domenica 10 aprile 2011

l’Unità 10.4.11
L’uomo che balla sul Titanic
di Maria Novella Oppo


Ogni giorno tutti i tg, compreso il Tg3, sono costretti a ospitare un siparietto di Berlusconi che fa le mossette, dice volgarità e attacca magistratura e Costituzione. Casualmente (o forse no) l’altro giorno lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, ospite di Augias su Raitre, descriveva l’esaltazione e il delirio di onnipotenza di certe personalità patologiche. Era un ritratto perfetto di Berlusconi e del suo male, denunciato al Paese dalla ex moglie, alla quale dobbiamo l’allerta sul quadro clinico del sultano. Ma ormai è un
Titanic vivente: mentre cola a picco nei sondaggi, balla e canta, incapace di contenersi. E, come disse sempre la signora Veronica, nessuno di quelli che gli stanno vicino fa niente per salvarlo da se stesso: sono tutti troppo impegnati ad approfittare delle ultime opportunità. Chissà quanto ci avrà messo il Titanic a colare a picco. Diciamo molte ore, o forse addirittura un giorno intero, mentre l’affondamento di Berlusconi dura da anni e ha creato un gorgo tale che rischia di trascinare a fondo anche quelli che lo contrastano.

l’Unità 10.4.11
Migliaia in piazza nelle città. Un’Italia dentro l’Italia che protesta senza simboli e bandiere
«Il nostro tempo è adesso» La rivolta di ricercatori, giornalisti, insegnanti, cassintegrati
Tanti precari un solo sogno «Una vita normale»
Dicono: «È solo l’inizio di un percorso». Sono i precari d’Italia, i saperi e la cultura, i giovani e i 40enni dimenticati dalle politiche del governo. Ieri hanno manifestato nella capitale tra gli applausi dei romani.
di Maria Zegarelli


Quanti sono? Quindicimila, ventimila, diecimila? Sono comunque troppi perché ognuno di loro ne rappresenta altri dieci, cento, mille e tutti insieme sono il popolo dei precari, gente a cui è stato tolto il futuro, trasparenti fino a ieri, assenti dai Tg1 di Minzolini, dai Tg4 di Emilio Fede, dalle cronache dei giornali di regime. Non importa quanti sono, importa che finalmente siano qui per farsi sentire e raccontarci chi sono. Rappresentano quella parte sofferente che ha deciso che no, adesso basta, «il nostro tempo è adesso e siamo qui per prendercelo». Per questo mandano in scena la loro «Street parade», «prima tappa di un lungo percorso».
L’ITALIA DOLENTE
Precari della scuola, della ricerca, dell’informazione, dell’Alitalia, della Rai, dello spettacolo, delle piccole e medie imprese. Di un Paese che sembra averli abbandonati con un governo che li ha cancellati dalla propria agenda intasata dai Ruby-gate, dai processi Mills, dalle leggi da far votare al Parlamento per salvare il re che è nudo ma non c’è nessuno dei sudditi di palazzo che provi a dirglielo. Sono qui grazie alla Rete dei movimenti, delle associazioni, una rete che hanno costruito per non cadere nel vuoto del silenzio. C’è il tricolore lungo 60 metri sventolato dal Popolo viola e ci sono le bandiere del partito comunista, dei verdi, di Sel, dell’Idv. Partono da piazza della Repubblica, con i tir che sparano decibel e si balla e si protesta, si ride e ognuno racconta le proprie storie. La gente saluta dalle finestre, approva e incoraggia. Non te reggae più di Rino Gaetano, Bella Ciao, i Ramones. Volti giovani, donne con la pancia, passeggini, capelli rasta, barbe sale e pepe, facce da liceali, genitori di precari. «Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta», recita lo striscione che apre il corteo. «Ho 27 anni, laurea in Filosofia e 15 lavori diversi alle spalle» racconta Maria Pia Pizzolante. «Chiediamo di raccontarci e non di essere raccontati», urla dal Tir uno degli organizzatori. «Più tutele per chi tutela», scrivono gli archeologi. Alessandra Filograno dice che sono 15 anni che lavora per i partiti e per i politici, «sempre in nero. Come quando sono stata dai radicali, precaria per anni e quando sono andata via ho scoperto che non mi avevano versato neanche un contributo». I politici ci sono, ecco Fabio Mussi, dietro lo striscione di Sel: «Questa è la questione del secolo, deve essere il primo punto del programma del futuro governo di centrosinistra». Rosy Bindi presidente Pd arriva da sola, cammina insieme a Susanna Camusso, segreteria Cgil. Cantano Bocca di rosa di De André, ballano sulle note di Bella Ciao. «È bello che si siano organizzati per essere in piazza dice Bindi perché finora non avevano avuto rappresentanza. Questa è la parte migliore della società, rappresentano il sapere, la cultura, il futuro ed hanno bisogno di risposte mentre questo governo è assente, preso da altri pensieri». Loro, i manifestanti hanno le idee chiare: vogliono un welfare universalistico, ammortizzatori sociali, nuove regole contro la precarietà, salari sicuri. Una vita “normale”, di quelle dove puoi permetterti una casa, anche in affitto, e se vuoi un figlio, senza dover firmare le tue dimissioni in banco quando ancora è nella pancia. Francesco Vitucci dell’Associazione dottorandi italiani dal palco: «Non abbiamo nessuna intenzione di abbandonare questo paese, vogliamo difenderlo da chi lo umilia ogni giorno». Sotto attacco il governo e le sue non politiche, «ci avete rotto i co... con il bunga bunga» scandiscono lungo il corteo. Vincenzo Vita, Pd, solidarizza con i precari del giornalismo, Nichi Vendola spiega che è venuto qui «per respirare aria pulita in un Paese in cui dalle classi dirigenti si promana cattivo odore». Dice che questa che sfila è «una generazione considerata vuoto a perdere». Sono 4 milioni i precari d’Italia, per questo «servono più investimenti nella scuola e un piano straordinario del lavoro». «Il governo deve accettare il confronto con l’opposizione, mettendo da parte le vicende personali del premier» commenta Stefano Fassina, responsabile economia dei democratici.
CALZINI E MUTANDE
In piazza dell’Esquilino ci sono tende da campeggio, calzini e mutande appesi, per protestare contro la mancanza di case e politiche di welfare per i giovani. La segretaria Cgil mette in fila le priorità: «Il problema più urgente è la riorganizzazione degli ammortizzatori sociali ma c’è bisogno di intervenire contro il precariato del lavoro, contro gli stage che di fatto sono lavoro gratuito mentre il lavoro subordinato è lavoro subordinato, non altro». Definisce questa «una giornata straordinariamente importante perché a chi si chiedeva dove erano finiti i giovani italiani e arrivata la risposta. Sono qui». E sono piuttosto arrabbiati.

La Stampa 10.4.11
Le due Italie del lavoro che non si parlano

di Mario Deaglio

Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, come quella di ieri, articolata in varie fasi e in varie città, sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa e rappresenta un importante sviluppo economico-sociale.
Iprecari, infatti, tradizionalmente sono cani sciolti, con diversissime storie personali, ai quali la continua mobilità rende comunque difficile, in via normale, un’azione comune. Assunti a termine, pagati, di solito non molto, e poi arrivederci e grazie. Una simile situazione può anche essere accettabile se esiste una sorta di patto implicito in base al quale questi spezzoni di lavoro, a termine o a tempo parziale, si possono trasformare in un lavoro vero entro un ragionevole intervallo di tempo. In questo caso l’attività precaria può costituire una sorta di apprendistato, anomalo ma in grado di insegnare una professione; non è invece possibile restare apprendisti - o precari - per tutta la vita.
Con la crisi economica la durata del precariato si è allungata, la sua natura è cambiata. I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello dell’Alitalia quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, e quindi privilegiata, cassa integrazione, mentre i precari rimasero sostanzialmente a bocca asciutta. Per questo il rapporto con il sindacato è molto difficile anche se la Cgil, che ha appoggiato le manifestazioni di ieri, fa di tutto per ricucire uno strappo generazionale. Non basta però, rendere più difficile il licenziamento, come appunto la Cgil propone, occorre rendere più facili le assunzioni a tempo indeterminato. E questo si può fare soltanto cercando di imboccare a tutti i costi un sentiero di crescita, un argomento di cui il Paese, apparentemente troppo occupato con il teatrino della politica, con gli insulti tra parlamentari e le barzellette sconce del presidente del Consiglio, si dimentica allegramente.
Che i precari sopportino direttamente gran parte del peso della crisi è confermato dall’analisi della Confartigianato, resa nota ieri, in base alla quale quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (una fascia di età in cui i precari sono molto fortemente rappresentati) ha perso il lavoro nel 2009-10, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio derivante dall’incertezza del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, insegnanti vedono le loro prospettive di vita messe in forse dai tagli alla spesa pubblica e non ricevono alcuna solidarietà dal resto del Paese.
E’ chiaro che la riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010, che risulta dai dati diffusi dall’Istat qualche giorno fa, deve essere avvenuta tra queste fasce dai redditi più deboli. Sempre qui, e non certo tra i lavoratori a tempo indeterminato del pubblico impiego, si deve collocare gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, risultato, nell’ultimo trimestre del 2010, inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. La risalita del potere d’acquisto rispetto ai minimi toccati un anno fa (-6,4 per cento) è lentissima: di questo passo ci vorranno 4-5 anni, sempre che tutto vada bene, perché il potere ritorni, in termini reali, alla situazione precedente la crisi. Il vero interrogativo è se l’Italia possa permettersi altri quattro-cinque anni di stagnazione dei consumi e dei risparmi familiari, altri quattrocinque anni con i giovani con la cinghia tirata che lavorano con il contagocce senza alcuna vera possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita.
Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso. La comunicabilità tra i due Paesi è scarsa, le due parti non si conoscono.
Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo pur in contesti ovviamente molto diversi con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio? Quanti rappresentanti hanno in Parlamento i lavoratori precari? E quanti appartenenti alla classe politica, ossia parlamentari nazionali e regionali, nonché consiglieri provinciali, comunali o di quartiere hanno meno di quarant’anni? Quanti sono i quarantenni in posizioni di primo piano nelle strutture delle imprese?
In Italia, nessuna banca offrirebbe a un giovane di talento facilitazioni creditizie del tipo di quelle di cui negli Stati Uniti hanno potuto godere Bill Gates e Steve Jobs, che sono così riusciti a creare imprese di successo e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Politici come Obama (50 anni), Sarkozy (56 anni), Merkel (57 anni), Cameron (55 anni), Zapatero (51 anni) in Italia non avrebbero spazio. L’Italia non ha favorito il ricambio generale e ha, per così dire, saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne. Ma un Paese che non sa risolvere i problemi dei suoi precari diventa esso stesso precario, cresce stentatamente e viene marginalizzato a livello internazionale. Come dimostrano gli avvenimenti recenti.

il Riformista 10.4.11
Riuscirà il Pd a non farsi scippare questa battaglia?

Vendola scende in piazza e si intesta i cortei, Montezemolo lancia la sua proposta. I democratici si spaccano, tra chi vuole maggiore flessibilità e chi no
http://www.scribd.com/doc/52682522

l’Unità 10.4.11
«Clandestini invasori»
Quando le stesse parole diventano razzismo
Il linguaggio usato dai media per raccontare l’esodo dei migranti trasuda di stereotipi. La prospettiva della narrazione è sempre dalla parte del paese d’arrivo. Mai di partenza
di Iglaba Sciego


Emergenza, orda, valanga, invasione, assalto, paura. Queste alcune delle parole usate nei media questi giorni per descrivere la situazione nell'isola siciliana di Lampedusa. Tutta la vicenda è stata raccontata sempre da una sola prospettiva quella del paese di arrivo. Ho notato infatti che nella narrazione è sempre assente la voce dei migranti o dei media non ufficiali. Il discorso mediatico è sempre diretto da un “Noi” che racconta un “Loro”. Il “Loro” è considerato dal “Noi” un problema da eliminare ad ogni costo. Conosciamo questo “Loro” attraverso immagini sempre uguali a se stesse: li vediamo sui barconi, in fila sotto lo sguardo vigile di un poliziotto con la mascherina (mascherina che ci rimanda a possibili malattie) o mentre manifestano per un tozzo di pane e un po' di acqua. Siamo abituati ormai ai primi piani stretti che deformano questi volti stanchi e frustrati. I migranti sono equiparati nei servizi Tv ad animali: puzzano, ringhiano, si agitano. I giovani tunisini    si trasformano davanti a nostri occhi in non persone. Non hanno un nome, una età o un sentimento. Questa disumanizzazione che parte dalle immagini culmina nell'uso della parola “clandestino”. Questa parola disumanizza, non ci fa tener conto delle mille storie individuali, della situazione di partenza da cui il migrante arriva. Cancella tutto e ci fa venire il dubbio che questo qualcuno che arriva forse è un delinquente. Il clandestino è un non essere, non ha emozioni, non ha voce, non pensa e in definitiva anche se respira non vive. È diverso dal “Noi” e deve essere relegato dove non può fare danni. La figura del clandestino ricorda molto da vicino la categoria degli atavici di Lombro-
siana memoria, ossia quelle persone che il determinismo scientifico (e razzista) del XIX secolo considerava assassini nati. I media inoltre hanno creato ad arte la distinzione tra migranti buoni e migranti cattivi, da una parte queste non persone, i clandestini e dall'altra i poveri cristi dei rifugiati che scappano dalle guerre. Purtroppo molta sinistra è caduta nella trappola di questa cattiva pratica ideata dal centrodestra e quasi tutti, in buona fede, hanno cominciato a dividere i buoni dai cattivi, i clandestini dai rifugiati. Certi i somali, gli eritrei, gli etiopi sono profughi, provengono da un Corno D'Africa infiammato dai conflitti e hanno davvero bisogno di aiuto.
Ma anche i tunisini hanno davvero bisogno d'aiuto. Dobbiamo ricordare che il    Nord Africa sta vivendo un momento molto delicato della sua storia e che le dittature che hanno esasperato queste popolazioni sono state appoggiate (e rimpinguate) dall'Occidente intero. Non è un caso che Bettino Craxi sia sepolto proprio in Tunisia. Ben Alì ha purtroppo potuto soffocare la sua gente per anni anche con il nostro aiuto. Servirebbe un piano Marshall per creare lavoro in Tunisia dare una spinta al turismo e trovare una soluzione comune. Questo fermerebbe la fuga dei giovani. Ma nessuno per ora ci sta pensando. Ma queste colpe “europee” (e italiane in particolare) non sono illuminate a sufficienza dai media né tantomeno dalla politica. Non creano opinione. Non portano a provvedimenti. Inoltre, a mio parere, i media non hanno messo in luce nemmeno il parallelismo che c'è tra i giovani tunisini e i giovani italiani. Mi è capitato di pensarci rileggendo giorni fa Vivo Altrove di Claudia Cucchiarato, giovane giornalista italiana residente in Spagna Claudia ha raccolto le storie di alcuni tra le decine di migliaia di giovani che negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare l'Italia. Giovani stanchi del precariato, stanchi di non trovare lavoro, stanchi di non vedersi valorizzati. Noretta, Angela, Marco, Roberto, Claudia Cucchiarato stessa hanno trovato altrove la loro vita e ora sono felici di aver riacchiappato il proprio futuro all'estero.
Ora questo succede se si ha un passaporto europeo o del cosiddetto primo mondo. Se disgraziatamente non si hanno questi requisiti le cose vanno diversamente. Mi sono chiesta in questi giorni quale sia la differenza tra un Marco, cittadino italiano, e un Ahmed, cittadino tunisino, per esempio. Entrambi hanno 20 anni, entrambi hanno sudato sui libri, entrambi amano il rap e Eminem. Perché per alcuni, la gente di Marco, il diritto al viaggio è un diritto acquisito che non si discute e per altri questo diritto non è contemplato? Perché Marco può prendere un aereo, viaggiare pulito e tranquillo, mentre Ahmed deve prendere un barcone fatiscente e rischiare la vita? Hanno la stessa età, gli stessi sogni, la stessa voglia di futuro. Purtroppo hanno geografie diverse.
Dobbiamo a sinistra riflettere anche su questo... perché qui si decide che paese vogliamo costruire nel futuro, se uno basato sui diritti umani o uno basato sui privilegi per pochi noti.

il Fatto 10.4.11
Il naufragio dell'umanità
di Silvia Truzzi


 Venerdì al largo di Pantelleria la Guardia costiera ha arrestato tre scafisti tunisini che per seminare gli inseguitori avevano costretto cinquanta “passeggeri” a buttarsi in mare. Non si trattava di “mors tua vita mea”: era immaginabile che li avrebbero inseguiti e comunque presi. Eppure quelle donne e quegli uomini avranno pregato, avranno guardato gli aguzzini negli occhi prima di buttarsi. Nei giorni dell’emergenza a Lampedusa, obiettivi e telecamere hanno portato nelle nostre case quegli occhi, persi nella desolazione dei rifiuti e degli accampamenti di fortuna, in attesa di una sorte che promette solo altro dolore. Sul sito del “Corriere” uno dei superstiti del naufragio si è fatto intervistare per raccontare l’angoscia della sua traversata, in cui 250 compagni sono morti a causa della tempesta. Non ha mai alzato lo sguardo verso la camera, né la voce da un tono che era, semplicemente, angoscia. Quando la giornalista gli ha chiesto come si chiamasse, ha risposto: “Victor Hugo”. Noi – i veri Miserabili – trattiamo i disperati che scappano verso l’Europa come cose che si possono gettare in mare, trasportare come pacchi, ridurre a barzelletta, slogan o macchietta para-elettorale. Tipo il Nobel per la Pace, ma ci sarà presto qualche trovata per distrarre l’attenzione dallo sguardo addolorato di Victor Hugo. Intanto la villa è stata acquistata, il premier ha detto: “Sarò lampedusano”. Li ospiterà lui tutti i nipotini di Mubarak in fuga da guerra e povertà. Anche Enea, mitico padre della civiltà romana, scappava da una città assediata: Troia. E anche lui era diretto in Italia, quando una terribile tempesta lo fece naufragare dalle parti di Cartagine. “Arma virumque cano” (canto l'armi e l'eroe): ci ricordiamo più o meno questo dell'inizio dell'Eneide. Ma Virgilio nei versi successivi racconta chi è Enea: “Profugo per fato”, “perseguitato per terra e per mare dall'ira degli dei”. Anche allora, un “mare seminato dai cadaveri” e “sulla sabbia corpi che grondano mare”. Dalle coste d'Africa a quelle d'Italia, in questa secolare alta marea, qualcuno si è perso. Molti uomini, risucchiati dall’acqua e oggi anche il sentimento dell'uomo: la pietas – che accompagna Enea oltre le pagine dei libri di scuola – non la riconosciamo più. Una ventina di secoli dopo stessa spiaggia, stesso mare, stessi morti. Abbiamo guadagnato campi da golf e casinò, ville e freddure di pessimo gusto. Né Lampedusa né l’Italia possono accogliere la disperazione del mondo intero, ma nemmeno fare spallucce, liquidando la questione con il disprezzo del razzismo: la vendetta degli dei bisognerebbe continuare a temerla, come ai tempi di Enea. In “Natale di seconda mano”, De Gregori raccoglie il canto degli ultimi: “Sior capitano aiutaci a attraversare questo mare contro mano/ Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo e questa notte non abbiamo/governo e Parlamento non abbiamo...”. Invece noi il governo e il Parlamento li abbiamo, sono ugualmente contro mano, ma non c’è verso di riprendere una diritta via. Un ministro può intimare al tormento degli immigrati “fora da i ball” e il massimo che succede è qualche articolo sul giornale. È la favola del folklore leghista, che invece è pericoloso rancore di cui tutti, da Bolzano a Lampedusa, dovremmo vergognarci profondamente. Alla fine, ecco il bilancio: gli unici naufraghi degni di interesse sembrano essere quelli dell'Isola dei famosi.

La Stampa 10.4.11
I martiri del mare spariti nella ricerca del sogno europeo
Nell’entroterra della Tunisia, città intere rimaste senza più giovani padri che piangono i figli partiti e mai arrivati: “Forse non può chiamare”
di Domenico Quirico


ATataouine non c’è il mare. Solo sabbia e roccia; anche le case hanno un colore bigio dentro a quei muri la luce gioca con chiaroscuri risentiti, il vento dal deserto si ingolfa nelle strade, gonfia le tende e le cose. Le vesti delle donne che qui sono ancora quelle berbere, tradizionali, antiche sembrano grossi fiori seminati dal vento tra le connessure dei sassi. Molti anni fa vi hanno girato alcuni esterni di «Guerre stellari», le sequenze di un pianeta desolato nelle più lontane galassie, una sorta di deserto siderale.
Non c’è il mare, ma tutti ne parlano, conoscono i venti e le maree, le sue furie improvvise e i lunghi giorni di bonaccia: il Mediterraneo, il loro sogno, la loro maledizione. La giovane rivoluzione tunisina con orgoglio affigge nelle strade i volti dei suoi martiri, i giovani che dandosi fuoco e immolandosi davanti alle raffiche degli sgherri di Ben Ali il tiranno, hanno costruito la rivoluzione. Ed è bene, bisogna avere degli eroi.
Un giorno forse affiggerà sui muri anche i volti dei ragazzi che sono partiti in mare, hanno tentato il passaggio in Europa e non sono tornati. Anche loro sono eroi. Costruirà uno di quei sacrari ingenui e strazianti che si vedono nei nostri paesi di costa, con gli umili ex voto di quelli che si sono salvati e le rappresentazioni schizzate alla meglio di come il mare sappia essere crudele e senza scampo. Ci vorrà spazio, per questo. Perché sono molti, troppi: questa gioventù immolata al sogno di una vita migliore, questi emigranti che hanno pagato, invano, una fortuna il loro eroico diritto di partire.
Ci vorrà tempo per ritrovare tutti i nomi, che sono centinaia, forse migliaia. Nessuno finora si è occupato di loro. Come fossero i dispersi di una guerra perduta. Sotto la dittatura partire era un reato, era meglio tacere. E dopo: dopo, nessuno ha interesse a parlarne, a cercare, noi per non turbare la nostra buona coscienza di avari, e loro, i tunisini, perché hanno il pudore orgoglioso di fallire, rispetto agli altri che ce l’hanno fatta. Non c’è nulla di più duro dell’orgoglio dei poveri.
Perché cercarne le fila proprio a Tataouine? Perché, come molte città e villaggi dell’interno della Tunisia sommersi dalla povertà, sono stati svuotati dalla fuga verso l’Europa, sono città senza giovani. E qui le storie di quelli che sono scomparsi nel mare sono tante, troppe. Quante? Impossibile fare statistiche, Bisognerebbe percorrere tutto il Paese, con metodo, inseguire le rotte di barconi partiti, di messaggi che non sono arrivati, di storie improvvisamente interrotte. E poi sono drammi che risalgono per lo più a tre, quattro anni fa; quando ancora si partiva dalla Libia perché qui funzionava la caccia di Ben Ali ai clandestini che erano diventati la sua cambiale, il suo buon affare con l’Europa. L’epoca dei gommoni, degli scafisti libici senza pietà e dei loro soci di Bengarden, città tunisina di traffici lerci e di frontiere porose.
Poi ci sono le storie recenti, quelle già dell’epoca di Lampedusa, dei passaggi pagati mille euro, dei passeur tunisini. Attenti: nulla è cambiato, con quelle barche arrivare nell’isola è un caso fortunato, la regola semmai è il dramma, il naufragio, come quello che questa settimana ha inghiottito la nave degli africani e i suoi 150 disperati. Quante barche, da gennaio, sono scomparse nel Canale di Sicilia nella notte, senza testimoni, senza possibilità di chiedere aiuto?
Il meccanismo è sempre lo stesso: una puleggia che si inceppa, un filo che si schianta, il motore che si ferma e con esso la pompa che aspira l’acqua nella stiva. Un incidente minimo, di cui non sapremo mai nulla. Abbiamo di quegli istanti solo il racconto dei pochi sopravvissuti: i gelidi soffi e i respiri del mare, come di una massa che ti striscia a lato, qualcosa pronto a balzare. E dopo qualche ora la superficie torna vuota come innanzi che il mondo fosse.
Questa Tunisia dei migranti è divorata dalla mancanza di un domani, non la senti subito, è una specie di polvere, vai e vieni senza vederla, la respiri, la mangi, la bevi, ti divora sotto i nostri occhi e non puoi farci nulla. Se restate qualche giorno qui, forse sarete vinti dal contagio, si può vivere molto a lungo con questo in corpo.
Quella di Mohamed è una di queste storie antiche: 2007, agosto. Partiti da Zouara, in Libia, appena oltre la frontiera. In venti su un gommone, tutti amici, tutti nati qui. Il padre e il fratello di Mohamed raccontano con una voce, un accento che il passare degli anni ha reso astratto, sembra uno di quei vetri smerigliati che lasciano passare soltanto una luce diffusa in cui l’occhio non distingue nulla. Non oso dire che sotto tale superficie del tempo il dolore si sia decomposto; si è pietrificato, piuttosto.
«Ci ha chiamati con il telefonino quando era già in mare, era partito di nascosto perché sapeva che ci saremmo opposti, che l’avremmo fermato. Poi ancora una chiamata, esattamente dopo un giorno: “Siamo quasi arrivati, è fatta anche se il motore funziona male…”. Dopo queste parole il contatto è caduto. Poi più nulla. E anche dagli altri che erano con lui solo silenzio. Abbiamo aspettato, aspettiamo ancora». V’era quasi appena un impalpabile rimorso, d’aver inferto al figlio il colpo mortale, accettando il distacco e la lontananza, di non aver intuito nulla. Mi ha messo in mano la sua foto, quasi a forza, non la volevo: «Tienila, quando torni in Italia tu puoi forse fare qualcosa…».
Il padre di Yassin invece non si è rassegnato. Anche suo figlio è partito nel 2007 e voleva andare in Belgio dalla sorella, che vive là ed è sposata. Inghiottito dal silenzio: ma non completamente. Il dolore, dopo tanti anni, è ancora vivo, si dibatte, è come un’acqua torbida in cui è immersa la vita di quest’uomo che per incontrarmi ha indossato il vestito buono. Tira fuori una busta, custodita in fondo a un cassetto con le cose preziose di famiglia: dentro, impallidita dalle innumerevoli volte in cui è stata aperta, dispiegata interrogata per ore, la fotocopia di una foto a colori: su un molo, o forse è il ponte di una nave, controllati da uomini in uniforme, un gruppo di ragazzi. Sono seduti a terra, come si usa con i prigionieri. «Ecco, vedi: il terzo qua dietro… è lui. È Yassin… e questo è il suo amico di infanzia... e l’altro in seconda fila, un altro ragazzo di qua..». E gli mette a fianco una fototessera, grande.
Yassin ha la faccia spavalda di chi ne ha combinate di tutti i colori, un figliol prodigo ma di quelli che, alla fine, tornano sempre a casa, pentiti, innocenti. Stento a trovare somiglianze, il volto sulla foto di gruppo è troppo minuscolo, quasi senza contorni. Mi vergogno di non avere l’amore disperato che aguzza la vista. «Questa foto l’ha mandata mia figlia, è uscita su “Le Figaro” e la didascalia diceva che era un gruppo di clandestini salvati dalla polizia italiana. Le date corrispondono… lui è lì, forse è ancora in prigione da qualche parte, per questo non ha più chiamato…». Dopo quattro anni… Ho la rabbia per questa causa perduta, per questa assurda quadrata certezza che subito gli si rinsalda dentro! Ma taccio, cerco di accogliere umilmente questo dolore, mi sforzo di farlo diventare mio, di amarlo.
Girando per le case degli scomparsi non ho mai parlato con le madri, le sorelle. Certo le ho viste in una stanza, in attesa; sono anche comparse con il cibo e il tè della fastosa ospitalità contadina, che si svena per darti il benvenuto. Ma non ho mai incontrato il loro lato di dolore. Che è tutto maschile: di padri di fratelli di cugini di amici. La scomparsa di Nizar è più recente, una delle ultime partenze prima che gli accordi con Gheddafi fermassero anche la via libica. Il padre racconta, in una casa in Rue de Tadjkistan in cui i suoni, qualsiasi suono sembra già troppo forte; con voce interrotta, rapida, come ci si libera di una confessione umiliante, una voce da confessionale: «Lo so che è passato troppo tempo, che avrebbe già dovuto chiamare e poi in ogni caso gli altri per lui... ma come posso rassegnarmi e tacere?». Già; noi siamo uomini di un mondo che riflette calcola le probabilità. Ma per chi ha accettato una volta per tutte, come questa gente, la presenza del divino in ogni istante della nostra povera vita, che peso possono avere le probabilità? Calcolare a che serve? Contro Dio non si gioca.
Ancora un Mohamed, un altro. Il padre si è rivolto a un avvocato perché facesse ricerche e l’ha ben pagato: «Dopo un giorno mi ha chiamato, mi ha detto: sono stato a Tunisi, ho fatto il giro di tutti gli uffici, per cercare tracce. Adesso sono in Italia, ma non c’è niente neppure qui. Spiacente… In Italia… dopo un giorno…».
La sua voce ha sospensioni, nel racconto, di durata infinita, attimi intollerabili. Che si succedono come all’estremo del dolore fisico, pause strane di ottusità e di atonia. Quando quasi non si crede di aver tanto sofferto un minuto prima. E mi dicevo che non avrebbe resistito. Per ascoltare storie come questa ci vuole una pietà forte e dolce, come quella dei santi, l’infantile paura che si prova per le sofferenze altrui.

Repubblica 10.4.11
Condannati all'isolamento

di Adriano Prosperi

Lampedusa? L´isola è svuotata, ora è tutto a posto, dice Berlusconi. Sì, svuotata l´isola come ripulita Napoli, come ricostruita l´Aquila. Le notizie degli sbarchi smentiscono in diretta l´ottimismo dell´imbonitore. Ma c´è dell´altro.
Ci sono i rapporti con gli altri Paesi europei, Francia e Germania in particolare. Qui manca ogni accordo sulla gestione dei flussi umani dall´Africa. Niente paura, dice il premier: «Se non fosse possibile arrivare ad una visione comune, meglio dividersi». Questa è dunque la ricetta dello statista: la divisione dell´Italia dall´Europa. Divisione: la parola è sorta spontanea sulle labbra del premier non certo per caso. Quella parola aleggia da tempo nella realtà della vita del Paese. Nello spazio dei pochi giorni trascorsi dalla festa dei 150 anni dell´Italia unita il Paese che si era faticosamente ritrovato all´ombra del tricolore si presenta oggi lacerato come non mai, diviso non solo fra Nord e Sud ma fra una regione e l´altra, fra una borgata e l´altra. Così, a festa finita, la questione dell´unità ci appare oggi come un problema serio e grave.
La festa dell´Unità d´Italia poteva essere un´occasione importante per ripensare alla storia e alle prospettive del Paese. Ma alla festa si è associata una cattiva compagna di strada: la retorica dell´unità. Chiamiamo retorica dell´unità ogni lettura del passato e del presente che ignora le fratture, esalta il processo di unificazione come un moto armonioso e concorde e tenta di cancellare differenze e divisioni col silenzio, con la proposta di una storia ufficiale corretta "ad usum delphini" e con l´eliminazione delle tracce istituzionali e simboliche delle fratture profonde del Paese.
"Io amo l´Italia" è una di quelle espressioni della neolingua berlusconiana che hanno fatto breccia nel nostro parlare, così come la teatralità dei gesti patriottici di ministri che scimmiottano l´inevitabile modello americano quando si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera. Ma sono anni ormai che la retorica dell´unità si accompagna in Italia a una revisione o piuttosto alla decisa espurgazione della storia documentata del Paese diviso e feroce che abbiamo alle spalle. In questo contesto bisogna certamente accogliere e dare credito alla giusta preoccupazione di chi invita a guardare a ciò che unisce e a mettere la sordina a ciò che divide. È un invito sacrosanto se si tratta di unirci per affrontare i problemi e le fragilità che minano la società italiana e la allontanano dall´ideale che ebbero in mente i patrioti del Risorgimento e i combattenti della libertà repubblicana contro il nazifascismo. Ma non può diventare una autocensura unilaterale mentre il nemico della vera unità guadagna posizioni su posizioni. Davanti alla lacerazione del tessuto del Paese abbassare i toni rischia di valere come una rinunzia a difendere i diritti fondamentali dell´uomo e del cittadino.
E questi diritti si difendono partendo dalla condizione di chi diritti non ne ha: il dannato della terra, la figura dai tanti nomi – il rifugiato, l´immigrato, il clandestino. Chiediamoci quale immagine e quale esperienza dell´Italia abbiano oggi i profughi che, sopravvissuti a tragedie senza nome, riescono con enormi rischi e difficoltà a toccare le coste meridionali e insulari del Paese. Queste donne, questi uomini, non hanno storia per noi, sono i dannati della terra, sono il popolo senza nome dei sommersi. Ma, se non diventano letteralmente tali annegando nel Mediterraneo, se sopravvivono e se riescono a fare come quegli emigranti italiani che trovarono in altri Paesi società più libere e giuste, un giorno saranno loro stessi o i loro figli che scriveranno la storia vera del nostro tempo, quella che vivono e di cui oggi sono le vittime. E non sarà la storia di un´Italia unita. Sballottati da una regione all´altra, sempre però al di sotto di quella linea gotica che nel nome porta la memoria di antiche e recentissime fratture del Paese (la lingua è spesso un inesorabile quanto inascoltato documento storico), accolti dalla canea di folle incoraggiate dalla politica di una forza politica razzista e xenofoba che mira al disfacimento del Paese, sono i testimoni autentici dello stato di salute dell´Italia di oggi.
Se fossimo capaci di guardare le cose dal loro punto di vista capiremmo forse quanto l´unità oggi sia qualcosa di sideralmente lontano dalla realtà quotidiana oltre che dalla prospettiva futura del Paese. E non è certo un caso se quei profughi non vogliono restare in Italia e si dirigono verso altri Paesi, verso quell´Europa da cui oggi ci si vorrebbe addirittura dividere. Quella parola "divisione" affiorata oggi nelle esternazioni del premier è da prendere sul serio: è grazie al suo governo, grazie a un ministro degli Esteri che si occupa di Antigua e a quello degli Interni che pensa alla Padania, oggi l´Italia non solo non ha più una politica mediterranea, ma non ha da tempo nessun credito e nessun peso nella politica europea. Ci sarà modo di risalire da questo abisso? Forse: ma certo non con questi uomini: non con una maggioranza sedicente di governo che passa le sue giornate in Parlamento affannandosi a regalare a ogni costo una nipotina all´esiliato signore dell´Egitto.

La Stampa 10.4.11
L’Italia spalle al muro tutta l’Unione è contro
La commissaria Ue scrive a Maroni: non si può neanche discutere In Lussemburgo la partita è ardua ancora prima di cominciare
di Marco Zatterin


Non c’è solo Nicolas Sarkozy a dire che «la clausola temporanea» non è praticabile. La norma che l’Italia ha annunciato di voler invocare domani al Consiglio dei ministri degli Interni Ue, cioè la regola varata nel 2001 per il Kosovo (e mai usata) che in teoria potrebbe aprire la porta della redistribuzione dei migranti su base continentale, rischia di avere appena due sostenitori su ventisette, Roberto Maroni e il collega maltese. L’uomo del Viminale rischia di trovarsi con le spalle al muro e forse lo sarebbe anche se ci fosse consenso sulla sua richiesta. «La clausola non è vincolante e comunque vale per chi ha diritto alla protezione internazionale - spiega una fonte della Commissione -, Roma, invece, ripete da giorni che si tratta di migranti economici da rimandare a casa...».
Il tremendo destino dell’onda umana che arriva ogni giorno e ogni notte a Lampedusa sta tirando fuori il peggio di tutta l’Europa, o quasi. L’Italia fatica a trovare alleati, circostanza che i funzionari comunitari a conoscenza del dossier imputano in buona parte alla confusione strategica che sin dall’inizio ha caratterizzato la nostra gestione della crisi. Viene considerato un errore aver gonfiato l’allarme all’inizio dell’esodo dal Nord Africa, come quello di aver chiesto aiuti sproporzionati e di aver scaricato sistematicamente le responsabilità su Bruxelles, da dove - invece - sono arrivate offerte di aiuto e finanziamenti. Molte delle quali, si è scoperto, sono state ignorate.
Questo è servito da pretesto perché molti Stati chiudessero a doppia mandata il forziere della solidarietà. La Francia di Sarkozy, agitata dal consenso crescente dell’estrema destra lepeniana, ha deciso e attuato una politica della tolleranza zero, anche perché ha avuto la non astrusa sensazione che l’Italia facesse da ponte perché i tunisini si spingessero oltralpe. Il mondo nordico ha colpevolmente sottovalutato l’evento, Germania compresa, e con due ragioni in più: la Merkel in crisi non vuole immigrati e, al solito, teme che l’interesse per il Sud distragga dall’Est. Di qui anche la freddezza delle nuove democrazie dell’ex oltrecortina.
Maroni ha ripreso a gridare contro l’Europa non solidale a fronte di «un popolo italiano che mostra sempre collaborazione». Non lo aiuterà domani, in Lussemburgo, quando solleciterà risorse aggiuntive, una ridefinizione della distrubuzione dei rifugiati e, ecco il piatto forte, l’attivazione della procedura della direttiva 55 del 2001. «E’ un finto dibattito - spiegano fonti europee -. Non c’è consenso ed è una norma priva di alcun automatismo». La Commissaria Ue per l’Immigrazione, Cecilia Malmstroem, ha già scritto la lettera da spedire a Maroni per dire che non vede le condizioni di procedere. Fine del match.
Il leghista del Viminale subirà un nutrito fuoco di fila sulle carte di soggiorno a tempo. «Uno Stato ha il diritto di emettere dei permessi, ma bisognerà determinare la conformità della pratica con le regole di Schengen», riassume la Malmstroem. Un problema? «Per circolare liberamente occorre un permesso, ma anche un titolo di viaggio valido, provare che dispone di mezzi sufficienti e di un’abitazione, non comparire nella banca dati Schengen, ecc». Tutti requisiti che, per forza di cose, i disgraziati fuggiti dalla Tunisia non hanno.
La Francia sarà la prima a sparare ad alzo zero. Non l’unica. «C’è anche un’altra questione - spiegano alla Commissione -. La titolarità di un permesso temporaneo disinnesca la possibilità che la polizia italiana possa fermare sul territorio nazionale i clandestini divenuti temporaneamente legali». Questo vuol dire che possono arrivare in Francia senza ostacoli ed essere cacciati indietro senza complimenti. Certo che qui Parigi viola i patti di Schengen, perché non può blindare le frontiere a puro piacimento. Gli accertamenti «non possono essere sistematici», ricorda la Malmstroem, però sono ammessi se «mirati». Bisogna essere cauti. I margini ci sono e la gendarmeria può fare ciò che vuole. In fondo, per ora, nessuno sta controllando i controllori.

il Fatto 10.4.11
E la scuola va in tribunale
di Marina Boscaino


Ricordate le 3i (Internet, Inglese, Impresa), mix di neoliberismo e annunci d’effetto, inizio del declino della scuola? Sostituitele con tante T. T sta per Tribunali, fonte di dispiaceri per il nostro ministro. Gli “incidenti di percorso” dell’”Epocale Riforma” iniziano dagli ATA. Il Tar Lazio, su richiesta di Snals-Confsal, ha messo in discussione l’articolo 64 del D.L. 112/2008, (l. 133/2008 - 135mila posti di lavoro in meno a scuola), che riduce del 17% amministrativi tecnici e ausiliari: la norma risulta “ispirata a mere esigenze di cassa”. Altro che “razionalizzazione e semplificazione”. Un giudice di Genova ha attribuito un ampio risarcimento a 15 precari senza posto di lavoro, dopo che la Consulta aveva dichiarato a febbraio incostituzionale l’inserimento “in coda” nelle graduatorie. E così il Codacons ha promosso la più ampia class action pubblica italiana; docenti della scuola e universitari a contratto rivendicano i propri diritti e hanno diffidato i ministri di Istruzione e Pubblica Amministrazione: sono 40mila precari che chiedono stabilizzazione e 30mila euro ciascuno di risarcimento. Ancora Codacons, ancora class action, stavolta sulle aule-pollaio, zeppe di studenti, in condizioni che violano i limiti di legge: in gennaio il Tar Lazio ha accolto l’istanza contro il MIUR. Il tribunale ordinario di Milano ha poi accertato “la natura discriminatoria della decisione delle amministrazioni scolastiche di ridurre le ore di sostegno scolastico per l’anno in corso rispetto a quelle fornite nell’anno scolastico precedente”, ordinando “la cessazione della condotta discriminatoria” e condannando “i convenuti, ciascuno per le rispettive competenze, a ripristinare, entro 30 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, per i figli dei ricorrenti il medesimo numero di ore di sostegno fornito loro nell’anno scolastico 2009/2010?. Ancora la Consulta - sentenza 92/2011 - ha stabilito che la disciplina per istituire scuole dell’infanzia spetta alle Regioni e non allo Stato; mentre sono competenza statale i criteri per istituzione e funzionamento di quelle del 1° ciclo. La Corte ha in parte accolto i ricorsi con cui Toscana e Piemonte sollevavano conflitto di attribuzione, lamentando la lesione di funzioni regionali (art.117 della Carta) e il contrasto delle norme impugnate con il principio di leale collaborazione (art.118), per la mancata previsione della necessaria intesa con le Regioni, e con quello di sussidiarietà. Insomma: il diritto si configura come baluardo di civiltà in un Paese in cui non è ancora possibile costruire, con concordi azioni unitarie, opposizione costante ed intransigente ai tagli che il governo camuffa con una sigla buona per ogni stagione: “riforma”. Che i tribunali arrivino là dove la mancata coesione tra forze democratiche non contrasta in maniera adeguata una politica dissennata che ha individuato nella scuola una fonte di profitto, anziché di investimento, è triste ed evidente. Altrettanto evidente è che la scuola delle molte T ci rimanda alla formula della Moratti, riveduta e corretta: I come inadempienza, improvvisazione, inanità. Dilettanti allo sbaraglio, che imperversano aggiungendo una quarta e più grave I: illegittimità.

La Stampa 10.4.11
Germania, fuga dalle chiese
«Colpa dello scandalo dei preti pedofili che ha travolto numerose diocesi»
di Alessandro Alviani


In Germania bastano una carta d’identità e dieci minuti di attesa dietro la scrivania di un funzionario della pretura o dell’ufficio dello stato civile per abbandonare la Chiesa cattolica. L’anno scorso, sull’onda dello scandalo dei preti pedofili che ha travolto numerose diocesi, i tedeschi che si sono presi quei dieci minuti di tempo sono stati molti più del solito: secondo un’indagine pubblicata sul supplemento «Christ & Welt» del settimanale «Die Zeit» ammontano a circa 180.000, oltre 50.000 in più del 2009. Il dato ufficiale verrà diffuso dalla Conferenza episcopale all’inizio dell’estate, ma potrebbe essere ancora più alto: il calcolo della Zeit si basa solo sui casi comunicati da 24 delle 27 diocesi tedesche.
Per la prima volta nella storia della Repubblica federale la Chiesa cattolica potrebbe dunque aver perso più fedeli di quella protestante: la Chiesa evangelica tedesca stima infatti che nel 2010 gli abbandoni nelle proprie file siano stati poco meno di 150.000.
Particolarmente colpite dal fenomeno sono le diocesi della Baviera di Papa Benedetto XVI, che a settembre sarà in Germania per la sua prima visita di Stato. Nella diocesi di Augusta, sconvolta dalle accuse di maltrattamenti su minorenni contro l’ex vescovo Walter Mixa, gli abbandoni solo saliti di oltre il 70%. Più moderato l’incremento nell’arcidiocesi di Monaco Frisinga, dove i fedeli che hanno fatto domanda per «uscire» dalla Chiesa sono stati 23.254, circa il 30% in più del 2009. Nella più grande arcidiocesi tedesca, quella occidentale di Colonia, i casi sono stati 15.163 (+41%).
Tale aumento «testimonia la perdita di fiducia che la Chiesa ha subito soprattutto per via dello scandalo degli abusi» - ha scritto il vicario generale di Colonia Dominik Schwaderlapp -. Ciò è per noi doloroso, in quanto evidentemente molte persone hanno scelto l’abbandono della Chiesa come loro personale forma di protesta e repulsione». «Non vogliamo ignorare la crisi dell’anno scorso, ma guardiamo avanti per riconquistare la credibilità perduta», ha aggiunto il portavoce della Conferenza episcopale, Matthias Kopp.
Per il movimento di riforma della Chiesa «Wir sind Kirche» si tratta invece di un «bilancio spaventoso»: dal 1990 quasi 2,8 milioni di fedeli hanno lasciato la Chiesa cattolica in Germania.

Repubblica 10.4.11
Il fattore Anna Bolena

di Agostino Paravicini Bagliani

S cisma è una parola di origine greca che significa squarcio, fenditura, quindi anche dissidio e, nel linguaggio ecclesiastico, separazione all´interno della Chiesa cristiana, la cui storia è attanagliata da scismi fin dai primi secoli. Quelli antichi, di Novaziano, di Melezio e di Lucifero di Cagliari, per esempio, sono oggi dimenticati. Altri invece - quello tra Bisanzio e Roma, consumatosi nel 1054 - sono momenti di rottura che fanno parte della nostra memoria storica. Anche la Riforma protestante, con le sue varie chiese, luterana, calvinista e zwingliana, provocò una separazione definitiva da Roma che è stata appena attenuata dall´ecumenismo di questi ultimi decenni.
Meno di vent´anni dopo le famose tesi luterane di Wittenberg (1517) che segnarono l´inizio della Riforma, il re inglese Enrico VIII promulgò nel 1534 l´"Atto di supremazia" che gli permise di sostituirsi al Papa nel governo della chiesa del suo regno, allontanando così definitivamente l´Inghilterra dalla cattolicità romana. È una storia, quella dell´anglicanesimo, che ha conosciuto momenti di altissima drammaticità. Nel 1587 la cattolica Maria Stuarda, regina di Scozia, fu fatta imprigionare, condannare per tradimento e giustiziare dalla cugina Elisabetta I, regina d´Inghilterra, figlia di Enrico VIII. Ma è una storia attraversata anche da momenti di forte compromesso. Già il Libro della preghiera comune (Book of Common Prayer), pubblicato nel 1549, lasciò ampio spazio alle cerimonie e preghiere della liturgia cattolica. Nel Settecento, la gerarchia anglicana, diretta da William Laud, arcivescovo di Canterbury, e sostenuta da Carlo I, guardava con favore al cattolicesimo, provocando una forte opposizione dei puritani.
Contrariamente alla bassa chiesa (Low Church), più ostile a Roma, la High Church (chiesa alta) espresse nella dottrina, nella liturgia e nell´organizzazione ecclesiastica linee di continuità con la Chiesa cattolica, ed è su questa linea storica di lunga durata che si sviluppò nei primi decenni dell´Ottocento (1833) il cosiddetto movimento di Oxford, di cui fece parte John Henry Newman, che Leone XIII creerà cardinale nel 1879 (e Giovanni Paolo II beatificherà nel 2010). Aveva contribuito alla nascita del movimento oxoniano il desiderio di rileggere i padri della Chiesa ma anche una certa nostalgia della ritualità cattolica. Il vicario anglicano W. J. E. Benner aveva fatto scalpore intorno al 1850 con le sue proposte di reintrodurre nella vita liturgica anglicana le candele, l´incenso, oltre che oggetti e vesti liturgiche.
Il movimento di Oxford segnala l´esistenza di una linea di fondo, in seno all´anglicanesimo, che non riusciranno a fermare i regolamenti disciplinari di tardo Ottocento e che, anzi, è contrassegnata da conversioni illustri, prima fra tutte quella di John Henry Newman (1845), la cui personalità influenzò altri convertiti famosi, come gli scrittori Julien Green (1916), G. K. Chesterton (1922) e Evelyn Waugh (1930). Su quell´onda lunga nascerà nel secondo Novecento un genuino orientamento ecumenico sostenuto dall´arcivescovo di Canterbury A. M. Ramsey.
L´anglicanesimo, scisma nato per ragioni essenzialmente politiche - il matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena, osteggiato dalla Chiesa di Roma - ha da sempre oscillato tra un forte sentimento nazionale e anti-romano, vicino ad altri movimenti riformatori (calvinismo), e un´attrazione, anche nostalgica, verso il cattolicesimo che si manifesta fin dall´inizio e che non sembra affatto essersi affievolita. È uno scisma in qualche modo a metà - non a caso si attribuisce a Newman la coniazione del termine di via media - un caso unico in seno alle Chiese nate dalla Riforma del primo Cinquecento.

Corriere della Sera 10.4.11
Il diritto dei bambini a non soffrire

La legge c'è ma è inapplicata
di Mario Pappagallo

Poco più di un anno fa, il 19 marzo 2010, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge numero 38: «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore» . Per la prima volta si è sancito un diritto di civiltà: quello dei bambini di non soffrire, di non provare dolore. Di avere tutto ciò che serve per una buona qualità di vita anche se inguaribili. Compreso l’affetto e il calore dei familiari. Insomma, una legge rivoluzionaria per un’Italia culturalmente in ritardo sul diritto a non soffrire. Il dolore va diagnosticato e curato sia esso cronico (mal di schiena, mal di testa), post-operatorio o da tumore. Sia esso invadente memento di un male incurabile o terminale. E per la prima volta si è stabilito che i bambini hanno lo stesso diritto degli adulti a ricevere tali attenzioni e cure. Un diritto che andava realizzato su base regionale, o sovraregionale, attraverso reti specifiche. In Italia sono circa 11 mila i minori, dai pochi mesi di vita fino ai 17 anni di età, incurabili o terminali (un terzo per un tumore, due terzi per altra causa) che necessitano di cure palliative pediatriche. Tuttora, però, gli interventi risultano limitati a esperienze individuali e isolate. E la maggior parte dei piccoli inguaribili o terminali continua a vivere per lunghi periodi e morire in ospedale: oltre il 60%dei casi (in alcune realtà fino al 90%) e di questi, circa il 40%in situazioni critiche. Impressionanti i dati nazionali: 1.600.000 giorni di degenza ospedaliera all’anno e 580 mila giorni nei reparti di terapia intensiva, anche quando sarebbe possibile la gestione domiciliare o in strutture residenziali dedicate (hospice pediatrici). Con costi per il servizio sanitario pari a circa 650 milioni di euro all’anno che scenderebbero a 80-90 milioni con la nuova legge applicata. La scelta delle cure a casa, peraltro, attualmente ricade comunque sulle famiglie, con oneri spesso insostenibili. La legge c’è, va applicata. Lo sa la Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus che, il 21 aprile, darà avvio da Palmanova (Udine) a una campagna nazionale di sensibilizzazione, formazione e promozione sulle cure palliative e la terapia del dolore. Parola d’ordine: ogni paziente inguaribile è curabile.

Corriere della Sera 10.4.11
Il business del Male

Perché ci attrae tanto l’esibizione del macabro
di Pierluigi Panza


I lmale? Non proviamoci nemmeno a definirlo. Neppure Kant è riuscito a capirne l’origine: «Per noi— scrisse il filosofo di Königsberg— non c’è alcuna causa comprensibile dalla quale il male possa essere venuto» . Ma se non ne conosciamo l’origine, possiamo almeno definirne l’azione. Il critico letterario francese Georges Bataille ne diede una formula convincente: «Il male è la violazione deliberata di alcune proibizioni fondamentali» . Anzitutto la violazione di quelli che Freud definì i tabù, come cannibalismo, proibizione dell’assassinio, rispetto per i cadaveri, divieti sessuali, rifiuto del suicidio e automutilazioni... Al di là della persistenza di alcuni macabri rituali in comunità primitive, i principali territori di pascolo della rappresentazione del male nell’età moderna sono stati le arti e la letteratura. Secondo Bataille, la letteratura è addirittura «inseparabile dal male» e scrittori come Baudelaire e Kafka sono stati consapevoli testimoni. Anche oggi, arti e discorso — declinato nelle forme della letteratura, del giornalismo, del messaggio pubblicitario e televisivo — sono i mezzi espressivi del male. Anzi, configurano, in una parte significativa del loro operare, un business del male; un male mostrato, esibito, che rende in termini di visitatori, lettori, audience. Ovvero denaro. Tanto che il voyeurismo del male ha in parte soppiantato quello del porno. Non esistono dati specifici su quanto fatturi la rappresentazione del male, ma gli operatori dei settori elencati sanno che funziona. Lo propongono perché funziona; funziona perché lo propongono. Oggi, nelle mostre d’arte, la tendenza al macabro — come riemergere del tema delle «vanitas» — è costante e redditizio. Iniziò alla XLVII Biennale di Venezia (1997) Marina Abramovic stando seduta su una montagnetta di ossa maleodoranti. Per quanto questo suo Barocco Balcanico— denuncia delle stragi nella ex Jugoslavia— fosse sconvolgente e macabro, lo era assai meno di quanto messo in scena dagli Azionisti (tagli sul corpo, automutilazioni...) e di quanto esposto in una delle mostre più visitate del nuovo millennio: quella del tedesco Gunther Von Hagens, il dottor morte. Questo anatomopatologo espose nel 2002 in un’ex birreria dell’East End di Londra 26 cadaveri scorticati e 189 «pezzi sciolti» (mani, genitali, cervelli, fegati, embrione), tutti sottratti alla naturale decomposizione mediante un metodo d’imbalsamazione. L’esposizione, che ha toccato varie capitali del mondo, ha raggiunto i 13 milioni di visitatori. E a New York, nell’autunno del 2005, l’ingresso costava ben 25 dollari! Nel 2005, alla Palazzina di Caccia di Stupinigi ha avuto successo un’esposizione (curata da Vittorio Sgarbi, doppio catalogo dell’editore Skira, 67.409 visitatori) dal titolo Il Male. Esercizi di pittura crudele, con oltre 350 opere di maestri come Balthus, Schiele e varie foto d’autore di teste mozzate nelle varie guerre africane. Ma questi sono solo alcuni degli esempi. Ritratti di personaggi sgozzati c’erano, ovviamente, nella mostra Caravaggio-Bacon dell’ottobre 2009 alla Galleria Borghese; il nuovo MAXXI di Roma ha aperto i battenti esponendo davanti all’ingresso lo «scheletrone» di Gino De Dominicis; la Fondazione Trussardi ha appeso a Milano i «bambini impiccati» di Cattelan; Palazzo Grassi ha esposto sul Canal Grande il megateschio di Subodh Gupta (Very Hungry God) e la Triennale, con Disquieting Images, ha lanciato la prima rassegna fotografica vietata ai minori di 14 anni, appendendo alle pareti un florilegio di crudi reportage (diecimila visitatori). Code ci sono anche per l’esposizione del teschio ricoperto da diamanti, intitolato For the Love of God, esposto da Damien Hirst a Palazzo Vecchio di Firenze, che attira circa settemila visitatori a settimana (e i suoi spin skull, teschi colorati sono prodotti serialmente e venduti a 5 mila euro). Inoltre, come racconta in un libro appena uscito Micòl Di Veroli (Oltre ogni limite. Cronache dal bizzar- ro nel mondo dell’arte contemporanea, DEd’A) c’è chi, come Tania Brughera, si è presentata alle performance di Autosabotage (2009) puntandosi una vera pistola alla tempia. Del resto, in Shoot (1971), l’artista Chris Burden si è fatto sparare al braccio da un amico. Tutto ciò ha un seguito perché la mediazione estetica rende sopportabile, e in qualche modo emozionante, la visione del male che, altrimenti, ci appare insopportabile, come provato da molti di fronte alle immagini realistiche delle esecuzioni di Daniel Pearl o Nick Berg da parte dei fondamentalisti islamici. Ma l’arte è solo una delle modalità espressive nelle quali il male si esprime e realizza il proprio business. I telefilm dedicati al crime sono in tutti i palinsesti televisivi. E Sky ha un canale apposito, Fox Crime. Una volta, ai tempi di Perry Mason, il cadavere rimaneva sullo sfondo: oggi, invece, è esibito. E con i telefilm CSI lo spettatore è catapultato sulla scena del crimine e dentro il laboratorio anatomico, accanto ai cadaveri (anche all’ora di cena). I cadaveri abbondano anche sulle copertine dei settimanali e nelle pagine dei quotidiani. Vedere un cadavere attraverso un medium sta diventando una forma di dipendenza. Tanto che alla tv del dolore, nata il 13 giugno del 1981 quando milioni di telespettatori assistettero impotenti alla morte di Alfredino Rampi, si sta sostituendo la tv dell’orrore: casi insoluti, amori criminali, omicidi familiari spuntano in ogni canale. La sera dell’arresto di Sabrina Misseri (caso di Avetrana), la trasmissione Matrix ha raggiunto uno share del 42%, record per le sue edizioni. Altre trasmissioni danno quotidianamente o settimanalmente conto di molti casi di cronaca nera (anche insieme) per assicurarsi audience. E sebbene i truci filmati trasmessi in queste trasmissioni possano apparire per educandi rispetto a quelli caricati su YouTube (tra i quali autopsie con apertura di crani), più di un gruppo di pressione sta sollevando critiche. Ultimo quello formato da un insieme di parlamentari, che hanno chiesto alla dirigenza Rai di valutare se i programmi pomeridiani della tv pubblica non siano troppo sbilanciati sulla cronaca nera. Nella letteratura, come ha scritto Bataille, il male è congenito. E anche se non si riesce più a raggiungere il livello di raffinati capolavori di malvagità come quello scritto da Emily Brontë, e nemmeno l’espressionistica violenza di Anthony Burgess (e Stanley Kubrick), l’attenzione di tanti scrittori contemporanei va sempre al confronto con il male. Così sono nate tendenze, come la «Letteratura cannibale» e un proliferare di testimonianze d’individui precipitati nella droga, nella prostituzione e vari mali di vivere, di cui va ghiotta l’editoria. Si pensi a un recente libro, vivace ma agghiacciante, come L’imbalsamatrice di Mary B. Tolusso (Gaffi editore), storia di una ragazza che passa il tempo a imbellettare cadaveri e a confidarsi con loro. L’attrazione fatale per la rappresentazione del male e del macabro investe tutti i campi del discorso. Ci sono blog che spiegano «Perché alle ragazze piace essere trattate male» , saggi che argomentano Perché agli uomini piace soffrire, video musicali con cadaveri fumanti, come quelli della pop-star Lady Gaga e strofe di canzoni ispirate al dolore come quelle di Love the way you lie di Eminem (cantata da Rihanna). Ovunque la rappresentazione del male è diventata motore del commercio. Ma perché funziona così bene? «Il male funziona perché è incastonato nella struttura della nostra evoluzione. Siamo passati, negli ultimi quattro milioni di anni, da primati antropomorfi a passeggiare sulla Luna; ma tutto ciò non è avvenuto senza versare una goccia di sangue, anzi» , afferma lo psichiatra e neurobiologo Luca Pani. «I medesimi sistemi chimici e le abitudini ambientali che sottendono e rinforzano ossessioni, vizi e perdizioni in un abuso crescente di impulsi incontrollabili sono le ragioni che ci fanno identificare qualche volta con la vittima e più spesso con il carnefice, pur con tutte le inibizioni morali del caso. Nessuno lo ammetterebbe mai, eppure quello che ci rende unicamente uomini è la repentina e diabolicamente straordinaria abilità di essere l’unico animale che sa usare le mani per dipingere la Capella Sistina e per sganciare la bomba su Hiroshima» . Se oggi il tributo dell’evoluzione al male è particolarmente consistente è anche perché viviamo in una società avida e ambiziosa. Secondo alcuni psicologi e neurologi, l’osservazione della rappresentazione del male può aiutare a sopportare l’infelicità che una società invidiosa scatena. Il team di ricercatori giapponesi di Hidehiko Takahashi dell’Istituto Nazionale di Scienze Radiologiche di Inage-ku, ha condotto una ricerca (pubblicata su Science) secondo la quale l’invidia è come un dolore fisico e la sfortuna degli altri un piacere per chi la osserva. La società invidiosa, insomma, è un po’ sadica: soffre del successo altrui ma prova un piacere (inconscio, s’intende!) nell’osservare il male altrui. Lo psicologo Philip G. Zimbardo, docente a Stanford e alla Columbia di New York, maggior studioso vivente di questo tema, aggiunge alcune osservazioni esplicitate nei suoi libri: «L’eroismo non è mai stato indagato sistematicamente nelle scienze comportamentali. Eroi ed eroismo sembrano esplorati solo in letteratura, mito e cinema, mentre molteplici fonti documentano i mali dell’esistenza: omicidi e suicidi, tassi di criminalità, popolazione carceraria, livelli di povertà, schizofrenia... Simili dati quantitativi per gli aspetti positivi delle attività umane non sono facili da trovare: non teniamo registri d’atti di carità, bontà, compassione...». Un aspetto, quest’ultimo, sul quale i media dovrebbero interrogarsi. Il resto lo fa quello che si chiamava l’animo umano, ovvero le sostanze chimiche presenti nei neuroni. «Anche noi vogliamo credere che c’è qualcosa in alcune persone che li spinge verso il male, mentre c’è qualcosa di diverso in altri che li spinge verso il bene. Ma non ci sono prove e non ne sono convinto. Fino ad allora dobbiamo cercare di capire che cosa spinge alcuni di noi a diventare colpevoli del male ed altri a guardare altrove in presenza di prevaricatori del male» . Perché il paradosso contemporaneo è proprio questo: il successo popolare della rappresentazione del male è inversamente proporzionale alla disponibilità a confrontarsi con il male reale. Più si osservano le rappresentazioni mediate del male più si fugge quello reale. Sino all’omissione di soccorso. Con l’aggravante che il male rappresentato chiede di spingersi sempre più in là per non diventare normalizzato. Piero Bocchiaro, psicologo sociale e autore di Psicologia del male (Laterza) spiega proprio quest’ultimo aspetto: «Il male, in qualunque sua forma, conquista facilmente l’attenzione perché rappresenta uno strappo nella routine. Ma venendo meno questo carattere di eccezionalità, anche aggressioni, stupri e omicidi perdono la loro salienza e, conseguentemente, buona parte di potere attrattivo. Succede ad esempio, ed è esperienza comune, guardando il male "normalizzato"dei telegiornali o leggendolo nelle pagine di cronaca» . Ma anche per Bocchiaro «il male assolve un compito importante per l’osservatore: quello di poter prendere le distanze da chi l’azione malvagia l’ha appena compiuta. Chi osserva continuerà a sentirsi allora, in maniera illusoria e insieme rassicurante, "diverso", "migliore"rispetto a quell’altra persona» . E quindi rappresentare il male «può essere d’aiuto — conclude — nel liberarsi delle quote in eccesso di tensione nervosa, anche se una simile funzione catartica non mette al riparo dalla possibilità di agire in maniera malvagia: scrivere o dipingere hanno un effetto positivo transitorio e molto presto torneremo ad essere vulnerabili» . Il successo del male, insomma, è dovuto al fatto che stiamo male. E stanno male anche gli «altri», i migrati ad esempio, perché «è infelicissimo -scriveva Pindaro -chi riconosce il bene ma è costretto a tenerne il piede lontano» . Ma il male, come mostrò Emily Bronte, può essere anche l’espressione più forte con la quale si esprime un’irriducibile passione d’amore.

Terra 10.4.11
Fine vita, le posizioni in campo
di Federico Tulli

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Verso oscuri chiarori
a cura di Francesca Franco

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