La Stampa 12.4.11
Lampedusa
Nel Cie in fiamme scoppia la rivolta “Libertà, libertà”
Decine di uomini riescono a evadere dal centro
di Federico Geremicca
Era nell’aria? Era nell’aria. Si poteva evitare? Probabilmente si poteva evitare. O quanto meno prevedere. Sono questi - e altri - gli interrogativi che frullano nella mente mentre un leggero vento di maestrale, gonfia, ingigantisce e porta via le dense nuvole di fumo nero che si alzano dal Centro di accoglienza. Sono le quattro e un quarto del pomeriggio, e dopo ore di lenta incubazione la rivolta dei mille tunisini rinchiusi nella struttura divampa in tutta la sua ineluttabilità. E questa, allora, è la cronaca di una delle giornate più nere di Lampedusa, una giornata che si conclude con una decisione che coglie tutti di sorpresa: via i migranti da un Centro ormai ingestibile e tutti a bordo della nave Excelsior (da giorni alla fonda) per essere trasferiti sul continente e poi divisi e distribuiti un po’ qui e un po’ lì.
Nessuno può saperlo, naturalmente, ma la miccia di questa giornata infernale comincia a bruciare poco dopo mezzogiorno, quando trenta tunisini giunti a Lampedusa dopo il 5 aprile (e dunque rimpatriabili, secondo gli accordi stretti col governo di Tunisi) cominciano a essere imbarcati su un aereo che deve riportarli nel loro Paese. A scortarli sessanta uomini delle forze dell’ordine. Le operazioni sono lunghe e complesse, viene sequestrato loro qualunque oggetto avessero addosso (cellulari compresi) e poi - finalmente - quando è ormai ora di pranzo, l’aereo decolla e fa rotta verso Tunisi. Tra i rimasti nel centro già serpeggia il nervosismo: che diventa pura disperazione appena qualche telefono cellulare comincia a squillare... Sono i rimpatriati che, appena riportati in Tunisia, li avvertono del destino che ormai li attende.
È l’inizio della rivolta. Qualcuno sale sui tetti e grida «libertà, viva l’Italia»; qualcun altro lancia bottiglie di plastica contro i reparti di polizia e carabinieri che stazionano dentro e fuori il centro. Poi si passa allo sciopero della fame. I migranti rifiutano il cibo, tentano un corteo interno alla struttura, vengono divisi e dispersi. Sono ormai le quattro del pomeriggio quando, all’improvviso, nel Centro tutto si placa. Non un grido, non una protesta. Sembra tutto finito e invece è il preludio al peggio che sta per cominciare.
Prima un grido, poi qualcuno che scappa. E in un attimo è l’inferno. Nuvole di fumo nero spesse come batuffoli di ovatta sporca cominciano a sollevarsi dal padiglione centrale: lo stesso che fu dato alle fiamme nella drammatica rivolta del 2008. Gente che scappa ovunque, la campana dell’allarme anti-incendio che comincia a suonare assordante, i reparti della polizia che avanzano brandendo manganelli e scudi. E non basta: mentre i mezzi dei vigili del fuoco cercano di farsi largo tra la folla impaurita, decine e decine di tunisini cominciano a scappare dal Centro scavalcando l’esile rete che cinge la struttura nel retro. I pochi militari che sono di guardia all’esterno vengono colti di sorpresa: è una fuga di massa. Che non durerà a lungo, però.
I getti degli idranti non impiegano molto ad aver ragione delle fiamme che si sviluppano dai materassi di gommapiuma cui i tunisini hanno dato fuoco. È un fuggi fuggi generale, nessuno sa bene cosa fare per riportare la calma. Quando le fiamme vengono domate e il fumo si dirada, si tirano le somme. Non ci sono feriti, ma una parte del piano terra della struttura centrale è fuori uso: e in più ci si accorge della fuga di massa dal centro. Poliziotti e carabinieri vengono sguinzagliati sulle tracce dei fuggiaschi: ma molti sono rimasti lì, lungo i pendii del canyon. Ragionano qualche minuto sul che fare e poi, arrendendosi al fatto di essere su un’isola dalla quale è impossibile fuggire, alzano le mani e pian piano ridiscendono verso il Centro. Si consegnano ai poliziotti gridando «no Tunisia, libertà, libertà». Vengono riportati dentro, mentre tecnici e dirigenti della struttura tentano un primo bilancio dei danni subiti dal padiglione.
La notizia della rivolta fa in un baleno il giro dell’isola. Si diffonde un certo allarme anche tra i responsabili delle forze dell’ordine. Il sindaco di Lampedusa, Dino De Rubeis, si attacca al telefono e chiama il «concittadino» Berlusconi: «Sull’isola, nel Centro, possiamo tenerne ormai al massimo un paio di centinaia, per poi rimpatriarli da qui. Ma il resto dei tunisini deve adar via perchè la situazione rischia di andare fuori controllo». Il presidente del consiglio si mette in contatto con il ministro Maroni, discutono il da farsi: decidono che forse conviene ascoltare l’allarme del sindaco. Parte l’ordine: 700 ospiti del centro vengano trasferiti sulla Excelsior e poi portati via da Lampedusa. La grandenave lascia la fonda e si dirige verso la banchina di cala Pisana, da dove l’imbarco è più semplice: ma a sera inoltrata le operazionidi trasferimento dei migranti tunisini non erano ancora iniziate.
Decolla più o meno regolarmente, invece, il secondo volo di rimpatrio di altri 30 migranti. Urlano e protestano quando capiscono che il momento è arrivato e che il sogno è finito. Niente Italia, niente Francia, niente Germania. Tutti a casa, nonostante i soldi spesi e la vita messa in gioco trasversando il Canale di Sicilia su mezzi di fortuna.
La Stampa 12.4.11
Giustizia la legge contestata
“La Camera diventerà un Vietnam”
Sul “processo breve” riparte lo scontro. Le opposizioni annunciano battaglia senza risparmio di colpi
Il ruolo di Fini I berlusconiani escludono che il presidente voglia davvero contrastare l’ostruzionismo
Il menù politico è sempre uguale a se stesso: non si prevedono dibattiti di alto profilo sulla crisi economica, né sulla guerra di Libia, tanto meno sull’immigrazione. Si riparte invece alla Camera (oggi ore 15) nuovamente dal processo breve, che contiene la norma «ad personam» per salvare il premier dal processo Mills. Attendiamoci dunque un enorme stress delle istituzioni, perché l’aula di Montecitorio sarà per la terza settimana consecutiva teatro di uno scontro feroce. L’opposizione è intenzionata a dare battaglia fuori e dentro il Palazzo. Rinnovando il presidio davanti a Montecitorio e al Pantheon. E sfruttando, anticipa il portavoce dipietrista Leoluca Orlando, tutti gli strumenti offerti dal Regolamento parlamentare: «La Camera diventerà un Vietnam», nessuno sconto alla maggioranza, il fair-play è defunto da un pezzo.
In teoria dovrebbe essere tutto finito entro domani sera, con un voto sulla legge nel suo complesso che vale quasi quanto una fiducia. I tempi riservati all’opposizione sono circa 7 ore, più le varie ed eventuali. Tuttavia la maggioranza non si fida perché il repertorio dei possibili trabocchetti è sterminato. Particolarmente temute le votazioni «a singhiozzo», che possono essere chieste senza il consueto preavviso dei 20 minuti, mentre magari la massa dei deputati è alla buvette per un cappuccino. Oppure imboscate quando meno il Cavaliere se le aspetta, inversioni improvvise dell’ordine del giorno, addirittura tentativi di rispedire la legge in commissione...
Lo stato maggiore berlusconiano sospetta di Fini. Nell’entourage del premier si esclude che il presidente della Camera voglia davvero stroncare la guerriglia parlamentare. Alla sua gestione «super partes» nella villa di Arcore non credono nemmeno un po’. Ed è certamente vero che Gianfranco non perde occasione per picchiare forte sul Cavaliere. «Questo è il governo Berlusconi-Scilipoti», ha sfoderato ieri dalla Sicilia il suo sarcasmo. Però Fini ha detto altre due cose che creano scompiglio altrove. Anzitutto, che in un mondo del lavoro bene ordinato dovrebbe esserci una maggiore flessibilità in uscita (leggi: possibilità di licenziare). Vibrate proteste dall’Idv. Poi Fini ha detto una grande verità, che il sistema proporzionale purtroppo porta con sé un tot di corruzione. Meglio il sistema elettorale uninominale, è il suo verdetto. Casini, alleato nel Terzo Polo, la pensa in modo diametralmente opposto. L’Udc non ha gradito.
Riuscirà Fini ad arbitrare il match del processo breve senza farsi trascinare a sua volta sul ring? Ci sono ancora 200 emendamenti da votare, non è affatto da escludere che l’opposizione gli chieda tempi supplementari per il dibattito, sebbene Bersani giustamente sostenga che «con tutti i problemi del Paese» discutere una leggina su misura del premier è «uno scandalo»: piccola ma significativa evoluzione lessicale, dopo un’inflazione di «vergogna», «vergognoso», «vergognatevi», insomma «Vergognopoli», laddove tra i sinonimi e i contrari si trovano espressioni non meno efficaci (indecenza, ignominia, indegnità, infamia, abominio, sconcezza, scorno...). Può essere che il voto finale slitti a giovedì, forse addirittura oltre. Tutti precettati gli onorevoli Pdl, fino a venerdì sera devono restare a Roma.
Il rischio di sforare i tempi è una cattiva notizia per i Responsabili. Stasera incontreranno il responsabile della campagna-acquisti berlusconiana, Verdini, per discutere con lui le poltrone nel governo. Speravano che già venerdì si potesse procedere col rimpastino; ma se le votazioni sul processo breve dovessero trascinarsi, ecco l’appuntamento svanire una volta di più. [U. M.]
"La maggioranza punta a chiudere entro domani ma ci sono ancora 200 emendamenti da votare Severissimi ordini di scuderia: i deputati del Pdl sono tutti precettati fino a venerdì sera"
l’Unità 12.4.11
Intevista a Stefano Rodotà
«Bisogna parlare chiaro: Berlusconi è un eversore»
Per il professore «definire questi atti come conflitti istituzionali è una gentilezza inadeguata alla situazione E sull’Europa siamo all’impazzimento del governo»
di Maria Zegarelli
Non usa giri di parole il professor Stefano Rodotà per commentare l’ultimo show del presidente del Consiglio fuori dal tribunale di Milano. «È stato un atto eversivo». Uno dei tanti che «ormai quotidianamente commette», aggiunge scadendo bene le parole. Professore, ormai siamo oltre il normale conflitto tra i poteri dello Stato?
«Definire quello che sta accadendo in questi giorni e lo show di ieri come un conflitto tra poteri dello Stato è una gentilezza inadeguata alla situazione. I conflitti sono persino “normali” nei paesi democratici tanto che sono previste le sedi opportune dove risolverli. No, noi stiamo parlando di atti eversivi, non ci sono altri termini più adeguati di questo. Questo è il mio giudizio».
Anche lei definisce il premier un “eversore”? «Esattamente. Non è la prima volta che si comporta in questo modo e a giudicare da quanto è accaduto fuori dal Tribunale di Milano è intenzionato a proseguire su questa strada. I conflitti, ripeto, si possono determinare, esistono le sedi proprie dove possono essere sollevati, ma non ci si rivolge in un Aula di tribunale ai magistrati in maniera ipocrita dicendo che lo devono giudicare in modo equilibrato per poi uscire e fare un comiziaccio.
Ha aggredito la magistratura in quanto tale, affermando che lavora contro il Paese. Queste frasi pronunciate dal presidente del Consiglio assumono un carattere eversivo e non credo che un qualsiasi cittadino che avesse usato quelle stesse espressioni sarebbe sfuggito ad una denuncia».
Se siamo di fronte ad una situazione così grave, quale è la soluzione? «Berlusconi ha già sollevato un conflitto di attribuzione sul caso Ruby in maniera formale facendo votare la maggioranza in tal senso investendo della questione la Corte Costituzionale. Quel voto nasce dal presupposto grottesco che il premier fosse convinto che Ruby era la nipote di Mubarak. Poteva fermarsi e invece no, perché è uscito dal terreno formale e si è lanciato in questa ultima provocazione». Ma secondo il premier anche la Corte Costituzionale è un organo politico... «Altro fatto gravissimo. Lui ormai si comporta così: dà ordine ai suoi di sollevare il conflitto davanti alla Corte e nello stesso tempo la delegittima definendola un organo politico e quindi disconoscendo l’imparzialità del verdetto che è chiamata a pronunciare. Questo è il suo gioco, un altro pezzo della sua strategia eversiva».
E torniamo alla questione. Quali sono le soluzioni? «Le soluzioni sono politiche. Intanto è necessario dire tutto ciò che è doveroso per tutelare la magistratura e poi si deve chiedere conto al presidente del Consiglio di quanto sta avvenendo nelle sedi proprie, anche in parlamento. Noi abbiamo un premier che fa queste piazzate e non va in parlamento se non quando deve votare per se stesso. Venga a riferire agli eletti del popolo, quel popolo a cui ama tanto richiamarsi. Il parlamento non è un suo megafono, è un luogo istituzionale e non può essere piegato agli interessi privati di una persona. Infine, credo che si debba chiarire una cosa: sulla giustizia non si discute con questa gente».
Sta criticando chi, nell’opposizione, aveva cercato di aprire al dialogo? «Penso che troppe persone, anche nell’opposizione, senza aver letto neanche una riga di quel testo chiamato riforma, si siano dette disposte a dialogare. Se avessero letto con attenzione si sarebbero resi conto che la prima riga di quel testo si riferisce all’articolo 101 della Costituzione nel quale è scritto che la giustizia è amministrata in nome del popolo. Nella riforma non si fa più riferimento alla giustizia amministrata in nome del popolo. Di fronte ad una proposta del genere non solo non ci si siede ad alcun tavolo ma si denuncia l’ennesimo atto eversivo. Credo che l’unica cosa che resta da fare sia quella di dire che in parlamento non si può parlare di giustizia fino a quando c’è questo presidente del Consiglio e questa maggioranza che traduce in norme un piano eversivo. È necessaria una intransigenza assoluta e non per ritorsione, sia chiaro».
Ha sentito il ministro Maroni? Ha detto rispetto all’Europa: “meglio soli che male accompagnati”. «Ormai siamo di fronte all’impazzimento del governo. Ma lo sa Maroni cosa vuol dire l’Europa? Penso che non sappia neanche quali sono le regole per rimanere o per uscire. Il presidente della Repubblica non è un caso che abbia espresso la propria preoccupazione. Napolitano va ringraziato ogni giorno per quello che sta facendo, per il suo grande equilibrio e per l’autorevolezza che l’Europa gli riconosce. Sono sicuro che continuerà a guardare con scrupolo istituzionale, che è doveroso, a quanto accade.
l’Unità 12.4.11
Cinquanta anni fa Il 12 aprile 1961 il cosmonauta russo entrò in orbita intorno alla Terra
A bordo della capsula Vostock vide il pianeta scorrere velocemente sotto di lui. Un trionfo
«Vedo le nuvole, è bellissimo...»
Gagarin, il primo uomo nello spazio
di Umberto Guidoni
Degli oltre duemila candidati che parteciparono alla prima selezione dei cosmonauti russi, ne furono selezionati solo venti e Jurij Gagarin era fra questi. La sua avventura cominciò quando fu trasferito al nuovo centro dei cosmonauti nelle vicinanze di Mosca, quello stesso che oggi porta il suo nome. Erano le prime selezioni e gli specialisti sovietici utilizzarono delle prove durissime. La scelta finale fu fatta da Korolev ed i due candidati migliori risultarono Leonov e Gagarin, praticamente alla pari. Leonov alla fine fu escluso perché era troppo alto per le ridotte dimensioni della capsula Vostock. Il maggiore Jurij Aleksejevic Gagarin era ormai vicino al suo appuntamento con la storia.
Nelle prime ore del mattino del 12 aprile 1961 tutto era pronto per il lancio della capsula Vostock (in russo «Oriente»). Dopo la vestizione, Gagarin fu portato in autobus verso la rampa di lancio. Durante il tragitto, forse per la tensione, richiese una fermata non programmata per fare un bisognino. Lo stop, del tutto imprevisto, è diventato uno dei riti scaramantici prima del lancio, insieme a quello di piantare un albero. Jurij entrò in una capsula minusco-
la, in cui era quasi impossibile muoversi. Per alleviare l’attesa chiese di ascoltare un po’ di musica, interrotta alle 8:51, quando la voce di Korolev inviò le ultime istruzioni. «Si va!», urlò Jurij mentre il razzo si sollevava da terra.
Il viaggio di Gagarin fu molto breve. Dopo appena nove minuti, la Vostock 1 entrò in orbita attorno alla Terra. Con una certa emozione, Jurij descrisse lo spettacolo che appariva ai suoi occhi, un’esperienza che nessun essere umano aveva mai fatto prima di lui: «... la Terra è azzurra, vedo le nuvole: è bellissimo!». Vide la Terra scorrere rapidamente sotto di lui: viaggiava ad oltre 27.000 km/h, una velocità che nessuno aveva mai raggiunto prima. Dopo poco meno di cento minuti di volo, la navicella spaziale fece il suo rientro nell’atmosfera. Gagarin venne espulso col suo seggiolino iettabile, e rientrò a terra col paracadute. Era il primo essere umano che rientrava felicemente sulla Terra dopo aver girato intorno al pianeta.
Per la Russia fu un trionfo. Gagarin aveva dimostrato che l’uomo era in grado di volare oltre ogni limite. «I russi hanno un uomo nello spazio e gli Stati Uniti dormono», commentarono amaramente i quotidiani statunitensi il giorno dopo. La sua impresa ebbe un eco eccezionale in tutto il mondo. Nel suo paese venne decorato da Nikita Krusciov con l’Ordine di Lenin, e diventò eroe nazionale dell’Unione Sovietica. Nacque così il mito di Gagarin, un autentico eroe per i russi e per tutta l’umanità. Ancora oggi, molti cosmonauti portano il suo nome. Esattamente 40 anni dopo, mi è capitato di viaggiare nello spazio a bordo dello Shuttle Endeavour, fianco a fianco con un altro Jurij: il cosmonauta Lonchakov che non era ancora nato ai tempi del volo di Gagarin.
A distanza di mezzo secolo dallo storico volo di Gagarin si può fare un bilancio dell’esplorazione umana dello spazio. Nei primi anni di vita, i viaggi spaziali avevano raggiunto risultati sorprendenti: meno di dieci anni dopo il primo volo umano, altri uomini avevano messo piede sulla Luna. I nuovi esploratori dello spazio sembravano incarnare il grande fermento politico, economico e sociale di quegli anni, erano gli esempi più fulgidi dei grandi cambiamenti in atto. Milioni di giovani, ed io fra questi, pensavano che sarebbero andati nello spazio durante il corso della loro vita. Sappiamo che le cose sono andate diversamente. Il nuovo millennio non ha visto l’uomo tornare sulla Luna ne, tantomeno, mettere piedi su Marte.
Lo spazio si è dimostrato un ostacolo più difficile del previsto ma soprattutto sono cambiate le priorità della politica. Una volta che la sfida spaziale era stata vinta dagli Stati Uniti, vincitori e sconfitti hanno battuto strade differenti. Da un lato, la scelta è caduta su tecnologie avanzate per brevi missioni spaziali, dall’altro sono stati scelti veicoli più tradizionali abbinati a basi orbitali per lunghe permanenza in orbita: lo Space Shuttle per gli americani, le Soyuz e la stazione Mir per i russi. Ma entrambi i contendenti della corsa allo spazio hanno scelto di consolidare la propria presenza in orbita, rinunciando alla prospettiva di andare oltre la Terra.
Comunque questi anni non sono passati invano. Insieme a europei, giapponesi e canadesi, i nemici di un tempo stanno collaborando, da oltre un decennio, per realizzare la casa comune nello spazio: la Stazione Spaziale Internazionale.
È un cambiamento di prospettiva importante che rende concreta la frase riportata sulla targa lasciata sulla Luna dall’Apollo XI: «siamo venuti in pace a nome di tutta l’umanità».
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi decenni è che per esplorare lo spazio dobbiamo mettere insieme le forze migliori del pianeta. Credo che Gagarin sarebbe d’accordo.
La Stampa 12.4.11
Libertà della volpe e libertà delle galline
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società
di Tzvetan Todorov
Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten , che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.
Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.
Corriere della Sera 12.4.11
«Temo il messianismo politico. Come Goya»
Tzvetan Todorov: l’ambizione di estirpare totalmente il Male è molto rischiosa
di Stefano Montefiori
D alla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto è cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni. Ecco perché secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. «Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riuscì a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui — dice Todorov, autore di "Goya à l’ombre des Lumières"—. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell’uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocità commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu così in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo» . Nella raccolta di incisioni «I disastri della guerra» Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie. «I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedeltà ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di libertà, fratellanza e uguaglianza. Gli orrori però erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l’altra, ma contro la guerra» . Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d’Avorio, giustificati dalla necessità di difendere i diritti dell’uomo proteggendo le popolazioni civili. «Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare così circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l’Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l’avanzata del regime. Ma poi l’intervento pseudo-umanitario si è trasformato in un’altra cosa» . L’Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di libertà. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell’intervento il presidente francese e l’Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori. «È un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell’Europa. Non è la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l’Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l’Uganda a porre fine al massacro in Ruanda» . Eppure il fatto che i diritti dell’uomo siano tornati un vessillo dell’Occidente è forse positivo. «No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima è appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica è stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l’Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo è stato un rodaggio, l’intervento in Kosovo, senza mandato dell’Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos’è la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?» . I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma è possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra? «No, e non credo sarebbe un bene. L’ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora più dannosa: è la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell’umanità". Dobbiamo però cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio» .
La Stampa 12.4.11
Meno male che allora c’era Nerone
L’immagine che ci è stata tramandata non rende giustizia all’imperatore dal raffinato carisma. Una mostra a Roma
di Silvia Ronchey
Contrariamente a quanto il suo nome potrebbe far credere, Nerone di nero non aveva nulla, tranne la leggenda che prima la storiografia contemporanea e poi quella cristiana avrebbero proiettato su di lui, attribuendo i bui tratti di molti altri imperatori romani solo alla sua figura di tyrannos-pharmakòs, re-capro espiatorio rituale, del resto perfetta, se non altro per essersi autoeletta tale.
Sfruttando un’intima vocazione teatrale, mescolandola con una calcolata attenzione all’applauso del popolo, alla politica spettacolo, riunendo in sé le icone idolatrate dalle masse — campione sportivo, attore, musicista — si costruì un’immagine apollinea e «divina»: da divo, anzi quasi da popstar. Con, tuttavia, quel particolare, raffinato carisma, che avrebbe fatto di lui un mito prima settecentesco, poi decadente. Da oggi una mostra a Roma, lungo i fori imperiali, ne celebra la figura.
Fu Nerone a fornire l’exemplum dell’imperatore filosofo, cui si rifecero gli Antonini. Il culto per il corpo e la bellezza fisica, l’amore per l’antica paideia greca; l’estetismo, in ogni lato della sua personalità, dal collezionismo di opere d’arte alla passione per l’architettura; la sensibilità alla religione astronomico-filosofica pagana espressa nella Domus Aurea, con la grande aula ruotante su se stessa a simulare il moto della terra, costruita nel fervore del rinnovamento edilizio urbano promosso dopo il certo fortuito e a lui non imputabile grande incendio di Roma, hanno ben poco a che fare con le ostentazioni di Adriano e della sua villa a Tivoli. Di cui però nessuno ha criticato il narcisismo, lo sfarzo, il costo; che anzi è stata ed è esaltata, contrariamente alla domus «maledetta», che sarà «restituita al popolo» dagli imperatori successivi.
Il misticismo pagano di Adriano, insieme alla sua ambigua sessualità, sono stati amati, contrariamente a quelli di Nerone. Animula vagula blandula / hospes comesque corporis , poetava Adriano. Nessuno ha mai schernito questi versi, né questi tratti in lui, come invece in Nerone, che, pure, i frammenti rivelano poeta non dilettante.
La storiografia novecentesca — per non parlare della letteratura, con in testa Marguerite Yourcenar — ha esaltato, in contrapposizione alla crudeltà privata di Nerone, matricida e «suicidatore» del maestro Seneca, la moderazione di Adriano, sorvolando sulla sanguinaria repressione della rivolta in Giudea, primo genocidio ebraico della storia.
Ha stigmatizzato in lui le condanne inflitte alla minoranza cristiana dopo l’incendio di Roma attribuitole dalla plebe (ma sono leggendarie posteriori esecuzioni come la presunta decapitazione di San Paolo, che anzi da Nerone era stato assolto); dimenticando che i primi editti anticristiani risalgono a Domiziano e a Traiano e che il primo grande persecutore fu in realtà l’«imperatore filosofo» Marco Aurelio.
Ha esaltato l’amore per la cultura e per le arti degli Antonini, ridicolizzandolo invece in Nerone; ha ridotto a macchiette le letture poetiche con cui elettrizzava le folle, presentando come velleitaria la passione filosofica e letteraria che gli faceva conoscere a memoria Omero, i lirici greci, le tragedie attiche. Mentre degli «imperatori filosofi» antonini sono stata fatte icone del nostro tempo, Nerone è rimasto una macchia nera nell’aureo albo dei cesari.
Ma Nerone, di suo, non era nero. Il nobilissimo Lucio Domizio Enobarbo, discendente da Augusto per parte di madre — Agrippina, sorella di Caligola e moglie di Claudio —, apparteneva per parte di padre a una gens il cui nome significava «dalla barba ramata». I capelli, di un biondo tiziano, li portava trasgressivamente lunghi. Era salito adolescente sul trono di un impero che spaziava su tre continenti, il più grande mai esistito. Morì suicida a 31 anni, recitando un verso di Omero. Il prestigio che aveva e avrebbe avuto presso il popolo di Roma — così come in Grecia, alle cui poleis aveva restituito la libertà — è dimostrato dalle attese di un ritorno di Nerone testimoniate ancora mezzo secolo dopo la sua morte — come ricorda, nel catalogo Electa, il fondamentale saggio di Andrea Giardina —; dai ben tre falsi Neroni che insidiarono i suoi successori; dagli omaggi popolari alla sua effigie e alla sua tomba, durati fino al XII secolo, quando sul sepolcro dei Domizi Enobarbi fu costruita una cappella cristiana destinata a diventare la basilica di Santa Maria del Popolo.
«Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli», avrebbe sentenziato Bonaparte. La verità è che non esistono imperatori «lievi»; né tanto meno imperatori filosofi. Nessun imperatore romano può non rispondere almeno parzialmente ai tratti che la Leggenda Nera di Nerone, antica e poi cristiano-medievale, prestò alla demagogia, avidità, crudeltà proprie di quei sovrani di fatto assoluti, anche se a volte più a volte meno dissoluti, che furono quasi sempre i cesari di Roma.
Corriere della Sera 12.4.11
Rousseau, quel passaggio dall’alchimia alla ragione
Esce l’edizione integrale delle «Institutions chimiques»
di Armando Torno
Ci sono pervenuti dei manoscritti di Jean-Jacques Rousseau riguardanti la chimica. Sino ad oggi non sono stati valutati in maniera corretta, tanto che per taluni critici restano mero esercizio di compilazione; altri, invece, ne hanno esagerato il valore, trasformandoli nel fondamento paradigmatico di tutta l’opera politica ulteriore. Le Institutions chimiques, insomma, registrano «l’embarras ordinaire» dei posteri di fronte alla questione fondamentale dei rapporti intrattenuti dal pensatore con le scienze del tempo. Dopo l’edizione del 1999 nel «Corpus» delle opere filosofiche in lingua francese, allora pubblicato da Fayard, a cura di Bruno Bernardi e Bernadette Bensaude Vincent, vede ora la prima sistemazione critica grazie a Christophe Van Staen (Honoré Champion, Parigi, pp. 416, e 75). Il testo, completamente riveduto e arricchito dalle appendici e da un lessico, restituito ai lettori nella sua completezza (per esempio, l’articolo «arsenico» , è dato integralmente per la prima volta) riserva non poche sorprese e mostra i passi compiuti dal celebre Jean-Jacques nell’indagare i principi della coesione dei corpi o quelli della loro trasparenza, i meccanismi della natura o «opérations» quali distillazione, fusione, cristallizzazione. Ma soprattutto tali pagine trovano finalmente un posto nel lascito di Rousseau: Van Staen ricorda che in esse si leggono preziose indicazioni sull’evoluzione sotterranea della sua opera e sulla coscienza che egli sviluppa progressivamente dinanzi ai pericoli in grado di contagiare le anime credule, nutrite da una concezione fantastica delle scienze e dei loro vantaggi. Non si tratta di un testo importante per la chimica del XVIII secolo, ma di un documento che mostra come tale disciplina riesca ad aiutare una grande mente a emanciparsi dall’ «imaginaire» che l’aveva plasmata. Il giovane Rousseau, detto in soldoni, non si forma sui libri di Descartes, Keplero o Newton (quest’ultimo, comunque, era interessato all’alchimia), ma su nozioni letterarie, oniriche, ingenue, non sempre rivelate nel primo libro delle Confessioni. Van Staen parla dell’attrazione che esercitavano su di lui gli orologi d’Oriente, i misteri della lingua dei segni, le macchine fantastiche degli antichi. C’è insomma una storia esemplare di conversione allo spirito scientifico in questo libro che si basa sui tre tomi manoscritti conservati a Ginevra (siglati Bge, Ms. fr. 238) e che non fu incluso nei cinque volumi delle Oeuvres complètes di Rousseau della «Bibliothèque de la Pléiade» , dove comunque si trovano le pagine sulla botanica. Si potrebbe, utilizzando un azzardo, affermare che le Institutions come pochi altri testi riflettono il passaggio definitivo dall’alchimia alla chimica nel XVIII secolo. Non è un mistero: il tempo dei Lumi è ancora percorso da idee esoteriche e Antoine-Laurent de Lavoisier (1743– 1794), che diede la prima versione della legge di conservazione della massa, riconobbe e battezzò l'ossigeno (1778), confutò la teoria del flogisto, conviveva con concezioni a lui diametralmente opposte. Basterà ricordare la monumentale Bibliotheca chemica curiosa, due volumi in-folio usciti a Ginevra nel 1702 e curati da Jean-Jacques Manget: conteneva i testi essenziali per gli iniziati, da Arnaldo di Villanova a Ruggero Bacone, da Avicenna a Raimondo Lullo. Di più: nel 1761, come ricorda Eric J. Holmyard nella Storia dell’alchimia (ora nelle edizioni Odoya), qualcuno credeva che il creatore della pietra filosofale, Nicolas Flamel, morto nel 1418, svolgesse ancora la sua attività a Parigi; anzi, con la moglie era vivo e vegeto. Del resto, i due nel secolo precedente furono segnalati in India: alla faccia delle pillole d’immortalità cinesi che si vendevano bene nella capitale francese, ma non sottraevano ancora i clienti ai becchini.
Corriere della Sera 12.4.11
Il «conflitto» interiore delle donne
Sabotatrici, eroine romantiche, ribelli e icone della propaganda
di Anna Bravo
Q uando nel 2003, durante la seconda guerra del Golfo, l’americana diciannovenne Jessica Lynch cade prigioniera degli iracheni, per liberarla si organizza una spettacolare irruzione notturna con telecamere al seguito e gran battage mediatico. Per giorni e giorni, su tutte le tv passano le sequenze dell’azione e le centinaia di nastri gialli, simbolo dei «missing in action» , appesi agli alberi di sicomoro, agli steccati, ai semafori di Palestine, il paese di Jessica. Il Pentagono ha fatto una buona mossa. Quella prigionia inquietava, evocava sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro. Anche se essere catturati rientra fra le ovvie possibilità del mestiere di soldato, è come se in quel momento si riscoprisse l’antico volto predatorio e antifemminile della guerra. Eppure negli ultimi decenni tutto sembra cambiato. In molti Paesi, compresa l’Italia, le forze armate hanno aperto alle donne. Con la fine della guerra fredda, con le nuove armi e i nuovi fondamentalismi, i modelli di conflittualità si sono moltiplicati. Si è modificata la concezione del nemico e dei limiti da porsi (o da non porsi). Abbiamo sotto gli occhi in contemporanea ogni tipo di guerra, tecnologica, tradizionale, etnica, religiosa, «umanitaria» , asimmetrica, a bassa intensità, e spesso mischiate fra loro. Come nell’intervento Nato contro la Serbia del marzo-giugno 1999, dove terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse: una tradizionale, fra l’Esercito di liberazione del Kosovo e le truppe di Milosevic, con le donne per lo più in veste di preda e di vittima; l’altra tecnologica, di soli bombardamenti Nato e azioni della contraerea serba, con alcune giovani pilote nel ruolo di combattenti. Dunque quando si parla di donne e guerra, la prima domanda dovrebbe essere: quale guerra, quali donne. Ma non vale solo per l’oggi. Già decenni fa, alcune studiose — penso a Jean Bethke Elshtain, Françoise Thébaud, Cynthia Enloe e a parecchie italiane— avevano mostrato che il binomio donne-guerra andava scomposto, direi sminuzzato. Nei due conflitti mondiali, per esempio, moltissime hanno lavorato nella produzione bellica, hanno tollerato la violenza per rassegnazione o per convinzione, spesso sotto le insegne della maternità, hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. Alcune hanno preso le armi. Non è solo effetto dell’identificazione con il destino maschile o della propaganda. Il punto è che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono anche nuove forme di autoaffermazione: maternità e lavoro delle donne sono promossi a fulcro dello sforzo nazionale, la femminilità viene esaltata come contraltare della violenza. Di più: nella seconda guerra, una donna può trovarsi a guidare un’azione armata, a fare sabotaggi, a salvare, a uccidere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell’uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno immunizzato le donne dal piacere di condividere esperienze fondate sulle categorie di virtù civile, gloria, orgoglio nazionale, da cui nella normalità sono state escluse. Ma altre, o le stesse in tempi diversi, hanno dato vita a manifestazioni antibelliciste, tentato di fermare i treni diretti al fronte, nascosto disertori e renitenti. Come le molte italiane che all’indomani dell’ 8 settembre, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, li soccorrono a rischio della propria vita, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e mettendoli sulla via di casa. Forse una continuità va cercata sul piano dei simboli. Nell’immaginario e nella propaganda di guerra ha ancora corso la figura della donna in pericolo, da sempre una delle leve più potenti per sollecitare la combattività maschile e per costruire la maschera barbarica da sovrapporre all’Altro. Una maschera così essenziale — scrive George Mosse a proposito della Grande guerra— che i tabù destinati a frenare l’iconografia della brutalità vengono abbandonati: all’epoca circolano in quantità le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali bene in vista, o che illustrano stupri e sodomie. Le allusioni a una presunta violenza subita da Jessica Lynch hanno una lunga storia. E ha una lunga storia lo stereotipo base, secondo cui donne e guerra sono reciprocamente incompatibili. Saggio stereotipo, se si decidesse di farne il primo passo verso il riconoscimento che l’inconciliabilità riguarda ogni essere vivente.
Repubblica 12.4.11
Youcat, angeli e castità è il catechismo di Ratzinger in cinquecento risposte
Cosa è il cielo? Chi sono gli angeli? In che cosa crediamo? Come dobbiamo pregare? Sono domande eterne, che tutti ci poniamo. Ad esse prova a rispondere un piccolo ma denso libro di 300 pagine, dalla copertina gialla (il colore "forte" della bandiera vaticana, l´altro è il bianco), con la prefazione di Benedetto XVI, che verrà presentato domani nella Santa Sede.
Si chiama Youcat, sintesi di Youth catechism (catechismo per i ragazzi). È nato da un´iniziativa di Papa Wojtyla, con un lavoro svolto e portato a termine da Joseph Ratzinger in vista della prossima Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto). Si tratta di poco più di 500 domande e risposte, formulate in modo sintetico e con un linguaggio agile, ma perfettamente rispondenti ai criteri della Chiesa cattolica, elaborate sotto la guida di uno dei più fidati collaboratori dell´attuale Pontefice, l´arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn.
Alle domande poste in maniera rapida segue una risposta non più lunga, nei casi estremi, di 8-10 righe, spesso molto meno. C´è poi un commento, ma non più esteso di una ventina di righe. Come in questo caso, quando si risponde alla domanda: «Se Dio conosce ogni cosa e può fare ogni cosa, perché non impedisce il male?». Risposta: «Dio permette il male solo per lasciarne scaturire qualcosa di migliore». Commento: «Il male nel mondo è un mistero oscuro e doloroso (...). La morte e la risurrezione di Cristo ci mostrano che il male non aveva la prima parola e non avrà neppure l´ultima; dal male peggiore Dio ha fatto scaturire il bene migliore, e noi crediamo che col Giudizio Universale Dio porrà fine ad ogni ingiustizia (...)».
Questo è uno dei commenti più articolati. Altri sono brevi, ma ugualmente intensi. E alla domanda su «qual è l´importanza della domenica?», la risposta commentata è: «Se la domenica viene trascurata o abolita, tutti i giorni sono solo lavorativi. L´uomo, che è stato creato per la gioia, diviene così un animale da lavoro e potenzialmente asservito al consumismo».
Alcuni temi potrebbero essere soggetti a interpretazioni diverse, se non a critiche. «C´è contraddizione fra fede e scienza?». Risposta: «Non esiste una contraddizione insolubile fra fede e scienza, poiché non può esistere una doppia verità». Commento: «Non esiste una verità di fede che possa fare concorrenza alla verità della scienza. Esiste una sola verità a cui fanno riferimento tanto la fede che la razionalità scientifica. Dio ha voluto la ragione, con la quale noi possiamo riconoscere le strutture razionali del mondo, allo stesso modo in cui ha voluto la fede. Per questo la fede cristiana richiede e promuove la scienze e la scienza (...)».
Fra i tanti argomenti il mondo degli affari, il divorzio, l´ambiente, i media. Si va dai temi più strettamente religiosi alle questioni sociali. Che cos´è il peccato? E la castità? Come fa un uomo a capire se le sue azioni sono buone o cattive? Perché le passioni? E la democrazia? Scrive il Papa ai giovani nella Premessa, riferendosi agli scandali recenti che hanno toccato la Chiesa: «Se vi dedicate allo studio del catechismo, vorrei ancora darvi un ultimo consiglio: sapete tutti in che modo la comunità dei credenti è stata ferita dagli attacchi del male, dalla penetrazione del peccato all´interno, anzi nel cuore della Chiesa. Non prendete questo a pretesto per fuggire davanti a Dio: voi stessi siete il corpo di Cristo, la Chiesa!».
E´ scritto nella risposta di una delle domande da domani forse più consultate del libro («Cosa avverrà quando il mondo finirà?»): «Con l´avvento di Cristo ci saranno un cielo nuovo ed una terra nuova. "E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Apocalisse di Giovanni 21, 2.4)».
Repubblica 12.4.11
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda
di Gustavo Zagrebelsky
L´anticipazione/ Un brano dell´intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno
Anticipiamo una parte dell´intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia
Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l´economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un´attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l´unica che dia un senso, un significato d´insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all´altro, all´altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell´"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d´una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l´economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d´altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l´economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un´epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d´interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L´influenza sul pubblico è poi assicurata dall´accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all´omologazione vi sono, riguardano il folklore o l´arte d´avanguardia; l´uno a benefizio dei molto semplici, l´altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d´appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l´orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d´identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l´etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l´elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall´identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L´arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l´onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell´esaltazione del potere personificato, che è l´esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d´unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d´ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.
Terra 12.4.11
«Vaticano, lo spettro del totalitarismo che si aggira per l’Europa»
di Federico Tulli
qui
Terra 12.4.11
La Nueva Ola approda al centro della Capitale
di Alessia Mazzenga
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Terra 12.4.11
Il dolore della perdita
di Francesca Pirani
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