pongono il problema di ricostruire nel dopo Berlusconi. E, secondo, gli vorrei domandare chi per loro è il vero estremista, se Pisapia o Berlusconi e Moratti, che si sono dimostrati pronti a scatenare una guerra mettendo in giro robaccia, pur di non perdere una poltrona».
Teme ripercussioni all'interno del suo partito, se le urne decreteranno un risultato per voi negativo? Veltroni ha già chiesto un confronto nel Pd, dopo queste amministrative.
«Noi dobbiamo essere un partito che discute sempre con grande libertà, ma tira dritto anche. Siamo un partito troppo giovane per aver risolto tutti i problemi ma già vecchio per essere un esperimento politico fallito. Tocca a noi dare una prospettiva al paese. Discutiamo allora, ma ricordandoci la responsabilità che abbiamo di fronte agli italiani».
E ripercussioni sulla sua possibile leadership del centrosinitra, a seconda dell'esito del voto, dice ci saranno? «Il punto di riflessione deve essere la responsabilità e il ruolo del Pd che in quanto tale, compreso il suo segretario, deve esserci, stare in campo, ma come costruttore di un progetto. Il resto viene dopo».
l’Unità 15.5.11
Dispotismi. Berlusconi e il sonno della politica
Michele Ciliberto ha scritto un libro prezioso per interpretare la politica degli ultimi vent’anni
di Luca Landò
Berlusconi siamo noi. Certo, spiegarlo agli operai in cassa integrazione o ai loro figli senza lavoro, sarà difficile. Ma se vogliamo capire perché l’Italia ruoti da sedici anni intorno a un imprenditore “sceso” in politica per difendere i propri interessi un signore anziché quelli del Paese, sarà bene guardarsi allo specchio. E porsi qualche domanda. Per quale motivo gli italiani hanno firmato un assegno in bianco a un signore indagato per corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e adesso imputato con l’accusa di concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile. Tutto merito del grande comunicatore, come viene definito con involontario umorismo il padrone delle tv private e controllore di quelle pubbliche? O non c’è piuttosto un concorso di colpa, una manina inconscia con la quale tutti noi abbiamo aiutato la resistibile ascesa del Cavaliere? Insomma, genio lui che ci ha fatti fessi, o fessi noi che lo abbiamo lasciato fare?
È la domanda che ha spinto Michele Ciliberto, noto studioso del Rinascimento ad occuparsi di una questione che di rinascimentale ha ben poco. Il fatto è che Ciliberto, oltre che docente di storia della Filosofia alla Normale di Pisa, è uno di quei (pochi) intellettuali impegnati sopravvissuti alla grande estinzione, un dinosauro d’altri tempi, convinto che lo studio e la riflessione siano un cardine portante su cui far poggiare e ruotare l'intera azione politica.
Il risultato è un libro prezioso dal titolo volutamente contradditorio, La democrazia dispotica (Laterza, 202 pagg, 18 euro), che riprende un concetto espresso due secoli fa da Alexis de Tocqueville nella molto citata (ma poco studiata) Democrazia in America. Da buon normalista, Ciliberto parte dai classici dell’ottocento e del novecento: Marx, Weber, Toqueville appunto, ma anche Gramsci e Thomas Mann. Non per guardare l’oggi con gli occhiali di ieri (esercizio pericoloso quanto inutile) ma per capire i dubbi che spinsero quei geniali signori a interrogarsi sulle nuove forme di convivenza democratica.
Perché in democrazia, prima o poi, arriva inesorabile una scelta: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi? Certo, la schiavitù democratica è morbida e gentile, è psicologica anziché fisica. E soprattutto è volontaria. A finire in catene non è il corpo ma il libero arbitrio. Lo spiega bene Tocqueville in uno dei passaggi più urticanti, perché ci spinge sull’orlo del burrone, a due passi dal tabù: «Vedo una folla di uomini che non fanno che ruotare su loro stessi... Al di sopra si erge un potere immenso e tutelare, che si occupa da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. È così che giorno per giorno rende sempre più raro l’uso del libero arbitrio». Non basta dunque parlare genericamente di democrazia. Sempre meglio specificarne il tipo, la marca. E quella che stiamo vivendo è una democrazia asimmetrica, a immagine e somiglianza, non del popolo che vota e sceglie, ma del capo scelto e votato. Un uomo solo al comando, ma col voto entusiasta degli elettori. E qui si cela il paradosso di questa democrazia di forma ma non di fatto: il sostegno della popolazione a un leader che non fa gli interessi della nazione ma quelli più personali e fin troppo privati. Un masochismo democratico che, secondo Ciliberto, sarebbe però sbagliato ricondurre a nuove forme di fascismo o di rinnovato peronismo: quella che si realizza con Berlusconi, infatti, è una malattia della democrazia moderna e, come tale, potrebbe ripresentarsi in altre forme e in altri Paesi. Spiace dirlo, ma l’Italia è in questo caso un laboratorio di alto valore internazionale. Perché comprendere quel che avviene da noi diventa di fondamentale importanza per qualunque sistema democratico.
Le cause sono tante. Ma il brodo di coltura, come direbbero i patologi, è legato al crollo dei grandi partiti di massa del Novecento, quelli per i quali, a destra come a sinistra, l’individuo era una goccia nel mare della storia, un organismo il cui senso esistenziale si completava solo contribuendo allo sviluppo di un progetto collettivo e inarrestabile. I movimenti del ’68 prima, il crollo dei muri dopo, hanno eroso questa visione della politica e del mondo, lasciando il campo a una interpretazione più individuale e libera della vita. È il personale che diventa politico, certo, ma anche un nuovo individualismo che cresce a dismisura. Una trasformazione antropologica, come la chiama Ciliberto, che gli eredi dei grandi partiti di massa non sono stati in grado di anticipare e tanto meno affrontare. Non lo ha fatto la Democrazia Cristiana, travolta dal crollo di un sistema politico ormai logoro e contraddittorio. Ma non lo ha fatto nemmeno la sinistra, il Pci e le sue evoluzioni, legata a una visione di politica e di impegno che guardava più al Novecento che al nuovo millennio.
È in questo deserto della politica che Berlusconi si presenta come il salvatore, l’unico capace di attraversare il Mar Rosso e portare il popolo abbandonato dai vecchi partiti verso nuove sponde e un nuovo futuro. È lui il cantore di questo incontenibile individualismo e non è un caso che a intonare la musica non sia un politico di professione. In questo senso, ed è qui uno dei punti più interessanti del libro, Berlusconi non rappresenta l’antipolitica, ma la post-politica. Perché il Cavaliere la politica non la uccide, la usa.
Soffiando sul fuoco dell’individualismo e del “tutti padroni a casa propria”, Berlusconi smonta con il consenso popolare le istituzioni su cui poggia quel bene collettivo chiamato Stato. Attacca il Quirinale, ignora il Parlamento, sbeffeggia i simboli dell’antifascismo, minaccia i giudici e adotta un lin-
guaggio irrituale condito da battute e privo di ogni bon ton istituzionale. Una demolizione del passato presentata agli elettori-telespettatori come il nuovo che avanza.
È con questo show insistente e permanente che Berlusconi costruisce il suo carisma di leader, di politico innovativo solo perché diverso. Non importano più i contenuti ma le parole, non più i risultati (peraltro negativi, anzi disastrosi) ma le promesse.
È da qui, da questo leader carismatico che nasce la nuova democrazia dispotica, una sorta di dittatura morbida in cui il popolo sovrano rinuncia alle proprie richieste, abdica al libero arbitrio e anziché difendere i propri interessi, sceglie con entusiasmo quelli del proprio capo.
Esiste un modo per uscire da questo infernale tunnel? Una terapia per ridare vigore e ossigeno a una democrazia sempre più pallida? La risposta di Ciliberto è una sola: il risveglio dell’impegno e della passione politica. Il motivo è evidente: se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della politica genera Berlusconi. Solo una politica rinnovata, anzi risvegliata, sarà dunque capace di contrastare simili fenomeni e tali derive. Ma il punto è proprio questo: chi è in grado, oggi, di risvegliare la Bella Addormentata? Non certo un Principe Azzurro, se così fosse ricadremmo nella patologia appena descritta, con un nuovo leader carismatico, fosse anche di sinistra, al posto di Berlusconi. No, il risveglio della politica è il risveglio dei cittadini. Ed è su questo che un partito deve lavorare. Non tanto o non solo per battere Berlusconi. Ma per curare la democrazia.
Il punto, avverte, Ciliberto, è nel guardare in faccia il problema senza cercare scorciatoie. Le primarie, tanto per esser chiari, non saranno mai la soluzione se alle loro spalle non cresce prima un partito con la voglia e la forza di tornare ad ascoltare e discutere, di essere centrale (nei palazzi) ma anche capillare nelle città, nei quartieri, nelle fabbriche. Perché l’obiettivo non è cavalcare la piazza, ma trasformare la piazza in politica, l’agora in polis. Ridare ai cittadini il senso che per cambiare le cose non bastano le promesse di uno: ci vuole l’impegno di tutti.
PS
C’è un aspetto che Ciliberto non tocca e che i fatti del nord Africa impongono invece con irruenza. È il ruolo di Internet come strumento di controinformazione ma anche luogo di discussione politica. Una sorta di gigantesca sezione virtuale in cui riprendere a discutere e partecipare come si faceva un tempo nelle fumose sezioni di partito. In fondo non è un caso se l’unico Paese in Europa a non essersi ancora dotato di un programma di sviluppo digitale sia proprio il nostro. Nella società addormentata dalla tv e da Berlusconi, il web potrebbe diventare un pericoloso strumento. Chissà che il risveglio della politica non passi proprio dalla Rete. Dall’altra parte del Mediterraneo è già accaduto.
l’Unità 15.5.11
Sul voto l’incognita Grillo. E se fosse l’arma in più per la destra?
di Jolanda Bufalini
A Bologna, Rimini e Milano i voti per Beppe Grillo potrebbero essere deflagranti. Il Pd: «Fanno il gioco del giaguaro». Franco Grillini: «A Bologna l’hanno buttata in rissa perché questa volta non hanno sfondato».
A Bologna è finita in rissa, prima con quel «At salut buson» di Beppe Grillo alla folla in piazza Maggiore. Trattasi, sostengono Giovanni Favia, grillino doc della Grassa, e Massimo Bugani, il candidato sindaco delle “Cinque stelle”, di un saluto tipico «di Beppe che ha l’abitudine di chiudere in dialetto». «È come dire fortunello», un augurio, insomma. Si dà però il caso che l’oratore successivo, in piazza, era Nichi Vendola. E Franco Grillini, che ne approfitta per diffidare: «Non chiamatevi più grillini, chiamatevi grilletti», fa l’esempio: «Se in piazza, dopo di lui, c’era un oratore di colore e Grillo avesse gridato “At salut neger”, cosa si sarebbe pensato? Devono finirla con la storia che si tratta di un comico, chi fa comizi e presenta liste elettorali è un leader politico, un segretario di partito».
L’esegesi prosegue sul blog fra i teorici della lettura analogica, ovvero «fortunello», e quella letterale: «Grillo ha pestato una merda, lo riconosca». Tanto più che il saluto segue l’altra battuta, sempre indirizzata a Vendola: «Un buco senza ciambella». «Ma che avete capito?», protesta Favia, «S’intende che Vendola non è quello che dice di essere, con gli inceneritori, con i debiti della sanità in Puglia». Sarà esprit mal tournée, però l’ambiguità è forte.
Poi c’è l’altra, tirata fuori sempre da Giovanni Favia: «Test antidroga per i candidati sindaco, anche sugli psicofarmaci». Ora lui protesta: «È una questione di trasparenza, il nostro candidato ha fatto il test gli altri no, ma a noi non piace Giovanardi e siamo a favore della depenalizzazione delle droghe leggere». A sinistra però la considerano una carognata che fa leva sui gossip. E Franco Grillini, che è capolista per l’Idv: «Una cosa proprio di destra, d’altra parte Grillo non ha mai detto una parola sui diritti, dalle coppie di fatto alla fecondazione assistita». «È una campagna moralista, di destra come è di destra dire che tutti sono uguali, che i politici rubano tutti, che non fanno nulla. Io lavoro 12 ore al giorno e dico basta». «La vuoi la prova? insiste il candidato Idv Ecco qua, sul Corriere della sera, Grillo si è tradito, ha calato la maschera, dice che lui Vendola e la sinistra li demolisce con i fatti, il suo obiettivo è demolire la sinistra».
Insomma, alle ultime battute, si è alzata molto la temperatura della competizione a Bologna. L’incognita è: i grillini ripeteranno l’exploit delle comunali 2009 (3,3%), delle regionali 2010 (7%)? Perché se sì, hanno riempito le piazze a Bologna, Rimini, Ravenna allora potrebbero diventare ago della bilancia, in caso di ballottaggio fra Virginio Merola e il candidato della Lega Manes Bernardini. Richiesto di una previsione Favia offre una forchetta fra il 5 e il 15 per cento. Molto ampia. «Non ci credo», dice Franco Grillini che mette in palio per scommessa una pizza, «non si andrà al ballottaggio, hanno cercato la rissa perché si sono accorti che questa volta non sfondano». Ed elenca: il vero dato politico è che il centro sinistra è unito e il centro destra è «sbrindlé» (sbrindellato, in bolognese). Il gioco delle astensioni questa volta dovrebbe colpire di più il centro destra. Certo, lo sa anche lui che «c’è una classe politica vecchia di 20 anni e che questo è un problema perché il malcontento favorisce sempre il qualunquismo», però «è l’Italia che è bloccata da Berlusconi».
Altro scenario, Milano, il derby più difficile, la posta in gioco più alta. Anche qui Grillo vuole demolire la sinistra? L’accusa in questo caso la lancia Nico Stumpo, responsabile Pd per l’organizzazione, contro il giovane Mattia Calise: «Con la Moratti ha fatto un dibattito al miele, riservando gli insulti alla sinistra. Strano per un movimento che definisce Berlusconi lo psiconano».
E Torino, dove una manciata di voti fu fatale per Mercedes Bresso?. «Tranquilli», è la replica dallo staff di Piero Fassino, «queste non sono le Regionali, il problema per Piero non è a sinistra e anche Bresso a Torino prese il 62%». Semmai, i pericoli possono venire dalla dispersione del voto, con 37 liste, 13 candidati sindaco, centinaia di candidati a consiglieri comunali e municipali.
l’Unità 15.5.11
Margherita. Un’atea grazie a Dio
In un Paese come il nostro, ricco di laici genuflessi e di credenti integralisti (chissà quanto per convinzione o per interesse...), il personaggio di Margherita Hack è assurto nel corso del tempo a icona dell’ateismo duro e puro. Spesso è invitata nei salotti televisivi a fare da contraltare al monsignore di turno, quando si parla di scienza, religione, miracoli o presunti tali. Su questi temi l’astrofisica dell’Università di Trieste, classe 1922, ora pubblica un libro presso Dalai Editore: Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea (pagine 208, euro 17,50).
L’autrice parla degli argomenti a cui ha dedicato la propria vita di studiosa (le stelle, il Big Bang, la nascita dell’universo), per giungere infine ad affrontare l’enigma più grande, quello di Dio. La Hack non mette in discussione la buona fede dei credenti, ma prova a offrire un contributo razionale alla discussione. Dicendosi convinta che scienza e fede possono benissimo convivere e che possa anche prodursi un sereno confronto. A patto che le due prospettive siano «laiche»: cioè che si rispettino le credenze degli altri, senza volere imporre le proprie. Cosa che invece oggi in Italia accade ancora molto spesso, quando la Chiesa si fa soggetto politico. R.CAR.
l’Unità 15.5.11
La campagna: l’astrofisica Margherita Hack
senatrice a vita
«Margherita Hack senatrice a vita»: lo hanno chiesto a gran voce, e più volte, al Salone e ieri Micromega ha lanciato una campagna sul web. La richiesta è stata avanzata l’altro ieri nel corso della presentazione di due libri dell’astrofisica: Notte di Stelle (Sperling & Kupfer) e Il mio infinito (Baldini e Castoldi) è partita la richiesta che la Hack, 89 anni, fosse nominata senatrice a vita tra applausi lunghissimi del pubblico. Ieri, il direttore di Micromega, Paolo Flores D’Arcais, ha annunciato che lancerà la campagna «Hack senatore a vita». «È un onore, ma non credo di meritarlo; non ho scoperto nulla», ha risposto “a distanza” Margherita Hack. Se fosse accolta la proposta, Hack, che ha quasi 90 anni, si impegnerebbe a lavorare a favore del mondo della ricerca, dell’università, della scuola e per contrastare la disoccupazione giovanile che è oggi al 30%,, ha aggiunto la scienziata.
l’Unità 15.5.11
Sacerdote pedofilo arrestato dai Nas
di R.C.
Il parroco della chiesa di Santo Spirito di Sestri Ponente è stato arrestato dai carabinieri del Nas di Milano per violenza sessuale su minore e cessione di sostanze stupefacenti. Il religioso si chiama don Riccardo Seppia ed è nato nello stesso luogo dove gestisce la parrocchia nel 1960. La curia di Genova ha disposto «la sospensione da ogni ministero pastorale e da ogni atto sacramentale, nonché la revoca immediata della facoltà di ascoltare le confessioni sacramentali». E non solo. Il Presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, ieri pomeriggio ha celebrato messa nella chiesa di don Seppia. Durante l’omelia Bagnasco ha parlato di «Sgomento, vergogna e totale disapprovazione se le accuse dovessero dimostrarsi vere» e ha proseguito: «Non è soltanto questa comunità ad essere ferita ma tutta la chiesa di Genova. Questa santa messa è per voi e per le vostre famiglie e per chi è stato eventualmente colpito, affinché la ferita dello scandalo sia sanata». Una predica lunga e accorata quella del porporato. Che rivolgendesi ai fedeli ha aggiunto: «Mentre rinnoviamo la piena fiducia nella Giustizia e nel suo compito di appurare la verità certa delle cose, sono venuto, cari amici, a condividere lo sgomento e il dolore del cuore, insieme alla vergogna e alla totale disapprovazione se le gravi accuse risultassero confermate. Così
pure vengo per esprimere la completa vicinanza a quanti, eventualmente, fossero stati colpiti e offesi da comportamenti indegni, perseguibili e ingiustificabili per chiunque, ma tanto più per un sacerdote»
ABUSI E DROGA
Don Riccardo Seppia, secondo quando trapela dagli inquirenti, avrebbe avuto rapporti sessuali con un ragazzino genovese di 16 anni. Secondo gli investigatori, gli abusi sarebbero stati ripetuti e si sarebbero protratti nel tempo. Non si esclude che possano essere stati coinvolti anche altri ragazzi della zona. Nell’indagare e intercettare alcune
Scenario terribile
Non si esclude che possano essere coinvolti altri minorenni
persone in una inchiesta riguardante un presunto traffico di cocaina nel capoluogo ligure che avrebbe coinvolto anche minorenni, i carabinieri si sarebbero «imbattuti» nell’adolescente che frequentava don Riccardo. Da alcune telefonate, dunque, gli inquirenti avrebbero accertato la relazione tra il ragazzino e il sacerdote. Sull’inchiesta al momento gli investigatori mantengono uno stretto riserbo, ma, da quanto si è appreso, il reato sarebbe stato compiuto a Genova, benché ad eseguire l’arresto sarebbero stati i carabinieri del Nas di Milano. Questi ultimi hanno agito insieme con i colleghi del Comando provinciale di Genova. Don Riccardo prima di diventare parroco a Sestri Ponente, nel 1996, è stato nella chiesa di San Giovanni Battista, a Recco (Genova) e poi in quella di San Pietro di Quinto, sempre nel Levante genovese.
Corriere della Sera 15.5.11
Perché è difficile discutere di laicità
di Tullio Gregory
Il 31 maggio prossimo, a Parigi, l’Assemblea Nazionale sarà chiamata a discutere una «risoluzione sulla laicità» preparata dalla maggioranza (Ump): si parlerà, nell’occasione, di libertà di coscienza, di religione, di culto, dei rapporti fra pubblico e privato nelle manifestazioni di carattere religioso, di «obbligo della neutralità nel sistema dei servizi pubblici e delle strutture che hanno per missione l’interesse generale» .
Repubblica 15.5.11
il valore della laicità
di Michela Marzano
In vigore da poco più di un mese, la legge francese sul divieto del velo integrale negli spazi pubblici rilancia il tema della laicità. Voluta dal segretario dell´Ump Jean-François Coppé, questa legge è sintomatica del "ripiego identitario" che caratterizza oggi una buona parte dell´Europa e mostra bene come strumentalizzare la laicità serva spesso solo ad alimentare gli integralismi. Come a Tolosa, nel sud-ovest della Francia, quando un´insegnante di una scuola privata musulmana è stata interpellata da una pattuglia della polizia che passava per strada. Un testimone che voleva filmare la scena è stato arrestato. E qualche ora più tardi, davanti al commissariato centrale, si è assistito all´organizzazione di una preghiera collettiva…
La laicità resta un valore cardine della République. Dal 1905, anno di adozione della famosa legge difesa da Aristide Briand, lo Stato non riconosce e non sovvenziona nessun culto: ognuno è libero di credere o meno e, in materia religiosa, il solo scopo della Repubblica è di far convivere atei e credenti senza privilegi o discriminazioni. Almeno in principio, ognuno dovrebbe essere libero di praticare la propria religione e di rispettarne le regole. Perché la fede appartiene alla sfera privata e lo Stato non deve intervenire né per favorire né per discriminare i diversi culti.
Come spiegava già Locke, il potere politico non può permettersi di enunciare regole e norme in materia religiosa perché non è suo compito "governare le coscienze". I cittadini, però, devono a loro volta rispettare le regole comuni ed evitare qualunque forma di proselitismo religioso nelle strutture pubbliche (ospedali, tribunali, scuole, servizi). È all´interno di questa logica che, in Francia, si inserisce la famosa legge del 15 marzo 2004, che proibisce non solo di portare il velo a scuola, ma anche di indossare, nelle aule scolastiche, qualunque simbolo religioso visibile, come la kippa o la croce. Ma si può invocare la laicità per giustificare quest´ultima legge che vieta alle donne di portare per strada un velo integrale (burqa o niqab)?
L´argomento utilizzato dal legislatore non è stato esplicitamente quello della laicità. Nei dibattiti parlamentari, alcuni hanno insistito sulla dignità delle donne. Altri sulle questioni legate alla sicurezza: portare un velo integrale non permetterebbe di identificare colei che lo indossa e ci sarebbe dunque il rischio di utilizzare il velo per atti illegali. È tuttavia proprio nel nome della laicità che molti difendono la legge anima e corpo. In un clima sempre più teso, si insiste sul pericolo dell´Islam radicale, evocando la fine della cultura francese e demonizzando ogni forma di multiculturalismo. Mentre Marine Le Pen cresce nei sondaggi accusando il governo di lassismo e Nicolas Sarkozy dichiara che nella trasmissione dei valori nessun insegnante può sostituirsi a un prete o a un pastore.
Che cosa resta allora della laicità? Come rendere possibile la convivenza di valori differenti senza per questo rinunciare al patrimonio culturale del proprio paese o chiudere gli occhi sul fatto che alcune donne siano costrette a velarsi e certe adolescenti vengano maltrattate dai padri solo perché corteggiate a scuola, come accaduto recentemente in Italia?
In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "identità nazionale" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una "tolleranza passiva", come ha recentemente affermato il primo ministro britannico David Cameron, denunciando il fallimento del multiculturalismo all´anglosassone. Ogni paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Cultura, usi e costumi fanno parte delle nostre radici e ci permettono di sapere da dove veniamo e dove vogliamo andare. Indipendentemente dal paese in cui ci troviamo, la nostra lingua, le nostre credenze religiose e nostri valori contribuiscono a farci sapere chi siamo. Al tempo stesso, però, l´identità non è mai monolitica. Ogni persona evolve e si trasforma grazie anche a tutti coloro che incontra nel corso della propria vita. E un discorso analogo vale anche per l´identità di un popolo. La conoscenza di altre culture ci arricchisce e ci permette di rimettere in discussione le nostre certezza. Certo l´Altro, in quanto "altro", disturba e sconcerta. A causa della sua "differenza", ci obbliga ad interrogarci sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che molto spesso lo si rifiuta, utilizzando la nozione di identità per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogni qualvolta una cultura, una religione o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro. Ma erigere barriere o promulgare leggi che nel nome di una certa laicità interferiscono con le scelte religiose dei singoli individui non serve a pacificare una società.
Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Al contrario della tolleranza, che è la vera colonna vertebrale della laicità. Anche se la tolleranza non è mai, come ci insegna Voltaire, mera passività. Accettare la diversità religiosa e culturale non significa chiudere gli occhi di fronte a pratiche estremiste che ledano i diritti umani fondamentali su cui si basa la nostra società. Ma il caso del velo integrale per la strada non è certo una di queste pratiche. Il vero compito di uno Stato laico non dovrebbe d´altronde essere quello di organizzare la coesistenza delle diverse libertà?
il Riformista 15.5.11
Gli Italiani? Mater certa est la lingua del sì
di Luca Serianni
qui
http://www.scribd.com/doc/55460958
l’Unità 15.5.11
«La Libia di domani sarà uno Stato di diritto libero da clan e teocrati»
Secondo il ministro degli Interni del governo provvisorio di Bengasi il regime di Gheddafi è vicino al collasso. «Il Colonnello non controlla più saldamente nemmeno Tripoli e durera al massimo qualche settimana»
di Umberto De Giovannangeli
La Libia che sogno è uno Stato di diritto, dove sia garantita la libertà di espressione, un Paese in cui le elezioni non siano un rito scontato ma una vera prova di democrazia. La Libia che sogno è un Paese in cui si possa dare un senso concreto alla parola “libertà”». L’uomo dei sogni si chiama Ahmed al-Darrate, ex giudice, nominato nei giorni scorsi ministro dell’Interno del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico. «Sono certo – dice al-Darrate a l’Unità – che la fine della dittatura di Muammar Gheddafi sia solo questione di giorni, al massimo di poche settimane. Attorno a lui si sta creando il vuoto, la rivolta è anche a Tripoli». Da giudice al-Darrate non ha dubbi: «Muammar Gheddafi si è macchiato di crimini di guerra e contro l’umanità. Per questo deve essere giudicato da un tribunale internazionale. E la richiesta dei mandati di arresto da parte del procuratore della Corte penale internazionale, dell’Aja, Luis Moreno Ocampo, va in questa direzione».
Molto si discute sui tempi della fine della guerra, sulle richieste di armi offensive da parte degli insorti, su quanto sia stata indebolita dai raid Nato la forza militare agli ordini di Muammar Gheddafi. Ciò che resta un po’ nell’ombra è quale Libia il governo di Bengasi di cui Lei è entrato a far parte, intende realizzare. Cosa sarà la “nuova Libia”? «Iniziamo a definirla per ciò che non sarà. Non sarà un regime a conduzione familiare, come è stato quello di Gheddafi. Non sarà uno Stato teocratico, perché non si combatte contro una dittatura per poi veder nascere un regime della “Sharia” (la legge islamica, ndr). La Libia che sta già nascendo intende essere uno Stato plurale, con una Costituzione moderna, che tenga conto della storia del nostro Paese senza però restarne prigioniera. La nostra sfida è quella di realizzare uno Stato di diritto».
Una sfida alquanto ambiziosa, in un Paese in cui è ancora fortissimo il senso di appartenenza tribale, dove non esistono partiti radicati nel tessuto sociale, per non parlare della storica divisione tra Cirenaica e Tripolitania.
«Tutto ciò è vero, ma questo è il lascito del regime quarantennale di Muammar Gheddafi. Lui non è mai stato un Raìs, perché esserlo significava reggere uno Stato. Gheddafi è stato il dittatore, il padre-padrone di un Paese che non ha mai inteso trasformare in Stato, per ciò che significa “Stato”, non solo cioè una entità territoriale, ma istituzioni, partiti, sindacati, una carta costituzionale. La nuova Libia nascerà sulle ceneri di un “non Stato».
Da cosa iniziare?
«Da ciò da cui abbiamo già iniziato: la creazione di una commissione di esperti incaricata di definire i lineamenti di una Carta costituzionale; un percorso che dovrà portare alla realizzazione, attraverso libere elezioni, di un’Assemblea costituente, dalla quale dovrà discendere il primo Governo democratico della Libia».
Un percorso irto di ostacoli e che deve fare i conti con un Qaid (Guida) che non intende farsi da parte. «Gheddafi non ha più futuro. La sua uscita di scena è solo questione di giorni, al massimo di settimane. Attorno a lui si sta facendo il vuoto, la rivolta investe anche Tripoli. Per questo occorre aumentare la pressione militare e orientarla in modo tale che Gheddafi e i suoi si sentano nel mirino: lui intende un solo linguaggio: quello della forza». Il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha annunciato che, domani, chiederà ai giudici del tribunale di spiccare mandati di arresto contro «tre persone che sembrano avere la responsabilità maggiore» nei crimini contro l'umanità commessi in Libia.
«In cima alla lista c’è Muammar Gheddafi, lo scriva senza problemi, ne abbiamo la certezza, così come sappiamo che la documentazione che è alla base delle richieste di arresto, è molto circostanziata».
E da giudice, prima che da ministro, come valuta la decisione di Ocampo? «Da uomo di diritto, penso che il posto più appropriato per Gheddafi sia il banco degli imputati in un processo condotto con il rispetto dei diritti della difesa. I crimini di cui si è macchiato non sono di certo meno gravi di quelli che hanno portato alla sbarra Slobodan Milosevic o Saddam Hussein. Vedere Gheddafi sotto processo è un atto di giustizia, non di vendetta. So che c’è chi parla ancora di esilio per Gheddafi e i suoi fedelissimi, ma di fronte ai crimini di cui è accusato, esilio equivarrebbe a impunità. E questo non è accettabile». Gheddafi imputato all’Aja. Lo ritiene uno scenario possibile?
«E’ ciò che mi auguro, ma ho forti dubbi che ciò possa realizzarsi. Gheddafi farà di tutto per mantenere il potere, non esiterà a usare tutte le armi a sua disposizione: per gente come lui l’alternativa alla vittoria non è la fuga: è la morte».
il Riformista 15.5.11
Dignità è la parola chiave della primavera araba
di Alessandro Speciale
qui
http://www.scribd.com/doc/55460958
La Stampa 15.5.11
A Chongqing (31 milioni di abitanti) la vita è regolata dal libretto rosso
Nella Cina profonda dove Mao è ancora vivo
di Ilaria Maria Sala
Cantare canzoni rosse, leggere i classici, raccontare storie rivoluzionarie, inviare frasi edificanti»: con questo slogan Bo Xilai, segretario di partito della municipalità di Chongqing (31 milioni di abitanti) è diventato celebre in tutta la Cina. Per metterlo in pratica ha incoraggiato i cittadini a cantare le «canzoni rosse» dell’era maoista, rendendole semiobbligatorie nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle prigioni, e ha lanciato un concorso per scegliere le dieci migliori «canzoni rosse» fra trentasei di recente composizione.
Trasmesse ogni giorno a più riprese dalla televisione locale (dalla quale Bo ha fatto bandire pubblicità e programmi «frivoli») in show che traboccano kitsch comunista, un misto di marzialità e sentimenti zuccherosi, fierezza patriottica e cliché romantici. Una dice che Taiwan e la Cina sono inseparabili come «la carne e le ossa», un’altra assicura che «l’uomo giusto vuole fare il soldato», mentre un canto accorato ripete «voglio andare a Yan’an», dov’era la base rivoluzionaria di Mao Zedong durante la guerra civile contro Chiang Kaishek. Le altre sviolinano un amore intramontabile per la Cina, per Mao, per il Partito, per l’Esercito...
A Times Square, nel centro di Chongqing, fra un grattacielo ricoperto di neon colorati e uno shopping mall con tutti i marchi del lusso internazionale c’è una fontana musicale i cui getti d’acqua danzano ogni sera al suono delle canzoni rosse, diffuso da grandi altoparlanti. Canti «rossi» a parte, Chongqing, attraversata dallo Yangtze, lo scorso anno è cresciuta del 17,1%, testa di ponte della campagna «Andare a Ovest» che vuole portare la crescita economica delle regioni costiere anche verso l’interno.
Tornando allo slogan: per rispettare l’esortazione a «Leggere i classici» bisogna istruirsi in alcuni passaggi confuciani, mentre «raccontare storie rivoluzionarie» è rappresentato nei cartelloni propagandistici con una bambina con il fazzoletto rosso dei Giovani Pionieri al collo, che intrattiene un invisibile pubblico ammonendo col ditino. Per l’invio delle «frasi edificanti», poi, Bo ha stabilito che i 17 milioni di abbonati a telefoni mobili di Chongqing ricevano, ogni santo giorno, una frase tratta dal Libretto Rosso di Mao, o dal pensiero di altri leader storici della Cina comunista. Nel frattempo, i funzionari cittadini devono periodicamente fare i muratori o i contadini, per mantenersi in contatto con «le masse». Insomma, una «campagna rossa» all’antica, ma che usa tecnologia moderna. «Bo è un politico ambizioso - spiega Joseph Cheng, della City University di Hong Kong - vuole essere promosso al Comitato permanente del Politburo il prossimo ottobre, quando il Partito si riunirà per stabilire le nomine politiche, e ha deciso di attirare l’attenzione su di sé. E ci è riuscito, soddisfacendo i conservatori». Questi sono un misto di vecchi maoisti e una «Nuova sinistra» che vorrebbe tornare ad alcuni valori comunisti per eliminare le ineguaglianze create dalle riforme economiche, rafforzando il controllo centrale e il «lavoro ideologico».
Non che Bo sia partito dal rosso: dal 2008 si è distinto con una violenta campagna anti-crimine, detta «Combattere il nero». Ha portato dietro le sbarre centinaia di criminali, smantellando gang malavitose (ma alcuni nomi eccellenti restano intoccabili), e rendendosi popolare con i cittadini. Ora, in una serata qualunque, centinaia di persone camminano per le strade mangiando snack comprati alle bancarelle, portando fuori il cane, facendo giocare i bimbi o incontrandosi coi vicini: «Questa è una città sicura, adesso!», dice una signora che prepara spaghettini freddi in salsa piccante, con una discreta clientela che si pressa al suo tavolo. «Il crimine è molto diminuito», afferma, spolverando gli spaghettini di fettine di cipollotti e olio di sesamo. E di qui all’anno prossimo, 510.000 telecamere installate in giro per la città assicureranno che nulla vada inosservato.
Per «combattere il nero» Chongqing non è andata per il sottile, come dimostrato dal caso di Li Zhang: avvocato del gangster Gong Gangmo, è stato arrestato a sua volta, per giungere in tribunale con il volto pesto dopo aver confessato di aver falsificato l’evidenza. Durante il processo, Li ha urlato di essere stato torturato e che la confessione non era valida, ma, inascoltato, ha ricevuto una pena carceraria di 18 mesi (Gong sconta l’ergastolo). He Weifang, uno dei più noti giuristi cinesi, ha denunciato in una lettera pubblica le scorciatoie giudiziarie prese nel «combattere il nero», e l’alto numero di pene capitali a Chongqing, ma le autorità lo hanno ignorato.
Secondo direttive pubblicate il 13 maggio, ora i criminali imprigionati hanno l’opportunità di vedersi ridotte le pene prendendo parte ad «attività rosse», dai canti ai racconti rivoluzionari, chiudendo in un certo modo il cerchio fra il rosso e il nero.
Di giorno, per osservare l’entusiasmo rosso di Chongqing basta andare al parco Shapingba, dove da quattro anni un gruppo di pensionati canta canzoni dell’era maoista. L’amministrazione cittadina ha talmente apprezzato il loro impegno da riservare loro un piazzale ombreggiato.
Qui, la signora Chen canta che «Il presidente Mao è il più caro», mentre il signor Zhang suona al pianoforte elettrico. Poi è il turno di Lin, che si dedica a «Oriente Rosso». «Siamo pensionati - dice Chen -: abbiamo tutto il tempo a disposizione. E abbiamo scelto queste canzoni perché oggi sono tutti corrotti, non come all’epoca di Mao! Tutto costa troppo, sono tornati i proprietari terrieri, e il crimine regna!». Poi, chiacchierando, viene fuori che sia la signora Chen che gli altri pensionati al parco Shapingba sono ex Guardie rosse. «Qui la Rivoluzione culturale è stata molto violenta, le fazioni si sono massacrate», ricorda Chen con nostalgia, indicando poi dietro al laghetto il Cimitero delle Guardie rosse, l’unico della Cina, da poco dichiaratomonumento nazionale (per quanto, visto che il Partito continua a non voler un dibattito su quegli anni, il cimitero non è visitabile).
«La campagna è dovunque - sorride Xu Lin, un’agente immobiliare -: ma per essere onesta, non ha granché a che vedere con la mia vita. A parte che ora il sindaco ha annunciato di voler costruire 2 milioni di case popolari, proprio nei quartieri più ricchi, e insomma...».
Ma il fervore «rosso» di Bo Xilai sta estendendosi a tutto il Paese, che, per celebrare il 90˚ anniversario della fondazione del Partito comunista il 1˚ luglio prossimo, sta adottando diverse delle idee di Bo. La «campagna rossa» non ha finito di sorprendere.
La Stampa 15.5.11
Scalfari: il tempo non spegne l’Eros
Il nuovo libro del giornalista: un’analisi della vecchiaia che è anche e soprattutto un’educazione sentimentale
di Elena Loewenthal
Eugenio Scalfari ha compiuto 87 anni lo scorso 6 aprile. Il suo ultimo libro Scuote l’anima mia Eros è appena uscito da Einaudi
NELLA CAVERNA OSCURA «Sono sceso dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo Lo affido a voi lettori»
L’ETÀ MATURA «Non significa abitare dentro ricordi sempre più vaghi, ma “sapere” nel senso più ampio»
La Bibbia è avara di sentimenti. Tocca cercarli fra le righe, snidarli dalla scarna prosa. Di Giobbe, ad esempio, ci dice che dopo le sue proverbiali traversie, giunse a una vecchiaia «sazia di anni». Ma che cosa nasconde, un tale attestato di abbondanza e, forse, di pacata serenità? Il testo sacro non lo dice, suggerisce appena. Affida tutto o quasi alla discrezione sentimentale del suo lettore. Qual è il significato di questo appagamento di tempo che l’età e non altro procura?
Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, pp. 123, 17), l’ultimo libro di Eugenio Scalfari, è una suggestiva e toccante analisi di tale condizione. Racconta, a se stesso e al suo lettore, le coordinate di un’età che mai come in questi tempi ci sembra sconosciuta e indecifrabile. Che, in poche parole, ci fa paura come non ha mai fatto in passato. Eppure, può essere qualcosa di molto diverso dallo spettro di cui oggi spesso si stenta anche solo a parlare, come fosse un tabù e non un traguardo di vita: «La vecchiaia, fin quando la si può vivere in sanità di corpo e di mente, è una bella stagione: gli affetti sono riposanti, il miele che distillano si può gustare con lentezza e assapora l’anima pacificandola col futuro che ancora ci avanza».
È un libro estremamente personale, molto più dei precedenti, ha detto Eugenio Scalfari ieri in una Sala Gialla del Lingotto gremita più che mai, e di tutte le età. Folta anche di famiglia e amici - tra cui Piero Fassino -, ha aggiunto con uno sguardo rassicurante. «Sono sceso in quella caverna oscura dove si annidano gli istinti, cioè il sé più profondo di ciascuno di noi: è la documentazione più autentica di cui io disponga, e che affido a voi lettori».
Quella biblica sazietà d’anni che viene a un certo punto, dunque, non significa affatto averne abbastanza, confessare di aver vissuto e grazie basta così. Non è saturazione di tempo ma, al contrario, una grazia di consapevolezza. Non è noia di vivere, anzi. E non è nemmeno, come spiega in un modo trascinante Eugenio Scalfari, un assopirsi delle emozioni, un distacco da tutto ciò che ci fa sentire vivi e animati nel senso più profondo del termine. Perché questo libro è certo sulla vecchiaia, ma è anche e soprattutto un’educazione sentimentale da accogliere quasi come un viatico.
Il tempo, infatti, aiuta a districare l’indecifrabile nesso che c’è tra mente e psiche, tra istinto e ragione, tra sentimenti e logica: «gli istinti, quando arrivano al livello della coscienza, diventano sentimenti e come tali sono percepiti dalla nostra mente. Non avviene sempre ma spesso... implica l’intervento della volontà, di un comando che trasferisca il sentimento in un comportamento consapevole del quale il soggetto si assume la responsabilità». Maturità e vecchiaia non significano, come si tende a pensare - e temere -, spegnere le passioni e abitare dentro ricordi sempre più vaghi, in un incerto territorio di confine dove persino la nostalgia ha toni sfumati, quasi indolore. Significa «sapere» nella più ampia accezione che il verbo ha: di consapevolezza e percezione.
Questa coscienza guida quindi Scalfari in una coerente disamina dei sentimenti, dove al centro c’è lui, l’Eros: amore per sé (l’egoismo ha un che di etico, è necessario non solo per sopravvivere, ma anche per entrare in relazione con il prossimo), per l’altro e per gli altri. Siamo tutti l’esito della nostra «curvatura erotica», che è la radiazione di fondo nell’universo di ciascuno, il tracciato della nostra esistenza.
Mi piace apprendere e insegnare, ha detto ancora al pubblico del Salone del Libro, credo che l’arma di Atena non fosse altro che l’intelligenza, di cui Zeus in fondo difetta. Solo quest’arma consente di rinunciare serenamente «alla verità definitiva e al senso ultimo delle cose», e questo ci conforta, conferisce alla pagine una pregnanza che non ha nulla di imperativo ma è piuttosto generosa partecipazione della propria esperienza. Lo seguiamo così in un cammino articolato: il libro non è «soltanto» un racconto di sé. C’è una continua osmosi tra il vissuto personale e lo sguardo sul mondo: «potere e tristezza sono i due elementi dominanti dell’epoca che stiamo vivendo: il primo è un istinto, una sopravvivenza espansiva e aggressiva; il secondo, la stanchezza per lo sforzo appena compiuto, il senso di vuoto che segue il piacere della conquista, un desiderio improvviso di dimenticanza».
Tutto questo e altro trova ispirazione nella storia di un’amicizia nata nell’adolescenza e interrotta, ma forse no, da quello scandalo che è sempre la morte. Questo viaggio esistenziale è cominciato sui banchi di scuola, assieme a Italo Calvino e alla loro comune adolescenza: a lui è dedicato il libro. E il lettore sente, nella filigrana di queste pagine e non solo dove l’autore ce ne parla esplicitamente, il privilegio di una condivisione preziosa.
Repubblica 15.5.11
Il potere e i sentimenti Il viaggio di Scalfari tra passione e ragione
Un messaggio ai giovani: "Usate bene la vostra vita. Non siate avari e non dilapidatela"
di Simonetta Fiori
Torino – «È il mio libro più personale», dice Eugenio Scalfari presentando a Torino Scuote l´anima mia Eros (da un verso di Saffo). «Una discesa nella caverna oscura degli istinti nella quale mi hanno guido molte letture ma anche la mia esperienza personale». Il consuntivo d´una vita, una sorta di disvelamento del proprio vissuto filtrato attraverso la letteratura e la musica, la filosofia e la mitologia che è "sguardo sul mondo".
Da Shakespeare a García Lorca, da Beethoven a Chopin, da Montaigne a Nietzsche, il viaggio sentimentale di Scalfari conosce varie soste. «Un viaggio di conoscenza», dice Walter Barberis nella gremita Sala Gialla che ospita l´incontro. «Un viaggio che dalla selva oscura conduce a rivedere le stelle», gli fa eco Scalfari richiamandosi a Dante. E in questa meditazione sul rapporto tra passione e ragione, istinto e raziocinio, un ruolo centrale riveste Eros, pulsione di vita e fonte inesausta di tutti i desideri, "molto presente nella mia vita in vari modi". Lo scrive anche nelle ultime pagine del libro: «Sono stato una persona nutrita di affetti, quelli che in abbondanza ho ricevuto e quelli che ho dato con tutte le mie capacità che avevo di dare, poche o molte che fossero». Ora al Salone ringrazia la sua grande famiglia, gli amici – in prima fila c´è anche Piero Fassino – e i suoi affetti privati, la moglie Serena e la figlia Enrica.
Perché un altro libro, "scritto dal bordo del secolo"? Scalfari colloca il principio di questo inedito e "arrischiato" viaggio nella "splendida e tormentata adolescenza", la stagione in cui incontra Italo Calvino. Ed è dalle sue Lezioni americane che il libro trae ispirazione. «Io, a differenza di Italo, sono stato un mercuriale che sognava di essere un saturnino. Ho fatto molti mestieri, ancor prima di fare il giornalista. E in realtà non ho mai fatto il giornalista perché ho cominciato a scrivere sui giornali che ho fondato. Ma per fare tutte queste cose occorreva un temperamento mercuriale. Sono stato un mediatore di scambi, di commerci, di conflitti. Mi piace apprendere e insegnare. Tuttavia negli ultimi tempi mi sono accorto che sempre più di frequente mi piace stare da solo, luci basse e in sottofondo musica blues». Un ripiegamento malinconico che però non non è né tristezza né pensiero di morte.
La tristezza si coniuga spesso con il potere, «il prezzo pagato da chi lo esercita». Qui il discorso porta inevitabilmente all´attualità. «Il potere è amore per sé, ed entro certi limiti è fisiologico», dice Scalfari. «Al di là di certi limiti sconfina nella patologia, nel narcisismo, nella brama sconfinata che confligge inevitabilmente con gli altri e finisce per schiacciarli». Il pubblico capisce ed applaude. «Non è un caso che qualcuno si richiami al partito dell´amore: vorrebbe che tutti si innamorassero della sua persona. E cerca di raggiungere l´obiettivo con tutti gli strumenti possibili, dalla corruzione alla cooptazione».
Barberis riconduce l´attenzione al "viaggio" compiuto da Scalfari, di cui Scuote l´anima mia Eros «è una tappa, non l´ultima». Ogni viaggio mette alla prova il viaggiatore, dice l´autore. Ma il senso ultimo può essere colto nelle righe che l´editore Einaudi valorizza nella quarta di copertina: «Vivetela bene la vostra piccola vita perché è la sola e immensa ricchezza di cui disponete. Non dilapidatela. Non difendetela con avarizia, non gettatela via oltre l´ostacolo. Vivetela con intensa passione, speranza, allegria».
Repubblica 15.5.11
La carriera da record del figlio del rettore
Frati jr ordinario a 36 anni alla Sapienza di Roma nonostante le bocciature del Tar
di Mauro Favale
Su Report in onda stasera su RaiTre la storia della famiglia più potente dell´ateneo
Poche settimane fa l´ultima promozione: direttore di unità al Policlinico
ROMA - La carriera è folgorante, un´eccezione nell´Italia dei baroni: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, ordinario a 36. E pazienza se il cognome pesa: come ripete sempre suo padre, Luigi Frati, magnifico rettore della Sapienza di Roma, «la bravura non ha nome né cognome». E poi, il secondogenito di Luigi, Giacomo Frati, di traguardi continua a conquistarne e l´ultimo gradino l´ha superato il 19 aprile. Quel giorno è diventato direttore dell´unità programmatica del Policlinico Umberto I. E probabilmente è solo una coincidenza il fatto che appena 24 ore prima, la Sapienza era stata sconfitta nell´appello presentato dopo una sentenza del Tar che dà ragione ad Alessandro Moretti, ricercatore di geoeconomia dello stesso ateneo. Un ricorso contro la decisione, votata in autunno dal senato accademico, di assumere 25 ricercatori e professori (tra cui proprio Giacomo Frati), scavalcando chi, come Moretti, aveva già in tasca e da 5 anni, un´idoneità per associato.
Il Tar dà ragione a Moretti, parla di danno grave e irreparabile e di «criterio illogico che comporta una penalizzazione». Ma nonostante la sentenza, alla Sapienza si va avanti come se nulla fosse. La vicenda la racconta un´inchiesta di Report, firmata da Sabrina Giannini, in onda questa sera su RaiTre. Una puntata sui concorsi: si parla di notai, magistrati del Consiglio di Stato e professori universitari. In particolare quei baroni che, nel corso degli anni hanno costruito il proprio feudo chiamando attorno a sé parenti più o meno stretti. Proprio come Frati (certo non l´unico esempio): con lui ha lavorato la moglie (oggi in pensione) docente di storia della medicina passata in pochi anni dall´insegnamento in un liceo a quello in università. E con lui, tuttora, oltre a Giacomo, c´è anche Paola, l´altra figlia, laureata in giurisprudenza e ordinaria di medicina legale.
Ma è su Giacomo che si concentra Report: perché destò scalpore, a dicembre, la decisione della Sapienza di richiamarlo poco prima che entrasse in vigore la riforma Gelmini con la sua norma anti-parentopoli che vieta l´assunzione come docenti per coloro che hanno parenti nella stessa facoltà. Un divieto esteso fino al quarto grado e che avrebbe impedito "il ricongiungimento familiare" dei Frati. Ma se ora, nonostante ricorsi al tar e appelli persi, con l´entrata in vigore della riforma, tutto questo non sarà più possibile, alla Sapienza non mancheranno le assunzioni "a chiamata diretta". Secondo Report, il primo ateneo di Roma (in cui è docente un consulente del ministro Gelmini) è riuscito a strappare dal ministero più di un milione di euro di fondi extra che serviranno anche per assumere due docenti e per promuoverne una ventina. E Frati? Il suo mandato scade tra un anno. Prima di entrare in carica, per 15 anni, è stato preside di Medicina, la facoltà che governa l´Umberto I. Un ospedale universitario con un buco da 160 milioni di euro, in cui i chirurghi effettuano in media 30 interventi l´anno (in Europa, negli altri policlinici universitari, la media è di 120-130) e in cui Frati è ancora primario del day hospital oncologico. Peccato, però, che come hanno testimoniato le telecamere di Report, Frati, in quel reparto non ci metta piede da anni.