Il Venerdì di Repubblica 13.5.11
A spasso con Saramago per ascoltaretutti i suoi segreti
di Brunella Schisa
Estate 1996. José Saramago vive a Lanzarote, l'isola dove si è trasferito con la futura moglie Pilar del Río e tre cani, Pepe, Greta e Camões, dopo avere lasciato Lisbona. Nel suo buen retiro affacciato sull'oceano lo raggiunge lo scrittore Baptista-Bastos, amico di gioventù e di lotte politiche, un'amicizia fondata sull'amore per la letteratura e l'odio per la dittatura di Salazar. I due amici trascorrono alcuni giorni insieme, passeggiano tra le case bianche, camminano tra i vulcani. Parlano di letteratura, politica, religione. Parlano di amore e di morte. Da quelle conversazioni è nato il libro di Baptista- Bastos José Saramago. Un ritratto appassionato (L'asino d'oro, pp. 162, euro 15). Un testo prezioso e commovente che la moglie Pilar del Río, presidente della Fondazione José Saramago, presenta oggi a Milano, domani al Salone del libro di Torino e il 17 a Roma. "Parlo nella veste di Presidente della Fondazione e di traduttrice delle sue opere, non come moglie perché sarebbe poco interessante per tutti", ci dice prima dell'intervista. Meglio non contraddirla. Così quando le chiedo di descrivere il carattere del marito risponde: "Era un uomo discreto, elegante, con un grande senso dell'umorismo. Ma era timido e si sentiva a disagio negli eventi mondani. Era un lettore vorace e un grande conversatore. Fino a quando la salute glielo ha consentito era un grande camminatore e teneva un blog. Non guidava la macchina, non fumava, beveva solo vino rosso a tavola e detestava il whisky".
José Saramago confessa a Baptista che per lui raccontare storie è un modo di trasmettere le sue preoccupazioni e le ossessioni. Quali erano le ossessioni?
"Quelle di cui parla nei libri: le guerre, l'ingiustizia sociale, l'abuso di potere, la violenza sulle donne".
La politica era un'ossessione oppure una preoccupazione?
"La politica a suo avviso apparteneva ai cittadini. Guai lasciarla nelle mani dei professionisti della politica!"
E soffriva ancora per il Portogallo?
"Contemplava i paesaggi, le pietre, i monumenti come se facesse l'amore con una donna molto cara. Lui era il prodotto di quella cultura, pur essendo critico ed esigente col suo Paese".
"Non credo esistano persone senza Dio", dice Saramago a Baptista. Dieci anni dopo ha scritto Caino. Era cambiata la sua visione di Dio?
"No, Saramago ha sempre pensato che Dio fosse una creazione dell'uomo, e non ha mai creduto in Dio. Ha rispettato i credenti di tutte le fedi, ma non aveva alcun rispetto per chi usava la fede per costruire enormi poteri".
Suo marito è stato accusato di essere vanitoso. Lo era?
"No, per niente pur potendo permetterselo. Era di una semplicità assoluta".
Parlando della morte affermò di non avere paura. Poi visse altri 14 anni. Aveva cambiato idea?
"No, non ha avuto paura di morire, anche se non gli piaceva l'idea. Ma ha affrontato la morte con tranquillità. Senza paura e senza fare storie. Proprio come ha vissuto".
Il Venerdì di Repubblica 13.5.11
la civiltà è nata 7000 anni prima delle piramidi
di Alex Saragosa
Sì, il paradiso terrestre esisteva e, anche se non c'entrano nulla serpenti e mele, l'abbiamo perduto. Nel momento in cui abbiamo deciso di rompere il patto con la natura. Questo sembra rivelare una delle più clamorose scoperte archeologiche degli ultimi anni, descritta dal suo autore, il tedesco Klaus Schmidt, del celebre Istituto archeologico di Berlino, nel saggio da oggi in libreria Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286, euro 24,50). L'edizione italiana è la prima in traduzione, quattro anni dopo quella tedesca. In altri Paesi il libro uscirà in settembre, ma non è prevista un'uscita in lingua inglese, pare per l'ostilità delle élite archeologiche anglosassoni, che mal digeriscono l'idea di dover completamente rivedere la ricostruzione della storia dell'umanità fin qui accettata.
"Il più importante sito archeologico del mondo", come l'ha definito l'archeologo sudafricano David Lewis-Williams, si chiama Göbekli Tepe (la "collina panciuta"), ed è un modesto rilievo a nord della città turca di Urfa, vicino al confine siriano. La zona è la parte più settentrionale della cosiddetta "mezzaluna fertile", l'area compresa fra Palestina, Turchia sud-orientale e Iraq. Qui, circa undicimila anni fa, tribù di cacciatori iniziarono a raccogliere e poi piantare cereali selvatici, inventando così l'agricoltura, e diedero il via a una serie di innovazioni - scrittura, città, monumenti, Stati - che avrebbero cambiato il destino dell'umanità.
Nel 1994 Klaus Schmidt, studiando siti neolitici nel Nord della mezzaluna fertile, andò a dare un'occhiata a Göbekli Tepe, già visitato, trenta anni prima, da una spedizione americana, che l'aveva liquidato come "cimitero medievale". Schmidt capì che quelli che erano stati presi per lapidi tombali erano in realtà pilastri a T neolitici, cioè rappresentazioni stilizzate di persone, talvolta con volti, mani e una sorta di stola scolpiti. Ce n'erano a decine, dai due ai sette metri di lunghezza. Nelle successive stagioni di scavo, Schmidt e i colleghi turchi hanno dissotterrato e ricostruito quattro grandi cerchi megalitici, dai dieci ai trenta metri di diametro, composti da 43 pilastri a T e muri a secco, decorati da centinaia di bassorilievi, con serpenti, volpi, avvoltoi, cinghiali, gru, leoni, asini, tori, anatre, ibis, insetti, ragni e scorpioni. "In pratica, uno zoo dell'età della pietra" dice Schmidt, "anche se alcune figure potrebbero rappresentare sciamani che danzano vestiti da animali". Sono state anche trovate statuette di uomini con il membro eretto, stipiti decorati con animali in altorilievo, misteriose cornici e anelli in calcare, mentre indagini con il georadar hanno rivelato che sulla collina sono sepolti altri sedici cerchi.
Il vero shock è arrivato dalla datazione delle ossa degli animali trovati nei vari strati archeologici, da cui si è scoperto che la realizzazione di Göbekli Tepe è iniziata undicimila anni fa, ed è continuata per 1500 anni, quando tutto è stato sepolto. In altre parole, quando i faraoni costruivano le piramidi di Giza e i celti Stonehenge, i cerchi megalitici di Göbekli Tepe erano già vecchi di sei-settemila anni. "I blocchi di calcare dei pilastri (anche di cinquanta tonnellate l'uno) sono stati estratti e scolpiti da migliaia di persone che non solo non conoscevano ancora ruota, ceramica o metalli, ma non avevano neanche inventato l'agricoltura o l'allevamento. Difatti abbiamo trovato sul posto solo punte di freccia e mucchi di ossa di animali selvatici, soprattutto gazzelle". E questo contrasta con quanto si è sempre creduto, e cioè che l'agricoltura, con il surplus di cibo che produce, e un governo centrale, in grado di coordinare masse di lavoratori, siano condizioni necessarie per realizzare grandi monumenti. Ma le sorprese non finiscono qui. Sui pilastri, sotto le immagini principali, si trovano combinazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di "h". "L'aspetto richiama fortemente quello dei geroglifici egizi. Probabilmente si tratta di pittogrammi, dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. Insomma, l'idea di base della scrittura risulta anticipata di migliaia di anni" dice Schmidt.
Ma a cosa serviva questo complesso monumentale? "È ormai impossibile ricostruire il mondo simbolico e spirituale degli uomini di Göbekli Tepe, ma tutto, lì, parla di sacro. L'assenza di raffigurazioni femminili (persino gli animali delle immagini sono maschi) e la predominanza di rappresentazioni di specie pericolose o legate alla morte violenta, così come le statuette falliche, mi fanno pensare che si trattasse di un tempio per i defunti, forse anche un luogo iniziatico, dove i giovani apprendevano i miti". Una sorta di cattedrale neolitica, insomma, capostipite di tutti i luoghi di culto dell'umanità.
Le enormi dimensioni dell'impresa, secondo Schmidt, devono aver prodotto un "effetto collaterale" sconvolgente. "Per mantenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, c'è il monte Karaca Da, il luogo dove sono stati rinvenuti i capostipiti selvatici del grano coltivato. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare. Poi, dalla raccolta, si è passati alla coltivazione". Secondo Schmidt, quindi, è stato il primo dei monumenti umani ad aver spinto verso l'agricoltura, non questa verso i monumenti, come si pensava. Nel mondo spopolato uscito da appena due millenni dalla glaciazione, Göbekli Tepe, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, doveva essere il paradiso dei cacciatori-raccoglitori.
Nel momento in cui fu inventata l'agricoltura, per quel paradiso fu però la fine. Gli uomini, fino ad allora in equilibrio con l'ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, dissodare i terreni, bruciare erbe selvatiche e costruire villaggi vicino ai campi. La loro società egualitaria si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti. Comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie. E nuovi sanguinari dèi scalzarono gli idoli animali. A un certo punto la nuova società agricola deve aver deciso di cancellare l'antico santuario sotto metri di terra.
Insomma Göbekli Tepe potrebbe essere il luogo dove l'uomo ha abbandonato il "paradiso terrestre" per entrare nell'era dell'"e tu coltiverai la terra con il sudore della fronte". Un cambio vantaggioso per molti versi, ma non per tutti...
Corriere della Sera 13.5.11
Caravaggio sbarca in America con la zingara che legge la mano
di Alessandra Farkas
NEW YORK— Caravaggio e l’America: una love story tutta da scoprire. Nonostante l’ammirazione degli Stati Uniti per il grande maestro milanese (1571-1610) definito «il primo e più audace realista dell’arte europea» dal curatore del Metropolitan Museum di New York Keith Christiansen, le opere di Michelangelo Merisi sono state esposte in Nord America soltanto due volte, nelle mostre di Cleveland e New York, allestite, rispettivamente, nel 1971 e nel 1985. Proprio per questo fa notizia che uno dei suo massimi capolavori, la Buona ventura (di cui esiste un’altra versione al Louvre) sarà per cinque giorni all’Istituto Italiano di Cultura di New York, prima di diventare uno dei pezzi forti di due mostre sul Caravaggio in Nord America. La prima allo Speed Art Museum di Louisville, in Kentucky, (dal 18 maggio al 5 giugno); la seconda alla National Gallery di Ottawa, in Canada, che il prossimo 17 giugno (fino all’ 11 settembre) inaugurerà Caravaggio and his followers in Rome, la prima rassegna canadese dedicata al grande pittore scomparso a soli trentotto anni. Il dipinto di New York appartiene ai Musei Capitolini di Roma e risale al 1594. Mostra un cavaliere elegante e curato che si sta facendo leggere il palmo della mano da una zingara di cui si notano persino le unghie sporche. Mentre osserva compiaciuto la ragazza, il giovane non si accorge che questa gli sfila tranquillamente l’anello dal dito mentre con l’altra mano gli sorregge il polso. «La rivoluzione delle unghie sporche è un particolare straordinario che rivela come il Merisi inaugurò la modernità» scrisse nel 1999 sul «Corriere della Sera» il poeta e critico Emilio Tadini. «Merisi ha sfidato le convenzioni artistiche del suo tempo» , sottolinea nel suo libro Caravaggio (edito da HarperCollins) Francine Prose, autrice di bestseller quali Goldengrove e Reading like a writer, secondo cui «il ricorso a gente comune come modelli — ragazzi di strada, prostitute, poveri e vecchi ritratti in maniera realistica— è stato una profonda e rivoluzionaria innovazione che ha lasciato il segno nelle successive generazioni di artisti» . In concomitanza con la mostra l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato insieme all’Hunter College un simposio intitolato «Caravaggio’s Gypsy Fortune Teller: Virtues and Vices in Post-Tridentine Italy»
Repubblica 13.5.11
Una ricerca e una banca dati sull´affettività nei poeti medievali
Il dizionario emotivo della lirica amorosa
Una mappatura europea che va da "gioia" a "felicità" La presentazione oggi ai Lincei
di Simonetta Fiori
"Gioia" è la parola più ricorrente, seguita da «soffrire», «piacere» e «dolore». Nel lessico europeo delle emozioni, alla «felicità» spetta l´indiscusso primato. Ma che tipo di felicità intendiamo? Prima di soffermarci sulle implicazioni sessuali della gioia, è necessario introdurre la ricerca che sarà presentata oggi pomeriggio all´Accademia dei Lincei. Quali sono le parole affettive che più ricorrono nelle varie lingue e culture del nostro continente? Un primo passo nella definizione di questo dizionario emotivo è segnato da una preziosa mappatura realizzata da diverse università italiane ed europee mettendo a confronto diecimila testi della lirica romanza medievale, suddivisa nelle diverse tradizioni «nazionali»: provenzale, francese, galego-portoghese e antico-italiano (fino a Petrarca). Questa mappatura è in corso di definizione, ma la novità è costituita dalla creazione dell´unica banca dati della lirica medievale romanza.
Ma che cosa s´intende per emozioni? «Prima abbiamo dovuto perimetrare l´oggetto della ricerca», spiega Roberto Antonelli, ordinario di Filologia romanza, già autore di una ricerca sul canone europeo e ora coordinatore del progetto sul lessico dell´affettività (a cui hanno collaborato anche Rocco Distilo, Paolo Canettieri, Mercedes Brea, Lino Leonardi). «Nelle scienze sociali non c´è accordo su cosa siano le emozioni. Il rischio era quello di forzare dentro categorie moderne il lessico affettivo cortese, che risponde a paradigmi psicologici e culturali diversi». Alla fine, nel confronto con la tradizione filosofica classica e cristiana, sono state selezionate quattro grandi categorie emozionali Gioia, Afflizione, Paura, Ira a cui è stata aggiunta quella della Cupiditas, ovvero il desiderio, «che svolge un ruolo fondamentale nella rappresentazione dell´affettività e della psicologia cortese».
Il piacere della parola e le parole del piacere. Quali considerazioni se ne possono ricavare? «Siamo in presenza», spiega Antonelli, «di una concezione amorosa molto articolata che si distingue in due filoni. Un filone molto consistente è legato all´amore sensuale: la parola «joi» per la maggior parte delle volte è gioia sessuale, felicità del corpo fisico; così la parola «guiderdone» è la ricompensa sessuale dovuta dalla donna al servente leale (rimossa in Cavalcanti e Dante). L´altro filone che porta appunto a Dante tenta di ricomprendere l´amore cortese all´interno del pensiero cristiano: l´amore diventa charitas, fino all´amor «che muove il sole e l´altre stelle»». Il lessico affettivo cambia a seconda dell´area culturale di appartenenza e a seconda del genere poetico usato. «Nella poesia galego-portoghese», continua Antonelli, «la parola «amor» si accompagna più frequentemente a «coita» («pena d´amore»), mentre nella lirica dei trovatori provenzali il termine che più ricorre accanto ad «amor» è «fin» ossia «perfetto»».
A conferma d´una maggiore mestizia dell´area portoghese interviene anche un´altra circostanza. Se nella lirica dei trovatori l´emozione più ricorrente è «joi» seguita da «sofrir», «plazen» e «dolor» nella lirica galego-portoghese la tonalità prevalente è l´afflizione. Ai poeti portoghesi è tuttavia sconosciuta l´angoscia, molto presente nella poesia amorosa cortese, dai trovatori ai poeti siciliani. «Angoscia», illustra Antonelli, «è uno dei termini che esprimono la condizione dolorosa dell´amante. Nella poesia provenzale, come poi in quella italiana prestilnovista, è adoperato – oltre che in senso di generica sofferenza – nell´accezione di assillo del desiderio che non viene corrisposto. Nella lirica antico francese «angoisse» s´incontra con una frequenza maggiore, ma il significato è quello di dolore continuo e opprimente. L´angoscia si carica di risonanze inedite nella poesia di Cavalcanti, dove diviene uno stato di prostrazione psichica. Viene anticipata per molti aspetti l´angoscia novecentesca».
È già possibile fare una comparazione tra la lirica medievale e la poesia contemporanea? «Lo potremo fare solo in un secondo momento, perché per la lirica moderna mancano strumenti analoghi a quelli che abbiamo realizzato per la lirica medievale. Ma esistono già alcune banche dati su cui si può lavorare».
Corriere della Sera 13.5.11
La libertà è un’illusione Ecco come Freud lo scoprì
I meccanismi con cui l’inconscio guasta i nostri progetti
di Vittorino Andreoli
Psicopatologia della vita quotidiana di Freud viene pubblicato nel 1901, un anno dopo L’interpretazione dei sogni con cui si fa nascere la psicoanalisi. Pur avendo avuto aggiunte fino al 1924, è dunque una delle opere di base nella costruzione del pensiero e della tecnica psicoanalitica. Nonostante l’ «età» sono molti i punti utili alla modernità, e ciò che mi pare ancora rivoluzionario è quanto Freud ci dice sulla libertà. Come si pone il legame tra questa aspirazione e l’inconscio? Rimane, nonostante le diverse modulazioni, la certezza di una parte inconscia dentro l’Io, una componente della struttura di personalità di cui non abbiamo consapevolezza e che tuttavia agisce e condiziona il nostro comportamento. Se dunque è possibile scegliere un’azione e fortemente volerla, ciò non impedisce all’inconscio di entrare nei nostri progetti e desideri fino a renderne impossibile la realizzazione oppure a compierli in un modo diverso da come avremmo voluto: il divario tra essere e voler essere. Pertanto la libertà come possibilità di scelte qualsiasi è illusoria. E sul piano pratico si scontra sempre con limiti e blocchi che noi stessi inconsciamente poniamo alla realizzazione di quelle scelte. Verrebbe da dire che la libertà rimane un’idealizzazione rispetto a condizioni esistenziali che invece ci tengono dentro un percorso che non è mai scelto, ma almeno in parte imposto. E la libertà rimane un’illusione. Freud non elabora queste considerazioni sulla base di una teoria, di un sapere dunque astratto, ma le svela attraverso le piccole cose, quei fatti che riempiono la quotidianità: gli atti mancati, gli automatismi comportamentali, i lapsus, le amnesie. Sono certo di aver chiuso la porta, ma la controllo ancora tre volte. L’inconscio insomma si intromette silenziosamente e misteriosamente per impedire di compiere gesti o azioni che potrebbero riportare ad esperienze traumatiche e dunque dolorose, oppure al contrario inserisce la propria forza e conduce ad azioni che sostituiscono quelle programmate. Forze che si legano ad una memoria inconsapevole che dunque agisce senza giungere alla coscienza. Il tema della libertà non ha ancora tenuto in debito conto questa dimensione del nostro Io e noi fingiamo di pensare ad un uomo libero che capisce e vuole e dunque sceglie razionalmente un comportamento (intelligere) e vi applica la volontà per realizzarlo. Un assunto assurdo alla luce della Psicopatologia della vita quotidiana che è però ancora stampato nel codice penale: si afferma che la responsabilità si lega alla «capacità di intendere e/o di volere» . Ed è questo il quesito che il giudice chiede al perito psichiatra per poter decidere e stabilire la pena. Insomma dominano il capire e il volere. E l’inconscio? Come si fa a parlare di libertà e di responsabilità, ignorandolo? Non è certo mia intenzione togliere la responsabilità nell’agire, ma soltanto sostenere (come Freud 110 anni fa) che non si può capire e giudicare un’azione e dunque un uomo senza considerare questa dimensione dell’Io che alberga in ciascuno di noi.
l’Unità 13.5.11
Maria la ribelle che con un sì rovesciò le regole
Il paradosso della Madonna è stato trasformarla in icona della passiva docilità, mentre il suo percorso è quanto di più distante dall’ordine patriarcale: è la tesi del nuovo libro di Michela Murgia. Riportiamo un brano
di Michela Murgia
Maria di Nazareth è la persona che ha subito il torto piú grande nel dipanarsi di questa colossale struttura di dominio. È stata strumentalmente trasformata in icona della piú passiva docilità, in muta testimonial del silenzio-assenso, e ha finito in modo paradossale per essere proposta come esempio luminoso di donna funzionale ai piani altrui, lei che i piani altrui li aveva sovvertiti tutti senza pensarci su neanche un istante. Il sí di Maria all’annunciazione andrebbe studiato in tutte le circostanze in cui si ragiona di donne, perché è quanto di piú distante dall’ordine patriarcale si possa sperare di vedere.
Immaginiamola nel suo contesto questa ragazzina forse sedicenne, ipotetica figlia di un padre che aveva ancora potestà su di lei, e certamente legata a un promesso sposo che quella potestà l’avrebbe invece avuta a breve. Immaginiamola ricevere la piú misteriosa delle visite, e sentirsi dire che presto avrà un figlio. Non è un ordine quello che riceve Maria dal messaggero misterioso, ma una richiesta importante, una di quelle che in un sistema patriarcale si avanzano al padre, non
certo alla figlia. Il Signore annunciò ad Abramo, e non a Sara, che sarebbe rimasta incinta di Isacco. Fu Zaccaria e non Elisabetta a ricevere l’annuncio della gravidanza in tarda età di quel figlio che poi sarebbe diventato Giovanni il Battista. Invece questo misterioso visitatore non rispetta le regole, evita tutti i passaggi rituali del sistema tribale giudaico per rivolgersi direttamente a Maria, rendendola soggetto protagonista della scelta che più la riguarda, come è giusto oggi, ma come non era certo normale nel I secolo.
L’angelo del Signore è un anticonformista, ma la fanciulla d’Israele non ha certo la stessa autonomia. Una fanciulla per bene davanti alla proposta sconcertante di restare incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto nel migliore dei casi rifiutare, nel peggiore chiedere tempo. Dire qualcosa di molto assennato e prudente, tipo «ne parlo con mio padre». Oppure con qualcuno piú grande, più esperto, più potente. Poteva parlarne con il suo promesso sposo, per esempio. Se la fidanzata deve restare incinta per opera dello Spirito Santo, forse sarebbe meglio che il futuro sposo ne sia prima informato.
Maria si guarda bene dal fare tutto
Segreti pericolosi
Maria rischia il linciaggio, facendo quel che vuole e come vuole
questo. Se l’angelo è un anticonformista, lei lo è di piú. Per questo non accetta subito, ma si permette anche gli spazi della trattativa; al messaggero del Signore osa chiedere persino spiegazioni: «Come è possibile?». Lui è paziente, molto più paziente di quanto non sia stato con l’incredulo Zaccaria, e le annuncia le modalità con cui può avvenire il prodigio. Evidentemente per lei sono sufficienti, perché alla fine dice il famoso sì: «Sia fatto di me secondo la tua parola».
Il sì di Maria sarà suonato molto bene nell’alto dei cieli, ma a tutti gli effetti nella terra degli uomini restava un suicidio. Essere rimasta incinta prima di andare a stare nella stessa casa con il promesso sposo non era un fatto che consentisse molte interpretazioni: o lui non l’ha rispettata fino alle nozze, o lei si è concessa a qualcun altro. La gente forse avrebbe pensato che fosse vera la prima ipotesi, e sarebbe stato già molto grave, ma Giuseppe avrebbe pensato sicuramente alla seconda, e questo poteva significare solo una cosa per Maria: pietre. Persino una ragazza tanto sciocca da accettare l’offerta del messaggero del Signore a questo punto sarebbe tornata in sé e sarebbe corsa dal padre, dal fidanzato, dallo zio, dal sommo sacerdote o da una donna più vecchia per raccontare che cosa era successo, cercando di farlo capire e accettare prima che cominciasse a vedersi sul suo corpo. Eppure Maria non fa nulla di tutto questo. Si tiene il suo segreto, la sua visita misteriosa e il suo bambino che le cresce nel ventre, e non dice niente a nessuno. Anzi, fa proprio quello che potrebbe aumentare agli occhi di tutti la sua colpevolezza: si mette in viaggio e va a trovare sua cugina Elisabetta, l’unica che si accorgerà che è incinta.
Quando tre mesi dopo Maria torna a casa, la pancia è abbastanza grande perché anche Giuseppe la veda; solo il suo buon cuore farà scartare al falegname di Nazareth l’ipotesi di farla ammazzare a colpi di pietra per adulterio. Sarà un sogno a distoglierlo dalle idee di ripudio e a convincerlo che quello che sta avvenendo è volere di Dio: da quel momento lui di Maria e del suo bambino misterioso diventerà il protettore più scaltro e attento. Ma in tutto questo Maria ha fatto solo quello che ha voluto, nei tempi e nei modi che ha deciso, a condizioni stabilite da lei, costringendo di fatto a piegarsi alla sua libertà di dire sì tutto il sistema che la circondava e pretendeva di dettarle legge.
Affonda anche qui l’originaria natura destabilizzante del cristianesimo e Maria lo capisce molto bene. Il canto liberatorio del Magnificat che l’evangelista le mette sulle labbra a casa della cugina Elisabetta rappresenta a tutti gli effetti un inno al sovvertimento dello status quo. Il Dio che ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili ha anche destabilizzato una volta per sempre la gerarchia patriarcale tra l’uomo e la donna, facendo di una ragazza la massima complice della salvezza del mondo.
Quel Dio ha fatto di lei, l’ultima delle ragazze di Israele, una il cui nome sarà benedetto da tutte le generazioni a venire. Maria può permettersi di cantare quelle parole perché con il suo sì ha fatto saltare il tavolo, ha stabilito le condizioni del riscatto, ha voltato la carta della storia di Israele e non c’è più nessuno che potrà farle credere che qualcosa non è possibile a una donna. Con una simile madre non c’è da stupirsi se Cristo per tutta la sua vita pubblica ha usato alle donne un’attenzione altrettanto anticonformista rispetto al contesto in cui è vissuto. Non c’è niente come la Scrittura per rivelarci quanto sia falsa l’idea di Maria che vogliono darci a bere come docile e mansueta, stampino perfetto di tutte le donnine per bene.
Repubblica 13.5.11
Althusser, la tragedia nelle lettere segrete scritte alla moglie
Cronaca di una morte annunciata nelle lettere segrete alla moglie
Il celebre filosofo strangolò la sua compagna nel novembre dell´80 Ora in Francia esce un carteggio che ricostruisce quella storia fatta di passione e follia
PARIGI, Settecento pagine: 250 lettere, biglietti e telegrammi. Un fiume di parole che si rincorrono, tracimanti, ossessive, dolorose. Le tracce di tutta una vita, e di un amore finito in tragedia. Quello di Louis Althusser per Hélène Legotien-Rytmann, la moglie amatissima che il celebre filosofo strangolò durante una crisi di follia, all´alba del 16 novembre 1980. Un gesto tragico, che rivelò l´altra faccia, quella maledetta, di un uomo da oltre trent´anni in lotta contro l´abisso della depressione. Questa disperata battaglia quotidiana, in cui si alternano paure e speranze, incubi e paranoie, angoscia ed euforia, è restituita da Lettres à Hélène (Grasset/Imec), a cura di Olivier Corpet, in cui sono raccolte le lettere inedite che Althusser scrisse alla moglie tra il 1947 e l´anno della tragedia. È un documento eccezionale, al cui centro figura la grande passione per la donna conosciuta a Lione all´indomani della guerra. Hélène di dieci anni più anziana di lui, ebrea e partigiana colpì subito il giovane filosofo con la sua personalità forte e complessa. La loro fu una relazione fatta di complicità intellettuale e politica, ma anche ambiguità e contrasti. Nelle lettere (ritrovate a casa d´Althusser alla sua scomparsa, nel 1990, e da allora conservate negli archivi dell´Imec) il filosofo, sempre affettuoso e protettivo nei confronti della compagna, moltiplica le dichiarazioni d´amore e riflette a lungo sull´evoluzione della loro relazione. «Credo che tu mi possa amare senza timori, testolina mia. Perché non ho più assolutamente paura d´amarti e di dirtelo», scrive il 28 agosto 1958, aggiungendo in un´altra lettera: «Ti amo come sei, nonostante le litigate e le ferite, nonostante le lotte in cui noi ci sfiguriamo».
Ad Hélène, l´autore di Per Marx e Leggere il Capitale, il cui insegnamento influenzò un´intera generazione d´intellettuali, parla di tutto. Racconta le vacanze e gli incontri, i viaggi e i problemi dell´École Normale Supérieure, la passione per lo sport e le incertezze della situazione politica. Evoca i film visti (ad esempio, Ladri di biciclette, considerato «abbastanza superficiale») e le letture, tra cui quelle di Foucault, Bourdieu e Lévi-Strauss, il cui strutturalismo gli sembra «estremamente interessante». E non mancano le riflessioni su filosofia, lavoro e necessità di «cambiare il modo di pensare», nella vita come nella politica. Ma soprattutto Althusser rende conto dell´immane battaglia contro il mostro della sofferenza psichica, descrivendo i soggiorni nelle cliniche psichiatriche, «la confusione mentale», gli stati di «assenza» e di «abbrutimento», gli elettrochoc e le dosi massicce di medicine che lo lasciano «inebetito». Racconta i «faticosi rapporti» con il suo inconscio, con la speranza, alla fine di ogni crisi, di «stare lentamente meglio», riuscendo a sottrarsi a quella «forza» dotata di «una sorda e terribile necessità», che a ogni istante rischia di sopraffarlo e che un giorno si scatenerà ciecamente contro Hélène. Come scrive Bernard-Henri Lévy nella prefazione, queste lettere propongono «una genealogia della demenza». Quella demenza che, seppure indirettamente, ha lasciato tracce anche nel lavoro dello studioso marxista, dove, a più riprese, la filosofia sembra venire «in aiuto della vita, procurandole, contro le tentazioni suicide, una camicia di forza fatta di parole e di concetti».
"Cara Hélène, io deliro e ho paura della tua libertà"
"Ciò che ho sempre amato, anche quando ero preso dagli eccessi, era la tua generosità"
"Ho deciso che sarò ricoverato in casa di cura. Spero di uscirne con un po´ di cuore per vivere"
LOUIS ALTHUSSER
ottobre 1955
Mercoledì
Hélène,
(...) ciò che amo in te, che ho sempre amato fin dall´inizio, dalla prima neve e dalla prima sera davanti al fuoco di legna (era un fuoco di legna? ne vedo ancora la fiamma) della rue Lepic, ciò che ho sempre amato anche quando ero preso dagli eccessi (o quelli che mi sembrano tali) di un terrore quasi sacro, è la tua generosità e la tua libertà. Non so se riesci a immaginare il valore di tale rivelazione per un ragazzo cresciuto per 27 anni tra le siepi dei campi, dei divieti e dei "compiti". Una generosità senza condizioni! Che non domanda nulla in cambio, neanche l´idea del "dovere compiuto" o dell´interiore soddisfazione di sé. Una libertà d´invenzione, di gesto, di movimento, perfino di stravaganza, d´ironia, anche di collera, di cuore e di testa, non "concertata", deliberata, artificio della volontà, ma natura tout court e spontaneità! Il contrario del mio mondo, quindi! E il mondo che ho sempre desiderato, al di sopra di tutto, dal fondo delle mie pastoie (e delle mie viscere!) E senza dubbio, da qualche parte in me, c´era una paura intensa di questo mondo che desideravo con tutto me stesso: la paura che mi tratteneva, legato mani e piedi, sulla soglia di questa libertà, che alla fine mi ero negato a forza di esserne escluso. Questa paura, te l´ho fatta subire e pagare, come una passione attaccata all´oggetto stesso dell´aspirazione più profonda. (...)
Buonanotte testolina, ti bacio.
Louis
Febbraio 1956
Martedì sera
Hélène,
dopo molti tentativi si è deciso che sarò ricoverato alla casa di cura della Vallée aux loups (...). Mi faranno 1) una cura a grandi dosi di serpasil + sonno 2) poi gli elettrochoc, se ce ne sarà bisogno. Spero che le condizioni non siano troppo severe, ma non ne sono troppo sicuro: quando si entra in posti come questo non si è mai sicuri di nulla, ci sono sempre degli ostacoli. (...)
Non mi faccio alcuna illusione sulla vita che mi aspetta. Ma (al punto in cui sono, che è talmente allucinante) occorre certamente passare di qui, per uscirne. La tregua dello spirito procurata dal cambiamento di situazione e di prospettiva mi fornisce un´idea del delirio in cui ho vissuto negli ultimi giorni. Al punto di perdere il senso delle cose reali, le più semplici e le più sicure, comprese quelle che mi vengono da te.
Spero con tutte le mie forze di uscire da qui con un po´ di cuore per vivere, e dividere con te, in base al nostro accordo, il gusto delle cose che amiamo.
A te come un fratello,
Louis
(Copyright Grasset/Imec Traduzione di Fabio Gambaro)