Corriere della Sera 14.5.11
La maggioranza teme che il secondo turno metta a rischio il governo
di Massimo Franco
Con pragmatismo lombardo, Giulio Tremonti ha scansato l’ipotesi di un ballottaggio per Letizia Moratti. «Votare due volte vuole dire spendere due volte e perdere tempo» , ha detto ieri il ministro dell’Economia passeggiando con il sindaco in galleria a Milano. Ma la sua benedizione deve fare i conti con una campagna nervosa, a tratti volgare, che potrebbe alimentare la tentazione dell’astensionismo sia al Nord che al Sud; e con l’atteggiamento di una Lega che non si può dire abbia speso troppe energie per sostenere la candidata del Pdl, criticata dopo l’attacco al candidato del centrosinistra, Luciano Pisapia: anche se ieri Umberto Bossi ha chiuso la campagna accanto alla Moratti, in un clima idilliaco. Il mantra dell’ «elezione subito» viene usato dal centrodestra per evitare un secondo turno che esalterebbe i centristi di Pier Ferdinando Casini come ago della bilancia. Con un invito martellante ad andare alle urne, si tenta di evitare che in città come Milano e Napoli scattino dinamiche in grado di affossare il bipolarismo. È questo l’effetto politico che il voto amministrativo potrebbe produrre. I ministri berlusconiani lo additano come la vera minaccia da contrastare. «È importante vincere a Napoli e a Milano al primo turno per dare forza e sostegno al governo» , ripete anche Silvio Berlusconi. Qualunque risultato diverso sarebbe un problema. Darebbe corpo a quell’affanno della maggioranza che Palazzo Chigi smentisce ostinatamente. Ed accentuerebbe la strategia delle mani libere che la Lega per ora si limita a teorizzare e minacciare. Casini accarezza l’idea di un centrodestra in bilico. E già dice di vedere una trattativa postelettorale aspra fra Pdl e Lega, con Bossi pronto a battere i pugni sul tavolo. «Ne vedremo delle belle» , sostiene, aggiungendo che ormai estremista sarebbe il partito di Berlusconi, e moderato quello dei lumbard. È probabile che i rapporti fra Pdl e Lega vivano momenti di tensione comunque. Ma una cosa sarebbe trattare con una sconfitta alle spalle; un’altra affrontare il resto della legislatura avendo avuto la conferma che il centrodestra continua a godere del sostegno dei suoi elettori, nonostante tutto. Sotto voce, le opposizioni ammettono che se la Moratti sarà sindaco già lunedì, si dovrebbe prendere atto della forza berlusconiana. In quel caso, gli scarti leghisti e berlusconiani sarebbero declassati a tattica elettorale: sebbene forse non sia proprio così. Fra Palazzo Chigi e l’alleato rimane una competizione vera per il primato nel Nord. E Berlusconi non ha rinunciato neppure ieri a martellare sulla Procura di Milano e a contestare l’imparzialità della Consulta; né a promettere ad una platea napoletana un decreto contro la demolizione delle case abusive: temi sgraditi al Carroccio. E la Lega non ha smesso di chiedere il trasferimento di alcuni ministeri al Nord, a dispetto del «no» del Pdl. Eppure riaffiora la voglia di battere le sinistre. «Quando mi chiedono cosa sto lì a fare con Berlusconi, rispondo che ci dà i voti per cambiare e riformare lo Stato» , ha ribadito ieri Bossi. È la Lega «con i piedi in quattro scarpe» , ironizza il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dirà l’elettorato chi ha ragione.
il Riformista 14.5.11
Il ruolo del Presidente oggi
di Emanuele Macaluso
qui
http://www.scribd.com/doc/55410060
l’Unità 14.5.11
L’irresistibile caduta dei fondi alla cultura
Ogni anno meno soldi: l’Italia taglia dove ci sarebbe da investire Il rapporto di Federculture
di Nicola Tranfaglia
Roberto Grossi, presidente di Federculture, presentando alla Camera dei Deputati (alla presenza dell’onorevole Gianfranco Fini) il Settimo Rapporto Annuale della sua Organizzazione che raggruppa le fondazioni pubbliche e gli enti locali che attendono al settore culturale, ha ricordato la drammatica situazione del nostro paese: «Il crollo della domus di Pompei, la chiusura di biblioteche e archivi storici straordinari, l’incapacità di ricostruire monumenti e palazzi il cuore di una città come l’Aquila tutto ciò denota un allontanamento dell’Italia da sé stessa, dai valori che l’hanno resa unica e grande. Ma soprattutto disegna il distacco una distanza sempre più grave tra i cittadini, le istituzioni e la politica. Si assottigliano l’orgoglio, il senso di appartenenza a una comunità e la legalità, si frustra la voglia di conoscenza della gente, la produzione libera e creativa, si appiattiscono l’eccellenza e il merito».
E il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha affermato di recente: «L’arte della politica, la presa di conoscenza e l’assunzione di responsabilità da parte dei poteri pubblici, consiste nel fare le scelte, nello stabilire delle priorità». La scelta che viene fatta vediamo ormai con chiarezza è di disattendere la Costituzione (arti. 9) che impone a chi governa di promuovere la ricerca, tutelare il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione. Quindi il rischio più grave che corriamo è il crinale della decadenza e il buio della democrazia.
«NON INTERVENTO» PUBBLICO
La caduta dell’intervento pubblico nella cultura restituisce ai lettori del Settimo Rapporto una fotografia davvero impietosa.
Negli ultimi cinque anni l’intervento dello Stato nella cultura è sceso di oltre il 30%: la dotazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali è passata dai 2.201 milioni di euro del 2005 ai 1.509 previsti per il 2011. Solo nell’ultimo anno, tra il 2010 e il 2011, la caduta delle risorse è di quasi il 12%. A ciò si aggiunge il crollo del finanziamento statale per lo spettacolo: il Fus del 2005 è quasi dimezzato, per il 2011 si prevede uno stanziamento di 258 milioni di euro, era di 464 milioni nel 2005, quindi meno 44%. L’intero settore pubblico (Stato, Regioni, Enti Locali), nello stesso periodo, ha diminuito il suo intervento nella cultura da quasi 7 miliardi a circa 5 miliardi e 450 milioni, segnando un calo del 20% per cento.
Lo Stato italiano nel 2010 spende in cultura l’0,21% del bilancio statale (cioè 21 centesimi ogni 100 euro spesi) che equivale a una spesa pro capite di 25 euro l’anno contro i 46 euro l’anno della Francia. In Germania lo Stato federale investe 1.500 milioni di euro in cultura, pari all’1% della spesa statale cui si aggiungono 11mila euro dei Lander e dei Comuni (1,9% dei loro bilanci).
In Francia il Beaubourg riceve risorse pubbliche per 75 milioni di euro, il doppio di quanto ricevono tutti i 26 musei pubblici di arte contemporanea italiani. Per il cinema, lo Stato francese investe 750 milioni di euro, a fronte dei circa 48 milioni destinati alle attività cinematografiche dallo Stato Italiano per il 2011.
SCUOLA E UNIVERSITÀ
Un ultimo dato importante riguarda un aspetto cruciale ed è quello delle spese per scuola e università: l’Italia occupa il penultimo posto nella classifica Ocse della spesa pubblica per l’istruzione in rapporto al Pil, seguita solo dalla Slovacchia (4,5% del Pil contro una media Ocse del 5,7%). Del resto, basta andare a leggersi le cifre percentuali sulla Cultura degli italiani (Laterza) che ha fornito l’anno scorso uno dei maggiori linguisti italiani, l’amico Tullio de Mauro, sulla nostra situazione complessiva per comprendere meglio in quale abisso stiamo precipitando. Dice De Mauro: «Solo il 9 per cento degli italiani adulti, tra i 25 e i 64 anni, possiede una laurea. La media europea è del 21 per cento, quella inglese del 25, quella tedesca del 23, quella francese del 21». E ancora: «Più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono seminalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e sono comunque ai margini inferiori della capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa come ormai è la nostra e in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica».
Ultima annotazione. Ma gli italiani sono insensibili alla cultura e allo spettacolo? Non si può rispondere di sì perché il Settimo Rapporto certifica che «la spesa delle famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo cresce ed è arrivata al 7% della loro spesa totale». La colpa, insomma, non è loro ma delle classi dirigenti nazionali, purtroppo.
Corriere della Sera 14.5.11
Cynthia, Joy e le altre incinte «Le mani sulla pancia per parare i colpi del mare»
Ne sono arrivate cento. «Diamo futuro ai nostri figli»
di Alessandra Coppola Alfio Sciacca
Le mani sotto il ventre, «cerchiamo di parare i colpi» , di tenere e stringere almeno fino a terra. «Ce la fai perché ce la devi fare— dice Cynthia, 24 anni e una pancia di nove mesi che è sul punto di cedere eppure ha resistito a cinque giorni di traversata —. Lo fai per te, ma soprattutto per il bambino che porti in grembo» . Lo fai perché non hai scelta: «In Libia c'è la guerra, non si vive più. Mio marito è di fede cristiana e ci avevano già presi di mira. Lì mio figlio non avrebbe mai potuto ricevere l'assistenza che trova qui» , nell’ambulatorio di Lampedusa, dove per la magia del caso il responsabile è un ginecologo. «Non ho mai fatto ricorso alla mia vecchia specializzazione come in questo periodo» , confessa il dottor Pietro Bartolo. Anche perché nella piccola struttura sanitaria ormai gli unici bambini a nascere sono quelli delle donne immigrate che non arrivano in tempo nemmeno per affrontare il trasferimento in elicottero a Palermo. «Negli ultimi due mesi ne sono già nati due — spiega Bartolo — e poi c'è questo flusso impressionante di ragazze incinte. Lo scorso 5 maggio, trenta in una volta sola. In due mesi sono oltre cento» . Anche ieri, tra gli oltre mille migranti, almeno 18 erano donne in stato di gravidanza che hanno avuto bisogno di assistenza medica. Conteggio per difetto: non tutte sono disposte ad ammetterlo e a parlare della fatica di difendere la pancia sui barconi. «Ci raccontano che si trattengono persino dal fare i loro bisogni— rivela Bartolo —, si vergognano, e poi temono che un semplice stimolo sia l'annuncio di una contrazione. Spesso arrivano qui con un blocco alla vescica e siamo costretti a mettere il catetere» . «Ad ogni botta dell'imbarcazione ti salta il cuore e ti senti spezzare la schiena — ricorda con affanno Joy, 31 anni — a quel punto non resta che accucciarsi in un angolo e stare ferma il più a lungo possibile» . Patricia, 35 anni e tre figli lasciati in Libia, non si regge nemmeno in piedi. Anche lei è al nono mese: «Già in barca ho cominciato a sentire le contrazioni, ora forse mi portano a Palermo. Sono venuta con mio marito, dovevamo assolutamente partire. Lì c'è la guerra...» . Marta è più giovane, 22 anni, ma è anche più tranquilla perché la sua pancia è ancora poco pronunciata: quattro mesi di gravidanza. «Vengo dalla zona di Bengasi — dice — facevo le pulizia e non potevo permettermi di andare dal medico ogni mese: qui mi hanno fatto l'ecografia appena arrivata. Lì molte donne partoriscono da sole in casa, senza assistenza» . Gli stenti, ma soprattutto la paura e la speranza le hanno spinte in mare. Donne che arrivano da lontano, da altre guerre nel Corno d’Africa, ma anche dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dal Sudan. Hanno attraversato deserti, stipate nei camion dei passeurs. Da sole, con mariti, fratelli o «protettori» incontrati sul cammino. Fino alla Libia, porto per l’Europa. Per un po’, a prezzi molto alti, sono riuscite a imbarcarsi. Dai «respingimenti» italiani del 2009 sono rimaste lì. Qualcuna ha sperimentato le terribili carceri della polizia di Gheddafi. Altre hanno cercato un lavoro, più spesso l’hanno trovato i loro compagni: imbianchini, muratori, scaricatori, bassa manovalanza ai margini della società libica. «Si sono adattati a vivere aspettando l’occasione per partire— spiega il professor Alessandro Triulzi, africanista dell’Orientale di Napoli e responsabile dell’Archivio della Memoria migrante dell’Onlus Asinitas —. I più disperati hanno preso altre strade » . La via tragica del Sinai, in mano a bande di nomadi che hanno preteso riscatti atroci (pagati pure con l’espianto di organi). Ma anche per chi è rimasto in Libia non è stata un’esperienza facile. «Meglio per i somali che sono islamici — continua Triulzi —, ma per gli altri africani, come etiopi ed eritrei, è un posto invivibile» . Razzismo e diffidenza sono esplosi durante la guerra, al punto che «vivevano sepolti in casa, aspettando di poter fuggire» . Il conflitto, però, ha buttato giù la barriera. «Il fenomeno delle migranti incinte a Lampedusa — spiega il portavoce di Save the Children, Michele Prosperi— è direttamente connesso all’apertura del fronte libico. Da quel momento sono cominciati a partire interi nuclei familiari che devono valutare da un lato i rischi della guerra dall’altro quello della salute delle gestanti e dei bambini. Evidentemente i primi sono nettamente prevalenti, tanto da spingerli a partire» . Anche a bordo di «legni che a stento stanno a galla» , denuncia la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini: «Osserviamo quante imbarcazioni fatiscenti negli ultimi tempi vengono messe in acqua senza preoccupazioni per la sorte di chi vi sale» , quasi spinto a bordo. Ma se una donna incinta accetta di imbarcarsi, «si sente in pericolo e preferisce rischiare a questa roulette russa» , parole della Boldrini, piuttosto che restare laggiù. Che siano gravidanze volute o frutto di violenze; che siano ragazze costrette alla prostituzione (spesso il caso delle nigeriane) o donne partite con marito e figli, per tutte vale anche un rapporto diverso con la maternità, fa notare la scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah. «Ho parlato con una ragazza appena arrivata con la sorella incinta: aveva lasciato i suoi cinque figli a Mogadiscio» . Bisogna accantonare il legame coi bimbi che hanno le mamme in Europa. E mettere in conto l’incoscienza: «A volte non si rendono conto di quello che affrontano, spesso vengono da luoghi in cui la vita è vissuta con più fatalismo. Non hai paura di morire perché sei giovane e conti sulle tue forze. E perché nel luogo da cui fuggi si muore comunque» .
il Fatto 14.5.11
Raitre così rischia Nasce il modello Lei
di Carlo Tecce
Addio ai teatrini tragicomici di Mauro Masi, la Rai di Lorenza Lei vive una strana luna di miele. Strana perché il direttore generale, nominata anche con i voti del centrosinistra, è benedetta dal governo, dai ministri, dal Vaticano e dal presidente Mediaset, Fedele Confalonieri. E la Lei risponde con sapienza ai suoi elettori, dentro e fuori viale Mazzini, per accontentare tutti e scontentare nessuno. Ma il “modello-Lei” può far molto male a Raitre. Intanto, il nuovo direttore generale appunta una medaglia al collo del leghista Antonio Marano, già vicedirettore al palinsesto, ora con delega alle produzioni televisive: studi, impianti, logistica. Dialoga con i consiglieri di opposizione, riprende l’imprendibile Vittorio Sgarbi e incassa le critiche dei giornali di destra. La Lei lavora per una Rai più di servizio pubblico, che vuol dire meno reality, più controllo. Così ha ricevuto il voto unanime in Cda per la nuova direzione intrattenimento, prevista a suo tempo in un piano industriale con Romano Prodi a Palazzo Chigi, che serve a dividere le competenze e le responsabilità. Ora dovrà indicare i dirigenti, uno o forse due: corsa a tre, i berlusconiani Carlo Nardello e Gianvito Lomaglio oppure, scelta più apprezzata a sinistra, Giancarlo Leone. Poi penserà a una struttura per i ragazzi, l’evento, l’informazione. E i programmi di approfondimento, ipotesi sempre più forte, faranno riferimento ai direttori dei telegiornali. Masi immaginava una Rai più burocratica dove le regole erano le trappole per i giornalisti sgraditi, la Lei preferisce una Rai con tanti caporali e pochi generali.
MA CHE NE sarà di Raitre, un fortino inespugnabile per Berlusconi, sorvegliato da Paolo Ruffini? Ora con la riforma, in parte approvata e in parte in cantiere, il direttore Ruffini sarà capo del canale e avrà il controllo delle risorse ma dovrà condividere la linea editoriale sull’intrattenimento (e un domani sull’informazione, chissà), anche se rassicurano avrà l’ultima parola. Comunque è un passaggio in più nella linea di comando, che indebolisce la sua autorità. A Raitre c’è mezzo palinsesto in bilico per la scadenza dei contratti e i ritardi di Masi: Fabio Fazio, Giovanni Floris, Milena Gabanelli e Serena Dandini. Non è un mistero, nemmeno per la Lei, che Fa-zio e Floris siano in trattativa con La7. Salutare senza polemiche Che tempo che fa o Ballarò, se la Lei è più vicina di quanto sembri ai desideri del Cavaliere, sarebbe un doppio successo: un modo per promuovere i giornalisti Rai (in onore del servizio pubblico) e per risparmiare sui conti. Perché senza decriptare le versioni su debiti e utili, viale Mazzini ha un problema di liquidità e di rapporto con le banche. Il Fatto Quotidiano è a conoscenza di una richiesta dell’azienda a un istituto lussemburghese per un prestito di diversi milioni di euro. Per Raitre basta aspettare fine maggio, limite insuperabile per i palinsesti autunnali. Come sempre tra un paio di settimana al massimo, sapremo i candidati per il Tg2. Molto dipende dall’esisto del voto , la Lega Nord insiste per Gianluigi Paragone, mentre i berlusconiani, oltre a Susanna Petruni (Tg1), indicano Antonio Preziosi, ora al Giornale radio. A due settimana dall’insediamento, a destra o sinistra, il giudizio su Lorenza Lei è sospeso: si è comportata bene, dicono, vedremo. Certo, anche Lei sa comandare. Ha imposto a Sgarbi di smontare la puntata su dio (in Vaticano non erano felici…) e ripiegare su donne e bellezza, addirittura di registrare per verificare i contenuti. Il sindaco di Salemi ha inviato una lettera tra il docile e il furioso: “Sono disponibile a qualunque soluzione sia rispettosa della mia dignità e del mio lavoro , senza moniti o prediche che mi sembrano del tutto fuori luogo e irricevibili”. E poi fa intuire la soluzione legale: “Naturalmente di fronte a una frattura insanabile non mancherò di rivendicare il mio lavoro e la mia correttezza con il conforto dei rapporti continui, rispettosi e assolutamente lineari con il direttore Masi”. Nel senso: o vado in onda come deciso con Masi oppure facciamo una transazione, datemi i soldi che mi spettano e arrivederci. Ieri in serata poi ci pensa il direttore di rete Mauro Mazza, che con una telefonata al critico ricuce. Prima puntata in onda il 18 maggio su Raiuno in prima serata, tema: il padre.
il Fatto 14.5.11
Gaza e i ragazzi italiani che “restano umani”
La carovana pacifista in nome di Vik Arrigoni arriva nella Striscia dal valico egiziano di Rafah appena riaperto
di Alessio Marri
Gaza. Corum è entrato a Gaza attraversando con successo il valico di Rafah. Formatosi spontaneamente nel mondo dell'attivismo politico romano a seguito della morte di Vittorio Arrigoni, il “convoglio restiamo umani” ha ottenuto il risultato tanto auspicato: raggiungere la Striscia di Gaza per commemorare il cooperante scomparso e dare seguito al suo immenso lavoro intrapreso sul territorio palestinese anche sotto i bombardamenti israeliani dell'operazione Piombo Fuso.
SONO PIÙ DI SETTANTA i partecipanti alla carovana pacifista che si è posta come punto di partenza il Cairo. Un gruppo assai eterogeneo, composto per lo più da attivisti per la Palestina, giovani dei centri sociali e operatori dell'informazione. La maggior parte viene dalle realtà romane, anche se diversi ragazzi sono giunti anche da Napoli, Firenze, Torino e Milano. Nonostante l'organizzazione istintiva e apparentemente sbrigativa, si conta anche la partecipazione di internazionali provenienti da Polonia, Francia e America. “È una follia tramutatasi in realtà – puntualizza Simone, uno tra i referenti principali dell'iniziativa – varcando la soglia del valico di Rafah possiamo simbolicamente ricominciare l'opera di Vittorio che tragicamente l'ha percorsa un'ultima volta in direzione opposta”. L'esito positivo del complicato passaggio di frontiera è riconducibile all'elevato grado di coordinamento internazionale su cui può contare il mondo dell'attivismo pro-palestinese. Un gioco di rilievo sotto questo punto di vista è stato giocato senz'altro da Osama Qashoo, militante di origine palestinese amico e compagno di Vittorio in molte sue battaglie. “Entrare a Gaza in questo modo è straordinario – ha commentato Osama – avevamo governi di mezzo mondo contro di noi”.
A vantaggio del convoglio pacifista hanno sicuramente giovato diversi fattori: l'atmosfera rivoluzionaria che al Cairo tutt'ora si respira, la storica riconciliazione tra le fazioni palestinesi di Hamas e Al Fatah e le dichiarazioni del ministro degli Esteri egiziano Abil al-Arabi che ha aperto formalmente il valico di Rafah lasciando spiazzata Tel Aviv. Anche se solo pochi giorni or sono, come confermato dall'ambasciata italiana al Cairo, due giornalisti hanno atteso invano le autorizzazioni per il valico da parte delle istituzioni egiziane.
CORUM SI TROVA quindi all'interno della Striscia di Gaza. Molte le attività previste dall'organizzazione. Oltre alla serata di oggi, in cui ricadrà il trigesimo dell’assassinio di Vittorio Arrigoni, la carovana potrà condividere con la popolazione palestinese la nakba, ossia la catastrofe: nel 1948, nell'arco di 6 mesi, l'esercito israeliano costrinse all'esodo forzato più di mezzo milione di arabi palestinesi. La carovana conta di rientrare in Italia mercoledì, non prima di aver affiancato all'interno della buffer zone (la zona controllata dai militari israeliani) i contadini palestinesi nella raccolta del grano e i pescatori a largo delle coste di Gaza.
il Fatto 14.5.11
Il premier Anp
Fayyad “Lo stato palestinese nascerà a settembre”
di Roberta Zunini
Il premier dell’Autorità nazionale palestinese, Salam Fayyad, ha annunciato, in un’intervista al quotidiano progressista israeliano Haaretz, che i palestinesi sono pronti per un proprio Stato perché sono riusciti a creato le condizioni adatte: “La missione è stata portata a termine. Se facciamo il paragone con la nostra situazione pochi anni fa, c'è stato un cambiamento totale. C'è un senso di opportunità e ottimismo. Possiamo farcela”. Il primo ministro - economista di formazione anglosassone, a lungo in forze presso gli organismi bancari internazionali - in pochi anni è riuscito a risollevare l’economia dei Territori palestinesi, Gaza esclusa, vista la frattura, ricomposta solo 15 giorni fa, con Hamas, che controlla la Striscia dal 2007. Fayyad è uno dei leader arabi più apprezzati nel mondo. Le voci circa un suo ritiro dopo l'accordo di riconciliazione fra Fatah e Hamas hanno portato all’apertura di pagine di suoi sostenitori su Facebook nelle quali si chiede che rimanga al suo posto.
IN APRILE, I RAPPORTI DI BANCA MONDIALE e Fondo Monetario Internazionale, hanno certificato che le sue riforme hanno creato le condizioni per la nascita di uno Stato. La dichiarazione unilaterale di una nazione Palestinese, non incontra i favori di gran parte della comunità internazionale, anche se la situazione sta mutando, a causa del fallimento dei negoziati di pace, dovuto alla palese intransigenza dell’israeliano Netanyahu sulle colonie ebraiche in Cisgiordania. Un cul de sac, quello creato dal premier israleliano, che sta mettendo in grave difficoltà il presidente Usa, Obama, che avrebbe voluto essere protagonista della pace isralelo-palestinese. Invece, proprio ieri, Obama ha subito un duro colpo a causa della decisione del suo emissario per il Medio Oriente, George Mitchell di lasciare l’incarico. Il momento non poteva essere peggiore: giovedì, il presidente pronuncerà l’atteso discorso sui problemi dell’area. Intanto da domani il presidente Giorgio Napolitano sarà in Israele e Cisgiorgiordania.
Repubblica 14.5.11
"Colonie o pace con i palestinesi adesso Israele deve scegliere"
Parla il presidente Abu Mazen alla vigilia della visita di Napolitano
di Fabio Scuto
Spero che Roma dia presto un segnale elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica
Nel prossimo mese di settembre presenteremo alle Nazioni Unite la nostra dichiarazione di indipendenza
RAMALLAH - Fervono i lavori di ampliamento nella Muqata, il palazzo del presidente palestinese. Il nuovo Stato che «presto, molto presto, nascerà», dice Abu Mazen seduto nel suo studio, ha bisogno di nuove e più ampie strutture governative, e di uffici che possano accoglierle. C´è un senso di ottimismo nelle stanze del presidente, la percezione che si sta vivendo un momento cruciale e delicato per il popolo palestinese. «Il negoziato diretto con gli israeliani resta la nostra priorità», spiega Abu Mazen mentre si accende una sigaretta, anche se ufficialmente ha smesso di fumare, «ma se il nostro partner non vuole trattare andremo all´Onu in settembre a chiedere se il nostro popolo, che è tornato unito, ha finalmente il diritto a uno Stato». La riconciliazione di tutti i gruppi palestinesi che tanto allarma Israele, per il presidente, non è un pericolo per la pace anzi un´opportunità. «Netanyahu prima diceva che non sapeva con chi doveva parlare per trovare un accordo con i palestinesi, se con Gaza o con Ramallah, adesso lo sa. È con me che deve parlare e il numero di telefono lo conosce bene».
Dopo la firma della riconciliazione al Cairo deve nascere un nuovo governo palestinese che entro un anno dovrà organizzare le elezioni legislative e presidenziali. Che peso avrà Hamas?
«Questo governo nasce con un programma preciso. I ministri devono essere dei tecnocrati indipendenti, in grado di affrontare le nostre prossime sfide che non sono semplici. È un "governo del presidente" che attuerà un percorso chiaro e condiviso da tutti partiti. Politica estera e negoziato di pace restano una prerogativa dell´Olp».
A chi darà l´incarico di formare questo esecutivo?
«Ho un unico candidato ed è Salam Fayyad»
Che assicurazioni ha avuto da Hamas, che controlla la Striscia di Gaza? Per tutto l´inverno sono piovuti razzi sparati dai miliziani sulle città israeliane circostanti la Striscia...
«Deve rispettare una tregua assoluta. Anche Hamas è interessato a che la situazione resti tranquilla a Gaza e rispetterà gli impegni che ha preso. In Cisgiordania, l´Anp continuerà a garantire la sicurezza più alta possibile come del resto abbiamo fatto in questi ultimi tre anni. Sono convinto che dopo la formazione del governo il clima politico cambierà completamente»
Israele non si sente rassicurato da questa riconciliazione. Netanyahu vi chiede di scegliere tra Hamas e la pace...
«Le cose non stanno in questi termini. La nostra scelta è nel mezzo: Hamas come parte del popolo palestinese che non può essere escluso dal processo politico e Netanyahu come partner per la pace. In un sistema democratico Hamas potrebbe rappresentare l´opposizione, come in tutti i paesi moderni. È Netanyahu che deve scegliere fra le colonie e la pace con noi».
Il "governo del presidente" ancora non c´è ma misure di ritorsione sono già partite...
«Il blocco del trasferimento delle tasse doganali per le merci dirette nei territori dell´Anp è inaccettabile, è contro la legalità internazionale e gli accordi intercorsi con Israele. Sono soldi dei palestinesi e sono necessari alle casse dell´Anp per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. Èuna risorsa vitale per noi».
Il primo appuntamento per lei e per l´Anp è in settembre all´Assemblea dell´Onu, dove verrà presentata la dichiarazione d´indipendenza dello Stato palestinese entro i confini del 1967. Che scenario ci dobbiamo aspettare?
«La nostra priorità resta il negoziato con Israele, iniziativa appoggiata da tutta la comunità internazionale. Ma se nelle trattative non ci sono progressi, la nostra seconda scelta è quella di andare davanti alle Nazioni Unite. Non dobbiamo dimenticare le parole dette dal presidente Obama l´anno scorso al Palazzo di Vetro: vogliamo vedere l´anno prossimo la Palestina in questa Assemblea».
Quando lei ha annunciato la dichiarazione d´indipendenza la Casa Bianca non l´ha presa bene...
«Noi non vogliamo uno scontro con l´America, però gli Stati Uniti devono avere la consapevolezza che la situazione attuale non è più sostenibile. Obama è un uomo serio e sincero, abbiamo avuto subito fiducia in lui e ancora ne abbiamo. Chiediamo due cose semplici agli Usa: una posizione ferma sul blocco nella costruzioni degli insediamenti israeliani sulle nostre terre e un impegno nel processo di pace. Impegni che l´Europa ha già preso».
Lei in che ruolo si vede in questo futuro Stato palestinese?
«In quello del pensionato».
Scusi?
«Alla fine di questo ciclo di transizione non mi candiderò alla guida dell´Anp e lascerò anche l´incarico di presidente dell´Olp. Quando sono stato eletto il mio programma era: maggiore sicurezza, sviluppo economico e sociale, arrivare alla riconciliazione e poi l´indipendenza del nostro Stato. Quest´anno c´è la possibilità di realizzare tutto questo, poi me ne vado in pensione».
Lunedì lei incontrerà a Betlemme il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cosa si aspetta da questa visita?
«Con il presidente Napolitano c´è un´amicizia vera, una storia condivisa. E con il popolo italiano abbiamo un legame molto particolare. Spero che l´Italia, come hanno già fatto altri Paesi europei, dia un segnale attenzione verso le nostre aspettative elevando il rango della nostra rappresentanza diplomatica a Roma, sarebbe un gesto nella giusta direzione».
La Stampa 14.5.11
Rapporto Amnesty
«Sulla pedofilia il Vaticano è troppo debole»
«A seguito dei casi di abusi su minori compiuti dal clero, il Vaticano non ha assolto i suoi obblighi internazionali in materia di protezione dell’infanzia». Scrive Amnesty nel suo rapporto annuale: «Esistono prove crescenti di abusi sessuali concernenti bambini compiuti da membri del clero negli ultimi decenni, di fronte a un’incapacità persistente della Chiesa cattolica di far fronte a questi crimini in modo adeguato». Lunedì la Santa Sede renderà note le istruzioni ai vescovi sulla pedofilia, cioè le linee-guida vaticane per il «trattamento di abusi sessuali di chierici su minori».
La Stampa 14.5.11
L’economia della Cina cambia pelle
di Bill Emmot
Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali. Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi.
Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento.
I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa.
Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015. Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni.
Questo, tuttavia, secondo l'analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.
Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi.
Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente.
Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo. La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80.
Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora.
La Stampa TuttoLibri 14.5.11
“Ribellarsi è giusto alla Shoah dei diritti”
Il pamphlet di Massimo Ottolenghi, 95 anni, ex partigiano Come Hessel, esorta i giovani a non subire lo statu quo
di Niccolò Zanca
Massimo Ottolenghi presenterà oggi alle 11, allo spazio Ibs del Lingotto il suo libro
Ribellatevi, ragazzi. Ribellarsi è giusto. «Serve un urlo vibrante che faccia sobbalzare chi è al potere e tremare i servi sciocchi, gli ipocriti, i disonesti, i salta fossi, i profittatori voltagabbana annidati nei luoghi di comando, gli abbioccati di consumismo». L’esortazione arriva da un uomo di 95 anni che certamente ha urlato quando doveva, e ancora lo sta facendo con questo libro. Ribellarsi è giusto (edizione Chiarelettere), presentato oggi al Salone, in libreria dalla prossima settimana. L’autore è Massimo Ottolenghi: «Io sono un resistente, tessera 343 del comitato di liberazione nazionale piemontese. Sono un ragazzo del 1915, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono un superstite...». Da qui si incomincia.
Torinese di famiglia ebrea, già militante del Partito d’azione con Ada Gobetti, Alessandro Galante Garrone e Giorgio Agosti, nel dopoguerra Ottolenghi è stato magistrato e poi avvocato civilista. Nel suo libro cita Gramsci e Calamandrei, ma guarda al futuro, alle nuove generazioni, alla primavera araba. La sua è una chiamata alle armi contro l’indifferenza, per una nuova resistenza civile. «Prendete partito non solo a difesa della scuola pubblica e della cultura, ma della giustizia, della costituzione, della libertà democratica del nostro Stato. Per essere partigiani, voi giovani non avete bisogno di una bandiera e di un’ideologia: avete la costituzione. Quella è la vostra patria, più importante del territorio che difendereste da qualsiasi invasione nemica».
Ottolenghi potrebbe essere il nostro Stéphane Hessel, lo scrittore tedesco, naturalizzato francese, che ha combattuto nella resistenza ed è stato deportato nel campo di concentramento di Buchevald. Con il suo ultimo libro scritto a 94 anni e intitolato Indignatevi! - un altro appello rivolto ai giovani - sta conquistando un vasto pubblico europeo. Anche l’orazione civile di Ottolenghi nasce dal vissuto. Dalla paura e dal coraggio, dall’abominio delle leggi razziali e dal tempo da partigiano nelle valli di Lanzo: «Le nostre montagne hanno accolto tutta la gioventù dispersa, spaesata e senza mezzi. Il comandante era un sommergibilista Sardo, Pietro Sulis. Quello della colonna Giustizia e Libertà in val Grande, era uno studente calabrese, Bruno Toscano, medaglia d’oro, fucilato a San Maurizio Canavese. L’ufficiale di collegamento era l’ebreo Enrico Lowenthal, figlio di un tedesco. Mentre il medico che aveva organizzato l’ospedale da campo era un ebreo ungherese, Simon Teich Alasia, sfuggito all’eccidio nazista di Budapest». Alla fine della guerra di liberazione, Alasia fondò il centro grandi ustionati del Cto, ancora oggi un’eccellenza nella disastrata sanità italiana. Ma questa è un’altra storia.
Quella che preme testimoniare a Massimo Ottolenghi, a suo giudizio, ha delle tragiche assonanze con il presente: «Purtroppo riconosciamo i miasmi di una democrazia malata, di un Paese a rischio. I segnali sono chiari. Quando per rafforzare a ogni costo maggioranze stente in parlamento, si raccattano anche rimasugli di estrema destra con esponenti nostalgici nazisti, antisemiti storici, aprendo le porte del potere a una xenofobia razzista, quando si contrassegnano le scuole con simboli celtici, quando si escludono dalle cattedre del nord docenti del sud, quando si invocano a Milano tram separati per gli extracomunitari e si vuole vietare l’uso di panchine a gente di colore, quando si vogliono censire i bambini zingari e istituire campi ghetto per i rom, allora si favoriscono situazioni che sono preludi di pogrom».
Per Ottolenghi questi nostri giorni sono quelli segnati dalla shoah dei valori e dei diritti. «I giorni dell’illegalità praticata dovunque apertamente, a tutti i livelli, nella politica come nella pratica quotidiana». Parole lapidarie: «L’inosservanza della legge si è fatta cultura». Ma non c’è traccia di cinismo in questo libro, nessuna resa. La speranza è nei giovani. «Dall’alto non potete attendervi nulla - scrive Ottolenghi - perché tutto si costruisce solo dal basso. Bisogna superare l’attuale tendenza di certe élite e di troppi clan, preoccupati solo dei propri interessi particolari. Occorre intervenire direttamente in tutte le forme di attività associative, vecchie e nuove. Occorre usare ancora di più la rete, che è una risorsa straordinaria». Ma può esserci futuro solo per chi conosce la storia: «Contro la casta, contro l’anti-Stato e gli “uomini della provvidenza”, come esponenti della chiesa hanno definito prima Mussolini e poi Berlusconi, si impone una frattura, una discontinuità. Occorre una ricostruzione che sia soprattutto epurazione. Questa solo voi giovani potete attuarla. Noi non siamo riusciti a farlo dopo la seconda guerra mondiale». Alla fine, resta una dichiarazione d’amore per la vita, la politica e la patria dei Padri Costituenti: «Bisogna reagire. Serve un nuovo Risorgimento. Un miracoloso soprassalto. Ora tocca a voi...».
Torinese di famiglia ebrea, già militante azionista con Ada Gobetti, Galante Garrone e Giorgio Agosti, è stato magistrato e avvocato
La Stampa TuttoLibri 14.5.11
La lingua più libera d’Europa
Le molteplici possibilità espressive dell’italiano: delicate, vistose e violente
di Gian Luigi Beccaria
Si possono isolare caratteri salienti dell’italiano, inteso come lingua? Benvenuto Terracini provò che svetta come lingua tra le più «libere» delle europee, se si pensa alle sue possibilità espressive, per un verso delicate, per altro verso vistose e violente, se la confronto per esempio col più discreto francese, così simile - diceva Verlaine - a dei begli occhi dietro a un velo. L’italiano è più aggressivo e variegato anche grazie al colorito mosaico dei suoi tratti regionali e dialettali, capaci di arricchire con native arguzie e sussulti espressionistici sia il parlato e sia lo scritto.
Non vorrei tralasciare la caratterizzazione più nota, il semplicissimo sistema vocalico, fondato su poche marcate differenze di timbri, ma con accanto per intanto una ricca gamma di opposizioni, permesse dalle sorde e dalle sonore, dalle lunghe e dalle brevi: il tutto concorre a una singolare chiarezza fonica, assicurata dal ritmo equilibrato dovuto all’alternanza di piane con tronche e sdrucciole, e con appoggi sulle toniche che non vanno mai (come succede in francese per esempio o in inglese) a discapito delle sillabe atone: ne deriva la relativa autonomia della parola singola che spicca piena entro la legatura sintattica. Non per nulla la nostra è stata la più limpida e musicale lingua del canto.
Alla serie di bellezze e di possibilità aggiungo infine la capacità dell’italiano di essere fonicamente e semanticamente preciso e meticoloso, concretissimo, realistico, e insieme ricco di aloni e di armoniche per la quantità di voci che rimandano indietro, a origini antiche, greco-latine: le bellezze dell’origine. Non mancano certo all’italiano le preziosità, la capacità di agghindarsi di ogni arte retorica: è lingua diplomatica, sottile, che non ha pari nel suggestionare e procurare incanti. Una lingua, scriveva Giovanni Giudici, «bella, ambigua, misteriosa lingua, ineguagliabile nella sua capacità di non dire dicendo e di affermare negando (…)». Siamo stati maestri in Europa della vivacità garbata ed elegante (altri tempi!), della «grazia» e della «sprezzatura» (la «sprezzata disinvoltura», l’opposto della «disgrazia dell’affettazione», come scriveva Castiglione).
Il carattere della lingua italiana è stato comunque plasmato dagli scrittori, i quali hanno percorso per intero ora tastiere plurilingui e ora, all’opposto, si sono raggelati in sublimi astrattezze. Dante le ha dato sin dalle origini tutte le bassezze e tutte le altezze, Petrarca la bellezza generale, platonica, fissata, anzi bloccata per sempre dalla perfezione formale. Oggi quei caratteri di base stanno virando: assistiamo a evidenti mutazioni, i caratteri si sono fatti non dico sfuggenti, ma certo più sfrangiati e indefiniti.
Terra 14.5.11
Per una legge giusta
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/doc/55410148