Repubblica 9.3.11Le procure sotto tutela
di Barbara Spinelli
QUANDO giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l´idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l´Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.
È osservando quel che accade in Francia che l´impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l´indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all´avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l´indifferenza al peso che l´Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.
Alla base di questa miope indifferenza c´è una doppia fallacia. Prima fallacia: l´idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l´ignoranza di un´Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.
L´idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l´Europa s´è unita con questa consapevolezza. L´illusione monolitica è un´eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l´articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: è l´arma del popolo sovrano, dell´esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d´origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l´Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un´autentica Corte costituzionale, e soprattutto l´indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest´ultimo l´obbligo di esercitare l´azione penale, come imposto dall´articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un´autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l´indipendenza e l´imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l´autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l´"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l´associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell´esecutivo». Tanto più è soggetta «all´influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall´esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l´Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest´ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l´Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d´Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L´obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell´accusa", più vicino per cultura all´avvocato della difesa che al giudice: mentre con l´ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell´imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l´avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l´imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L´avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l´Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell´adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l´Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l´ammissione dei paesi dell´Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un´affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell´uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell´Unione, invece, l´Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d´ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l´Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell´Unione per quei Paesi dell´Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all´Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell´assenza di anticorpi, in Italia. Ma l´Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.
Corriere della Sera 9.3.11
Come si processano i potenti
Francia e Italia, due stili diversi
di Massimo Nava
I
potenti sono processabili? I francesi se lo chiedono quanto gli
italiani, dopo il nuovo rinvio del processo contro Jacques Chirac. Ed è
fondato il sospetto che a una sentenza non si arriverà mai. Tuttavia, a
differenza dei processi italiani, il rango dell’imputato fa abbassare
anziché alzare i toni. E pur nella dialettica delle parti, si ha
l’impressione che tutti sostengano con misura il proprio ruolo, compresi
i giornali che hanno scelto il basso profilo. Senza megafoni, senza
tentativi di delegittimazione. Chirac in passato ha definito fantasiose
le accuse, ma non si è sottratto al giudizio e ha assicurato che sarà
presente in aula. Ha evitato qualsiasi dichiarazione, tantomeno sul
lavoro del tribunale. I magistrati non si sono fermati di fronte a
pressioni di varia natura, hanno rispettato la regola dell’immunità per
il capo dello Stato, ma poi sono andati avanti, senza riguardi per
nessuno. Gli avvocati dei coimputati hanno sollevato dubbi
d’incostituzionalità e ottenuto un nuovo rinvio. I legali delle parti
civili hanno protestato perché si dilatano i tempi del processo. Chirac
ha fatto sapere di non essere lui all’origine di questo nuovo rinvio. Ma
lo stesso procuratore della Repubblica definisce «anacronistico» un
processo che pure è giusto abbia luogo. L’opinione pubblica ha accolto
con favore il fatto che nessuno, nemmeno un presidente della Repubblica,
sia al di sopra della legge, però riflette sul rispetto che meritano
l’uomo Chirac e l’istituzione che ha guidato per due legislature.
L’opposizione, chiusa la stagione della lotta contro l’avversario
politico, gli rende l’onore delle armi: è più incline alla benevolenza
che ai ceppi. Non è questione di perdono, ma nessuno si nasconde l’epoca
(gli anni Novanta, quando Chirac era sindaco di Parigi) e il contesto
in cui il reato contestato è stato consumato, la zona grigia del
finanziamento della politica. Se l’impunità dei potenti non conosce
frontiere, lo stile forse sì.
l’Unità 9.3.11
Intervista a Bijan Zarmandili
«Non è Bin Laden il grande vecchio
della primavera araba» Lo scrittore iraniano: «Il colonnello tira in ballo Al Qaeda ma il progetto jihadista è fallito Le piazze del Maghreb chiedono lavoro e futuro»
di Umberto De Giovannangeli
Gheddafi cita continuamente Al Qaeda, agita lo spauracchio qaedista, tirando in ballo Osama Bin Laden come il «grande vecchio» delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione, in sé tragicomica, c’è, sia pure involontariamente, la sottolineatura della morta politica di Bin Laden e del progetto jihadista». A sostenerlo è Bijan Zarmandili, scrittore iraniano, da tempo in Italia, tra i più acuti analisti del mondo arabo e islamico. «Nelle piazze dei Paesi segnati dalla rivolta, non hanno bruciato bandiere americane o israeliane osserva Zarmandili ma i protagonisti di questa “Primavera araba” hanno rivendicato il lavoro, il pane, il futuro. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro...È difficile che Osama Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir».
Nei suoi ripetuti show mediatici, Muammar Gheddafi ha sempre tirato in ballo Al Qaeda.... «Gheddafi dice che Al Qaeda fornisce di armi e droga gli insorti libici per abbattere il suo regime. Questa affermazione è tragicomica ma tira in ballo Osama Bin Laden come il “grande vecchio” delle rivolte contro le satrapie mediorientali. In questa affermazione ho l’impressione che ci sia, magari involontariamente, la sottolineatura della morte politica di Bin Laden, del fallimento del jihadismo e comunque dell’epilogo di una fase nel mondo arabo e islamico. Questo non significa ovviamente che bisogna smobilitare a livello politico e di intelligence, la lotta contro il terrorismo. Ma quello che sta avvenendo nel Maghreb, nei Paesi arabi, è una fase di svolta rispetto a quella dominata dai fattori religiosi, ideologici, che aveva creato un terreno fertile per l’integralismo religioso su cui aveva contato il terrorismo jihadista per conquistare terreno e radicarsi nelle masse arabe e islamiche. Quella fase è finita...». Siamo dunque dentro a una svolta epocale...
«Per molti versi sì. Le rivolte nel Maghreb e nel Vicino Oriente hanno fatto emergere per la prima volta, in modo prepotente e comunque con estrema chiarezza, le contraddizioni strutturali di queste società. Hanno chiesto al libertà, la fine della dittatura e della corruzione. E questa è una vera svolta, direi a prescindere dagli esiti che ciascuna di queste rivolte potrà avere in futuro. È difficile che Bin Laden e i suoi accoliti possano egemonizzare Piazza Tahrir (la piazza del Cairo divenuta il simbolo della rivolta egiziana, ndr). E credo peraltro che sia fuori luogo pretendere, come hanno fatto, ad esempio, Ahmadinejad e Khamenei, che le rivolte arabe siano la versione odierna della rivoluzione khomeinista. Ci sono molti segnali, invece, che indicano l’inizio di una fase inedita in quella parte del mondo arabo, caratterizzata dalle contraddizioni di società composite, complesse, difficilmente riducibili alle esigenze politiche dell’integralismo o del terrorismo jihadista. In questo senso, Osama Bin Laden è ormai morto».
L’Occidente ha consapevolezza di questa svolta di fase? «Barack Obama l’aveva in qualche modo adombrata, evocata, al Cairo quando parlò del “Nuovo Inizio” nel dialogo tra l’America e il mondo islamico.
Ma nel momento in cui quell’invito si è trasformato in una realtà in grado di mettere in subbuglio l’intera Regione, l’amministrazione Usa – come del resto molte cancellerie europee – si è mossa con grande imbarazzo, spesso in ritardo, e in questi giorni con la tragedia che si sta consumando in Libia, mostrando, di fatto, una colpevole indecisione che è il frutto dell’eredità del passato, di contraddizioni e ambiguità che hanno segnato tutti gli attori di una fase storica che si sta consumando: penso alle vecchie satrapie arabe, ma anche a molti degli attori europei e occidentali. L’unica novità sono le masse arabe che si sono rivoltate, rivendicando diritti e giustizia. Se vincono loro, in Egitto, in Tunisia, nel mondo arabo-islamico, dittatori come Gheddafi sono destinati a uscire comunque di scena, perché rappresentanti di un mondo che non c’è più».
l’Unità 9.3.11
«Basta con il dittatore. È stata questa la molla della nostra ribellione»
Il blogger libico: «Gheddafi sta attuando una repressione terribile a Tripoli. Chiediamo la libertà, non vogliamo avere più paura»
di Rachele Gonnelli
Vedo che il tuo gruppo segue da vicino gli avvenimenti in Libia e anche in Tunisia. Tu sei tunisino? «No, sono libico. Il mio nome è Atwair Azwam vengo da Khoms, 100 km a est di Tripoli e a soli 60 km a ovest di Misurata. Ora mi sto spostando a Malta, restando però in contatto con molti, ragazzi, adulti, donne e uomini, che sono rimasti in Libia».
Puoi raccontarmi come è scoppiata la ribellione? Qual è stata la molla? «In Libia ci aspettavamo questo vento di rivolta, da molto tempo. Gheddafi è un dittatore sanguinario. Nel tentativo di sottomettere di nuovo il popolo libico ci sta infliggendo enormi sofferenze. E anche in passato ha appeso i cadaveri degli studenti che protestavano nelle strade per spaventare la gente che avrebbe potuto appoggiarli. Quando suo figlio Saif è diventato adulto e ha cominciare a parlare di riforme, abbiamo detto “ok lasciamogli una possibilità”. Poi per anni nulla è accaduto. Era solo un gioco
di potere con suo padre. Dopo la rivolta tunisina, prima ancora rivolta egiziana, abbiamo deciso di organizzare il nostro 17Feb. Era molto difficile perché in Libia non esistevano partiti politici a cui appoggiarsi, a differenza che in Egitto e in Tunisia». Cosa rimproverate a Gheddafi? «Gheddafi e i suoi figli stanno facendo l’immaginabile e anche il non immaginabile per riprendere il controllo del Paese. Terrore dappertutto, rapimenti, uccisioni, comprano le persone perché stiano dalla loro parte. Carri armati ovunque, polizia in ogni angolo di strada, non si può nemmeno parlare ai media. Sta mettendo in atto una repressione terribile a Tripoli.».
Il Colonello ha dato la colpa ad Al Qaeda e anche i media internazionali parlano della presenza di salafiti nelle manifestazioni.
«Sia chiara una cosa, tutti sono d'accordo sul no a qualsiasi Stato estremista islamico. Il popolo libico è musulmano e ci sono anche musulmani più rigidi, senza dubbio, ma è gente pacifica in cerca di libertà e di buon rapporto, fecondo, con il resto del mondo, e ancor più con l'Italia. Non c’entra niente Al Qaeda. I salafiti sono una parte della nostra società, è normale che ce ne siano a Tripoli. Ma il loro numero è tale che, state certi, non controlleranno la Libia del dopo Gheddafi. La Libia è al 99% sunnita e segue la dottrina dell’imam Malik. I suoi insegnamenti sono alla base di tutte le scuole islamiche».
Come vorreste la Libia del futuro? Con quale forma di Stato? Qualcosa di simile ad una Loya Jirga afghana o ad un regime parlamentare di tipo occidentale?
«Ciò che vogliamo per il futuro è molto semplice: è la libertà, cioè non avere più paura. Va bene qualsiasi sistema democratico, ma certo una Loya Jirga non è nel nostro stile, nella nostra tradizione, e poi abbiamo bisogno di un sistema moderno».
L’Occidente cerca nuovi referenti, persone affidabili e riconosciute dal popolo che amministrino il petrolio. «La Libia è piena di persone così, ma molti hanno lasciato il Paese a causa di Gheddafi. Sono sicuro che siano pronti a tornare per sostenere la rivoluzione e assumere responsabilità difficili come quella di gestire il petrolio».
Cosa pensi del governo italiano?
«Silvio Berlusconi non è un bene per l'Italia. Abbiamo bisogno di aiuto e di un buon rapporto con il governo italiano ma non com’ è stato con Gheddafi. Il popolo libico non accetterà mai una simile relazione. Abbiamo bisogno di una relazione tra Stati, non di interessi personali tra potenti».
La Stampa 9.3.11
La cavalcata di Obama verso Pechino
di Paolo Mastrolilli
Nominato il nuovo ambasciatore Usa in Cina. Chi è?
Il nuovo ambasciatore americano a Pechino si chiama Gary Locke, è di origini cinesi, e fino a ieri faceva il ministro del Commercio. Una biografia che aiuta a capire almeno due cose: primo, l’importanza strategica che il presidente Obama attribuisce alle relazioni con la Repubblica Popolare; secondo, l’enorme vantaggio che un paese intelligente può ricavare dall’immigrazione, quando sa integrarla.
Obama, per rilanciare la sua economia, si è posto l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni americane nel giro di cinque anni. Il primo passo logico è cercare di vendere più prodotti alla Cina, con cui gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale record di 273 miliardi di dollari. Chi potrebbe aiutarlo meglio a raggiungere questo traguardo se non Locke, che quando era governatore dello stato di Washington aveva raddoppiato le esportazioni della sua regione nella Repubblica Popolare, portandole a 5 miliardi di dollari all’anno e creando così 280.000 posti di lavoro? Da qui si capisce la scelta di “retrocedere” Gary dal rango di ministro a quello di ambasciatore, ma si capisce anche perché lui ha accettato, forse pensando al suo predecessore George Bush padre, che cominciò la lunga marcia verso la Casa Bianca partendo proprio con lo stesso passo di rappresentante diplomatico a Pechino.
Del resto, ogni volta che va in Cina Locke viene accolto come una rock star. Il motivo è semplice: lui è cinese. Suo padre era nato nella Repubblica Popolare e la sua famiglia viene dalla cittadina di Taishan. Quando lo misero al mondo, a Seattle nel 1950, i suoi genitori gli diedero il nome cantonese di Lok Gaa Fai, e lui fino a cinque anni d’età non parlava nemmeno l’inglese. Ma di giorno lavorava nel negozio di alimentari del padre e di notte studiava, con voti così buoni da ottenere una borsa per l’università di Yale. Procuratore, avvocato di uno studio che si occupava di relazioni commerciali con la Cina, e nel 1996 eletto governatore dello stato di Washington, primo e finora unico asiatico a salire così in alto. Durante le elezioni del 2008 aveva appoggiato Hillary Clinton, ma Obama ha deciso di non farci caso: le sue qualità erano troppo utili, per lasciarlo in panchina a causa di una ripicca politica. E qui c’è la seconda lezione di questa storia, utile anche a noi italiani: l’immigrazione è sempre una risorsa, per chi sa usarla con la testa.
La Stampa 9.3.11
Rossi Doria, in Italia il riformismo è un’utopia
Fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Una biografia spiega l’attualità del suo pensiero
di Marcello Sorgi
NELL’ESTATE DEL ‘43 Lo scontro fra i massimalisti di Emilio Lussu e i riformisti di Ugo La Malfa
Teorizzava un movimento di massa che vedesse gli operai del Nord e i contadini del Sud
Criticava quell’inadeguatezza delle classi dirigenti che è rimasta immutata
Manlio Rossi Doria (1905-1988) è stata una singolare figura di intellettuale, economista e politico. Prima comunista poi tra i fondatori del Partito d’Azione non ha mai smesso il suo impegno meridionalista Simone Misiani ne ha curato la biografia per Rubettino
Oltre a colmare un vuoto inspiegabile, a distanza di molti anni dalla scomparsa, la biografia di Manlio Rossi Doria (Simone Misiani, Manlio Rossi Doria un riformatore del Novecento , pagg. 722, euro 30, Rubbettino Editore), intellettuale, meridionalista, tra i fondatori del Partito d'Azione, tenta di dare una spiegazione alla difficoltà, per non dire l’impossibilità, del riformismo e dei riformisti in Italia. Prendendo a modello non solo un uomo, ma un’intera generazione di uomini e donne rilevanti, che trovandosi ad attraversare in qualità di antifascisti clandestini, e poi di protagonisti della politica, il passaggio tra la fine del fascismo e della guerra e la nascita della Repubblica, tentarono inutilmente di radicare nella nuova Italia un processo riformatore, rivelatosi, purtroppo, alla lunga e al di là della serietà delle loro intenzioni, impraticabile.
In questo senso sono illuminanti sia i materiali di prima mano documenti, lettere, bibliografia mai riordinati prima d’ora sia i capitoli centrali del libro, ambientati nei terribili quarantacinque giorni a cavallo tra il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini e l’8 settembre dell’armistizio con gli Angloamericani e della fuga del re Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio da Roma. In una minuziosa ricostruzione che vede Rossi Doria entrare e uscire di galera, a Regina Coeli, insieme con i capi dell’antifascismo clandestino Pertini e Saragat da poco tornati dall’estero, l’avventura del Partito d’Azione si consuma nello scontro tra la sua anima massimalista, guidata da Emilio Lussu, e quella riformista di Ugo La Malfa, divise praticamente su tutto: il rapporto con socialisti e comunisti, la possibilità di collaborare con la monarchia, l’urgenza più o meno forte di insediare al governo il Comitato di Liberazione Nazionale e, più sullo sfondo, le prospettive di una situazione che da qualunque parte la si guardi appare «rivoluzionaria», con il Paese spaccato a metà, il territorio ancora occupato in parte dai tedeschi, che controllano Roma, e in parte da inglesi e americani, che stentano in un primo tempo a cacciare le truppe di Hitler, mentre il duce, liberato dalla sua prigione, è riuscito con l'appoggio nazista a rialzarsi e a fondare la Repubblica di Salò.
È in questo contesto che l’anima riformista del Pd’A finirà con il prevalere, ma anche con il restare schiacciata dall’asse tra i tre maggiori partiti saliti al potere dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica. La discussione che si sviluppa all’interno del gruppo oltre a La Malfa, Lussu e Rossi Doria, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi, Leo Valiani, Giorgio Agosti, Carlo Levi, per citare solo i maggiori e annotare la forte presenza torinese tra i fondatori è molto intellettuale. Le due anime, la radicale e la moderata, si sentono egualmente rivoluzionarie, ma hanno due modi diversi di intendere i loro compiti. In Lussu si avvertono le radici «sardiste» e il passato comunista. La Malfa e Rossi Doria pensano per l’Italia, piuttosto che a una continuazione della Resistenza armata, a una sorta di New Deal americano, con contadini e operai alleati in un grande partito di massa che gestisca la modernizzazione del Paese. E l’illusione di poter creare un largo consenso popolare su una prospettiva del genere dovrà presto fare i conti con l’approccio più ideologico e conservatore di socialisti e comunisti alleati nel Fronte Popolare.
Simone Misiani traccia di Rossi Doria un profilo da intellettuale e politico inquieto e anticonformista nato in una famiglia borghese, figlio di un medico di tradizioni laico-massoniche -, all’inizio comunista, ma allontanatosi presto dalla sua prima esperienza malgrado i rapporti stretti con Giorgio Amendola, che invano cercherà a lungo di farlo rientrare nelle file del Pci. Dal ’48 in poi, dopo l’esperienza azionista, Rossi Doria come meridionalista sarà impegnato nell’opera di trasformazione dell’agricoltura del Sud sfociata nella riforma agraria. E per i successivi trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, sarà protagonista critico ma molto rispettato della vita del Partito socialista, partecipando alla stagione riformatrice del primo centrosinistra ma denunciandone al contempo i limiti e i troppi compromessi e restando sempre molto vicino a La Malfa.
L’eredità politica e culturale di Rossi Doria, raccolta nelle memorie, in centinaia di articoli e lettere e in un prezioso archivio a cui Misiani ha dedicato anni di studi, riguarda ormai più che le sue originali proposte riformatrici, legate al suo tempo, la critica dell’inadeguatezza delle classi dirigenti e dell’incapacità delle sinistre di costruire nel Novecento un autentico grande partito riformatore di massa. La lettura di questa biografia e delle considerazioni che accompagnano la vita di questo grande intellettuale e politico può aiutare a riflettere sui limiti e gli errori in cui il centrosinistra continua a dibattersi anche oggi.
La Stampa 9.3.11
E il meridionalismo oggi è fuori scena
di Giuseppe Salvaggiulo
Non è trascorso molto tempo da quando le banche popolari del Sud regalavano ai correntisti, in prossimità del Natale, ponderose antologie di Antonio De Viti De Marco, Tommaso Fiore, Francesco Saverio Nitti, Manlio Rossi Doria. Ora, se va bene, con gli auguri di felice annuo nuovo arriva un giallo di Carofiglio.
Il dibattito sulla crisi del meridionalismo è vecchio quasi quanto il meridionalismo, ma oggi si colora di nuove e più opache tonalità. Nel 150˚ compleanno di un Paese (dis)unito, il Sud è relegato a ospite scomodo, ammesso al modesto banchetto purché non disturbi. «Siamo al redde rationem», sintetizza Gianfranco Viesti, economista appena nominato presidente della Fiera del Levante e autore di Mezzogiorno a tradimento (Laterza). Come dice Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, «l’idea che governare un paese costituzionalmente dualistico in nome della sua parte più forte fosse uno svantaggio per l’Italia, perché la rendeva più fragile dal punto di vista interno e più debole sul piano internazionale, era faticosamente entrata nella testa delle classi dirigenti nel secondo dopoguerra e c’è rimasta per trent’anni. Poi è uscita dalla scena politica e culturale». Ora il meridionalismo non solo è «ob scenus», ma addirittura reietto.
La politica è in altre faccende affaccendata, le università latitano, le case editrici perdono identità, i circoli culturali scompaiono, lo Svimez fatica a tenere l’ultima ridotta, l’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli è costretto all’elemosina per non chiudere. Resiste la Banca d’Italia. Il sociologo Franco Cassano declina il pensiero meridiano in chiave anti-azionista. Mancano campagne di denuncia civile, come quella di Rossi Doria contro la Federconsorzi, forse per indifferenza forse per connivenza. Spiega Viesti: «Non è la voce che manca al Sud, ma il microfono. Prevale il teorema meridionale, un’interpretazione semplicistica per cui le risorse pubbliche sono inevitabilmente sprecate, non c’è più niente da fare, dunque meno soldi si danno meglio è. Questo teorema accattivante ma scientificamente infondato ha molti e diversi sostenitori da Panebianco a Ricolfi, da Tremonti a Enrico Letta e legittima le politiche redistributive a favore del Nord degli ultimi anni».
Viesti racconta che alla presentazione del suo ultimo libro Più lavoro, più talenti (Donzelli) nell’università Bocconi c’erano solo 12 persone, di cui 11 docenti. L’unico milanese andato ad ascoltare era Salvatore Bragantini, ex commissario Consob. Aveva preso la parola allibito per una Milano irriconoscibile, indifferente. Come la forza del meridionalismo consisteva nell’interloquire con le classi dirigenti settentrionali, così la sua crisi è una frana che si apre al Sud ma fa rumore e forse travolge soprattutto al Nord.
Corriere della Sera 9.3.11
Socialista senza Marx
Così Rosselli si ribellò a ogni determinismo
Sognava un risveglio etico dell’Italia
di Arturo Colombo
Carlo Rosselli, classe 1899, si trova a Lipari, condannato dal Tribunale speciale a 5 anni di confino, per aver aiutato (con Parri, Bauer, Ceva) a «trasferire» il leader socialista Filippo Turati all’estero; e lì, sull’isola, ha scritto, fra il 1928 e il 1929, la sua opera più nota, Socialismo liberale. Il manoscritto riuscirà a metterlo in salvo, dopo averlo nascosto nel pianoforte, prima della famosa fuga in motoscafo, nel luglio del ’ 29. Giunto a Parigi, otterrà di pubblicare la traduzione francese, curata da Stefan Priacel. In Italia apparirà solo nel 1945, quando ormai Rosselli non c’era più, assassinato a Bagnoles-de-l’Orne nel 1937 su mandato dei leader fascisti— insieme al fratello Nello— dagli uomini della «Cagoule» , un gruppo terroristico dell’estrema destra francese. Che Socialismo liberale costituisca un chiaro esempio di autentico «pensiero libero» lo si ricava subito, appena si prende atto che per Rosselli il socialismo non solo non deve identificarsi nel marxismo, e quindi nella sua componente materialistica, ma «è in primo luogo rivoluzione morale» : il che significa respingere quella specie di equivoco, di bestia nera del determinismo, da lui considerato fra gli aspetti più negativi della concezione marxista. Ecco perché Rosselli — pur dichiarandosi «socialista» — respinge l’idea (abbastanza diffusa nella sinistra durante la prima metà del Novecento) che basti ottenere dei mutamenti nell’ambito economico produttivo, per credere di avere risolti ipso facto i tanti mali che gravano su ogni società. E proprio questa tesi rosselliana provocherà un’immediata reazione, soprattutto da parte di chi continuava a guardare all’Unione Sovietica come alla vera patria del socialismo. Basta ricordare la durezza di certi giudizi di Palmiro Togliatti, che fin dal 1931 si scaglierà contro Rosselli, definendolo «un dilettante dappoco» e riducendo le «quattro idee» del socialismo liberale a un «magro libello anti-socialista e niente più» , a una «predica da pastore protestante» , con l’aggravante di un «piatto opportunismo reazionario» . Viceversa, se si comprende bene l’immagine del socialismo che, «colto nel suo aspetto essenziale,— scrive Rosselli— è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di giustizia tra gli uomini» , occorre accettare la conclusione che un simile progetto, o programma, di socialismo è l’erede e il continuatore di quella idea liberale, giustamente considerata «rivoluzionaria» fin dai tempi di Locke e di Montesquieu, che proseguirà con John Stuart Mill e poi con Bertrand Russell e John Dewey: a loro volta, tutti esponenti del pensiero libero. Così, quando parla di «socialismo liberale» , Rosselli insiste sul «metodo democratico» e sul «clima liberale» , che costituiscono una «conquista fondamentale della civiltà moderna» , e quindi devono rappresentare un approdo irrinunciabile e definitivo anche per i socialisti: o almeno per quei socialisti che rifiutano e condannano «lo Stato caserma» , che un tempo si identificava nello Stato prussiano, ma che ha finito per assumere i tratti, più mostruosi e terribili, dei sistemi totalitari del XX secolo: sia quelli dell’estrema destra (tipo fascismo, e poi nazismo), sia dell’estrema sinistra, incarnata nel modello sovietico. In questa prospettiva Rosselli ci lascia un’indicazione preziosa, che vale anche oggi, fuori dagli schemi di parte (o dalle «appiccicature di partiti e partitelli» , come lui preferiva sostenere), perché costituisce un vigoroso appello a non rinunciare mai a impegnarsi e operare per rendere migliore, più libera e giusta, la società di domani, senza Lager né Gulag. Come diceva Norberto Bobbio, lo sostengono tuttora autorevoli pensatori liberal (bastano i nomi dello statunitense John Rawls, dell’indiano Amartya Sen, del nostro Salvatore Veca), che insistono sul binomio di libertà politica e giustizia sociale come mezzo indispensabile di sviluppo, di incivilimento, di progresso. A chi obiettasse che si tratta solo di un generoso proposito di minoranza, vale la pena di replicare con le parole di Rosselli: «Siamo pochi? Cresceremo. Siamo fuori del tempo? Sapremo aspettare. Verrà il nostro turno» .
Corriere della Sera 9.3.11
L’appello di Hannah: riscoprire la politica per amore del mondo
Una visione corale dell’impegno civile
di Simona Forti
T he Human Condition è il libro, pubblicato per la prima volta a Chicago nel 1958, che consacrerà Hannah Arendt a «classico» della filosofia politica. Tradotto in italiano nel 1964 col titolo Vita activa, dovrà attendere parecchi anni prima di trovare nel nostro Paese un’attenzione adeguata. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, il nome dell’autrice rimandava quasi soltanto all’opera sul totalitarismo e alla polemica suscitata dal processo Eichmann. Poco si discuteva del contributo filosofico di questa pensatrice ebrea, allieva di Heidegger e di Jaspers, costretta a lasciare la Germania e a cercare una collocazione negli Stati Uniti. Dalla fine degli anni Settanta, in compenso, la fortuna e la fama dell’autrice decollano, senza conoscere, fino ad oggi, battute d’arresto. Saggi interpretativi, monografie dedicate ai vari aspetti dell’opera, edizioni critiche di testi non pubblicati in vita, faranno di Hannah Arendt una delle figure intellettuali più discusse e citate nella comunità scientifica. E, probabilmente, anche una tra le più banalizzate. Banalizzante, per esempio, è stata la recezione della sua opera Le origini del totalitarismo: per alcuni una lezione di storia troppo disponibile alle logiche della guerra fredda. In realtà, il senso profondo del libro, la sua originalità, consisteva esattamente nel riuscire a complicare l’alternativa postbellica tra democrazie liberali e totalitarismo, mostrandone l’intricata relazione genealogica. Il lettore che si trova oggi tra le mani per la prima volta Vita activa non dovrà incorrere in un errore analogo. Il legame tra libertà e azione politica, che sta al cuore dell’opera, non può essere letto come il semplice correlato di una teoria liberale. Così come i richiami costanti all’esperienza della polis non devono produrre l’impressione di un progetto volto a restaurare un modello del passato. Né nostalgica della politica greca, né semplice sostenitrice della difesa dei diritti individuali, la filosofia politica di Hannah Arendt è soprattutto l’esortazione a concepire il potere, e il soggetto che agisce, in maniera diversa dalle modalità tramandate dalla tradizione. Senza lo sforzo di questa radicalità di pensiero, ogni idea di politica rimane, a suo parere, imprigionata nel cerchio del dominio, destinata prima o poi a inciampare nella relazione verticale di comando obbedienza. Per questo non basta, per definire il senso arendtiano della libertà politica, ricordare che essa si riferisce a un agire orizzontale e plurale, il quale non può esprimersi attraverso la coercizione e la violenza, ma solo tramite il linguaggio. Allo stesso modo è riduttivo insistere su quell’idea di spazio pubblico, così cara all’autrice, come se si trattasse della mera ricerca di un’intesa intersoggettiva, del riconoscimento reciproco tra le diverse identità degli attori o dei gruppi che agiscono sulla scena. Certo, la sfida arendtiana è in primo luogo volta a ripensare la politica al di fuori del dominio, ma non come semplice limitazione del potere centrale a difesa dei diritti privati di libertà, ma esattamente come moltiplicazione delle fonti di potere e del potere stesso. Perché il potere, secondo Hannah Arendt, non è la facoltà di costringere il comportamento altrui. È invece l’espressione dell’energia che si sprigiona dall’azione, quell’energia che dà forma e significato alla vita del singolo e che la politica, con la sua dimensione corale e agonistica, moltiplica e potenzia. Vita activa, allora, più che al funzionamento dello Stato e delle sue istituzioni, risponde a una domanda di senso: come conferire significato alla vita, in modo che diventi la vita di qualcuno? Come riallacciare il legame tra politica ed esistenza fatto a pezzi nei regimi totalitari? A fronte dell’esito nichilistico della prima metà del XX secolo, essa rilancia la capacità formativa e performativa dell’agire; contro il risentimento nei confronti del nulla, invita a riscoprire l’ «amore del mondo» e la gioia dell’azione politica. Quella gioia dell’essere liberi che consiste nella possibilità di incominciare sempre da capo e insieme.
La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
Da Proust alle neuroscienze
Il mix tra scienza e umanesimo crea il nuovo intellettuale
di Giovanni Nucci
Scrive Jonah Lehrer nella prefazione del suo libro «Proust era un neuroscienziato» (Codice edizioni): «Molto prima che Charles Snow lamentasse la triste separazione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, Whitman studiava manuali di anatomia cerebrale e assisteva a interventi chirurgici raccapriccianti, George Eliot leggeva Darwin e Maxwell, la Stein conduceva esperimenti psicologici nel laboratorio di William James e la Woolf si documentava sulla biologia della malattia mentale. È impossibile capire la loro opera senza tener conto di queste relazioni».
Volendo mettere a fuoco l'interesse scientifico del libro di Lehrer, occorre concentrarsi sull' aspetto letterario: ciò che dice di importante sul piano della scienza lo dice, in realtà, quando sta parlando della letteratura. E l'inverso. Lo scopo di questo libro, però non è quello di screditare la scienza o nobilitare eccessivamente la letteratura e le arti. Il dato di realtà che Lehrer mostra è che la scienza e la letteratura sono medesime espressioni, per quanto diverse, del loro tempo. Può sembrare banale il fatto che Whitman, volendo dare al corpo la centralità che effettivamente avrebbe avuto nella sua poesia, studiasse e si documentasse di questioni mediche. Ma non si tratta semplicemente della ricerca che conduce un romanziere apprestandosi a scrivere un libro ambientato in un qualche mondo scientifico. Lehrer sta parlando di qualcosa di più sottile, e profondo. Il fatto che Withman, Cézanne, Proust o la Woolf abbiano cercato di raccontare il mondo, almeno dal loro punto di vista: e che del loro mondo faceva parte anche la scienza. Questo ovviamente accade sia in positivo che in negativo: non solo per l'artista che viene ispirato, e coinvolto, da una data corrente, o scoperta, scientifica; ma anche chi cerca di contrastarla e di opporvisi.
La conseguenza della frequentazione della scienza da parte di artisti e letterati è il fatto che spesso (o almeno nei casi che Lehrer analizza) le loro intuizioni hanno preceduto di parecchio le scoperte scientifiche. Proust aveva capito il funzionamento della memoria ben prima di quanto non abbiano saputo fare le neuroscienze. Naturalmente tutto ciò è spiegato nel libro di Lehrer con una certa scientificità, ma su un piano letterario. Alla fine è difficile dire se questo sia un saggio che parla di scienza o di letteratura: ed è il motivo per cui va consigliato agli studenti che partecipano al concorso «La Scienza Narrata»: la cosa migliore a cui può portare la lettura di questo libro è una sapientemente confusione tra l'ambito scientifico e quello umanistico.
Ne viene fuori che un vero intellettuale dev'essere ugualmente, e contemporaneamente, scienziato e umanista: un'umanista non può non essere interessato e coinvolto dalla scienza così come la sua epoca la sta celebrando; e uno scienziato non può in nessun modo permettersi di ignorare ciò che l'arte, la musica e la letteratura del suo tempo stanno producendo. I restanti, che siano scienziati, artisti, letterati o musicisti, non saranno mai all'altezza del loro mondo, perché ne avranno comunque omesso una metà.
La Stampa Tuttoscienze 9.3.11
In un meteorite del Polo Sud è racchiusa l’origine della vita
“Ha portato sulla Terra l’azoto, l’elemento base degli organismi”
di Daniela Cipolloni
Sandra Pizzarello è considerata una pioniera della «biochimica aliena»
Scoperta di una scienziata italoamericana «Una prova fondamentale: il sasso era sepolto sotto i ghiacci e quindi privo di contaminazioni»
In principio furono i meteoriti. Le rocce arrivate dallo spazio avrebbero sparso sulla Terra i semi che permisero alla vita di sbocciare, circa 3,5 miliardi di anni fa. L'origine «aliena» della vita è ben più di un'ipotesi affascinante. Dai ghiacci dell'Antartide sono riaffiorati antichissimi frammenti fossili del Sistema Solare, contenenti le molecole organiche che avrebbero «impollinato» la Terra e innescato il processo da cui si sono evoluti gli organismi viventi. «Abbiamo le prove per ritenere che gli ingredienti della vita siano potuti piovere dal cielo». Parola di Sandra Pizzarello, 78 anni, italiana d'origine, statunitense d'adozione, diventata «biochimica extraterrestre» quasi per caso E oggi considerata un’autorità del settore.
Nessuno meglio di lei sa far parlare i «sassi». Dall'ultimo meteorite finito tra le sue mani denominato «Grave Nunataks 95229» e scoperto in Antartide nel 1995 è riuscita a «spremere» l'azoto, elemento imprescindibile per la vita, onnipresente nelle cellule, dal Dna alle proteine. Era il tassello mancante del puzzle. «Abbiamo analizzato un meteorite primitivo, appartenente alla famiglia dei condriti carbonacei: era sepolto sotto la neve ed è rimasto incontaminato», racconta la scienziata nel laboratorio dell'Arizona State University, dov'è professore emerito. «Abbiamo sottoposto la polvere a temperature e pressioni elevate, ma neanche troppo, mimando così possibili condizioni della Terra primordiale spiega, dopo l’annuncio sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” -. È scaturita un' enorme quantità di ammoniaca, formula chimica NH3, un composto senza il quale non si sarebbero formate le molecole organiche nel brodo primordiale». Nessun dubbio che gli atomi di azoto contenuti nell' ammoniaca siano di proprietà del meteorite: sulla Terra non esistono isotopi uguali.
Generazioni di ricercatori hanno sbattuto la testa sulla difficoltà di spiegare la presenza dell'azoto in quello scenario semi-apocalittico che vide nascere il primo organismo unicellulare: un pianeta caldissimo, coperto da una cappa di gas irrespirabile, bombardato da una raffica di asteroidi. Sandra Pizzarello ce l'ha fatta, all'apice di un'avventura umana e professionale che sembra un film (di fantascienza) per l'Italia. Nata a Venezia nel 1933 (di cognome da ragazza faceva Fabbri), laureata in biochimica all'Università di Padova, iniziò a lavorare in un'azienda farmaceutica. Poi arrivarono il matrimonio e i figli. Quattro. E Sandra lasciò tutto per fare la mamma. «Sono stata a casa 15 anni. Quando mio marito trovò un impiego negli Usa, ci trasferimmo e decisi di rimettermi in carreggiata racconta -. Per stare al passo mi specializzai in un settore nuovo. La Nasa finanziava ricerche sul meteorite di Murchison, caduto in Australia nel 1969. Vinsi l'assegno. In Italia non sarei mai riuscita a rientrare nell'università».
È l'«American dream» che si realizza. Sandra Pizzarello diventa una pioniera. Studiando il celebre meteorite, getta le basi dell'esobiologia, la teoria della provenienza extraterrestre dei mattoni della vita. «Le ricerche provarono che nel cosmo si possono formare molte molecole prebiotiche. Nel Murchison ne abbiamo individuate più di 5 mila, tra cui numerosi amminoacidi terrestri, come la glicina, l'alanina e l'acido glutammico spiega -. Tuttavia nessuna di queste mostrava un particolare vantaggio evolutivo». Per un certo periodo gli scienziati hanno quindi aggirato lo scoglio dell'azoto (a cui il meteorite Murchison non dava contributi), ipotizzando che l'atmosfera della Terra primordiale fossericca d'ammoniaca. «Il famoso “Esperimento Miller”, alla fine degli Anni 50, dimostrò che si possono creare amminoacidi a partire da semplici composti chimici immersi in una soluzione gassosa riducente, formata da metano, ammoniaca, idrogeno e vapore acqueo, e attraversati da una scarica elettrica prosegue la scienziata -. Oggi, però, i geologi sono più propensi a ritenere che l'atmosfera della Terra neonata fosse neutra, tendente all'ossidante».
Se cadono, così, le ipotesi che, nelle giuste condizioni, anche meteoriti come il Murchison avrebbero potuto accedere la scintilla della vita, i reperti rinvenuti in Antartide immacolati e completamente diversi dal sasso australiano, perché ricchissimi di azoto cosmico riaprono invece la partita. Sono la prima evidenza che l'impatto delle rocce spaziali tra 4.4 e 2.7 miliardi di anni fa abbia sprigionato l'agente mancante per avviare le reazioni chimiche necessarie. Rilanciando la teoria che siamo tutti un po' extraterrestri. «Ma c'è ancora tanto da scoprire», confessa Sandra Pizzarello. A 78 anni la «Signora delle meteoriti» non è stanca: «Ho voglia di divertirmi». E torna a immergersi nelle sue ricerche.
Repubblica 9.3.11
“Caotico, oscillante o in espansione scegliete il cosmo che preferite"
di John D. Barrow
Il celebre scienziato, tra i fautori della teoria del "multiverso", spiega le sue tesi. A partire dalle equazioni di Einstein e dai dati che oggi possiamo raccogliere grazie alla tecnologia
Fino all´inizio del XX secolo le teorie ubbidivano a visioni filosofiche religiose o artistiche
Resta la domanda: perché a un certo punto l´accelerazione dello spazio ha cambiato velocità?
Fino ai primi anni del ventesimo secolo, la cosmologia era più simile alla storia dell´arte che alla scienza. C´erano stili di universo. Si poteva immaginare, come nel passato, a che cosa dovesse assomigliare l´Universo. Ad alcuni piacevano i loro universi infinitamente antichi; altri volevano che la storia cosmica avesse un inizio preciso; altri ancora che il loro universo fosse ciclico, che avesse una crescita e una decadenza come il ciclo della vita e che ogni nuovo ciclo risorgesse come una fenice dalle ceneri del precedente. Tutte queste immagini avevano la propria origine in figure religiose, artistiche o filosofiche di come le cose dovrebbero essere. Le osservazioni raccolte sulle stelle e i loro movimenti spesso venivano adattate a un´immagine creata per altre ragioni.
Tutto questo cambiò nel 1915. Per la prima volta, la nuova teoria della gravità di Einstein, definita teoria generale della relatività, fornì delle equazioni le cui soluzioni erano interi universi. Fu una svolta. Pian piano, si trovarono delle soluzioni alle equazioni sull´universo di Einstein. Esse rivelavano che l´universo si starebbe espandendo, una possibilità confermata dalle osservazioni realizzate da Edwin Hubble e Milton Humason a Mount Wilson nel 1929. Si scoprì che ogni sorta di varietà di espansioni era possibile. Inizialmente, l´espansione sembrava sempre semplice e simmetrica, come una sfera che si espande, ma poi si scoprì che erano possibili anche degli universi in espansione a diverse velocità e con diverse direzioni e che erano ammissibili perfino degli universi rotanti che permettono di viaggiare indietro nel tempo. In The Book of Universes racconto la storia di tutti gli universi possibili rivelati dalle equazioni di Einstein. Fino ad oggi, sono state trovate solo alcune soluzioni a queste complicate equazioni e quando se ne scopre una nuova, spesso gli si dà il nome di chi l´ha scoperta. Abbiamo degli universi che si espandono e si contraggono, universi oscillanti; universi caotici; universi che hanno un inizio e una fine e universi che non hanno né l´uno né l´altra.
Nel 1965, i radioastronomi scoprirono la radiazione termica che si era predetto esistesse se l´universo si fosse espanso da un big bang estremamente caldo. Da quel momento in poi, i cosmologi si sono concentrati sempre di più sui processi fisici avvenuti nell´universo all´inizio della sua storia, alla ricerca di prove che confermino la nostra ricostruzione del passato. Fino al 1980, era chiaro che l´universo si stava espandendo in un modo misteriosamente simmetrico a una velocità molto vicina alla velocità minima necessaria per superare la gravità e continuare a espandersi per sempre. Le equazioni di Einstein avevano già fornito delle eccellenti descrizioni di questo stato di cose in una galleria di possibilità. Ciò che mancava era una spiegazione del perché l´universo avesse queste caratteristiche speciali e contenesse anche una speciale distribuzione di piccole irregolarità trasformatesi in galassie. Nel 1981, Alan Guth propose un nuovo modello di universo in espansione, nelle cui fasi primordiali ci sarebbe stata una breve scarica di espansione accelerata, definita "inflazione". Il risultato è molto significativo: potrebbe spiegare perché ci fu questa espansione simmetrica a quella particolare velocità che abbiamo visto e perché generasse delle piccole irregolarità casuali "stirate" dall´espansione fornendo così i semi dai quali si formeranno poi le galassie, dieci miliardi di anni dopo.
Questa sequenza di eventi avrebbe lasciato delle importanti variazioni spia nella radiazione termica rimasta nel cielo di oggi dall´universo primordiale. I nostri satelliti hanno trovato alcune parti dei modelli previsti. Vedremo se quest´anno il satellite Planck dell´Agenzia spaziale europea (Esa) riuscirà a trovarne altre.
Il fenomeno dell´inflazione ci conduce anche ad aspettarci che altre parti dell´Universo, dove non riusciamo a vedere per la velocità finita della luce, siano molto diverse dalla nostra parte visibile. Inoltre, il processo dell´inflazione si autoriproduce e qualsiasi regione che si gonfia creerà le condizioni per un´ulteriore inflazione di parti di quella regione. Questo processo di inflazione "eterna" non ha fine e non ha bisogno di avere un inizio. Cambia la nostra risposta all´antica domanda: "l´universo ha avuto un inizio?". La nostra porzione visibile dell´intero universo avrà avuto un inizio, ma l´intero "multiverso", composto di differenti regioni che si gonfiano tutte a velocità diverse, non ha bisogno di avere un inizio.
Nell´ultimo decennio, abbiamo costantemente raccolto delle prove che c´è stata un´era di inflazione 13,7 miliardi di anni fa, ma abbiamo anche scoperto che l´universo cominciò ad accelerare di nuovo 4 miliardi di anni fa, dopo essersi espanso per circa i tre quarti della sua estensione attuale. Questo cambiamento di marcia dalla decelerazione cosmica all´accelerazione viene descritto con straordinaria precisione da una delle soluzioni alle equazioni di Einstein trovate per la prima volta dal cosmologo belga Georges Lemaître nel 1927. Tuttavia, anche se l´universo di Lemaître è una bella descrizione, vogliamo sapere perché il nostro Universo cambiò marcia e cominciò ad accelerare qualche miliardo di anni fa. Perché, dunque? Un approccio molto in voga è quello di immaginare che il multiverso di regioni che possono emergere nello scenario dell´inflazione eterna copra tutte le possibilità e che ci sia capitato di abitare una di quelle regioni che cominciarono ad accelerare abbastanza tardi da permettere di evolversi alle galassie, alle stelle, ai pianeti e alla vita. Ancor più interessante potrebbe essere una nuova estensione della teoria di Einstein, sviluppata da Douglas Shaw e dal sottoscritto a Cambridge, che sta per essere pubblicata sulla rivista Physical Review Letters. Imponendo la limitazione della casualità in una cosmologia quantica siamo capaci di spiegare per la prima volta perché la recente accelerazione iniziò proprio in quel momento. Possiamo anche predire un´altra caratteristica molto precisa dell´espansione che i dati forniti dal satellite Planck saranno in grado di determinare. Dunque, la magica giara degli universi non si è ancora esaurita. Nei prossimi due anni vedremo molti nuovi dati che confermeranno o escluderanno una serie di possibili universi e ci aiuteranno a capire perché il nostro sia fatto così.
L´autore è professore all´Università di Cambridge e ha scritto The Book of Universes edito da Bodley Head (Traduzione di Luis Moriones)
Repubblica 9.3.11
I nuovi padri
La cultura Lo psicanalista Massimo Recalcati "Così è cambiata la figura del padre"
“Dall’autorità all’affetto. Così è cambiato un simbolo
di “Luciana Sica
Lo psicanalista Recalcati racconta il suo ultimo saggio sulla metamorfosi dei ruoli nella nostra epoca
"La verità che può trasmettere è indebolita perché non vanta modelli universali"
"L´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare"
"Ogni paternità è adottiva. Lo racconta anche Eastwood in Million Dollar Baby"
"Papi": è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a "papi", invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell´epoca ipermoderna, sull´evaporazione del padre, secondo l´espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l´interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).
Cosa resta dell´uomo che assicurava l´ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l´ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all´autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica... Si tratta allora di pensare al padre come "resto", non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all´insegnamento esemplare, all´intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l´incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».
Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice "sì!" a ciò che esiste, senza sprofondare nell´abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell´avvenire».
In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l´insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo... Quando Freud gli attribuiva il saper "tenere gli occhi chiusi", intendeva sottolineare il carattere "umanizzato" della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita... È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un "no!" che sia davvero un "no!", e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».
Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all´adozione... C´era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre "interdice" il godimento incestuoso e "separa" la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero "nuovo" e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare. Intesa come legame "naturale", la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l´importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un´appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza... Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».
Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto "l´ordine del sangue". Prendiamo Million Dollar Baby...
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un´adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia... "Io voglio lei!". "Sarò il tuo allenatore!": Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo eccezione alla propria etica ("Io non alleno ragazze!") e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l´atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l´ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l´ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l´abbandona come "una causa persa", alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».
Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».
La Stampa 9.3.11
Cézanne gioca a carte scoperte
Al Met di New York nelle sue tele la ribellione all’impressionismo e all’arte come mercato
di Ugo Nespolo
Ormai avvezzo a esser sommerso e quasi asfissiato da un giornaliero profluvio di mostre-monstre, vernici, fiere dell’arte, di quelle in cui si bada più alla quantità pur-che-sia e si è indifferenti all’odierna fame e sete di qualità e bellezza, precipito in una sorta di wonderland nel visitare in una tersa e gelida serata al Metropolitan Museum di New York la mostra «I giocatori di carte di Cézanne»
Perla di esposizione concepita e realizzata in collaborazione con la Courtauld Gallery di Londra questa mostra riunisce e mette a confronto per la prima volta la serie di dipinti che hanno per tema i Giocatori di Carte con un vasto e raro corredo di bozzetti e tele indispensabili per capirne il percorso e la portata creativa. Sono opere dipinte negli anni che vanno dal 1893 al 1896, gli ultimi della vita dell’artista (muore nel 1906) in cui concepisce e realizza un nucleo di tele che a mio parere posson essere considerate il manifesto teorico e pratico dell’antimpressionismo.
Volontariamente isolato ad Aix-enProvence Cézanne sembra mettere in atto, giorno dopo giorno, con la lentezza esecutiva che gli è propria, la più profonda e concreta reazione all’appiattimento e alla superficialità dei trionfanti ideali impressionisti e postimpressionisti. Vive silenziosamente la sua marginalità e proprio il ciclo di tele di questa mostra spiegano con chiarezza la chiave del suo clamoroso insuccesso commerciale.
Si può bene intuire come debba aver considerato i personaggi di George Seurat nient’altro che statiche sagome di cartone alla Grande Jatte e che tutte le credenze parascientifiche del tempo che portano al pointillisme non possano prendere il posto degli ideali di solidità, volume, meditazione, spazio monumentale, che gli stavano a cuore. Ad analizzare da vicino il contrasto di colori caldo-freddo, le bordature brune e nere tracciate con pennellate solide e sicure, si può quasi comprendere il suo sogno di rifare Poussin sulla natura e di riportare l'Impressionismo tra le braccia dei Maestri.
Merleau-Ponty chiarisce bene questo concetto dicendo che «…non serve a nulla opporre qui la distinzione di anima e corpo, di pensiero e visione dal momento che Cézanne ritorna all’esperienza primordiale…» e che attraverso l’uso dei colori caldi e del nero mostra come egli intenda rappresentare gli oggetti e i personaggi e «… ritrovarli dietro l’atmosfera». Mi sembra che questi modelli di giocatori-contadini siano come illuminati da dentro e che la loro fisicità riverberi una sorta di calma e luce interiore. Pare questa essere quella stessa calma che doveva guidare quest’uomo schivo ed appartato che detestava persino il contatto fisico e che aveva tramutato in odio e delusione la fraterna e sconfinata amicizia con Émile Zola reo di averlo raffigurato nel suo romanzo L’Oeuvre nei panni del pittore fallito Claude Lantier suicida di fronte alla rivelata incapacità di portare a termine un quadro.
La mostra m’illumina sulle ragioni dell’incomprensione e dell’insuccesso di un artista da considerare tra i maggiori della tradizione moderna e che si pone allo snodo tra l’eclissi dell’impressionismo dilagante e modaiolo e il nascente cubismo picassiano pronto a far propria quella lezione di meditata tridimensionalità e di nuovo spazio prospettico. New York è proprio il luogo adatto per ripensare all’ostracismo che ancora in tempi non lontani Clement Greenberg, il massimo critico statunitense e paladino della ricostruzione delle teorie artistiche fondate sullo storicismo-genetico, riservava a Paul Cézanne considerandolo un vero ostacolo al suo pensiero che voleva la storia dell’arte quasi un percorso lineare verso la conquista della planéité , quella sorta di smaterializzazione progressiva adatta e adattata a glorificare tra l’altro il trionfo non tutto giustificato dell’espressionismo astratto made in Usa.
La solidità «ontologica» di questi giocatori si erge davvero come un masso non valicabile sul glaciale binario di una forzata lettura storico-artistica lineare ed univoca. In queste sale animate da personaggi di masaccesca solidità non posso fare a meno di pensare all’epoca nostra che vive l’arbitrio e la pochezza del «tutto è arte» in quello che si è ormai avvezzi considerare un clima di noiosa avanzata postmodernità che produce per lo più un’arte «ininfluente», lontana dal sociale e del tutto schiava del mercato sempre pilotato.
Se l’opera di Monet Impression era servita a Louis Leroy a definire un movimento liberatorio lentamente scivolato nel superficiale e nel ripetitivo, la «cosalità» di Paul Cézanne è quella di dipingere «… come se non si fosse mai dipinto». Non si fatica a credere che dopo D.H. Lawrence la sua opera sconvolga e muti per sempre in profondo la poesia di R. M. Rilke. Elegie Duinesi eSonetti ad Orfeo ne mostreranno i segni ancora vent’anni dopo il 1907.
Corriere della Sera 9.3.11
La sfida di Pinault alla Biennale
Una riflessione su nomadismo e meticciato a Palazzo Grassi
di Paolo Conti
«Il Mondo vi appartiene» . Che slogan luminoso e ottimista, di questi tempi in cui la guerra è veramente alle porte di casa nostra e soprattutto si affaccia sul Mediterraneo. Eppure la frase tanto piena di speranza, e diretta alle nuove generazioni, viene dalla Signora dell’Adriatico, avamposto proprio del Mediterraneo, ovvero dalla Serenissima. Tra poche settimane Venezia riprenderà il suo ruolo di capitale mondiale dell’arte contemporanea. Tornerà la Biennale di Venezia (per venerdì è atteso l’annuncio ufficiale della lista degli artisti da parte del presidente Paolo Baratta e della curatrice Bice Curiger per la rassegna «ILLUMInazioni» ). E l’universo di François Pinault, grande industriale e altrettanto grande collezionista di arte contemporanea, metterà in tavola le sue carte tra Punta della Dogana, dove il 10 aprile aprirà la mostra «Elogio del dubbio» , e Palazzo Grassi, marchio doc di mostre eccellenti dai tempi in cui la padrona di casa era la Fiat. La mostra che aprirà il 2 giugno a Palazzo Grassi, per chiudere il 31 dicembre (tutti i giorni, dalle ore 10 alle ore 19, tranne il martedì), sarà «una riflessione sui ritmi vertiginosi degli sconvolgimenti del mondo moderno, nutriti dal nomadismo, dal cosmopolitismo e dal meticciato» , come si legge nella presentazione. Lo staff di Pinault per Punta della Dogana e Palazzo Grassi, coordinato dal nuovo direttore Martin Bethenod e dalla curatrice, Caroline Bourgeois, è al lavoro a pienissimo ritmo. Non c’è una competizione dichiarata con la Biennale (Bethenod parla di «grande dinamismo» dell’istituzione culturale italiana che fa di Venezia «una piattaforma privilegiata dell’arte contemporanea» ). Ma dal momento in cui Pinault ha deciso di «mettersi in mostra» a Venezia con due straordinari spazi, i mesi della Biennale rappresentano un obbligo culturale per lui. Se non una sfida. Ed eccoci a «Il mondo vi appartiene» . Annuncia proprio Bethenod, che ha ormai chiuso la sua casa parigina per diventare veneziano a tutti gli effetti: «"Il Mondo vi appartiene"è un punto di vista profondamente rinnovato sulla Collezione François Pinault. Più della metà degli artisti sono esposti per la prima volta nel contesto della collezione, un terzo ha meno di 40 anni. Questa nuova generazione è estremamente mobile: la maggior parte degli artisti presenti in mostra non vive nel suo Paese o nel continente dove è nata» . Torna il concetto di nomadismo, del cosmopolitismo, del meticciato annunciato prima. E quindi il direttore dell’impresa culturale italiana di Pinault arriva a una deduzione: «Tutto ciò ci testimonia che il mondo non è più organizzato attorno a un unico centro, come era fino alla fine del XX secolo, ma a numerosi centri di creazione, che comunicano tra di loro» . Una questione non secondaria mette in discussione la stessa definizione e concezione di «arte nazionale» così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento e che ha portato, tanto per fare un esempio, alla collocazione dei padiglioni nazionali nei Giardini della Biennale. E alla restaurazione del Padiglione Italia (quest’anno affidato a Vittorio Sgarbi). Aggiunge Bethenod: «In un mondo così tanto spesso minacciato dalla contrattura e dal ripiegamento su se stessi, la mostra tenta un approccio al tema dell’identità che non si fonda sulla rivendicazione di una nazionalità o sull’affermazione di un’origine, ma sul modo di costruire la relazione con l’altro» . Come scrive nella presentazione la curatrice Bourgeois ecco «un meticciato che va dalla tortura mediatizzata con i dipinti di Ahmed Alsoudani, al persistere della perplessità ingenua e spontanea negli uomini con la scultura poetica di Friedrich Kunath, alla monumentalità fuori moda delle grandi figure comuniste con i quadri di Zhang Huan, dal denudamento della ricca cultura africana e afroamericana con El Anatsui e David Hammons, alla minaccia terrorista con l’opera di Huang Yong Ping, all’apocalisse annunciatrice di un mondo post-umano con Loris Gréaud e Matthew Day Jackson» . Trentanove artisti molto giovani e in gran parte esordienti sulle scene di Pinault. Ma tra loro non mancano nomi molto noti, ormai parte della storia dell’arte dei nostri tempi: Alighiero Boetti o Giuseppe Penone. E poi Maurizio Cattelan, Jeff Koons, David Hammons, Francesco Vezzoli e Joana Vasconcelos, autrice alla Biennale 2005 del monumentale lampadario composto da 14.000 assorbenti femminili interni OB. Tra le mille possibili suggestioni, una in particolare richiama i nostri tempi drammatici. Farhad Moshiri, classe 1962, nascita iraniana a Shiraz, vive e lavora tra Teheran e Parigi. Presenta una scritta multicolore su un muro in lieve, elegantissimo, rassicurante corsivo: Life is beautiful. Poi ti avvicini, guardi e scopri che tutto è formato da una serie di coltelli di diversa foggia e colore piantati sulla parete. La vita può essere meravigliosa. Ma a che prezzo.
Corriere della Sera 9.3.11
Michelangelo. Cercando l’assoluto
Il dialogo tra carta e marmo, dall’architettura al tormento spirituale attorno alla Pietà Rondanini
di Giorgia Rozza
Accade ai grandi vecchi dell’arte, una volta che hanno dimostrato nel corso della loro esistenza virtuosismi tecnici di pennello o scalpello capaci di rendere ai più alti livelli la bellezza delle forme, di lasciarsi andare alla ricerca sulla materia pura e di regalare alcuni dei massimi capolavori del genio umano. Il vecchio Michelangelo, abbandonando le polite levigatezze del David o della giovanile Pietà vaticana del 1499, cerca, attraverso la tecnica del non finito, di liberare lo spirito umano dal carcere della materia in piena sintonia con le teorie del Neoplatonismo cinquecentesco. E una delle opere in cui più evidente è lo sforzo di liberare dal marmo il sussulto del divino è la Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò dagli anni ’ 50 del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1564. Proprio attorno a questo capolavoro mai finito, così importante per Milano, che sembra testimoniare un modernissimo conflitto spirituale, ruota la mostra «L’Ultimo Michelangelo» , curata da Alessandro Rovetta e visitabile nelle sale 13-15 del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco dal 18 marzo. Fino all’otto maggio, con lo stesso biglietto è possibile conoscere un altro volto dell’eclettica produzione del genio di Caprese visitando l’attigua mostra «Michelangelo architetto nei disegni della Casa Buonarroti» a cura di Pietro Ruschi. Anche qui, paradossalmente, la poetica del non finito ha un suo spazio, perché non sempre l’attività architettonica di Michelangelo si è incarnata in quella materia da lui tanto amata, il marmo delle Apuane, dove già scorgeva nei blocchi informi colonne, mensole e capitelli. Più spesso, a causa delle tempestose vicende politiche e dei rovesci dei governi che coinvolgevano gli Stati della Penisola in quegli anni, di quest’arte monumentale sono rimasti solo segni a matita. su fogli di carta scoloriti a indicare la genialità e l’infinitezza di vedute dell’artista di Caprese. Il rapporto carta-marmo è, perciò, essenziale nelle due mostre. Perché ogni realizzazione ha alle spalle bozzetti, disegni, prove a matita. Come afferma Alessandro Rovetta: «Questa è un’occasione unica e irripetibile di ammirare i disegni dell'ultimo Michelangelo posti di fianco alla Pietà Rondanini. Si tratta di disegni di soggetto religioso che hanno un trattamento stilistico non dissimile da quello utilizzato per la sua ultima scultura» . Ma le carte esposte non recheranno su di sé solo disegni, bensì anche le ultime Rime dell’artista di Caprese provenienti dalla Biblioteca Vaticana. Afferma ancora Rovetta: «Obiettivo della mostra è illustrare gli ultimi quindici anni di vita di Michelangelo. Oltre all’unico disegno preparatorio per la Pietà Rondanini, anticipato da una serie di studi che fin dagli anni Trenta evidenziano le preferenze compositive e tematiche culminate nella scultura oggi al Castello Sforzesco, sono presenti altri fogli sui quali Michelangelo affronta diversi soggetti sempre legati alla Passione e al legame tra Maria e Cristo. Spiccano in particolare sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, considerate le sue ultime opere grafiche realizzate in una forma quasi trasfigurata, modernissima, molto simile al modo di lavorare il marmo della Rondanini» .
Corriere della Sera 9.3.11
Ricco e «pezzente», il doppio volto
Buonarroti era l’artista più pagato di sempre ma per tirchieria viveva in modo miserrimo di di Francesca Bonazzoli
Era un venerdì quando, il 18 febbraio 1564, Michelangelo moriva nella sua casa romana di Macel de’ Corvi. Negli ultimi anni della sua lunga vita aveva disegnato per gli amici un gran numero di Crocifissi e Pietà, ovvero soggetti di devozione del corpo santo di Cristo cui era stato iniziato da Vittoria Colonna, la marchesa che riuniva intorno a sé una cerchia di cattolici che si battevano per la riforma morale della Chiesa. Alcuni, come il cardinale Reginald Pole o il cardinale Morrone, subirono persecuzioni da parte dell’Inquisizione. Non sappiamo se anche Michelangelo fosse spiato, ma di sicuro c’è che immediatamente, appena la notizia della morte dell’artista giunse all’orecchio della polizia del Papa, un giudice e un notaio entrarono nella sua casa prima dell’arrivo del nipote Leonardo da Firenze. Attraverso l’inventario che stilarono, sappiamo che «in una stanza a basso» c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo portacroce e «un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite» , ovvero la cosiddetta Pietà Rondanini. In casa c’erano anche dieci cartoni preparatori tra i quali uno con una Pietà; ventiquattro camicie di cui cinque nuove; un certo numero di barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo. Nessun gioiello, né mobili preziosi, né una collezione d’arte. Però c’era un armadio chiuso a chiave che conteneva ottomiladuecentottantanove ducati d’oro, l’equivalente di quasi trenta chili del prezioso metallo. Questo asciutto inventario dice molto della personalità di Michelangelo, uno degli artisti più ricchi e tirchi mai esistiti. Il suo biografo Ascanio Condivi scrive che non viveva in frugalità, ma in modo miserrimo, e andava a letto con gli stivali indossandoli così a lungo che quando finalmente li toglieva, tirava via anche la pelle. Persino lo zio Buonarroto (fratello del padre di Michelangelo), facendogli visita a Roma, rimase stupito della miseria in cui viveva e gli scrisse quanto questa fosse brutta, un vizio che dispiaceva a Dio e alla gente. Ma Michelangelo non se ne curava e spiegò al padre che era contento di vivere in povertà senza darsi pensiero né della vita, né dell’onore e del mondo. Le sue condizioni migliorarono comunque molto dopo gli affreschi nel soffitto della Sistina, tanto che verso la fine del 1515 disponeva di un capitale liquido di tremilaottocento fiorini d’oro. Tuttavia già a ventidue anni, quando ricevette la commissione per la Pietà oggi in Vaticano, i suoi prezzi erano molto alti. Il papa Giulio II, per cui iniziò a lavorare nel 1505, a trent’anni, lo ricompensava con pagamenti inconcepibili per qualsiasi altro artista: tanto per avere un’idea, le sue spese per i materiali erodevano solo un terzo del compenso, mentre per gli altri artisti la media era almeno del doppio. Il papa Paolo III, poi, lo pagava più di quanto Piero Soderini aveva ricevuto per la carica di gonfaloniere a vita di Firenze e per vincolarlo al suo servizio gli concesse un vitalizio di mille duecento scudi annuali, una cifra molto importante, di cui seicento provenienti dal reddito del passaggio del Po, presso Piacenza. Paradossalmente la ricchezza contribuiva ad aumentare l’ansietà di Michelangelo. L’artista considerava infatti l’avarizia come il peccato più grande, motivo per cui non mise mai in banca i suoi soldi a fruttare interessi. Li investiva soprattutto in proprietà immobiliari il cui valore, dopo la morte, era stimato intorno ai dodicimiladuecentoquaranta fiorini, comparabile a quello di molti patrizi del tempo. Pare che Michelangelo, in tutta la vita, avesse guadagnato l’equivalente di metà del capitale di Agostino Chigi, che negli anni Dieci del Cinquecento era il più ricco banchiere del mondo. Una delle ragioni di tanta tirchieria era l’ossessione di ripristinare il prestigio della famiglia Buonarroti che era stata eleggibile per le cariche pubbliche da almeno sei generazioni. Tuttavia né il padre, né lo zio erano più stati in grado di pagare le tasse e quindi di ricoprire uffici pubblici. Michelangelo se ne vergognava e fece in modo che anche grazie agli ottimi matrimoni (con famiglie nobiliari) dei nipoti Francesca e Leonardo, la famiglia tornasse a risalire la scala sociale. Solo nell’ultima parte della vita si dedicò alla beneficenza perché l’altra sua ossessione, quella senile, riguardava la salvezza dell’anima. Ma c’è una testimonianza che ci rende più simpatica la tirchieria di Michelangelo: nell’orazione pronunciata per il funerale del maestro a Firenze, Benedetto Varchi disse che Michelangelo regalò sempre disegni, cartoni e statue ai suoi amici e parenti. Michelangelo faceva dunque pagare, e a caro prezzo, solo i ricchi: i detestati Medici, signori di Firenze, e i detestati nove papi, signori di Roma, che servì
Corriere della Sera 9.3.11
Geometra e muratore di se stesso Il talento concreto dei suoi progetti
di Philippe Daverio
Certo è che Michelangelo Buonarroti non ha mai avuto la vita facile. Ed
è forse per questo motivo che ha campato fino a novant’anni in un’epoca
dove si abbandonava la vita terrena ben prima. La grinta del suo
esistere contro le avversità dell’ispirazione, del talento e delle
committenze è la sua vera molla vitale. E questa grinta appare immediata
guardando i suoi disegni d’architettura presentati in una bella mostra
nella sala Viscontea del Castello Sforzesco. Fa riflettere il suo segno,
fa pensare il suo percorso progettuale. Se la O che Giotto bambino
traccia perfetta, secondo la leggenda, come se avesse un compasso
incorporato nelle braccia rende inizialmente antipatico l’inventore
della lingua visiva italiana, come sempre stanno antipatici quelli che
sono provvisti d’un talento totale e non sofferto, guardare un
reticolato per numeri tracciato con mano veloce da Michelangelo genera
simpatia etimologica: ci si rende conto che lui patisce come noi tutti
nel dovere stendere una quadrettatura precisa. Quindi la sua bravura
non è dovuta a talento automatico ma a percorsi celebrali intelligenti
che lo portano nella direzione verso la quale lo guidano insieme la
sensibilità e l’idea. Talvolta il segno è forte e determinato come
quello moderno d’un Sironi, talvolta la mano non sembra essere vittima
ubbidiente della mente e il ricciolo d’una colonna a destra è
inesorabilmente diverso da quello di sinistra. La mano non corre da
sola, mai. È sempre l’idea che deve spingerla nell’azione. A mano libera
le parallele fanno fatica a non toccarsi. È il Michelangelo umano come
noi. Poi si applica, usa la concentrazione e forse pure il righello e i
contorni diventano evidenti mentre il segno che traccia per indicare le
scanalature della colonna vengono interrotti da passaggi successivi di
colpi di penna come lo farà secoli dopo Van Gogh. È fin troppo evidente
il modo di trattare il foglio di carta, nello sgrezzare gli schizzi, a
pari modo del blocco di marmo all’inizio d’una impresa scultorea. Il
percorso progettuale è ancor più interessante perché ancor più
essenziale. Quasi tutti gli architetti, quando si trovano nella libertà
creativa del foglio ch’è ben più ampia di quella della statica o
dell’econometria della realizzazione, lasciano correre la fantasia verso
ipotesi non realizzabili che non sono altro che terreno
d’esercitazione. In un secondo momento tornano alla concentrazione
necessaria per un progetto plausibile. Michelangelo, così come non
lascia correre libera la mano, non lascia neppure correre libera la
mente. Ogni disegno, anche il più piccolo, è drasticamente concreto.
Tutto ciò che progetta è realizzabile, anzi spesso viene indicato con le
quote e gli spessori, misure comprese. Così come si presenta il disegno
definitivo, anche nella casualità della disposizione sul foglio, esso
può essere eseguito dal capomastro o dal lapicida. Se invece il suo
destino è più aulico, se deve cioè essere proposto al committente,
assume un aspetto più finito, si carica di ombre all’acquarello o
all’inchiostro. Ma sempre senza condiscendenze di sorta. Viene immediato
il confronto con i suoi contemporanei, gli architetti che, da Bramante a
Palladio, avranno fortune ben più ampie presso i committenti. Loro
conoscono l’arte della presentazione. Lui è preso da impegni ben più
alti. E corre automatica pure la voglia di confronto col suo opposto,
il Leonardo presente nella nostra coscienza visiva attraverso le
centinaia di disegni dei suoi lunghi diari. Leonardo è sperimentatore,
visionario per un certo verso, e crede ad una sorta di gnosi
aristotelica, quella che conosce per via della percezione; corre nella
fantasia, il che sembra l’opposto delle sue premesse teoriche.
Michelangelo è teoricamente neoplatonico, trasferisce l’idea nella
concretezza della materia. E mentre ci si aspetterebbe da questa
impostazione filosofica convinta l’evolversi d’un libero percorso di
creatività astratta, cala in una concretezza costante, accetta le regole
strette del costruibile, si cimenta nella definizione del dettaglio che
vuole essere realizzabile. Senza fronzoli, senza caricature, in un
realismo dove domina sempre una convinta concettualità degli equilibri.
Leonardo immagina, e qualcuno un giorno farà. Michelangelo è il geometra
di se stesso, il suo proprio muratore. Forse va reinterpretata la
scuola neoplatonica a cavallo fra Quattro e Cinquecento.
«Marco Bellocchio... sottolinea l’importanza dell’archivio storico di
Cinecittà, "tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato"»
La Stampa 9.3.11
Cinecittà chiude? Scoppia la rivolta
Infuria la polemica sui tagli del Fus, in campo anche Benigni
di Fulvia Caprara
La fabbrica dei sogni rischia di chiudere i battenti, il mondo del cinema si mobilita, il governo corre ai ripari: «L’impegno dichiara il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Maria Giro non sarà nè dovrà essere quello di far sopravvivere Cinecittà limitandone la missione, ma di farla funzionare bene, come ha dimostrato in questi ultimi anni». L’obiettivo, assicura Giro, sarà di fare «ogni sforzo affinché Cinecittà Luce possa continuare ad essere un marchio e una realtà fra i più antichi e prestigiosi del cinema italiano. In questi anni Cinecittà ha risanato i suoi conti, snellito la sua struttura e precisato la sua missione».
L’appello più accorato è di Roberto Benigni e di sua moglie Nicoletta Braschi: «Leggiamo sui giornali della probabile chiusura di Cinecittà Luce. E’ proprio una brutta notizia. Là dentro c’è tutta la nostra memoria, tutti i nostri sogni fabbricati per uomini svegli. Un archivio immenso, la nostra storia. Ma come si fa a chiudere la Storia?». Il taglio che leverebbe l’ossigeno a Cinecittà riguarda la diminuzione delle risorse del Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo. I fondi destinati agli studi cinematografici scenderebbero, per il 2011, a quota 7 milioni e mezzo di euro. Perfino lo stesso Ministero se ne rende conto, e ieri pomeriggio, nel tentativo di arginare il fiume delle polemiche ha fatto sapere sapere che non è stata ventilata nessuna ipotesi di chiusura, anche se le risorse a disposizione sono effettivamente insufficienti: «Il contributo a Cinecittà Luce non potrà verosimilmente superare gli 8 milioni di euro». Non esiste volontà di chiudere «questa importante realtà della cultura audiovisiva nazionale», ma certo risorse così scarse sono «del tutto insufficienti a garantire qualsiasi attività e a mantenere integra la forza lavoro attualmente in opera». Una situazione drammatica che, se il Fus non verrà riportato almeno al livello del 2010, pari a 414 milioni di euro, coinvolgerà in tempi brevi «altre importanti istituzioni culturali italiane».
Per una volta la protesta è unanime, le voci politiche sono tutte d’accordo. Da quella di Maurizio Gasparri, presidente del gruppo Pdl al Senato, che invita il governo a «raccogliere il grido d’allarme che arriva da Cinecittà e dall’Istituto Luce» a quella del presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli che giudica l’operazione «vagamente barbarica». Secondo Francesco Rutelli esiste un legame tra il provvedimento anti-Cinecittà e il vuoto politico creato dall’assenza del ministro Sandro Bondi. «Sarebbe un amaro paradosso osserva l’ex-segretario del Pd Walter Veltroni se, proprio mentre l’Italia festeggia il centocinquantesimo della sua nascita, dovessimo assistere alla chiusura del più antico e prestigioso polo dell’industria della cultura e dello spettacolo». Il consigliere Udc alla Regione Lazio Pietro Sbardella parla di «emergenza civile». Sul fronte dei registi, accanto a Benigni, scendono in campo Marco Bellocchio, che sottolinea l’importanza dell’archivio storico di Cinecittà, «tesoro incredibile che deve restare proprietà dello Stato», e poi Gianni Amelio, Saverio Costanzo, Mimmo Calopresti. Secondo il direttore della Mostra di Venezia Marco Müller la chiusura di Cinecittà provocherebbe l’«azzoppamento di tutto il made in Italy cinematografico».