l’Unità 11.4.11
Doccia fredda La lettera della Malmstrom smentisce Maroni. Stop tedesco a Berlusconi
Maggioranza nel caos Calderoli: via dal Libano i nostri soldati, servono alle frontiere...
Schiaffo Ue all’Italia «Il vostro decreto non apre le frontiere»
Governo allo sbando. La commissaria Malmstrom scrive a Maroni e ne smentisce il decreto. Anche la Germania volta le spalle a Berlusconi. Mentre la Lega vuole portare i soldati via dal Libano...
di Umberto De Giovannangeli
L’italietta del Cavaliere collezione l’ennesima, mortificante bocciatura in Europa. E su un tema di scottante attualità: l’immigrazione. Il decreto firmato giovedì da Silvio Berlusconi non fa scattare «automaticamente» la libera circolazione nell'area Schengen. Lo ha scritto la Commissaria europea Cecilia Malmstrom, in una lettera inviata al Ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Nella lettera, si sottolinea anche che, “al momento”, “non sussistono le condizioni” per attivare la direttiva 55 del 2001 sulla “protezione temporanea”. E’ uno schiaffo bruciante, che si aggiunge a quelli che sono venuti da Parigi e Berlino.
SCHIAFFI A RIPETIZIONE
La lettera è stata scritta dalla Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea, in risposta ad una richiesta di chiarimenti da parte del Ministro dell' Interno italiano. La Commissaria svedese afferma che Bruxelles «ha già attivato meccanismi per contribuire ad affrontare» quella che definisce una situazione «effettivamente molto difficile sul piano umano, sul piano economico e su quello del sistema di controllo alle frontiere dell'Unione». Ma per quanto riguarda «la tua richiesta di valutare la possibilità di attivare la direttiva 55 sulla protezione temporanea», la Commissaria che lunedì scorso davanti al Parlamento europeo si era mostrata possibilista pur sottolineando che «non c'era una maggioranza qualificata» disposta ad approvarla in Consiglio afferma che «al momento non ritengo che esistano le condizioni». «La mia prima valutazione scrive la Malmstrom mi porta infatti a nutrire dubbi sulla sussistenza delle condizioni di applicazione di tale direttiva nel caso di specie. In effetti, come spesso è stato indicato da parte italiana, i migranti irregolarmente entrati sul territorio italiano sono nella stragrande maggioranza migranti economici, non richiedenti asilo, quindi suscettibili in tempi brevi di essere rinviati in Tunisia. La direttiva sulla protezione temporanea intende invece tutelare gli sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono ritornare nel Paese d'origine».
Una bocciatura a tutto campo. Argomentata al dettaglio. Non c'è «nulla di nuovo» nella lettera della commissaria Malmstrom al ministro Maroni, provano a parare il colpo fonti del Viminale. Missione impossibile, degna di miglior causa.
E a ribadire la debacle s’aggiunge un’intervista del ministro degli Interni tedesco alla Die Welt: «Il comportamento italiano viola lo spirito di Schengen». Ma l’Italietta che colleziona schiaffoni in Europa è degnamente rappresentata da ministri come il leghista Roberto Calderoli – titolare del dicastero della Semplificazione, sodale di partito e in esecutivo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni che ieri ha annunciato che per affrontare il problema immigrazione «occorrono mezzi e risorse e proprio per reperirli proporrò al prossimo Consiglio dei Ministri, il ritiro delle nostre truppe dal Libano». Maggioranza nel caos. Il ministro la Russa replica, quasi incredulo. Parla di posizioni estreme espresse dal collega leghista, cerca di smussare il danno, dice che semmai verrà ridotto il numero di militari presenti. Un caos totale, insomma. «L'Italia si è dimostrata poco credibile agli occhi dei maggiori partners europei, ma come può essere credibile un Governo che fino a ieri, per volere della Lega, manifestava scetticismo verso l’Europa», rileva polemicamente il presidente della Camera Gianfranco Fini, concludendo ieri a Bari la prima conferenza nazionale di Generazione Futuro, l’organizzazione giovanile di Fli. E questo prima della lettera della commissaria Ue che gela l’Italietta del Cavaliere. Coprendola di ridicolo. Dopo Parigi, dopo Berlino.
l’Unità 11.4.11
Le critiche del Pd
«Governo senza credibilità s’inventa il nemico europeo»
D’Alema e Letta guardando preoccupati al conflitto fra l’Italia e l’Unione: «L’esecutivo ha fatto di tutto per non prendersi le sue responsabilità, e adesso chiede la solidarietà...certo, serve più Europa, ma ci sono governi conservatori, egoisti, proprio come quello di Berlusconi»
di Simone Collini
sLo schiaffo della Malmstrom, ma non solo. Berlusconi che dice all’Ue «o si trova l’accordo su Schengen o tanto vale dividerci», giusto mentre il Carroccio rilancia con Borghezio la linea «föra di ball» e con Calderoli propone il ritiro dei nostri soldati dal Libano per mandarli a proteggere i confini italiani. Per il Pd è desolante l’atteggiamento dell’asse Pdl-Lega di fronte all’emergenza immigrazione, e il governo piuttosto che accusare l’Europa dovrebbe interrogarsi sulle ragioni che
hanno determinato le difficoltà che sta attraversando l’Italia. «Se se ne andasse Berlusconi non sarebbe rimpianto da nessuno», dice con sarcasmo D’Alema riferendosi alle minacce del premier nei confronti dell’Ue. Il presidente del Copasir osserva che il problema è «il livello di discredito di cui gode il nostro Paese a causa sua»: «Una delle principali ragioni per cui il governo italiano dovrebbe lamentarsi dell’Ue è che i governi europei somigliano troppo al nostro. Nell’Eruopa dei leghismi c’è sempre una Lega più a nord di noi, persino Maroni risulta terrone per i tedeschi». E dunque, «se ha ragione Napolitano nel chiedere più Europa, il governo italiano non ha le carte in regola per unirsi a questo coro».
Reclamare ora la «solidarietà» dell’Europa come fanno premier e ministro dell’Interno, è per D’Alema un’atteggiamento che mal si concilia con la posizione tenuta troppo a lungo dal governo di fronte all’emergenza immigrati, quando era prevedibile che sarebbe arrivata e ancora dopo che è scoppiata: «L’Italia ha fatto di tutto per non assumersi le sue responsabilità. È vero che l’Europa, che è governata da partiti conservatori, egoisti, del tipo di quelli come la Lega e Berlusconi, dovrebbe avere un atteggiamento diverso. Ma la confusione, l'incapacità e le polemiche inutili che hanno caratterizzato l’azione del governo di fronte a questa prevedibile emergenza dei rifugiati che giungono dal Nord Africa e stata veramente impressionante».
L’ultima della Lega Ora alle polemiche si va ad aggiungere quella innescata dalla proposta di Calderoli di ritirare i militari italiani dal Libano per far loro difendere i nostri confini (su cui il titolare della Difesa La Russa frena). D’Alema, che era ministro degli Esteri quando nel 2006 l’Italia autorizzò quella missione, neanche replica. Ci pensa però Enrico Letta a far notare che «con il populismo e l’approssimazione non si fa politica estera»: «La querelle pasticciata La Russa-Calderoli sul Libano è una tappa in più del degrado del ruolo e dell’immagine del nostro paese, che perde affidabilità di giorno in giorno». Il punto, per Letta, non è solo il fallimento del governo, che ieri ha ricevuto un altro colpo con la lettera della Commissaria Ue Malmstrom (la cui portata viene minimizzata dal Viminale). Il problema, a questo punto, è che la destra continua con le sparate più estemporanee, senza rendersi conto delle conseguenze su più fronti. «Mi chiedo dice Letta come si sentano oggi i militari italiani impegnati in Libano, che rischiano la loro vita per l’Italia e per la pace e che vengono trattati in questo modo dal governo del loro paese».
l’Unità 11.4.11
Le carrette Continuano gli arrivi dal mare, ma non si vedono gli aerei promessi per i rimpatri
Oltre1.200 gli stranieri presenti a Lampedusa, il giorno dopo la visita-show di Berlusconi
Nell’isola «svuotata» del Cav sbarcano altri 700 migranti
Solo nel pomeriggio di ieri, sbarcati altri 400 stranieri. E 160 tunisini arrivano in aereo da Pantelleria, dove erano approdati negli scorsi giorni. E l’isola trema per il tracollo del turismo: «Arrivano solo disdette».
di Alessandra Rubenni
Per 143 persone la sagoma di Lampedusa si è avvicinata piano nell’oscurità. Erano a bordo di due barconi: in quello più grande erano stipati in 108. Solo poche ore di tregua dopo quell’ennesimo sbarco notturno e ieri pomeriggio altri 50, provenienti dalla Tunisia, sono arrivati scortati da una motovedetta delle fiamme gialle. Poco prima, altre due carrette stracariche di migranti venivano intercettate a una ventina di miglia dalla costa: a occhio e croce, altri 350 stranieri, ovviamente diretti verso l’isola siciliana. Non si fermano gli sbarchi, neanche il giorno dopo la passerella di Silvio Berlusconi, che sabato da Lampedusa ha detto di aver risolto l’emergenza, che «tutto è sotto controllo». E se di barconi se ne sono continuati a vedere tanti, non si è ancora vista l’ombra degli aerei con i quali il premier ha annunciato che da oggi si provvederà ai rimpatri di quanti sono rimasti nel centro di accoglienza. Del resto, i calcoli fatti dal presidente del Consiglio semplicemente non reggono, dal momento che non ha tenuto conto dei continui arrivi.
In compenso, ieri gli immigrati sono arrivati non solo dal mare, ma pure dal cielo: 80 tunisini che erano approdati a Pantelleria la scorsa settimana sono stati trasferiti a Lampedusa con un volo speciale; altri 80 destinati allo stesso tragitto invece sono rimasti a terra a Trapani, dopo minacce e proteste che hanno fatto rinviare il volo. Tutti loro, in teoria, dovrebbero finire a Lampedusa per essere poi messi sui voli diretti in Tunisia, a partire da oggi, a gruppi di 30. Ma il solo risultato, al momento, è che sull’isola ci sono di nuovo oltre 1.200 migranti, compresi i 243 profughi provenienti dalla Libia e ospitati nella base Loran. Una situazione che preoccupa non poco i lampedusani, quando è ormai alle porte l’estate, con l’aria di una stagione che già si annuncia devastata. Lampedusa chiede che sia mantenuto «ciò che è stato promesso dal presidente del Consiglio», dice l’assessore al Turismo Pietro Busetta, «vale a dire che i recuperi vengano trasferiti direttamente sulle navi appoggio in rada già a Lampedusa e che venga spiegato, anche con spot pubblicitari ad hoc che il fenomeno immigrazione, ormai riportato alla normalità, non è visibile sull'isola e non confligge con una vacanza tranquilla a Lampedusa». Insomma, alle promesse del Cavaliere qui pare ci credano poco. «Speriamo che l’ottimismo del ministro Brambilla sia confermato dai fatti. Noi siamo molto meno fiduciosi che la stagione si possa salvare anche se vorremmo avere torto», si lamenta Busetta, che parla di un sistema turistico in forte allarme per le disdette che arrivano, per chi già immagina vuote le camere di alberghi, pensioni e appartamenti, con i tour operator che stanno pensando di cancellare i voli charter previsti per l’estate, un affare che in genere fa affidamento su 800 mila presenze turistiche. «Qualcuno ricorda Busetta afferma che la stagione turistica di Lampedusa è già iniziata con gli alberghi pieni di militari, ma moltissime strutture sono ancora chiuse e quindi poche aperte sono piene, ma in ogni caso non è questo il tipo di turismo che l'isola vuole.
Intanto ieri la nave “San Giorgio” ha sbarcato a Pozzallo gli ultimi 198 migranti raccolti a Lampedusa, dopo averne lasciati altri 87 a Porto Empedocle, mentre a bordo della «Flaminia» almeno 400 tunisini venivano portati verso Civitavecchia, dove si aggiungeranno ai connazionali già ospitati nella caserma «De Carolis». E mentre a Cagliari proseguivano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei 700 tunisini arrivati mercoledì scorso da Lampedusa, per Manduria è arrivata la notizia che a partire da mercoledì prossimo sarà rilasciato un primo centinaio di permessi di soggiorno ai profughi ospiti della tendopoli.
La Stampa 11.4.11
Bonino: Berlusconi non può trattare l’Europa come un taxi
Il premier non sa misurare le parole, né governare i problemi e se stesso
intervista di Fabio Poletti
qui
Repubblica 11.4.11
La rivoluzione senza Islam
In piazza per la democrazia così le rivoluzioni arabe hanno seppellito l´islamismo
Dall´Egitto allo Yemen, la protesta laica dei manifestanti
I dimostranti non sono scesi in strada in nome dell´Islam, ma i loro
slogan facevano riferimento ai valori universali di dignità, giustizia e
libertà
di Tahar Ben Jelloun
Nessuno aveva previsto la rivolta dei popoli arabi. Non i servizi di intelligence, particolarmente efficaci e radicati, non gli analisti politici, sia gli accademici che i giornalisti, non la semplice polizia e soprattutto i leader dei movimenti di ubbidienza islamica, dai più radicali ai moderati. La scintilla è partita il 17 dicembre da una cittadina della Tunisia, dopo un´umiliazione di troppo che ha spinto Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di frutta e verdura, a immolarsi dandosi fuoco di fronte al municipio dove nessuno voleva riceverlo o ascoltare le sue lamentele.
Darsi fuoco è qualcosa del tutto estranea alla cultura e alle tradizioni arabe, e soprattutto alla tradizione islamica che, come le altre religioni monoteiste, vieta il suicidio perché lo vede come un affronto alla volontà divina. Chi muore suicida non ha diritto a un funerale.
Altri cittadini hanno seguito l´esempio di Mohamed Bouazizi, nel Maghreb e nel Mashrek. Sono tutti musulmani, eppure, al momento di sacrificarsi, non hanno tenuto conto della parola di Allah. La prima sconfitta dell´islamismo ha origine da questa disubbidienza ad Allah; il fatto che centinaia di migliaia di persone siano uscite nelle strade a protestare contro un regime corrotto e dittatoriale, senza che venisse mai evocato in alcun modo l´islam o Allah è la dimostrazione che le tesi islamiste ormai sono superate e non riescono più a fare presa. È comprensibile che in Tunisia, che era stata laicizzata dall´ex presidente Bourghiba (1903-2000; deposto con la forza da Ben Ali il 7 novembre 1987) e che comunque è piuttosto refrattaria in generale al fanatismo religioso, i manifestanti non abbiano pensato a protestare in nome dei valori islamici. Per la prima volta la piazza araba non se l´è presa né con l´Occidente né con Israele. Il fatto che l´islam come costituzione e riferimento principale per un nuovo potere sia stato totalmente ignorato dai milioni di persone scesi in piazza è una chiara dimostrazione di quanto questa rivolta si discosti dalle abitudini consolidate.
La peculiarità delle rivolte arabe sta nella loro natura spontanea e nell´obbiettivo che si pongono, l´ingresso nella modernità, vale a dire l´affermazione dell´individuo e il suo riconoscimento come cittadino e non come suddito sottomesso. Questa modernità nessuno dei partiti politici esistenti l´aveva reclamata in modo tanto diretto.
Ma è in Egitto che l´assenza degli islamisti durante le manifestazioni che sono riuscite a cacciare Mubarak, lo scorso 11 febbraio, colpisce maggiormente. Questo Paese è la culla dell´islamismo dal 1928, quando nacque l´associazione dei Fratelli musulmani. Questo movimento è sempre stato combattuto dal potere, perché Nasser fece impiccare il 29 agosto 1966 un grande intellettuale, Sayyid Qutb, il maître à penser dei Fratelli musulmani, e perché Anwar Sadat fu assassinato il 6 ottobre 1981 da un commando islamista infiltratosi tra le forze armate. Lo scorso mese di febbraio, l´Egitto è stato «liberato» senza la partecipazione degli islamisti. Gli slogan che scandivano i dimostranti di piazza Tahrir facevano riferimento ai valori universali di democrazia, dignità, giustizia, lotta contro la corruzione e il ladrocinio. La gente non reclamava soltanto il pane, ma anche valori fondamentali che faranno sì che i regimi corrotti non possano più regnare in piena impunità. È questa novità che ha aiutato la rivolta a penetrare in altri Paesi altrettanto chiusi e autoritari, come la Siria o lo Yemen. Gli islamisti reclamano costantemente «un´igiene morale» dello Stato, ma sacrificano sempre l´individuo a beneficio del clan, il clan dei credenti. Non si sono resi conto dell´evoluzione del popolo, non hanno percepito la potenza di questo vento di libertà che cresceva in silenzio, perfino all´insaputa della maggior parte dei protagonisti della rivolta.
Questa è la novità. Non è stata la prima volta che gli egiziani sono scesi in piazza in massa. Non è stata la prima volta che la polizia li ha repressi con ferocia; non è stata la prima volta che dei giovani sono stati arrestati, torturati e perfino assassinati negli scantinati dei commissariati di polizia. Ma è stata la prima volta che la collera è esplosa radicale, profonda, irreversibile. Ed è stata anche la prima volta che questa rivolta ha assunto caratteristiche laiche, senza che i manifestanti lo avessero stabilito.
Qualche militante dei Fratelli musulmani ha cercato di salire in corsa sul treno della rivoluzione, ma gli hanno fatto capire che non era aria, e i Fratelli musulmani hanno mantenuto un profilo basso. Questa assenza, nella dinamica della rivoluzione egiziana, ha avuto conseguenze importanti nel panorama politico del Paese. Dopo la partenza di Mubarak e il trasferimento della direzione dello Stato nelle mani dei militari, gli islamisti si sono ritrovati nella mischia, fra tanti partiti politici, costretti a mettere in sordina un fanatismo divenuto anacronistico.
Come e perché gli islamisti hanno perso il treno? Innanzitutto perché i Fratelli musulmani sono da tempo in crisi al loro interno. Le nuove generazioni non si intendono con le vecchie. La retorica e i metodi di una volta non funzionano più. Questa crisi è deflagrata al momento della rivolta popolare. I Fratelli musulmani si sono ritrovati superati, marginalizzati, più nessuno credeva alle loro litanie. Questo non vuol dire che il movimento scomparirà. Avrà un suo posto nel contesto democratico. Prima della partenza di Mubarak si calcolava che in caso di libere elezioni gli islamisti non avrebbero superato il 20 per cento dei voti. Oggi queste stime sono riviste al ribasso.
Oggi constatiamo la scomparsa della retorica islamista tra i giovani libici che resistono alla furia del dittatore Gheddafi. Anche in questo caso la resistenza di Bengasi è guidata dalle nuove generazioni, gente che nella maggior parte dei casi ha meno di trent´anni, che in alcuni casi è rientrata dall´Europa e dall´America, dove lavora e studia. Sono arrivati con nuovi metodi di lotta, in particolare Facebook, Twitter e le notizie diffuse attraverso i cellulari. La retorica gheddafiana non li tocca. Hanno bruciato il «libro verde», accozzaglia di pensieri egocentrici senza fondamento e senza interesse.
All´inizio, quando gli insorti hanno preso la città di Bengasi, Gheddafi ha cercato di agitare lo spettro della paura e del terrorismo, dichiarando alle televisioni estere che si trattava di islamisti, di gente di Al Qaeda. Lo ha ripetuto talmente tante volte che si è capito chiaramente che il suo intento era principalmente quello di mandare un messaggio agli occidentali: attenzione, se accorrerete in soccorso degli insorti di Bengasi darete una mano ad Al Qaeda. La manovra non è riuscita. I ribelli non esibivano il Corano, invocavano l´aiuto delle Nazioni Unite, dell´America, dell´Europa. Il mondo non poteva abbandonare una popolazione male armata di fronte all´artiglieria del dittatore che aveva promesso che sarebbe andato a cercarli «casa per casa, fin dentro gli armadi».
Quando il Consiglio di sicurezza, con la benedizione della Lega araba e dell´Unione africana, ha votato la risoluzione 1973, che autorizza gli alleati a intervenire in soccorso del popolo in pericolo, Gheddafi ha utilizzato lo stesso stratagemma, parlando di crociate! Ma né la Francia, né la Gran Bretagna né nessun altro è andato in Libia per ammazzare musulmani. Il solo che ammazza e continua a massacrare musulmani è Gheddafi. La sua retorica islamista è completamente sfasata. Ricorda quello che aveva fatto Saddam al momento dell´invasione del Kuwait, nel 1991, quando aveva aggiunto un riferimento islamico sulla bandiera e si era fatto riprendere in preghiera, lui che era un famigerato miscredente.
Ma facciamo un passo indietro. L´Occidente per molto tempo ha creduto che fosse preferibile avere a che fare con un dittatore che avere a che fare con gli islamisti. Ha creduto che gente come il tunisino Ben Ali o l´egiziano Mubarak fossero dei «bastioni» contro il pericolo islamista. Gli europei chiudevano gli occhi e aiutavano questi regimi, facevano affari con loro. Improvvisamente l´islamismo acquisiva un´importanza che non corrispondeva alla realtà e ai fatti. Certo, i Fratelli musulmani contestavano il potere egiziano e si presentavano come l´alternativa di fronte al regime del partito unico. La società è attraversata da varie tendenze politiche, e una di queste è islamista, ma non ha l´ampiezza e la forza che certi osservatori occidentali le attribuivano. Certo, Al Qaeda ha cercato di insediarsi nel Maghreb, ha fatto sequestri di persona, ha ricattato gli Stati. Ma nessuno pensa più che Al Qaeda sia il vero volto dell´islam.
In Tunisia la lotta antislamista era diventata l´alibi perfetto per consentire il radicamento di una dittatura, mettere il bavaglio all´opposizione e fare affari indisturbati. Il leader del movimento islamista Ennahda, Rashed Ghannouchi, rifugiato a Londra, ha detto, appena tornato dall´esilio, che non vuole instaurare una repubblica islamica in Tunisia e che non intende presentarsi alle elezioni presidenziali.
La novità che cambierà radicalmente i rapporti tra l´Occidente e il mondo arabo è che l´alibi del terrorismo islamico non funziona più. L´islamismo continuerà a esistere, perché risponde a un´esigenza culturale e identitaria. Ma è l´assenza di democrazia che ha favorito la sua espansione. Una democrazia ben assimilata terrà conto delle correnti religiose, come terrà conto delle varie correnti laiche. L´islamismo è stato sconfitto dal popolo. È il popolo che l´ha ignorato e che non ha voluto fare la sua rivoluzione in nome dell´islam, e questo è merito delle nuove generazioni della diaspora araba e musulmana nel mondo. Il vento della rivolta ha spazzato via nella sua evoluzione le vecchie litanie che cercavano di far tornare il mondo islamico ai tempi del profeta Maometto (VII secolo). Ma i giovani hanno una nuova griglia di lettura del libro sacro: una lettura intelligente, razionalista e non letterale. È questo l´elemento nuovo e rivoluzionario.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 11.4.11
Il fondamentalista non riluttante
De Mattei: Il paradiso terrestre è esistito davvero
Intervista di Antonio Gnoli
Intervista al discusso vicepresidente del Cnr che suscita nuove polemiche con le sue tesi antiscientifiche
"Da cattolico devo credere nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria"
"Le mie idee affondano le loro radici nella coscienza stessa della nostra cultura: mi osteggiano gli scientisti"
"La fede religiosa è lontana dall´essere un fatto privato e va testimoniata pubblicamente"
Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all´appuntamento col professor Roberto De Mattei, l´uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l´Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l´immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa? Se insieme al taccuino avessi con me un bel "tapirone d´oro", la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa? Il problema è che De Mattei non è un signore qualunque: egli è vicepresidente del Cnr, un incarico che lo pone ai vertici della struttura che in teoria dovrebbe guidare la ricerca scientifica in Italia. Ma al tempo stesso egli ha una rubrica su Radio Maria, dirige il periodico Le radici cristiane, insegna alla Nuova Università Europea che appartiene ai Legionari di Dio. Il suo ultimo libro (pubblicato da Lindau) è una rilettura molto polemica del Concilio Vaticano II. Sguazziamo in un bel pasticcio ideologico.
Da dove nascono le sue provocazioni?
«Dalla mia coerenza. E dai miei studi. Sono stato allievo di Augusto Del Noce e Armando Saitta. Ho insegnato come associato all´Università di Cassino. Oggi ho un incarico alla Nuova Università Europea dove insegno storia moderna e storia del cristianesimo. Purtroppo sono spesso dipinto in maniera caricaturale».
Lei è vicepresidente del Cnr, un grande ente scientifico, diciamo il corrispettivo del Max Planck. Come è avvenuta la sua nomina?
«Fu la Moratti, nel 2004 Ministro dell´Istruzione, a nominarmi».
Perché scelse lei?
«Il Cnr ha anche un settore minoritario dedicato alle scienze umane. Al cui interno cadono le mie competenze».
Si è mai chiesto se ci fossero studiosi più preparati di lei, più legittimati sotto il profilo dei titoli e delle idee?
«Ho scritto centinaia di articoli, decine di libri, partecipato a convegni internazionali».
Non ci sono echi significativi dei suoi lavori nella comunità scientifica.
«Non è questo il punto. La contestazione alla mia nomina, una vera e propria levata di scudi, si basava sul fatto che la mia cultura cattolica era negatrice di alcuni valori fondanti della democrazia occidentale. Non ho mai nascosto che la fede religiosa non sia solo una questione privata, ma vada testimoniata pubblicamente».
Ho di fronte un missionario e un martire.
«Penso che il cristianesimo non possa ridursi a una religione intimistica e individuale, ma debba proiettarsi nella vita pubblica».
E questo l´autorizza a dichiarare che lo tsunami in Giappone è stato un castigo divino?
«Parlavo a titolo personale da una radio cattolica e non in qualità di vicepresidente del Cnr. Ho svolto una riflessione sul grande mistero del male e ho detto che tutto ciò che accade ha un significato. Non si muove foglia che Dio non voglia, verità antica e perenne. Coloro che credono in Dio sanno che esiste una remunerazione, che per i cattolici sia chiama inferno. E come si legge nella dottrina di Sant´Agostino e Bossuet anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Terremoto in Giappone e all´Aquila, devastazioni, guerre, catastrofi, crisi. Per lei Dio è molto occupato in questo momento?
«Non direttamente. Se Egli permette questo male non intendo dire che sia l´autore del male, perché altrimenti cadremmo in una visione manichea. Non esiste un Dio del male. Egli è il sommo bene capace di trarre il bene dal male. Anche dalla catastrofe giapponese».
Il Giappone è a prevalenza scintoista.
«Non ho la pretesa di conoscere la ragione per cui Dio ha permesso che ciò accadesse. Ma so che una ragione c´è».
Un´affermazione così perentoria e ilare la mette in totale contrasto con la comunità scientifica.
«Mi mette in contrasto con lo scientismo. A cominciare da Galileo, lo stesso Newton, ma poi Spallanzani, Mercalli, Pasteur, Mendel, fino a Max Planck, sono stati grandi scienziati che hanno creduto all´esistenza di Dio e non hanno trovato un contrasto tra la loro fede e la scienza».
Ma nessuno di loro si è piegato ai metodi biblici per spiegare il mondo. Per lei la Bibbia è il testo di riferimento?
«Per un cattolico non può che essere così. Lei sa che fin dal Concilio di Trento…».
Non vada troppo indietro. Contro l´evoluzionismo lei è un assertore del disegno divino. E le prove le ricava tutte dalla Bibbia. Un po´ poco, no?
«Per un cattolico la Sacra Scrittura va letta non come libero esame razionalista, ma alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa».
Con quali conseguenze?
«Che un cattolico deve credere, per esempio, nella storicità di quel passo della Genesi in cui si afferma che Adamo ed Eva sono la coppia originaria da cui è nato il genere umano».
Uno scienziato inorridirebbe.
«Respingo il poligenismo evoluzionista. Se un cattolico lo accettasse verrebbe a cadere l´idea di un peccato originale trasmesso da una coppia di progenitori a tutta l´umanità. La mia battaglia culturale non è solo contro il laicismo, ma si svolge soprattutto all´interno del mondo cattolico sottomesso al clima intellettuale dominante».
Insomma lei sostiene che Adamo ed Eva non sono figure simboliche ma reali?
«Il paradiso terrestre è una realtà storica non una metafora».
Non le viene il dubbio che la storia della Terra, la sua origine, si possa raccontare in maniera diversa?
«Io ripropongo una cosmologia cristiana che fa capo alla stessa visione di Benedetto XVI».
Lei sa che la grande rivoluzione scientifica del Seicento cambia nel profondo anche la cosmologia cristiana, come può non tenerne conto?
«Mi pare più grave voler interdire la possibilità a un cattolico di esporre pubblicamente le proprie visioni cosmologiche e metafisiche».
Fino al punto di affermare che la caduta dell´Impero Romano avvenne principalmente per colpa dei gay?
«In realtà in quell´occasione io feci mio il discorso del Papa che paragonava la crisi del mondo attuale alla decadenza dell´Impero Romano. La cui caduta, secondo me, più che alle invasioni barbariche va fatta risalire al relativismo morale e culturale che lo minavano dall´interno».
E i gay?
«Un ragionamento che ho ripreso da Salviano di Marsiglia. Coevo di Sant´Agostino».
Come è stata la sua infanzia?
«Tranquilla. Sono nato e vissuto a Roma. Provengo da una famiglia cattolica. Mio padre e mio nonno erano professori universitari. Sono sposato e ho cinque figli ormai grandi».
Come reagiscono alle sue intemerate?
«Sono tutti dei buoni cattolici. Ho il loro sostegno. Certo, ricevo da fuori molti insulti, ma anche gente che mi sostiene e mi incita ad andare avanti».
Ha mai immaginato di farsi prete?
«Non ho mai avuto questa vocazione, né crisi mistiche. Sono un´eco del XXI secolo di una tradizione che viene da lontano e che è radicata nel senso comune. Quelle che espongo non sono idee originali o particolari, perché se tali fossero vivrebbero lo spazio di una bufera mediatica. Al di là della mia persona queste idee affondano nelle radici della coscienza stessa dell´Occidente».
Lei è un cattolico integralista?
«Mi piacerebbe definirmi un cattolico tout court. Ma oggi è insufficiente. Sono un cattolico senza compromessi».
Repubblica 11.4.11
C’erano una volta i barbari
Se lo scontro di civiltà non è un’invenzione classica
di Siegmund Ginzberg
Crudeli e insofferenti verso "gli altri" ma senza mai odiarli
Un saggio spiega come Greci e Romani non fossero xenofobi
Anche nelle guerre contro i persiani non ci fu mai quel clima da "occidente" contro "oriente". E Cesare non disprezza i Galli
Uno straniero lacero, sporco, affamato, proveniente da chissà dove, approda su un´isola del Mediterraneo. Anziché scacciarlo, Penelope ordina di lavargli i piedi. L´indimenticabile scena dell´Odissea ci dà un´idea di cosa pensassero gli antichi dei doveri di ospitalità. Ma ancora più sorprendente è scoprire il rispetto che i Greci nutrivano persino per i loro "nemici giurati", i Persiani, e i Romani per i Cartaginesi, i "selvaggi" del Nord e dell´Est, gli Africani e persino i tanto bistrattati Ebrei. È fin sorprendente quanto negli antichi autori, anche nei più sciovinisti, nei più prevenuti, ci sia sì spesso disinformazione, talvolta pregiudizio, talvolta denigrazione, talvolta senso di superiorità, talvolta fastidio, talvolta anche più o meno bonaria irrisione dell´estraneo, dell´"altro", dello "straniero", ma mai odio. Gli antichi avevano le loro fisime, i loro luoghi comuni, erano feroci coi nemici, crudeli coi vinti, infastiditi dagli ospiti indesiderati e dagli usi e costumi estranei, diversi dai propri. Ma non xenofobi, nemmeno per opportunità politica.
L´ultimo libro del grande classicista americano Erich S. Gruen offre una lettura assolutamente affascinante sull´argomento. Si intitola Rethinking the Other in Antiquity, è stato appena pubblicato dalla Princeton University Press. Prende in esame gli stessi testi che avevano portato altri studiosi ad elencare i semi del pregiudizio etnico, o persino l´"invenzione del razzismo" nell´antichità, ma li colloca nel loro contesto, giungendo alla conclusione che le cose stanno non proprio come siamo stati abituati a considerarle in base ai pregiudizi della nostra epoca, o comunque si prestano a letture più sfaccettate e complesse.
Greci contro Persiani. L´inizio del "conflitto di civiltà" tra l´Occidente e la "barbarie" dell´Oriente. Ovvio, no? No, non così ovvio. Eschilo aveva messo in scena i suoi Persiani appena sette anni dopo che i Greci avevano respinto una massiccia invasione e avevano ragione di temerne altre. Aveva lui stesso combattuto nelle file ateniesi. Non è affatto un pacifista. Eppure i suoi Persiani non sono demoni, sono semplicemente esponenti di una comune umanità, sono vittime travolte da una tragedia politica e umana, non bersagli di propaganda politica. Così Erodoto, il grande cronista delle guerre persiane, che, lungi dal contrapporre schematicamente la "libertà" dei Greci al "dispotismo" orientale, attribuisce ai Greci difetti "orientali", quanto ai Persiani virtù che definiremmo "occidentali". I "ricchi" che pretendono di esportare ai "poveri" il loro più elevato tenore di opulenza e una civiltà "superiore" sono i Persiani, peraltro definiti da Erodoto, senza ulteriori commenti come «più aperti ai costumi stranieri di qualsiasi altro popolo». Gli piace in particolare che abbiano in avversione la menzogna. Non per niente diversi secoli dopo Plutarco l´avrebbe chiamato philobarbaros.
Non si può immaginare peggior nemico per Roma del nordafricano Annibale. Contro Cartagine fu escogitata tutta una violenta "propaganda di guerra". Su quel nemico sono giunti a noi solo i resoconti di parte dei vincitori (e malgrado questo il personaggio giganteggia). Ma nemmeno nella foga delle guerre puniche l´avversario venne presentato come incarnazione della "barbarie nera", mostruosa alterità etnica. Il concetto di Punica fides, di cartaginese infido e per natura traditore si affermò in realtà solo molto dopo la distruzione di Cartagine, e anche lì spesso in modo scherzoso, facendo satira sugli stereotipi, o magari rovesciando le parti, come nel Poenulus di Plauto o anche nell´Eneide di Virgilio. È Enea a fare un brutto tiro a Didone, non viceversa. Straordinario come, anziché affermare la propria identità in termini di "purezza" nei confronti dell´altro, gli antichi si inventassero genealogie fittizie di ogni genere per rivendicare invece origini comuni, se non addirittura una comune umanità con gli altri popoli.
Cesare non disprezza i Galli. Anzi si sforza di studiarli con più profitto di quanto recentemente si sia cercato di studiare l´Iraq o l´Afghanistan, ne sa probabilmente più di quello che oggi sappiamo della Libia, dell´Egitto o dell´Iran. Tacito parla dei Germani, i "barbari" per antonomasia dei suoi tempi, in termini che avrebbero addirittura montato la testa agli apologeti del moderno Terzo Reich. Ma Gruen invita a non perdere di vista la sua vena ironica e a non sottovalutare l´abile manipolazione con cui lo storico romano attribuisce ai Germani virtù e difetti che lui vorrebbe indicare ad esempio o denunciare nella Roma imperiale del suo tempo. Insomma, usa la sua Germania per dire cose che non potrebbe apertamente dire della sua Roma. Pecca di eccesso di assimilazione, piuttosto che di contrapposizione.
Tacito, si sa, fu gran diffamatore degli Ebrei. Era abbastanza cinico da cavalcare il fastidio dei Romani per quella che consideravano una vera e propria, continua invasione di profughi, che per giunta restavano attaccati alle proprie strane usanze, facendo cricca a sé, e addirittura, nelle parole che Giuseppe Flavio attribuisce a Tito, osavano anche ribellarsi contro i loro benefattori, «mordendo la mano che li nutriva». Ma persino le sue invettive potrebbero essere lette in altro modo: come un gioco malevolo che prende di mira gli idioti e i mascalzoni al potere in casa propria, prima ancora che gli stranieri.
E dire che i loro stranieri dovevano essere particolarmente ingombranti. Ne avevano importati a frotte come schiavi, e questi gli facevano paura solo quando si ribellavano. Ma poi, col succedersi di "manumissioni" – era un incentivo formidabile, che fece la fortuna economica di Roma – divennero cittadini a tutti gli effetti, indipendentemente dall´origine etnica, persino dal colore della pelle. I "non romani" divennero ad un certo punto forse addirittura maggioranza. Questo suscitava anche forti risentimenti, specie quando i liberti assumevano posizioni di potere. Sarà magari perché si rendevano benissimo conto che degli stranieri avevano bisogno, ma colpisce l´assenza di incitamenti alla xenofobia viscerale. Paradossalmente i guai cominciarono quando, molto più tardi, cercarono di fermare maldestramente alle frontiere popoli scacciati da altri popoli più aggressivi. Ma questa è un´altra storia.
Repubblica 11.4.11
Le polemiche sulla Arendt a 50 anni dal caso Eichmann
L’11 aprile 1961 cominciava lo storico processo che portò alla "banalità del male"
di Michela Marzano
cinquant´anni di distanza dal processo di Adolf Eichmann, la nozione di "banalità del male" teorizzata da Hannah Arendt ha ancora un senso? L´11 aprile 1961 comincia a Gerusalemme uno dei processi più spettacolari del Ventesimo secolo, quello dell´uomo che, durante il regime nazista, aveva coordinato l´organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. L´annuncio della cattura e del processo di uno dei principali attori della soluzione finale riapre un capitolo rimasto ancora in sospeso dopo Norimberga e attira l´attenzione e la curiosità di tutti coloro che, più o meno deliberatamente, cercano di dimenticare gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Che cosa aveva potuto spingere un alto funzionario a mettersi al servizio di un progetto folle e scellerato? Si trattava di un "mostro" o di un "uomo qualunque"? Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il proprio resoconto del processo e formula, per la prima volta, un´ipotesi scabrosa: Eichmann non è un "mostro"; chiunque di noi, in determinate condizioni, può commettere atti mostruosi. Ma si può osare parlare della Shoah evocando, anche solo come ipotesi teorica, l´idea che il male possa essere banale?
A Parigi, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario del processo e organizza una serie di dibattiti e una mostra imponente: dall´8 aprile al 28 settembre il pubblico può avere accesso a molti documenti inediti, estratti di film, registrazioni e fotografie del processo. A Washington, il Center for Advanced Holocaust Studies ospiterà a maggio un convegno internazionale con la partecipazione della storica Deborah Lipstadt che critica aspramente, nel suo recentissimo The Eichman Trial, la posizione della Arendt. Dopo David Cesarani e Saul Friedländer, che contestano l´idea che la sola "macchina burocratica" abbia potuto portare avanti lo sterminio, la Lipstadt mette in discussione il concetto di "banalità del male". Banalizzare il male contribuirebbe solo ad "assolvere" la cultura europea dalla colpa di antisemitismo. Ma di quale banalità stiamo parlando? Hannah Arendt non voleva assolvere nessuno. Non intendeva fornire alcuna spiegazione storica della catastrofe nazista. Cercava una chiave di lettura antropologica e filosofica dell´azione umana. Della cattiveria. Dell´incapacità di rendersi conto del male compiuto…
Durante il processo, Eichmann non smise mai di proclamare la propria innocenza, spiegando come nella sua vita non avesse fatto altro che ubbidire agli ordini, rispettato le leggi e fatto il proprio dovere. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso», scrisse allora Arendt per spiegare l´inspiegabile. Esiste una "banalità del male" che non si può non prendere in considerazione se si vuole evitare di ricadere nella spirale infernale dei genocidi. Non certo perché il male, in sé, sia banale. Né perché coloro che lo compiono possano essere ritenuti banali. Ma perché tutti possiamo fare il male, talvolta senza rendercene conto, anche se non siamo né sadici né mostruosi. Non si tratta di negare che la perversione esista e che alcune persone provino una jouissance particolare nel far soffrire gli altri. Si tratta piuttosto di spiegare che il bene e il male non sono separati da una barriera invalicabile. Anche se la barriera esiste sempre, superarla è molto più facile di quanto non si possa immaginare.
Nessuno di noi è al riparo dalla barbarie. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato o come si comporterebbe in circostanze particolari. Anzi, tutti possiamo "banalmente" fare il male, perché barbarie e civiltà convivono in ogni essere umano. La cieca obbedienza al dovere può indurre chiunque ad agire senza riflettere. E quando si smette di pensare, non si è più capaci di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il concetto di banalità del male non è dunque né un semplice slogan, come commentò Gershom Scholem al momento dell´uscita del libro di H. Arendt, né un modo per minimizzare quello che la stessa filosofa tedesca considerava la "più grande tragedia del secolo".
Al contrario. È forse l´unica possibilità per spiegare la radicalità del male umano: radicale proprio perché banale; radicale perché tutti possono farlo, talvolta banalmente, anche se alcune persone scelgono di non farlo. Non è difficile capire perché si faccia il male. La vera difficoltà è altrove: come si fa a fare il bene, quando è così facile scivolare nella barbarie, quando basta lasciarsi andare al flusso delle pulsioni per dimenticare la nostra comune umanità?
Il Secolo d'Italia 10.4.11
L'imputato Nietzsche
Un nuovo saggio fa il punto sul "processo politico" al filosofo tedesco:
profeta del nazismo o "spirito liberoi" illuminista? Forse nessuno dei due...
di Mario Bernardi Guardi
qui
Corriere della Sera 11.4.11
I cosiddetti «diari del duce»
Se la (mancata) filologia diventa ideologia
di Pierluigi Battista
Francesco Borgonovo è un giovane e bravo giornalista che cura le pagine culturali di Libero. Per difendere la tesi dell’autenticità dei cosiddetti «diari del duce» che il suo giornale «allega gratuitamente da alcune settimane» non trova di meglio, però, che buttarla in politica. E perciò decide di rintuzzare le tesi dello storico Mimmo Franzinelli, che sulla vicenda delle presunte agende mussoliniane ha dedicato Autopsia di un falso appena uscito da Bollati Boringhieri, sfoderando il consueto armamentario vittimistico purtroppo sempre più in auge nel centrodestra: quel libro infatti, secondo Libero, privo di persuasivi argomenti configurerebbe un barbaro e inconsulto «attacco ai nemici ideologici» . Un attacco ideologico sostenere che i «diari» pseudo mussoliniani portati alla ribalta oramai un anno fa da Marcello Dell’Utri siano molto più pseudo che mussoliniani? Per la verità anche Franzinelli la butta in politica quando sospetta che chi spaccia per genuine scartoffie che non furono scritte dal duce sia in realtà mosso da diabolici intenti «revisionistici» , eccetera eccetera. Ma almeno politicizza le interpretazioni, non i testi. La cornice culturale, non i documenti in quanto tali. Chi invece pubblica dei testi attribuendone la paternità a Benito Mussolini deve dimostrarne l’autenticità secondo criteri storici, filologici, grafologici, insomma scientifici, non secondo criteri di appartenenza politica. Non ha senso sostenere che il dubbio sull’autenticità degli pseudo-mussoliniani è di sinistra, mentre il prestare fede alla loro attendibilità sia di destra. I testi o sono veri o sono falsi. Con lodevole prudenza l’editore Bompiani aveva del resto avvertito il lettore, mettendoli in commercio, che si trattava di diari «veri o presunti» . Aveva accettato l’idea che si trattasse di scritti di paternità controversa. Libero no: i testi che allega li definisce, con perentorietà che non lascia margini a dubbi e contestazioni, «i diari del duce» . Ma nessuno storico autorevole e «indipendente» ne ha avallato l’autenticità. Al momento del molto eclatante «ritrovamento» di qualche anno, lo stesso senatore Dell’Utri aveva annunciato perizie scientificamente inattaccabili. Purtroppo non le abbiamo ancora viste. Ora lo stesso Dell’Utri promette che presto una perizia sgombererà il terreno da ogni perplessità. Vedremo. Con l’avvertenza che, a differenza di ciò che accade nelle vicende giudiziarie, l’onere della prova spetta a chi sostiene l’autenticità di documenti attribuiti a qualche protagonista della storia. E che dunque senza convincenti prove che ne attestino l’attendibilità, è legittimo avanzare il sospetto che si tratti di testi contraffatti. Gli attacchi «ideologici» non c’entrano niente. A meno che non si voglia arrivare che a decidere dell’autenticità di un testo sia autorizzato solo chi vince le elezioni. Un patacca. Ma una patacca a maggioranza.
l’Unità 11.4.11
Ora la Lega araba chiede all’Onu una no-fly zone anche per Gaza
Una «no-fly zone» su Gaza, per proteggere i palestinesi dai raid israeliani. È la Lega araba a formulare la proposta, prendendo ad esempio da quanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso per la Libia.
di U.D.G.
La Lega Araba chiederà all’Onu una zona di esclusione aerea per Gaza, sul modello di quella da poco votata per la Libia. La “no-fly zone” servirà per impedire all'aviazione israeliana di bombardare l'area, spiega Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba. «Abbiamo incaricato il gruppo arabo all'Onu di chiedere una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere che una zona di esclusione aerea sia imposta all' aviazione israeliana su Gaza», dichiara Moussa a margine di una riunione della Lega, al Cairo.
Il sostegno della Lega Araba per l'imposizione della stessa misura sulla Libia è stato fondamentale, ma è difficile, rilevano fonti diplomatiche occidentali al Palazzo di Vetro, che l'Onu prenda una decisione così drastica contro Israele alla luce del lancio di razzi di Hamas. In tutto, 18 palestinesi sono stati uccisi e quasi 70 feriti, secondo fonti mediche, dall'inizio di una nuova fase di violenze a partire da giovedì, quando un missile anti-carro lanciato da Hamas ha colpito un autobus, ferendo gravemente un adolescente in Israele. Si tratta del numero di vittime maggiore dalla fine dell'offensiva israeliana «Piombo fuso» contro la Striscia di Gaza, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, quando morirono 1400 palestinesi e 13 israeliani.
APERTURE E MINACCE
Secondo radio Gerusalemme, Hamas ha fatto sapere a Israele di essere disposto a cessare gli attacchi in profondità contro le città del Neghev, rivendicando però il diritto di continuare azioni di guerriglia lungo la linea di demarcazione tra Gaza e Israele. A Gaza un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha affermato che le milizie palestinesi non sono interessate a un'escalation.«Se Israele cesserà le aggressioni ha affermato in maniera naturale la calma tornerà ».
Secondo fonti palestinesi, Hamas stima che Israele voglia il ritorno al più presto della quiete per non trovarsi impelagato in una vasta operazione militare proprio durante l'imminente Pasqua ebraica. Mohammed Awad, ministro degli Esteri di Hamas a Gaza, ha detto alla stazione televisiva del gruppo “Al-Quds”, che è in cor-so «uno sforzo continuo» per fermare i combattimenti. «Posso dire che siamo in contatto con Egitto, Turchia e Nazioni Unite».
Da Gaza a Gerusalemme. Il ministro della difesa Ehud Barak ha assicurato che Israele non è interessato a estendere il conflitto e che se Hamas cesserà le ostilità, lo Stato ebraico farà altrettanto. «Ma se gli attacchi palestinesi contro civili o militari israeliani dovessero proseguire ha avvertito il premier Netanyahu Israele colpirà Hamas in maniera ancora più dura». E in serata, al termine di una riunione straordinaria del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico, è stato ordinato all'esercito di «continuare a operare contro i terroristi per fermare i lanci (di razzi) su Israele».
Corriere della Sera 11.4.11
Scrittore insegue la vita con l’aiuto della psicoanalisi
Amore e bilanci nel romanzo di Alain Elkann
di Giorgio Montefoschi
«V ede — dice Vittorio Olmi, psicoanalista, al romanziere che da qualche
tempo lo frequenta, seduto sulla poltrona di cuoio davanti a lui— sono
convinto che per scrivere un libro importante, per essere un vero
scrittore, si debba avere il coraggio di andare fino in fondo a se
stessi» . Siamo all’inizio del nuovo romanzo di Alain Elkann, Hotel
Locarno (Bompiani), un romanzo che come il precedente, L’equivoco, ha
per protagonisti uomini in avanti con gli anni, dunque propensi — in una
etàmatura e fragile— a considerare il tragitto della propria esistenza.
Ma cosa può fare uno scrittore che va da uno psicoanalista a chiedere
aiuto e consigli (poiché è bloccato, non riesce a buttar giù una riga),
ed è terrorizzato dai sentimenti altrui, dal pericolo che la passione
amorosa si trasformi in abitudine, se non provare, timidamente e con
cautela, parola per parola, personaggio per personaggio, a inventare
qualcosa, sperando che da questo qualcosa, da un abbozzo qualunque di
trama, nasca quello spiraglio che potrebbe condurlo in fondo a se
stesso? Nulla, perché gli scrittori non sono capaci d’altro. E così, il
romanzo comincia. Con Michael, un critico d’arte settantenne, molto
potente, australiano trapiantato a New York, dedito all’alcol; con le
due donne della sua vita: la sudamericana Gabriela, invadente,
conosciuta in una notte di sbornie a Ibiza, e la bionda Daisy (adesso
sua moglie), incontrata in una mostra, più giovane di lui di circa
trent’anni (bei capezzoli rosati, pelle morbida, spalle rotonde);
infine, con Gloria, una sessantenne inglese protestante, vedova, che
abita in campagna vicino a Manchester e ha messo un annuncio, allo scopo
di trovare un altro cuore solitario, nientemeno che sul «Financial
Times» . Cosa può nascere da questo abbozzo di trama (che lo
psicoanalista incoraggia), in cui noi lettori fin da subito, pur nella
girandola degli spostamenti e degli alberghi, di New York e di Ibiza,
dei loft newyorkesi e delle bevute, dei trasporti amorosi e del sesso,
scorgiamo un desiderio di pace e di tranquillità che nessun azzardo,
nessuna spericolatezza mai ci garantisce? Può nascere un romanzo ironico
e inquieto, e molto mosso, perché sia Michael, che Daisy, che Gabriela,
(per non parlare della ineffabile Gloria, soprano mancato, dama di
compagnia a New York addirittura di una Rockfeller, sposata con un
dentista italiano di nome Vincenzo, e poi vedova, come s’è detto), pur
di seguire le proprie ambizioni e i propri istinti, pur di annegare in
qualche modo i vari naufragi dei rispettivi talenti, non si fermano
davanti a nulla. Però, può anche nascere un romanzo (al quale persino lo
psicoanalista vorrebbe partecipare, e partecipa a un certo punto, col
racconto delle sue incertezze coniugali, e di una infanzia sofferente),
nel quale la combinazione degli eventi e delle varie infelicità,
coronata da un coup de théâtre finale decisamente brillante (sì,
brillante: fra Roma e Napoli, con Gloria e Michael, e in treno), porterà
per davvero lo scrittore in crisi a fare un pacato esame di coscienza, a
scrutarsi in uno specchio limpido. Lì, riconoscerà che dal fondo di una
insopprimibile malinconia ebraica, si distacca un desiderio altrettanto
insopprimibile di carezzare la vita.
Corriere della Sera 11.4.11
Giustizia, le riforme goccia a goccia che producono iniquità e incertezze
di Luigi Ferrarella
Qualunque sia la loro parte in giudizio quando hanno la ventura di
sperimentare tempi imprevedibili e procedure farraginose dei tribunali,
cittadini e imprese conoscono bene quanto costi loro, e alla
collettività, il non poter contare con certezza e uniformità sugli
strumenti ordinari di risoluzione delle controversie. Sconfinata,
dunque, sarebbe la prateria del consenso per legislatori che ponessero
mano a una seria «manutenzione» di risorse, regole e contrappesi del
sistema giudiziario. Peccato che la dichiarata intenzione meno di un
mese fa della maggioranza di legiferare «per i cittadini» una «epocale»
riforma della giustizia sembri sinora assumere curiose traduzioni.
Infilano un emendamento che allarga in maniera generica la
responsabilità civile dei magistrati, proprio nelle settimane in cui tre
giudici d’appello del lodo Mondadori sono in camera di consiglio a
decidere se l’azienda del «cittadino» Berlusconi deve o no pagare 750
milioni di euro per risarcire De Benedetti dei danni di una sentenza che
la Cassazione ha stabilito comprata 20 anni fa da un avvocato
dell’odierno premier nel suo interesse. Investono la Consulta del
tentativo di dirottare il processo Ruby del «cittadino» Berlusconi sul
Tribunale dei Ministri, alla cui eventuale richiesta di giudizio si sa
già che 314 parlamentari negherebbero l’autorizzazione a procedere con
la stessa nonchalance con la quale hanno trangugiato la storiella di
Ruby nipote di Mubarak. Votano domani alla Camera un’altra chirurgica
limatura di 8 mesi alla prescrizione degli incensurati, in modo che,
combinata al taglio già di 5 anni propiziato dalla legge Cirielli nel
2005, incenerisca subito a maggio il processo Mills del «cittadino»
Berlusconi e lo liberi dalle ambasce di dover convivere fino all’anno
prossimo con l’incubo di una condanna in primo grado per corruzione
giudiziaria. E poi piazzano al Senato una norma che impedisca ai
Tribunali di sfoltire le liste di testi da elenco telefonico, in modo
che il «cittadino» Berlusconi, nel processo sui diritti tv Mediaset dove
oggi ascolterà discutere proprio della superfluità o meno della
moltitudine di testimoni citati dalle difese, possa contare sul fatto
che le eccezioni dei suoi avvocati legislatori trovino comunque
accoglienza in Parlamento nella legge caldeggiata dai suoi legislatori
avvocati. «Dal produttore al consumatore» può essere insegna confortante
per i prodotti in salumeria, dove le leccornie di uno fanno l’utilità
gastronomica di tutti, ma per le leggi sulla giustizia è deprimente in
Parlamento, dove l’impunità per uno è ottenuta sacrificando i diritti di
molti, le aspettative delle parti lese, gli interessi degli imputati.
Chi in passato aveva patteggiato sulla base delle regole vigenti, in
futuro con la prescrizione breve vedrà salvarsi i coimputati che a non
patteggiare erano sembrati matti, e che ora invece le ultime estrazioni
della «ruota della fortuna» legislativa agganceranno al «trenino» degli
interessi processuali del premier. E chi ieri vittima di un reato
nutriva qualche affidamento su un ristoro in giudizio, domani andrà a
ingrossare la fila delle parti lese con un pugno di mosche in mano nei
170 mila fascicoli che ogni anno vanno in prescrizione già con le regole
attuali. Prima e più ancora dell’impatto quantitativo sui processi, a
dover dunque essere temute sono la strage qualitativa dei principi,
l’iniqua disparità di trattamento goccia dopo goccia di norme
estemporanee, la (in) certezza del diritto prodotta dal caotico
stratificarsi di norme irrazionali e contraddittorie: appunto come la
prescrizione breve agli incensurati, che va nella direzione opposta del
«pacchetto sicurezza» di appena il 2008, e che nel solco della Cirielli
fa discendere da qualità soggettive, come l’essere incensurati o
recidivi, l’interesse oggettivo dello Stato a perseguire due autori ad
esempio della medesima truffa per addirittura 3 anni di tempo in meno o
in più. Visto che lo contrabbandano «processo europeo» , di europeo in
tema di giustizia potrebbero prima fare qualcos’altro. Magari allinearsi
alla direttiva per i pagamenti delle imprese da parte della Pubblica
amministrazione in 30 giorni, anziché nei 128 di media che strozzano la
dovuta liquidazione alle aziende di 37 miliardi di euro (il 2,4%del
Pil): ma stranamente per l’approvazione definitiva dello Statuto delle
imprese licenziato sinora in un ramo del Parlamento, un po’ come per la
desaparecida nuova legge sulla corruzione annunciata più di un anno fa,
non sembrano essere convocate sedute-fiume di ministri e peones,
precettati invece per votare la prescrizione breve del processo Mills.
Neppure farebbe male un approccio «europeo» ai numeri veri della
giustizia, ad esempio per abbandonare il ritornello stantio dei 5
milioni di cause civili pendenti, quando ben 1 milione (cifra che da
sola libererebbe nei tribunali più sprint di qualsiasi piano di
«rottamazione» di cause fatte smaltire a cottimo da giudici non di
professione) dipende già solo dal contenzioso previdenziale dell’Inps,
scaricato sugli uffici giudiziari da ambiguità normative e furbizie
elettorali. All’ «europea» andrebbero benedetti sia un meno barocco
sistema di notifiche, capace di finirla con la farsa di sentenze che
«saltano» per una notifica fatta anni prima bene a un avvocato ma male
al domicilio del codifensore, e di azzerare i vizi formali che ogni
giorno fanno rinviare 12 processi su 100; sia lo stop ai processi agli
imputati irreperibili, per sgravare i tribunali dall’ingolfamento di
questi processi ai «fantasmi» che l’Europa ritiene appunto tutti nulli, e
che allo Stato costano però decine di milioni di euro di inutile
«gratuito patrocinio» . E più di tutto è forse il carcere che il
legislatore dovrebbe rendere «europeo» , tanto più che nel 2009 dalla
Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo arrivò la prima condanna
dell’Italia per aver detenuto una persona in meno di 3 metri quadrati a
testa: eppure oggi i detenuti in più rispetto alla capienza delle celle
sono 22.280 persone, cioè 2.500 più di quanti fossero quando 15 mesi fa
quando il governo dichiarò lo stato di emergenza e pluriannunciò un
piano-carceri. Segno che solo sugli spot non cala mai la prescrizione.
Corriere della Sera 11.4.11
Un piano per salvare Pompei
Troppi errori nel passato, ora puntiamo sulla manutenzione
di Andrea Carandini
Pompei non si è trasformata in stratificazione come Roma. È stata
coperta da lapilli nel 79 d. C., che l’hanno imballata intatta per il
futuro. Purtroppo scavatori troppo avidi hanno tolto i lapilli e così il
corpo della città ha cominciato a corrompersi dal Settecento e
figuriamoci oggi come è ridotto. Grande parte della città, non protetta
da coperture, ha perso gli ornamenti e si sfarina, e le parti
inadeguatamente coperte vengono danneggiate da infiltrazioni. Un tempo
giravano per la città una novantina di operai che suturavano fessure e
pulivano gronde, ma il manipolo è da tempo svanito e gli archeologi si
sono ridotti a uno. Chi è senza colpa? Tutti coloro che hanno operato a
Pompei hanno lavorato bene e hanno compiuto errori: denari non spesi,
incongrui capannoni, spese immotivate. Ora è venuto il momento di
ricominciare con il giusto piede. La meraviglia di Pompei non sta nella
planimetria. Conosciamo intere città antiche nelle due dimensioni, come
Timgad in Algeria. Sta piuttosto negli elevati, nella conservazione dei
dettagli e nei rari piani superiori. Ma questi possono essere
documentati soltanto in rilievi a tre dimensioni, che ancora mancano e
però essenziali alla tutela, alla conoscenza e alla comunicazione.
Pompei è in gran parte inedita! Non si tratta solo di mosaici, pitture e
stucchi, ma di quell’insieme di strutture e apparati decorativi fissi
che ne formano l’inscindibile essenza. Per proteggere e apprezzare
Pompei occorre dominarla con precisione, problema un tempo quasi
impossibile, ma oggi risolvibile grazie ai rilievi a nuvole di punti.
Pompei si salva, più che con riparazioni a danno avvenuto, con opere
modeste e diffuse di manutenzione periodica. La manutenzione è diventata
un metodo programmato che è stato elaborato dall’architetto Roberto
Cecchi, oggi segretario generale del ministero. Prima lo ha sperimentato
negli edifici medievali e moderni e poi, da commissario straordinario,
lo ha esteso alle rovine di Roma. Il Consiglio superiore dei Beni
culturali ha proposto infine di allargarlo a tutte le rovine antiche del
Paese, quindi anche a Pompei. Un recente decreto consente finalmente di
assumere trenta archeologi e quaranta operai, e poi vi è da contare sul
finanziamento ottenuto per lo stesso decreto e vi è forse da sperare
anche in un finanziamento europeo. Alla buona tutela deve accompagnarsi
la gestione della sicurezza, dei servizi e dell’accoglienza. I
visitatori — abitanti attuali di Pompei — apportano ventimilioni di euro
l’anno, essenziali alla conservazione del sito. Evidenti sono dunque le
necessità manageriali, ma un modello funzionante e condiviso non è
stato ancora trovato, per cui la discussione rimane aperta. Più facile è
impostare la conoscenza sistematica del tessuto urbano e la sua
comunicazione al pubblico: i rilievi tridimensionali consentono di
entrare in ogni edificio privato e pubblico tramite schermo, il che
serve a definire precisamente e periodicamente i diversi gradi di
vulnerabilità di costruzioni e decorazioni e a conoscere il monumento
stesso; per non dire poi della loro assoluta indispensabilità in caso di
sisma. I rilievi consentono anche di ricostruire graficamente i piani
superiori, in modo da restituire gli edifici nella loro integrità,
compresi mobilia e corredi. Infine l’analisi stratigrafica degli elevati
consente di narrare la storia degli isolati negli ultimi secoli della
città, per non rimanere ancorati al solo momento dell’eruzione. A questo
proposito il Consiglio superiore ha auspicato una cooperazione fra il
ministero dei Beni culturali e le università italiane che abbiano
competenze di archeologia sul campo, le quali potrebbero adottare uno o
più isolati, a partire da quelli solo in parte scavati e a ridosso degli
interri, dove la minaccia di crolli è maggiore. A tali adozioni
scientifiche si potrebbero accompagnare adozioni per la conservazione
finanziata da privati. La soprintendenza dovrebbe garantire un metodo
unitario, onde rendere i risultati comparabili e cumulabili. Si tratta
di affrontare una novantina di isolati in tempi ragionevoli. Pompei
rimarrà sempre un oggetto irraggiungibile: mai potrà aprire al pubblico
tutte le case, ma qui potrebbe soccorrere un museo virtuale di Pompei su
Internet, che permetterebbe anche a chi vive a Tucson, in Arizona, di
curiosare in ogni stanza dell’abitato, prima di visitarlo. Serve in
conclusione a Pompei un grande progetto culturale, tecnologicamente
sofisticato, che si orienti verso uno scopo di conservazione e di
apertura conoscitiva al mondo.
l’Unità 11.4.11
L’occhio bionico
Dal Giappone la retina costruita in provetta
di Cristiana Pulcinelli
Una retina costruita in provetta. Il primo passo per ottenere un occhio bionico. Un risultato importante e inaspettato quello raggiunto da un gruppo di ricercatori giapponesi che, infatti, hanno ottenuto che alla loro ricerca fosse dedicata la copertina dell’ultimo numero di Nature.
La retina è di topo ed è stata costruita grazie alle cellule staminali. Si tratta del tessuto biologico più complesso costruito finora in laboratorio e potrebbe aprire la strada alla cura di alcune malattie che colpiscono l’occhio umano, comprese alcune forme di cecità. Naturalmente la tecnica deve essere adattata alle cellule umane e si deve dimostrare che il trapianto dell’occhio artificiale sia sicuro, cose che richiederanno probabilmente anni. Tuttavia, un’applicazione che già si può avere della nuova tecnica è aiutare gli scienziati a studiare le malattie degli occhi e a cercare delle nuove terapie, inoltre la stessa tecnica potrebbe essere utilizzata per guidare l’assemblaggio di altri organi e tessuti. La struttura è stata creata da Yo-
shiki Sasai del Riken Center for Developmental Biology a Kobe, in Giappone. Il gruppo di ricerca ha fatto crescere le cellule staminali embrionali di topo in un nutriente contenente le proteine che spingono le staminali a trasformarsi in cellule della retina. All’inizio le cellule formavano ammassi di cellule della retìna, ma già nella settimana successiva, l’ammasso informe cominciava a trasformarsi in una struttura che si osserva nello sviluppo normale dell’occhio, il calice ottico.
I ricercatori non sanno se il calice ottico ottenuto possa vedere la luce o trasmettere gli impulsi al cervello, e questo è quello che vogliono scoprire in futuro. Ma intanto la scoperta più stupefacente è la capacità delle staminali embrionali di lavorare autonomamente, le cellule del topo infatti sono riuscite a coordinarsi e a ricomporsi in strutture diverse per dare vita a un organo complesso.