Repubblica Roma 6.3.11
Andrea Camilleri
"Dialogo con i lettori su Montalbano e i colori della Sicilia"
di Maria Pia Fusco
«È
UNA fortuna poter assistere ancora vivente, seduto in prima fila, ad un
evento celebrativo che ti riguarda», dice Andrea Camilleri dell'
iniziativa "Camilleri e i suoi lettori", organizzata da Musica per Roma
con Sellerio per l' 8 e il 9 marzo all' Auditorium Parco della Musica.
Critici ed esperti commenteranno la sua letteratura e i lettori potranno
rivolgergli domande. La sera dell' 8 è prevista l' anteprima del film
tv "Il commissario Montalbano" e il 9 Camilleri, con Ficarra Scrivendo
di Montalbano il lavoro è più facile. «Come diceva Simenon quando scrivi
di un personaggio seriale ormai lo conosci, ci sono cose già
approntate. È più difficile un romanzo non seriale». Montalbano non sarà
eterno: «Lui non è come Sherlock Holmes, quando mi arriverà la
stanchezza, Montalbano sparirà, nell' ultimo romanzo sarà senza
ritorno». A parlare del poliziesco all' Auditorium ci sarà (l' 8) tra
gli altri Carlo Lucarelli, che con Camilleri ha scritto Acqua in bocca.
Sembra più sorprendente la presenza (il 9) di Marco Bellocchio. In
realtà «Marco è stato mio allievo al Centro Sperimentale. Era entrato
come attore, ma dopo un po' lo vedevo distaccato, sentivo che non aveva
voglia di recitare. Allora lo presi sottobraccio, gli dissi la mia
impressione e mi diede ragione. L' anno dopo passò al corso di
sceneggiatura». Dunque se il cinema italiano ha acquistato un maestro si
deve a Camilleri, ma nella sua fortunata carriera in teatro,
televisione e letteratura, manca proprio il cinema. «Ho perso la mia
occasione. Tanti anni fa Monica Vitti, dopo due film con Antonioni, mi
disse che avrebbe voluto fare un film comico. Scrivemmo una
sceneggiatura, il titolo era "A donna che t' ama proibisci il pigiama",
era una farsa un po' alla Feydeau. Antonioni rifiutò di farla ma,
gentilissimo, mi propose di fare la regia, ma non avevo esperienza di
riprese, mi spaventai e lasciai perdere». A Roma dal ' 49, «ricordo la
meraviglia di trovarmi subito come a casa. Amo Roma di quegli anni, ma
continuo a starci bene. Mi piace l' Auditorium, ne hanno fatto un punto
di ritrovo. Lo so, durante gli incontri non si fuma, ma per tre, quattro
ore riesco a trattenermi. Smettere? Ci sono riuscito per venti giorni.
Poi il mio medico a cena mi ha visto troppo infelice e mi ha offerto una
sigaretta. E mi consenta - scusi la citazione - a 85 annie mezzo perché
dovrei smettere?».
D di Repubblica n° 731
Massimo Cacciari
Una cosa che voleva e non ha avuto? «La bontà di Gesù e l’intelligenza di Spinoza»
A 13 anni che cosa voleva fare?
Giocare (a pallone, tennis, ecc.) e leggere Kafka (avevo appena iniziato e mi travolgeva).
Ha il potere assoluto per un giorno: la prima cosa che fa?
Lo regalo.
La sua casa brucia: cosa salva?
L’ospite.
Se la sua vita fosse un film, chi sarebbe il regista?
Nessun film. Fellini è morto.
All’inferno la obbligano a leggere sempre un libro: quale?
Spero che il diavolo mi faccia comunque scegliere tra i capolavori... Allora dico: Morte a Venezia.
La volta che ha riso di più?
Quando i sondaggi dicevano che avrei vinto, col centro-sinistra, le regionali del Veneto.
Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola?
Praticamente.
Entra in una stanza dove ci sono tre donne: chi e perchè attrae la sua attenzione?
Quella che mostra di non conoscermi.
Oggi cos’è tabù?
Provare vergogna. é proibito.
Una cosa che non ha mai capito della gente?
Conosco solo persone, non gente.
Come si immagina il paradiso?
Un istante eterno di gioia.
Un bambino le chiede: «Perchè si muore?» Cosa gli risponde?
Perché dobbiamo far posto ad altri. E non significa affatto morire, solo tramontare.
Il vero lusso è?
Esser contenti nel desiderare. E basta.
Le rimangono 12 ore di vita: cosa fa?
Vado a rivedermi la Resurrezione di Piero della Francesca a Sansepolcro.
Cosa ha imparato dall’amore?
Che il bello è difficile.
Un posto dove non è mai stato e vorrebbe andare?
Al Teatro di Dioniso ad Atene, nel V secolo, per una “prima” di Sofocle.
Il suo più grande fallimento?
Tutte le volte che credevo di esser “riuscito”.
Se dico Italia qual è la prima cosa che le viene in mente?
Il Saggio di Leopardi sui costumi degli italiani.
Di cosa ha paura?
Del male fisico, che il corpo mi diventi nemico.
Tre cose che ama, tre cose che odia
Amo: silenzio, pazienza, dubbio. Odio: chiacchiera, arrogante sicurezza di sè, maleducazione.
MASSIMO
CACCIARI, filosofo, ex sindaco di Venezia, insegna Estetica
all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il suo ultimo libro è
Hamletica (Adelphi).
Repubblica 9.3.11
"Non siamo tema di serie B è ora di chiedere alla politica il 50% della rappresentanza"
Camusso: il berlusconismo mercifica tutto
Le ragazze ci raccontano che oggi la vera forma di contraccezione è la precarietà
di Cinzia Sasso
MILANO
- Per l´occasione, ha messo un tailleur, le scarpe tacco cinque, come
al solito. Anche se al solito sono nascoste dai pantaloni. Susanna
Camusso, 55 anni, madre di una figlia di 22, archeologa mancata e primo
segretario generale del più grande sindacato italiano, esce radiosa
dall´incontro con il capo dello Stato. «Ho sentito parole che mi hanno
aperto il cuore: dignità, ma anche lavoro, autonomia, libertà,
protagonismo».
Da quattro mesi la Cgil ha un segretario donna. Che oggi è salita al Quirinale. È un bel simbolo.
«Io
non mi sento un simbolo, però capisco che in questa stagione di degrado
sia una cosa importante. È simbolico che il sindacato abbia un
segretario donna; non è simbolica Susanna Camusso».
Le donne del centrodestra dicono che questo è un governo amico delle donne.
«Penso
a quello che hanno fatto, giudichino gli altri. Il primo atto è stato
la cancellazione della legge sulle dimissioni in bianco; hanno portato
la pensione a 65 anni senza dare alle donne altri strumenti; hanno
tagliato la scuola e sappiamo sulle spalle di chi va a finire; hanno
cancellato il fondo delle politiche sociali; hanno fatto una legge
inaccettabile sulla fecondazione assistita; per la social card obbligano
a dire "io sono povera"... Non mi viene in mente altro che abbiano
fatto. E poi c´è il discorso sulla cultura che hanno alimentato: il
berlusconismo è l´emblema della mercificazione, tutto è comprabile,
anche il rapporto con le persone».
Dicono anche che la manifestazione del 13 febbraio era una gara di insulti delle donne di sinistra.
«Vicino
a me in piazza c´erano Giulia Buongiorno e una suora, c´erano tante
voci diverse. Se un milione di donne dice che non possiamo essere la
berlina del mondo, non sono tutte di sinistra».
Che cosa si potrebbe fare per aiutare davvero le donne?
«Intanto
bisogna chiarire che far andare avanti le donne vuol dire far andare
avanti il Paese e questo è il momento giusto per cambiare il modello del
passato che è fallito. Le donne generano lavoro, l´occupazione
femminile è un fattore di crescita, una ricchezza per il Paese. Un
soggetto nuovo è più ricco, ha più voglia di vivere e progettare. I
nostri obiettivi sono chiari: ci batteremo per ripristinare la legge
contro le dimissioni in bianco; per garantire un lavoro non precario;
per difendere la maternità, e le ragazze oggi raccontano che la vera
forma di contraccezione è la precarietà. E ci vuole una norma sulla
paternità obbligatoria».
C´era una proposta di legge sulle quote rosa nei cda che però è bloccata e scarnificata.
«Le
quote sono uno strumento utile perché obbligano a "liberare dei posti",
di suo nessuno si fa da parte. Emma Marcegaglia dice che non va bene:
ma è il solito schema, alle donne si chiede quello che negli uomini
viene dato per scontato: intelligenza, competenza... Penso che anche la
rappresentanza politica dovrebbe essere paritaria, 50 e 50».
Può il sindacato, fatto di uomini e donne, portare avanti obiettivi come questi?
«Bisogna
smettere di considerare il tema delle donne di serie B. Di fronte a
qualsiasi questione bisogna pensare che ci sono due punti di vista,
anche nella politica sindacale. Stiamo ancora lavorando con lo schema
che il maschile è neutro, invece il maschile è maschile e questo è
fondamentale. Mi chiedo: perché le strade sono considerate
infrastrutture e gli asili no? Perché abbiamo fatto tanta strada ma
tanta ancora ne manca, la famiglia in Italia è ancora vissuta come
delega, non come responsabilità reciproca».
Lei sembra una donna di ferro. Ha qualche paura?
«Ho
una grande preoccupazione per il nostro Paese, per le profonde
divisioni che vedo. Non c´è mai stata una fragilità così forte della
nostra classe dirigente».
C´è la politica nel suo futuro?
«Mi
rende isterica la ricerca del papa straniero. Il mio oggi è un lavoro e
una passione. Ho imparato a fare questo e penso che ognuno debba fare
quello che sa fare bene. E poi non c´è una politica forte se non c´è una
rappresentanza sociale forte».
Il 6 maggio sarà il suo primo sciopero generale.
«È
una straordinaria scelta di responsabilità. Siamo molto preoccupati e
ci pare che nessuno si stia prendendo la responsabilità di fare
qualcosa. Fisco e lavoro sono le due leve da cui partire. E penso che
l´Italia sia un paese straordinario con una grande capacità di
rimettersi in moto. Io ci credo: si può. E la Cgil farà la sua parte».
l’Unità 10.3.11
Il segretario: «Gran polverone. Il premier lo usa come arma di pressione contro i pm»
Bindi: «Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura»
«Le Ruby diventano due»
Con la riforma l’inchiesta di Milano non sarebbe mai partita La polizia giudiziaria, infatti, non sarà più a disposizione dei pm
«No, serve solo a Silvio» Bersani boccia la riforma
Mentre Alfano presenta la bozza di riforma della giustizia a Napolitano, il Pd annuncia battaglia. «Aspettiamo le carte, ma le premesse non fanno sperare nulla di buono». Bersani: «Serve a coprire le leggi ad personam»
di Maria Zegarelli
La riforma «epocale» che oggi verrà discussa in Consiglio dei ministri si annuncia soprattutto come una battaglia parlamentare «epocale». Il Pd resta sulle barricate e il giudizio non cambia dopo l’ultima stesura illustrata ieri sera al presidente della Repubblica dal ministro Angelino Alfano. «Aspettiamo di vedere le carte dice il segretario Pier Luigi Bersani ma le premesse non sono certo buone». Non sarebbe altro che «una manovra» che punta a dare «copertura politica» alle leggi ad personam che, secondo il leader Pd, «certamente non sono finite».
LA TENAGLIA
«Penso che Berlusconi voglia metterci in mezzo a una tenaglia dice Bersani -: da un lato cerca di uscire dai suoi processi, e non credo che siano finiti i tentativi di uscirne con forzature delle norme e delle regole, e dall’altro alza una bandiera». Forti dubbi che la riforma costituzionale che ha in mente la maggioranza arrivi al traguardo del doppio esame delle Camere, «e questo può essere positivo, viste le intenzioni». Il sospetto, in realtà, è che il gran polverone che si alzerà nei prossimi mesi serva al premier come arma di pressione contro gli stessi magistrati che dovranno giudicarlo nei quattro processi «del lunedì». «Un modo per rafforzare ex post la tesi della persecuzione», dice Mario Cavallaro, in Commissione Giustizia alla Camera. «Perché non partire dalle tre proposte depositate in Parlamento? Iniziamo da lì», rilancia il segretario. «O leggi ad personam o riforme costituzionali che non arrivano da nessuna parte aggiunge -. Non c’è mai nel “mirino” il funzionamento della giustizia. È un tema preso ostaggio da Berlusconi».
«Parlo per me e non so se sono maggioranza nel partito esordisce la presidente Rosy Bindi -, ma sono contraria alle misure annunciate dalla maggioranza. Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura, come sono contraria alla separazione delle carriere. In realtà siamo di fronte ad un manifesto pensato per creare conflitto con la magistratura e giustificare le performance del lunedì a processo di Berlusconi».
«Non è certo limitando l`obbligatorietà dell`azione penale o introducendo la possibilità di citare direttamente in giudizio un magistrato commenta la capogruppo in Commissione Giustizia Donatella Ferranti che ha erroneamente applicato una legge che si garantiscono i cittadini da provvedimenti ingiusti o che si accelerano i tempi dei processi». Lapidario anche Lanfranco Tenaglia: «Continuano a mischiare la carte in tavola perché quello che interessa solo le leggi ad personam, come il processo breve, che sono in dirittura d’arrivo alla Camera. Non c’è assolutamente la volontà di riformare la giustizia nel senso che interessa al Paese ma di continuare a sfasciarla».
Claudia Fusani:
Una cosa è certa: se la riforma fosse già in vigore, l’inchiesta su Ruby e sul presunto giro di prostituzione in quel di
Arcore non sarebbe stata mai fatta. Per un motivo soprattutto: la polizia giudiziaria dipenderà dal politico e non dal pm. Intanto dalle nuove carte depositate nella Giunta per le autorizzazioni della Camera, emergono altre deliziose novità. Una su tutte: le Ruby sono due e una, nota cantante egiziana, è in qualche modo riconducibile «all’entourage dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak». Gli onorevoli avvocati Longo e Ghedini il 3 febbraio hanno interrogato, nel ruolo di testi a difesa del premier imputato, i ministri Frattini, Bonaiuti e Galan. E i loro racconti sembrano un buon alibi per la bugia delle bugie: Berlusconi era veramente convinto che Ruby fosse parente del presidente egiziano. Tanto che gliene ha persino parlato in una cena ufficiale a villa Madama il 19 maggio 2010. Prima, quindi, delle nota serata del 27 maggio quando Ruby minorenne fu portata in questura senza documenti, denunciata per furto e poi liberata, contro la legge, affidandola al consigliere regionale Nicole Minetti. Frattini, quella sera del 19 maggio, sedeva racconta «alla destra del Presidente del Consiglio». Allo stesso tavolo «Galan, il consigliere ministro Archi, Valentini, Bonaiuti e la delegazione egiziana, al centro Mubarak e accanto gli interpreti». Continua Frattini: «Berlusconi sicuramente parlò di Ruby a Mubarak che, dall’espressione, non mi parve avesse realizzato a chi si riferisse il premier. Da altri interventi da parte egiziana emerse che una certa Ruby fosse una cantante egiziana. La conversazione fu un po’ confusa. Berlusconi disse che questa ragazza sarebbe appartenuta ad una cerchia familiare riferibile al presidente Mubarak il quale non comprese troppo bene.
Allora Berlusconi disse: “Ci informeremo meglio”». Più “utile” alla difesa il ministro Galan. «Verso la fine del pranzo Berlusconi parlò a Mubarak di una giovane bella egiziana di nome Ruby che aveva avuto modo di conoscere. Mubarak non focalizzò subito, lui si riferiva ad una nota cantante di nome Ruby. Berlusconi accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia presidenziale». Se Bonaiuti resta generico («si parlò di una cantante egiziana e io mi sono ricordato della famosisisma Um Kalsoum»), più preciso è il fedele Valentino Valentini: «A fine cena Berlusconi disse di aver conosciuto una giovane ragazza egiziana di nome Ruby proveniente da una nota famiglia egiziana. Più interlocutori egiziani sono a quel punto intervenuti per dire che Ruby è una famosa cantante egiziana. Ed emerse una familiarità tra questa Ruby e l’entourage di Mubarak». E insomma, in un modo o nell’altro, le Ruby diventano due. Miracoli egiziani. E il Marocco? Pazienza.
l’Unità 10.3.11
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare. Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
l’Unità 10.3.11
Sedici articoli ridisegnano il Titolo IV della Carta, quello dedicato al terzo potere dello Stato
La magistratura diventa un «ufficio» e i pm degli impiegati. Nasce l’Alta Corte di disciplina
La giustiza come piace a lui: punire i pubblici ministeri
Oggi il Consiglio dei Ministri approva 16 articoli che fanno piazza pulita dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato. Una riforma «epocale», come dice il Cavaliere. Con i pm che rischiano di tasca propria.
di Claudia Fusani
Sedici articoli che rivoluzionano l’assetto dello Stato. Che buttano all’aria quel perfetto bilanciamento tra i tre poteri studiato parola dopo parola nei 137 articoli della Costituzione. «Sarà una riforma epocale»: per una volta ha ragione il presidente del Consiglio. Quella che viene approvata stamani dal Consiglio dei ministri è qualcosa di «epocale» sul fronte della giustizia ma che, ancora una volta, nulla fa per risolvere il vero problema: la lentezza della giustizia. Il succo dei sedici articoli che intervengono sul titolo IV della Carta e, dal 101 al 113 è che i pubblici ministeri, quella parte della magistratura che fa le indagini ed è la pubblica accusa nei processi, viene declassata a «ufficio» con scarsi poteri di indagine e se sbaglia, deve anche pagare di tasca propria. E’ la «punizione» invocata dal premier all’indomani del rinvio a giudizio per il caso Ruby. La bozza finale del ddl di riforma costituzionale è stata vista ieri intorno all’ora di pranzo dal premier Berlusconi, nel pomeriggio è stata illustrata al Presidente della Repubblica e in serata allo stato maggiore del pdl a palazzo Grazioli. Nonostante questo il Guardasigilli ieri sera ha voluto ancora ripetere: «Il testo? lo scriviamo domani».
I CSM DIVENTANO DUE
Uno per i giudici e uno per i pm ed entrambi saranno presieduti dal Capo dello Stato. Cade quindi l'ipotesi che a capo del Csm dei pm vada il Procuratore generale della Cassazione eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione del Csm.
E CAMBIA LA COMPOSIZIONE
Nel Csm dei giudici ci sarà di diritto il primo presidente della Corte di Cassazione. Gli altri componenti saranno per il 50% scelti dai giudici tramite sorteggio degli eleggibili (un modo per ridurre il potere delle correnti della magistratura); per l'altra metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università di materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il vicepresidente del Csm dei giudici sarà scelto tra i componenti laici. Durano in carica 4 anni e non sono rieleggibili. Nel Csm dei pm avrà posto di diritto il procuratore generale della Cassazione. Ancora in forse la composizione: metà esatta tra laici e togati o 1/3 laici e 2/3 togati. I Csm poi (art.105) «non possono adottare atti di indirizzo politico». E’ il bavagli o ai pareri.
L’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
La sezione disciplinare, che dovrà giudicare le toghe, non sarà più una sezione del Csm. Ma un organo a parte. E diviso in due, uno per i giudici e uno per i pm. I componenti di ciascuna sezione saranno al 50%laici e 50% togati. Presidente e vicepresidente saranno eletti dai laici. E’ assicurata «l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina» (art.105 bis). Ma il potere sarà in mano alla parte politica delle Corti.
AZIONE PENALE OBBLIGATORIA MA...
Oggi l’articolo 112 della Carta dice: «Il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Quello nuovo invece aggiunge: «... secondo i criteri stabiliti dalla legge». Un legge ordinaria che detterà le priorità. E’ un grosso limite.
IL PM PAGA
«I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato». L’articolo 113 bis introduce un vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi: la responsabilità civile dei magistrati. «Nei casi di ingiusta detenzione la legge regola la responsabilità civile dei magistrati» la quale «si estende allo Stato». Risultato: se il pm sbaglia qualcosa nel suo lavoro, dovrà pagare di tasca sua.
...E NON HA PIÙ LA POLIZIA
Se finora il pm dispone direttamente della pg (art.109), d’ora in poi sarà una legge ordinaria a stabilirne «le forma di utilizzo».
La Stampa 10.3.11
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.
Corriere della Sera 10.3.11
Scioperare o no, magistrati divisi. Una settimana per decidere
di M. Antonietta Calabrò
ROMA— Scioperare o non scioperare? La risposta dal parlamentino dell’Anm arriverà presto, prima del previsto, alla fine della settimana prossima, sabato 19 marzo. Ma intanto il dibattito ferve tra le poco meno di diecimila toghe italiane. I magistrati (questa è la domanda) possono scendere in sciopero, per manifestare la loro contrarietà a una riforma costituzionale della giustizia? Oppure questa forma di protesta avrà un effetto boomerang e li farà apparire come una casta, rafforzando l’immagine della magistratura che il premier non si stanca di ribadire? È questo il dilemma che tormenta il gran corpaccione della magistratura, quello, diciamo così, della maggioranza silenziosa che in queste ore si anima sul web. E che è fatto non solo di «toghe rosse» o «toghe rotte» (dal titolo del blog di Chiarelettere del magistrato Bruno Tinti). Un dilemma ben sintetizzato da questo post anonimo che sembra proprio scritto dalla mano di un magistrato, perché certamente non è tenero neppure con Berlusconi: «Casta coesa=Dittatore unico» . È comparso ieri su Wikio (che monitora su web gli argomenti di attualità così come affrontati sui social network). E continua così: «Correnti Anm indicano dispoticamente via obbligatoria anche per magistrati che mirano ideali di giustizia etica e morale» . Poi c’è un’altra domanda: quella sui tempi. Scioperare subito? O attendere? Il processo di revisione costituzionale infatti è lungo, il percorso accidentato, quindi — è questo il ragionamento — sarebbe inutile se non dannoso alzare nel giro di poche settimane una barriera d’acciaio come lo sciopero. Meglio, forse, la sabbia negli ingranaggi. Tanto che Armando Spataro (il pm di Milano che a botta calda aveva commentato contro il premier: «A riforme epocali risposte epocali» ) ha dichiarato ieri che la «riforma è incompatibile con la Costituzione» , che essa delinea un «quadro preoccupante e che da ciò che leggo mi sembra incostituzionale» . Come a indicare che le nuove norme avranno davanti un percorso a ostacoli ben più insidioso che le braccia incrociate per un giorno.
l’Unità 10.3.11
Insultano la Carta e tagliano 81mila prof: fermiamoli il 12
Intervista a Giovanni De Luna
«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia»
«Il governo sta attaccando ciò che rappresenta il primo grado di inclusione del Paese, il luogo dove si forma la comunità e l’identità di un popolo»
di Oreste Pivetta
La scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre “voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni di massa, mafie... Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni. «Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni esempi. La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione, perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro, ma sarà allo stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità. Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti stessi possono apparire obsoleti, ma l’attacco anche da parte della politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla».
Non è solo la politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che “sfiducia” la scuola... «Nel senso che la scuola deve sopportare il contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in una condizione di emergenza culturale, non solo politica».
Forse più culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci la televisione, da Amici al Grande Fratello?
«Questo fa parte di una deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa, ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola....
Che fu alla guida della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu traipiù battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e della stessa scuola materna statale.
«Oggi siamo al tentativo ripetuto di delegittimare la scuola...» Berlusconi dice infatti che la scuola pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto a un progetto inclusivo della scuola?
«Continuo a ritenere che avesse ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte, in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà, un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista concettuale, che comunichi appartenenza».
Come fecero i piemontesi un secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere, facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa».
Una scuola federale ha una ragione?
«La scuola federale mi sembra una stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona i valori e si fonda sugli interessi».
l’Unità 10.3.11
Lettera da una professoressa
Il premier attacca il pensiero critico
di Caterina Pes
Per una volta voglio dismettere i panni da parlamentare e rindossare quelli dell’ insegnante, il lavoro che ho svolto con passione per tanti anni e che tornerò a svolgere quando sarà conclusa la mia esperienza a Montecitorio. Ho sempre avuto la consapevolezza, lucida e netta, del valore sociale, oltre che culturale, di una scuola pubblica, libera, laica, indipendente. Ma mai come in questo momento, dopo le parole sovversive che Silvio Berlusconi è stato capace di pronunciare, ho sentito il merito di questa funzione per la nostra democrazia, mai come in questo momento ho desiderato tornare nei panni della professoressa di filosofia che ha cercato non di “inculcare” ai suoi ragazzi il proprio pensiero, ma di insegnare loro ad essere liberi, vigili e critici. Ad avere rispetto della democrazia e di se stessi in quanto cittadini. Quello che il presidente del Consiglio, ormai indegno del suo ruolo, ha sferrato non è stato un attacco alla scuola, perché ci hanno pensato già le sue finanziarie ad ucciderla, con tagli di proporzioni mai subite prime da un sistema dell'istruzione che pure è, suo malgrado, abituato ai conti in rosso. Berlusconi questa volta ha fatto di più: ha attaccato il pensiero critico. Che è altra cosa dalla libertà fasulla e vuota che il nostro premier ha avuto la sfrontatezza di infilare persino nel logo del suo partito. Ma di quale libertà parla? La libertà di poter fare lui ciò che vuole e negare a noi la libertà di dissentire?
Dobbiamo stare molto attenti, perché Berlusconi ha una strategia collaudata: sdoganare i suoi vizi, e abituare il nostro palato a concetti inaccettabili in un paese come il nostro, un tempo politicamente maturo . Così facendo egli ottiene due risultati: conquista, o meglio crede di conquistare, il favore dei cattolici e delle loro ricche scuole, e nega a noi, docenti della scuola pubblica, il dovere, prima che il diritto, di insegnare ai giovani ad essere liberi, grazie alla cultura, che in quanto tale non ha padroni.
È chiaro, dunque, che attaccando la scuola pubblica, di tutti, dei ricchi come dei poveri, repubblicana e unitaria, Berlusconi indirettamente attacca il sapere e la conoscenza che, per loro natura, sono liberi.
Mi appello allora ai colleghi, agli studenti, agli insegnanti, perché ognuno di noi giochi il proprio ruolo in questa battaglia paradossale che ci vede schierati a difenderci da chi ci dovrebbe proteggere.
Spesso ci è capitato di assistere sbigottiti ad affermazioni inaccettabili e irripetibili da parte del premier e ogni volta ci convinciamo che abbia toccato il fondo della dissacrazione delle istituzioni, ma l'attacco sferrato alla scuola pubblica e peggio ancora alla libertà del pensiero, credo che, realmente, sia la più grave delle sortite di un uomo che passerebbe su qualunque cosa pur di mantenere il potere.
l’Unità 10.3.11
Verso la manifestazione del 12 marzo
di Domenico Petrolo
Da diversi anni assistiamo a un attacco continuo ai valori ed i principi sanciti dalla nostra Costituzione. Con annunci di fantomatiche riforme Costituzionali, di cui il Paese invece avrebbe realmente bisogno, si cerca quotidianamente di smontare tassello dopo tassello le nostre principali istituzioni.
L’Italia si ritrova governata da un Premier che ha una visione distorta e pericolosa della Democrazia. Una visione per cui nessuno può disturbare il “grande manovratore” e gli organi di garanzia, che per fortuna ancora oggi sono i cardini della nostra vita democratica, sono raffigurati come stantii orpelli burocratici, che impediscono di realizzare il fantomatico “nuovo miracolo italiano”. Come se la disoccupazione,che colpisce un giovane su 3 e una donna su 2, sia responsabilità della Corte Costituzionale o del Quirinale.
Qualsiasi luogo dove si “annida” o si “forma” un’opinione pubblica diversa da quella prevista da questa ultradestra governante viene subito indicato come un bersaglio da colpire, attraverso controversi atti legislativi, provvedimenti punitivi o dichiarazioni dal tono aggressivo e cariche di disprezzo.
Così è successo alla scuola pubblica, descritta dal premier come un luogo in mano a pericolosi inculcatori, quando invece è spesso uno splendido esempio d’impegno civico, con professori bisfrattati che, nonostante la peggior paga d’Europa, cercano ogni giorno di dare un’istruzione decente ai nostri ragazzi. Cosi è stato per l’informazione libera e per la magistratura, su cui si annuncia proprio in queste ore una “riforma epocale”.
In questo clima di contrapposizione permanente, ancora una volta si corre il rischio che la nostra Carta Costituzionale venga stravolta, non nell’interesse collettivo, ma all’insegna di un’idea di democrazia per pochi e non per tutti. Si corre il pericolo che il diritto all’istruzione e molti altri diritti siano calpestatati in nome di un finto liberalismo, dietro cui si nascondono interessi individuali e di parte.
Per questo lo sforzo che ci viene chiesto è maggiore del solito. Oggi è necessaria una resistenza civile, la difesa civica della nostra democrazia. E’ necessario ricostruire il tessuto socio-culturale del nostro Paese.
Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di essere italiani, di essere una comunità .
Per questo la manifestazione di sabato 12 per la Costituzione e per la Scuola Pubblica, sarà un grande momento che dovrà vederci uniti, al di là di ogni colore politico, all’insegna del nostro tricolore. Uniti per la nostra carta costituzionale, nella certezza che non possiamo permettere a nessuno d’intaccare le nostre libertà e i nostri diritti fondamentali.
Repubblica 10.3.11
Scalfaro: la Costituzione è sotto attacco
Messaggio per il C-day. Cgil: impegno etico essere in piazza. Sì di Venditti
di Giovanna Casadio
ROMA L´augurio di Oscar Luigi Scalfaro è di «coinvolgere il maggior numero di cittadini» nel C-day, nella mobilitazione per la Costituzione e la scuola che si terrà sabato in un centinaio di piazze italiane e straniere. Ma soprattutto, l´ex presidente della Repubblica e "padre costituente" invia al comitato "A difesa della Costituzione, se non ora quando?" un messaggio che è insieme di allarme e di pungolo: «È doveroso denunciare i tentativi di aggressione alla Costituzione che passano soprattutto attraverso i propositi di riduzione dell´autonomia e dell´indipendenza della magistratura e le proposte di modificare le norme che regolano il giudizio di costituzionalità delle leggi». Parole che arrivano puntuali ora che il governo si appresta a cambiare 14 articoli della Carta per rivoluzionare l´ordinamento giudiziario. La preoccupazione quindi, «è molto forte», ma come accadde con il referendum costituzionale del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma del centrodestra, così afferma Scalfaro a nome dell´Associazione "Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla" gli italiani «sapranno ancora una volta rinnovare il proprio amore per la Costituzione repubblicana nata dalla lotta di Resistenza e di Liberazione».
È il miglior viatico (e Scalfaro potrebbe essere in piazza) a una giornata di iniziative, flash mob, cortei, adesioni che continuano a crescere. Oltretutto difesa della Carta e della scuola pubblica vanno a braccetto nella mobilitazione di sabato. Lo ripete a Montecitorio Dario Franceschini nell´interrogazione alla ministra Gelmini, che «sa solo schierarsi con Berlusconi, invece le piazze torneranno a riempirsi per difendere Costituzione e scuola». In piazza ci sarà la Cgil. «Difendere la Costituzione dai continui e strumentali attacchi è un impegno etico, oltre che politico e sociale, specie per un sindacato come la Cgil che considera fondamentali gli articoli che parlano del lavoro e dei problemi sociali ed economici». Tra le adesioni oltre ai politici, da quelli di Fli a Vendola, Bersani, Di Pietro, Tabacci intellettuali, personaggi dello spettacolo. Claudio Bisio apre la carrellata di testimonianze nello spot per il C-day, in cui gli articoli della prima parte della Carta sono recitati come passi di un breviario laico. Tra i messaggi di adesione, Dario Vergassola: «Alla Costituzione sta accadendo quello che succede al paesaggio, viene distrutto poco alla volta». Ottavia Piccolo: «Sarò in piazza perché sono nata in tempo di democrazia e diritti e se volevo qualcosa di diverso nascevo nel Far West o nella Chicago anni ‘20». E Antonello Venditti: «La Costituzione deve essere il nostro zenit». Ad aprire il corteo romano un Tricolore di 200 metriquadri. Beppe Giulietti invita a portare la Costituzione. Domenico Petrolo del comitato promotore: «Tutte le iniziative sono all´insegna della Carta e di tutti quei diritti e libertà fondamentali come l´istruzione pubblica, l´informazione, la giustizia che ogni giorno vengono minacciati da questo governo».
l’Unità 10.3.11
Intervista ad Angelo Del Boca
«Il conflitto potrebbe andare avanti per mesi»
di Umberto De Giovannangeli
Secondo lo studioso l’esercito regolare dispone di armi più moderne e potenti rispetto ai rivoltosi ma è difficile che riesca a riconquistare la Cirenaica dove non è mai stato popolare
Agita lo spauracchio-Al Qaeda; accusa l’Occidente di «complotto colonialista»”, avverte Stati Uniti e Nato: se attua-te la «no fly zone» la Libia impugnerà le armi...Gheddafi torna all’attacco mediatico. L’Unità ne parla con il più autorevole studioso del colonialismo italiano nel Nord Africa: Angelo Del Boca. «Siamo di fronte rimarca lo storico ad una guerra civile che potrebbe continuare anche per mesi...Gli insorti hanno la voglia di vincere ma il Colonnello ha dalla sua gli armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione».
Nella sua ultima uscita televisiva, Gheddafi ritorna su Al Qaeda e sul «complotto colonialista» dell’Occidente...
«Gheddafi non è nuovo a queste uscite. Perché in fondo l’attacco ai Paesi colonialisti lo ha sempre fatto. Questa volta magari è più minuzioso, più diretto. Ora dipende da cosa faranno gli Stati Uniti e la Nato. Se, come si teme, ci sarà l’attacco sul territorio libico, allora una parte di ragione Gheddafi l’avrebbe anche, perché fino a prova contraria, la Libia è un Paese sovrano. E devo dire che in Italia sono molti quelli che si dichiarano contrari ad un attacco militare, a cominciare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni...». E Al Qaeda? «Non escludo che ci siano uomini di Al Qaeda, soprattutto in Cirenaica, dove peraltro ci sono sempre stati. Non dimentichiamo che nel 1996, Gheddafi fu costretto ad inviare marina, aviazione ed esercito per reprime una rivolta esplosa tra Bengasi e la Montagna Verde. Allora si parò di 1200 morti e di carceri riempite di persone legate ad Al Qaeda. Questo per dire che la presenza qaedista non può essere esclusa, anche se Gheddafi probabilmente ne amplifica la portata».
Il Consiglio di transizione formatosi a Bengasi ha lanciato un ultimatum al raìs... «Si tratta di una iniziativa di nessuna efficacia e importanza, in quanto questo Consiglio è una espressione estremamente provvisoria e di scarsissima rilevanza. Resto però dell’avviso che comunque un tentativo per incoraggiare Gheddafi ad andarsene è del tutto legittimo e augurabile, perché probabilmente arresterebbe il bagno di sangue. Anche in Italia c’è un gruppo che si sta organizzando proprio per proporre una mediazione. Naturalmente è necessario prospettare una ritirata che salvi in parte la faccia di Gheddafi. Credo che questo gruppo si manifesterà nei prossimi giorni».
Nello stesso discorso a cui facevamo in precedenza riferimento, Gheddafi ha anche affermato che se verrà imposta la «no fly zone», la Libia prenderà le armi...
«Trovo che Gheddafi abbia dimenticato che è già in stato di guerra. Perché se è vero che gli Awacs controllano 24 ore su 24 l’intero territorio libico, si è già in stato di guerra».
Qual è la definizione che a suo avviso meglio si attaglia a ciò che da settimane sta avvenendo in Libia? «La definizione più calzante è guerra civile. Perché da una parte ci sono i fedelissimi di Gheddafi e dall’altra gli insorti che non accettano più la sua dittatura. Questa divisione attraversa anche le tribù, sulle quali Gheddafi aveva sempre fatto molto affidamento. Si era sempre detto che il Libro Verde avrebbe annullato le tribù e invece, nonostante la “terza teoria universale”, la Libia è ancora oggi uno Stato tribale».
Sul piano militare interno, quello in atto è uno scontro che può concludersi, e se sì in che tempi, con un vincitore e un vinto?
«Non credo, perché gli insorti non hanno armi pesanti, non hanno aviazione e dispongono di pochissimi carri armati. Hanno soltanto una gran voglia di vincere. Invece Gheddafi ha armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione. Ma la sua forza non è sufficiente per riconquistare la Cirenaica. Quindi è una guerra che potrebbe continuare anche per mesi, se non intervengono altre forze».
il Fatto 10.3.11
In piazza per la Libia?
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, dicono che i pacifisti sono distratti. E neghittosi. Perché non riempiono le piazze con manifestazioni anti Gheddafi invece di starsene zitti a guardare la televisione? É una domanda che riguarda poco i pacifisti e molto i politici che hanno dichiarato Gheddafi il miglior amico dell'Italia, e lo hanno fatto appena due anni fa in parlamento, destra e sinistra, Pdl e Pd, quasi all’unanimità. Non tocca a loro, politici e partiti che hanno votato Gheddafi , dire che cosa pensano adesso?
Giovanna
PENSO che la lettrice faccia riferimento a ciò che l'on. Veltroni ha dichiarato al "Sole 24 Ore" dell'8 marzo, rispondendo alla domanda della giornalista Palmerini che chiede: "Qual'è la ragione del silenzio nelle piazze deserte?". Risposta: "Penso che ci siano due ragioni. La prima è che siamo entrati in una spirale di egoismo sociale e di riduzione del nostro orizzonte che include solo ciò che accade vicino". Risposta difficile da condividere, perché la Libia è vicinissima e quello che sta accadendo fa paura a tutti. Ma Veltroni completa così l'argomento: "La seconda ragione è che era molto più facile stare dentro lo schema tradizionale del 900, quello in cui i conflitti erano definiti da una storia che non esiste più." Incalza la giornalista: "La sua è una critica al partito democratico?" e ribatte Veltroni: "In questo caso no. Il Pd è stata l'unica forza politica a reagire anche con una manifestazione. No, mi sorprende l'assenza dei sindacati, associazioni, movimenti." Qui c'è un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Prima c'è un trattato votato quasi alla unanimità dal Parlamento proprio quando tanti gruppi e movimenti chiedevano di non farlo. Ricordate, ad esempio, i Radicali? Non ripeterò la storia di chi ha voluto e votato e lodato come un cambiamento del mondo il trattato di relazioni strette, fraterne, militari ed economiche, strategiche e scientifiche con la Libia (e aggiungendo il mandato di bloccare con tutti i mezzi ogni tentativo di immigrazione dall'Africa all'Italia). Ma c'era gente in piazza, e non i Radicali da soli. C'erano anche molti italiani cacciati dalla Libia abbandonando tutti i loro beni e il loro lavoro e che nessuno ha voluto ascoltare prima di firmare o ratificare quel trattato. C'erano anche (pochi) deputati del Pd e altri parlamentari a cui nessuno ha prestato attenzione. Ma il problema si ripropone adesso. Il partito democratico sara' anche stato vivace nel reagire fuori dal Parlamento. Ma in Parlamento non vi è traccia di una richiesta di abrogazione del trattato con la Libia. Stiamo parlando di un legame celebrato anche dalle nostre Frecce Tricolori nel cielo di Tripoli e da un baciamano del primo ministro italiano al dittatore più sanguinario e feroce rimasto (purtroppo finora ) al potere. Possibile che solo il frammento di Partito Radicale eletto nel Pd lo abbia capito e lo abbia denunciato in tempo,in sparuta compagnia di pochi deputati disobbedienti? E non sarebbe una bella manifestazione se, nonostante l'errore, adesso il Pd si prendesse la responsabilità di volere la cancellazione del trattato? Come può il Parlamento chiedere ai cittadini di fare spontaneamente (e rischiando le botte di Maroni) qualcosa che il Parlamento non sta facendo e non ha detto di voler fare?
Corriere della Sera 10.3.11
Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito
«Le firme? Non servono a nulla. Mi auguro che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza» . Asse per le primarie
di Maria Teresa Meli
ROMA— Sono tutti là. Walter Veltroni, il leader del Pd originale, quello prima versione, che fa gli onori di casa ai due ospiti. Sergio Chiamparino, che poteva essere leader ma che poi ha preferito finire il suo mandato di sindaco di Torino. E Matteo Renzi, il leader che verrà. Sono tutti insieme al teatro dei Servi a Roma, per un convegno di Democratica, la fondazione di Veltroni. Parlano linguaggi differenti tra di loro, ma un filo li unisce, e anni luce li allontanano da Bersani e dal «suo» Pd. Renzi più di ogni altro in quella sala rappresenta la rottura con certe liturgie della politica del centrosinistra. Arriva senza essersi nemmeno tolto dal viso il cerone che ha messo per partecipare a Matrix. Nessun altro lì lo avrebbe fatto, per timore di un possibile accostamento a Berlusconi. Lui sì. Anche perché di questa «ossessione del Pd» per il premier è bello che stufo. Per questo non esita a dire quello che gli altri due si limitano a pensare: «La raccolta di firme non serve a nulla» . Il suo linguaggio è diverso e diretto: «Spesso raccontiamo un’Italia triste e i nostri in tv sono tristi e polemici. Però è a Roma e in Parlamento che è così, sul territorio è tutta un’altra storia» . Non si preoccupa di abbattere un totem del centrosinistra, la concertazione: «Io sono contrario, andava bene all’epoca di Ciampi, per il governo nazionale, ma non può essere replicata in sedicesimo in tutte le città italiane» . Non rinnega la rottamazione, anche se ha abbandonato i rottamatori: «Il senso era di dire: gente non potete svernare in Parlamento... c’è chi ci ha fatto le ragnatele lì» . Il sindaco di Firenze non risparmia critiche a nessuno, nemmeno al Bersani che non vuole mettere il suo nome sul simbolo del partito: «È una decisione che ci riporta indietro di 30 anni» . E fa anche di più, rompe un tabù che non romperebbe anima viva nel centrosinistra: «Io mi auguro — e so che verrò criticato per questo— che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza al processo perché in un Paese civile non si augura una condanna a nessuno» . Tutte parole che farebbero rabbrividire Rosy Bindi, che, però, lì non c’è: il suo Pd non è sicuramente quello che Veltroni ha deciso di mandare in scena al teatro dei Servi. Dunque, il sindaco di Firenze non nasconde la sua diversità, non si trincera dietro giri di parole o astuzie diplomatiche, non abbraccia la cautela. E questo lo rende differente anche da Veltroni e da Chiamparino. Ma poi Renzi parla lo stesso linguaggio del sindaco di Torino — e viceversa — quando si tratta di delineare il Pd come dovrebbe essere e come non è. Per il sindaco di Torino «la sinistra fa un’analisi inadeguata di come evolve la società italiana» . Per Renzi il Pd perso nel suo antiberlusconismo non ha altra identità se non questa e non rappresenta quindi un’alternativa di governo. Entrambi sono ostili alla Santa Alleanza. «Va rivista questa strategia» , dice il sindaco di Torino. E quello di Firenze: «Basta con gli inciuci, le ammucchiate e i tatticismi, smettiamola di inseguire Fini, Bocchino o altri statisti di questo tipo» . Anche sulle primarie la pensano nello stesso modo. Per Chiamparino «sono il metodo più trasparente e democratico» , tanto più che i partiti «non hanno più autorevolezza» . Per Renzi «non si può chiedere agli elettori di andare nelle sezioni, anche perché la maggior parte sono chiuse» , perciò bisogna coinvolgerli con le primarie: «È assurdo che decidano i gruppi dirigenti dei partiti che non rappresentano più niente» . Veltroni, soddisfatto, guarda Renzi e Chiamparino, seduto in prima fila. Sale sul palco solo alla fine per un discorsetto di due minuti. Annuncia che la settimana prossima presenterà un ddl per istituire le primarie per legge. Poi chiude così: «Non basta sostenere che questo è l’autunno del Paese, bisogna preparare la primavera» . Come a dire: caro Bersani, non puoi solo parlar male di Berlusconi devi anche dire che cosa vuoi fare tu per costruire un’alternativa credibile. Ma in quella sala tutti sembrano guardare a Renzi per quell’alternativa. Lui sorride, nega di essere sceso in campo, ma da un mese è in campagna elettorale per preparare la sua futura candidatura.
l’Unità 10.3.11
AlbertoTedesco sentito dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato
«Contro di me c’è un chiaro “fumus persecutionis”»
«Vendola sapeva tutto ciò che so io»
«Non c’è strumentalizzazione ma le indagini sono sbagliate»
L’ex assessore alla Sanità pugliese, del quale è stato chiesto l’arresto, sentito ieri dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato. I reati sarebbero stati commessi in concorso con altre 24 persone.
di Ivan Cimarrusti
«Escludo strumentalizzazione politica dei pm, altrimenti li avrei denunciati. Ma le indagini sulla sanità in Puglia hanno avuto un’impostazione e una gestione sbagliate, arrivando a conclusioni inattendibili, non supportate da prove». Queste le parole pronunciate dall’ex assessore alla Sanità pugliese e senatore del gruppo Misto (autosospesosi dal Pd), Alberto Tedesco, al termine dell’audizione di ieri davanti alla commissione per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. L’arresto, chiesto dalla Procura, è stato disposto dal gip per i reati, di concorso con altre 24 persone, in concussione, turbata libertà degli incanti e falso ideologico. Nei confronti del senatore e di alcuni degli indagati è ipotizzato anche il reato di associazione per delinquere, venuto meno sulla base della decisione del gip. Per questo i pm hanno impugnato l’ordinanza nella parte in cui escludere l’esistenza del reato associativo.
IL FUMUS PERSECUTIONIS
«C’è stato “fumus persecutionis” da parte dei pm continua Tedesco -. Sulla gestione della sanità, Nichi Vendola sapeva esattamente quanto ne sapevo io. Non poteva non conoscere quanto accadeva nel governo del settore più rilevante della Regione, che assorbe il 75% del bilancio», e aggiunge, che «c’è un fatto che non è stato messo in luce: gli stessi pm al gip Sergio Di Paola hanno chiesto, e ottenuto, di archiviare l’accusa di concussione per me e Vendola. Ma per lo stesso identico fatto, ma in un altro procedimento e ipotizzando un altro reato (abuso d’ufficio, ndr), hanno chiesto al gip Giuseppe De Benedictis il mio arresto. Lo stesso gip De Benedictis aggiunge ha individuato questa incongruenza nell’accusa, chiedendosi perché per Tedesco sono reati e per altri no?». Infine, conclude il senatore, «dopo tre anni di indagini mi sarei aspettato una conclusione delle indagini, un rinvio a giudizio, ma una richiesta di arresto, non ha alcun senso non soltanto a detta mia, ma anche a detta di chi ha guardato le carte dell’accusa».
l’Unità 10.3.11
Biotestamento, «ossessione eutanasia»
Conclusa la discussione a Montecitorio, il voto ad aprile L’Idv presenta una pregiudiziale di costituzionalita
di Federica Fantozzi
Conclusa a Montecitorio la discussione sul biotestamento. E l’aula si prende un mese di tempo per metabolizzarla: il voto finale è previsto ad aprile. Ma un’intesa tra gli schieramenti resta lontana.
Il Pd, per bocca di Rosa Calipari, ha parlato di legge «irragionevole e anticostituzionale». IdV ha presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità: il testo Calabrò violerebbe l’articolo 32 della Carta che pone limiti rigorosi all’obbligo di trattamenti sanitari. Prosegue il sit in dei Radicali sul piazzale di Montecitorio: slogan contro gli «aguzzini coi sondini», un cappio fatto con un sondino. Beppino Englaro, ieri alla conferenza stampa dipietrista, ha ribadito la sua contrarietà al testo: «C’è una maledetta ossessione sull’eutanasia, che non ha niente a che fare con tutto questo». Il padre di Eluana, la giovane donna morta due anni fa per l’interruzione della nutrizione artificiale dopo 17 anni di coma, ha spiegato: «Non voglio essere vittima sacrificale del non potere dei medici né vittima del conflitto di poteri del Parlamento».
Ma al di là dell’impatto negativo nella società (cittadini, associazioni, medici chirurghi, anestesisti, amministrazioni che hanno istituito il registro del biotestamento) il nodo principale è tutto interno al PdL. Passato l’entusiasmo, quando diversi parlamentari del centrodestra raccontavano di aver ricevuto pressioni per votare il ddl a pena di mancata ricandidatura, Berlusconi sembra di nuovo distaccato.
Il segnale del rompete le righe è arrivato da giorni sul Foglio, guidato dallo stesso Giuliano Ferrara e da Sandro Bondi. Ieri il quotidiano ospitava un appello bipartisan contro il testo «illiberale» firmato da Bondi, Manconi, Calderisi, Versace, Pecorella, Sandra Zampa, Mazzuca, Ferruccio Saro.
Sintomi del malessere nella maggioranza, dove il sostegno alla linea intransigente Sacconi-Roccella si fa più sfumato. Esponendo la maggioranza al rischio di fuoco amico in caso di voti segreti, tutt’altro che improbabili su questioni di coscienza.
Per ora, poi, non è riuscito il tentativo di spaccare il (fragile) Pd sul tema: i cattolici, compreso Fioroni, hanno detto che non voteranno il testo così com’è. Il sentiero però è stretto, e Di Pietro ha avuto buon gioco a stanare «l’ipocrisia dei partiti che lasciano libertà di coscienza». Al momento l’impressione è che per il testamento biologico la parola fine sia ancora lontana.
Corriere della Sera 10.3.11
Fondo dello spettacolo, decurtati altri 27 milioni
di Mario Sensini
Al ministero dei Beni culturali la definiscono «un’amara sorpresa, che lascia sgomenti ed interdetti» . Certo, l’ennesimo taglio al Fondo unico per lo Spettacolo, sistematicamente decimato dalle ultime Leggi finanziarie, fin quasi a essere dimezzato rispetto agli anni d’oro, non è una bella notizia. Peccato che la cosa era nell’aria da tempo, per l’esattezza da quattro mesi, cioè da quando il Parlamento ha approvato la nuova legge di bilancio, che ora si chiama Legge di Stabilità, per il 2011. Quella legge assegnava al Fondo unico per lo Spettacolo uno stanziamento, già ridotto rispetto al 2010, di 258 milioni di euro. I soldi sarebbero arrivati dall’asta per l’assegnazione delle frequenze liberate dal passaggio dalla tv analogica a quella digitale. Ma in quella stessa legge c’era una clausola di salvaguardia esplicita, pretesa dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se fosse venuta meno la prospettiva di incassare il previsto dall’asta delle frequenze (2,4 miliardi di euro in tutto), sarebbe stata congelata una parte delle dotazioni dei ministri per l’anno in corso. E così è stato. Le procedure per l’asta non decollano, mentre i soldi sarebbero dovuti entrare non oltre la fine di settembre, e il Tesoro è corso ai ripari, tirando fuori di nuovo le forbici dal cassetto. L’unica «consolazione» per il ministero dei Beni culturali è che il taglio delle risorse disponibili per quest’anno riguarda i fondi gestiti da tutti i ministeri, con due sole eccezioni: il Fondo ordinario delle Università e le risorse destinate al finanziamento del 5 per mille dell’Irpef al volontariato. Per Sandro Bondi, che ha già espresso al presidente del Consiglio la volontà di lasciare i Beni culturali perché si sente abbandonato, è comunque un boccone amarissimo da digerire. Il Fondo unico per lo Spettacolo, con il nuovo intervento del ministero dell’Economia, viene decurtato di 27 milioni, che saranno congelati fino alla fine dell’anno. «E che di fatto non potranno essere utilmente ripartiti tra le varie voci del Fondo» sostengono al ministero guidato da Bondi. Fatto sta che nel piatto dei Beni culturali, si fa sapere, ci saranno solo 231 milioni di euro da dividere. E la Consulta dello Spettacolo sarà chiamata a dare il parere sulla ripartizione dei fondi nelle diverse realtà (cinema, musica, danza, teatro, e così via) proprio tra pochi giorni. Difficile che da qui ad allora il quadro possa cambiare. Tutto dipende dall’asta delle frequenze, ma su quel fronte la situazione è ferma. L’Autorità per le Comunicazioni ha avviato le procedure, e ha chiesto che si costituisca un comitato di ministri per gestire l’asta. Una richiesta rivolta al ministero dello Sviluppo e a Palazzo Chigi già da qualche settimana. E che ancora non ha avuto risposta.
La Stampa 10.3.11
La nostra identità una e centomila
L’incontro con l’altro non deve fare paura: tutti i gruppi umani sono in sé pluriculturali
di Tzvetan Todorov
Insiemi complessi. C’è la cultura delle età, dei mestieri, dei sessi, delle posizioni sociali
Una cultura vive se cambia Il latino è morto quando non ha più potuto cambiare
Siamo tutti meticci. Ogni Paese è segnato nel tempo dal contatto con più popolazioni”
Quanto segue è uno stralcio del saggio di Tzvetan Todorovcontenuto nel nuovo numero di Vita e Pensiero , il bimestrale dell’Università Cattolica di Milano, che esce in questi giorni.Filosofo e saggista di origine bulgara, Todorov ha studiato a Parigi con Roland Barthes. Tra le sue opere più recenti Il nuovo disordine mondiale , La letteratura in pericolo , La paura dei barbari , La bellezza salverà il mondo .
Per affrontare il tema della pluralità delle culture nell’ambito di una società, mi vedo obbligato a precisare anzitutto il senso della parola «cultura». Lo impiegherò nell’accezione che, da oltre un secolo, le hanno dato gli etnologi. In tale senso ampio, descrittivo e non valutativo, ogni gruppo umano ha una cultura: è il nome dato all’insieme delle caratteristiche della sua vita sociale, ai modi di vivere e di pensare collettivi, alle forme e agli stili di organizzazione del tempo e dello spazio, e questo include la lingua, la religione, le strutture familiari, i modi di costruzione delle case, gli utensili, i modi di mangiare e di vestirsi. I membri del gruppo, inoltre, qualunque siano le sue dimensioni, interiorizzano tali caratteristiche sotto forma di rappresentazioni mentali. La cultura esiste dunque a due livelli strettamente correlati: quello delle pratiche comuni al gruppo e quello dell’immagine che esse lasciano nello spirito dei membri della comunità.
L’essere umano – ed è una delle caratteristiche che lo contraddistinguono – nasce nell’ambito non solo della natura, ma anche, sempre e necessariamente, di una cultura. La prima caratteristica dell’identità culturale è che essa è imposta al bambino e non da lui scelta. Venendo al mondo, il piccolo dell’uomo è immerso nella cultura del suo gruppo, che gli è anteriore. Il fatto più saliente, ma probabilmente anche il più determinante, è che noi nasciamo necessariamente nell’ambito di una lingua, quella parlata dai nostri genitori o dalle persone che si prendono cura di noi. Il bambino non può evitare di adottarla. Ebbene, la lingua non è uno strumento neutro, è intrisa di pensieri, azioni, giudizi ereditati dal passato; essa ritaglia il reale in una data maniera e ci trasmette impercettibilmente una visione del mondo.
Una seconda caratteristica dell’appartenenza culturale salta parimenti agli occhi: possediamo non una, bensì parecchie identità culturali, che possono incastrarsi o presentarsi come insiemi intersecati. Un francese (per fare un esempio legato alla mia esperienza; ma lo stesso vale per italiani, spagnoli, inglesi…) proviene sempre da una regione, poniamo che sia bretone, e però condivide parecchie delle caratteristiche di tutti gli europei: dunque partecipa al tempo stesso delle culture bretone, francese ed europea. D’altra parte, all’interno di un’unica entità geografica, le stratificazioni culturali sono molteplici: ci sono la cultura degli adolescenti e quella dei pensionati, la cultura dei medici e quella degli spazzini, la cultura delle donne e quella degli uomini, dei ricchi e dei poveri. Un individuo può riconoscersi al tempo stesso nella cultura mediterranea, cristiana ed europea: criteri geografico, religioso e politico. Ebbene – e questo è essenziale – tali diverse identità culturali non coincidono tra loro, non formano territori chiaramente delimitati dove i diversi ingredienti si sovrappongono. Ogni individuo è pluriculturale; la sua cultura non assomiglia a un’isola monolitica, ma si presenta come il risultato di alluvioni che si sono incrociate.
Sotto questo aspetto la cultura collettiva, quella di un gruppo umano, non è diversa. La cultura di un Paese come la Francia è un insieme complesso, fatto di culture particolari, le stesse nelle quali si riconosce l’individuo: quelle delle regioni e dei mestieri, delle età e dei sessi, delle posizioni sociali e degli orientamenti spirituali. Ogni cultura, inoltre, è segnata dal contatto con quelle vicine. L’origine di una cultura si trova sempre nelle culture anteriori: nell’incontro tra più culture di dimensioni minori o nella scomposizione di una cultura più vasta, o nell’interazione con una cultura vicina. Non accediamo mai a una vita umana anteriore all’avvento della cultura. E non a caso: le caratteristiche «culturali» sono già presenti in altri animali, segnatamente nei primati. Non esistono culture pure e culture mischiate; tutte le culture sono miste («ibride» o «meticcie»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre tracce sul modo in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un Paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra più popolazioni, dunque più culture: galli, franchi, romani e molti altri.
Siamo giunti così a una terza caratteristica della cultura: quella di essere necessariamente mutevole. Tutte le culture cambiano, anche se è certo che quelle dette «tradizionali» lo fanno meno volentieri e meno rapidamente di quelle cosiddette «moderne». Tali cambiamenti hanno molteplici ragioni. Poiché ogni cultura ne ingloba altre, o si interseca con altre, i suoi diversi ingredienti formano un equilibrio instabile. Ad esempio, la concessione del diritto di voto alle donne in Francia, nel 1944, ha permesso loro di partecipare attivamente alla vita pubblica del Paese: l’identità culturale francese ne è stata trasformata. Allo stesso modo quando, ventitré anni dopo, le donne hanno ottenuto il diritto alla contraccezione, questo ha portato con sé una nuova mutazione della cultura francese. Se l’identità culturale non dovesse cambiare, la Francia non sarebbe diventata cristiana, in un primo tempo; laica, in un secondo. Accanto a queste tensioni interne ci sono anche i contatti esterni con culture vicine o lontane, che provocano a loro volta modificazioni. Prima d’influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egiziana, mesopotamica, persiana, indiana, islamica, cinese… A ciò si aggiungono le pressioni esercitate dall’evoluzione di altri elementi costitutivi dell’ordine sociale: economico, politico, persino fisico.
Se si tengono presenti queste ultime caratteristiche della cultura, la sua pluralità e la sua variabilità, si vede quanto siano fuorvianti le metafore utilizzate più comunemente. Di un essere umano si dice, ad esempio, che è «radicato» e lo si deplora; ma tale assimilazione degli uomini alle piante è illegittima, poiché il mondo animale si distingue dal mondo vegetale proprio per la sua mobilità, e l’uomo non è mai il prodotto di un’unica cultura. Le culture non hanno essenza né «anima», malgrado le belle pagine scritte su quest’argomento. O ancora, si parla della «sopravvivenza» di una cultura, intendendo con ciò la sua conservazione identica. Ebbene, una cultura che non cambia più è, esattamente, una cultura morta. L’espressione «lingua morta» è molto più fondata: il latino è morto il giorno in cui non poteva più cambiare. Nulla è più normale, più comune, della scomparsa di uno stato precedente della cultura e della sua sostituzione con uno stato nuovo.
Repubblica 10.3.11
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
di Pietro Citati
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un´epoca d´oro Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell´abbazia francese
Un´opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava – e poi, all´improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
***
Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell´anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d´anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un´autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un´ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos´era la Grazia? Ne aveva parlato Sant´Agostino; e Giansenio. La Grazia era un´illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve.
Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l´occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c´è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l´angoscia dell´abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell´intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
***
Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l´orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L´autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L´antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.
Repubblica 10.3.11
Due nuove traduzioni con scelte "più al passo con i tempi"
Così l’America aggiorna la Bibbia
Le versioni rivedute hanno l´imprimatur della chiesa cattolica e degli evangelici
NEW YORK. Come best-seller rimane il dominatore incontrastato di tutti i tempi: 415 milioni di copie vendute solo in America, per le due versioni più popolari. Eppure ogni riedizione di questo testo ha ancora la capacità di fare notizia, accendere la curiosità, innescare le controversie. Ovviamente è la Bibbia, di cui arrivano in simultanea, opportunamente lanciate nel mercoledì delle ceneri, due nuove traduzioni "aggiornate". Si tratta di due versioni dell´Antico Testamento che hanno l´imprimatur della Chiesa cattolica e degli evangelici: le due edizioni di gran lunga più diffuse tra i fedeli negli Stati Uniti.
L´evento fa scalpore perché da diversi decenni né l´una né l´altra traduzione ufficiale erano state cambiate (nel caso della cattolica dal 1970, per quella evangelica dal 1984). Ma ancora di più, l´attenzione è legata alle operazioni "linguistiche". Gli adattamenti sono fatti in nome della modernità: per avvicinarsi al linguaggio parlato di oggi, per non perdere contatto coi giovani, e così via. Ma dietro questi interventi "tecnici" spuntano scelte di valori, possibili innovazioni interpretative, ed è qui che gli appigli per le controversie si moltiplicano. La New American Bible (cattolica) sceglie "sacrificio bruciato" al posto di "olocausto" perché questa seconda parola ha assunto storicamente un significato troppo pregnante, che oblitera la sua origine più antica.
Fin qui nessun problema, come per altre scelte linguistiche che, nel giudizio del Washington Post, "suonano al tempo stesso più poetiche e più contemporanee". Si entra su un terreno minato invece nella traduzione del brano di Isaia 7: 14, dove si dice che "una giovane donna", non più "una vergine", concepirà e avrà un figlio. In nome del politically correct, sparisce un riferimento alla profezia su Maria? In quanto alla New International Version (la Bibbia dei protestanti evangelici), al posto della "natura peccaminosa" mette "la carne". Secondo Doug Moo, presidente del comitato di 15 esperti che hanno realizzato la nuova traduzione, questo "lascia aperta per i lettori la questione se il peccato sia un aspetto fondamentale della nostra natura, o solo una delle tante forze esterne a cui siamo esposti". Laddove certi passaggi della Bibbia tradotta nel 1984 escludevano le donne dall´"esercitare autorità" sugli uomini nella Chiesa, ora sono escluse solo dall´"assumere" il potere. Nelle note si spiega che "sta all´interpretazione individuale decidere se questo si riferisca a tutte le forme di autorità sugli uomini nella Chiesa, o solo a certi contesti". Più ardita e controcorrente è la correzione che gli esperti evangelici introducono nella Genesi. Nel 1984 sotto la pressione del femminismo Dio non faceva "gli uomini a sua immagine e somiglianza", bensì "gli esseri umani" che include ambo i sessi. Oggi si torna a una versione più fedele all´originale: "mankind", che significa l´umanità ma contiene la parola "uomo", al maschile. Sottigliezze che tuttavia non hanno più il peso politico di una volta: oggi l´americano medio ha a disposizione sul suo telefonino 50 applicazioni con altrettante interpretazioni diverse della Bibbia.
Il Sole 24 Ore 10.3.11
Benedetto XVI dedica il suo nuovo libro alla difesa della storicità di Cristo
di Massimo Donaddio
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-03-09/benedetto-dedica-nuovo-libro-124251.shtml?uuid=Aa11hhED&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com
Joseph Ratzinger ce l'ha fatta. Giovedì 10 marzo uscirà il secondo volume dell'opera dedicata a Gesù di Nazaret, culmine della sua attività di teologo nella Chiesa cattolica. Un'opera che si presenta come una trilogia (manca ancora il volume dedicato ai vangeli dell'infanzia), ma di cui la sezione appena pubblicata è decisamente centrale dal punto di vista del valore e del significato.
Ratzinger aveva già dato alle stampe nel 2007 il primo libro, dedicato al ministero pubblico di Gesù, mentre quello in uscita ora tratta degli eventi decisivi della passione, morte e risurrezione del rabbi di Nazaret, cuore dell'annuncio della fede cristiana. Come precisato dallo stesso pontefice, il libro non è un atto del magistero cattolico, ma vuole essere espressione della «ricerca personale del volto del Signore» da parte del teologo Ratzinger. È chiaro però che un libro pubblicato dal pontefice non può essere archiviato come uno dei tanti testi di teologia biblica che affollano gli scaffali delle università e delle librerie specializzate, ma è inevitabilmente – come fu nella prima occasione – destinato a far dibattere e a suggerire una linea interpretativa con la quale gli studiosi dovranno entrare in contatto, magari anche dialetticamente. Anche perché, come ben fanno cogliere già solo gli estratti diffusi prima dell'uscita del testo, Joseph Ratzinger non esita a prendere posizione a favore di una tesi piuttosto che di un'altra, a dar ragione a uno studioso piuttosto che a un altro, facendo nomi e cognomi nella massima trasparenza. Emblematico il caso dell'ultima cena di Cristo, che il pontefice, in accordo con il Vangelo di Giovanni e con il grande esegeta cattolico John Meier (autore della monumentale opera Un ebreo marginale), definisce come non-pasquale.
Che la questione-Gesù sia al centro dell'interesse di Joseph Ratzinger è testimoniato anche da un'operazione inedita, che serve proprio a diffondere il più possibile la conoscenza di questo libro anche presso il pubblico televisivo: l'accordo stabilito con la Rai e la trasmissione religiosa "A sua immagine", alla quale il papa rilascerà un'intervista su Gesù (registrata) che verrà diffusa in tv proprio il Venerdì Santo intorno alle ore 15 (l'ora in cui, secondo i vangeli, sarebbe morto Cristo).
Il papa ha sempre dichiarato (anche nel suo recente libro-intervista "Luce del mondo") che la figura di Gesù Cristo sta al cuore della sua spiritualità di religioso e di teologo. Questa affermazione è stata da lui dimostrata svariate volte nella sua produzione saggistica e anche nella sua attività di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Emblematica fu la dichiarazione Dominus Jesus "circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa", che provocò alcuni maldipancia ai fautori di un ecumenismo senza barriere e fece sospirare di sollievo il cardinale Giacomo Biffi (che comunque non rinunciò a una delle sue folgoranti battute: si era mai reso necessario in duemila anni di cristianesimo ribadire che Gesù Cristo è fondamentale per la salvezza dell'uomo?).
La genesi della fatica letteraria di Ratzinger (che ha dichiarato di sfruttare ogni momento libero dai suoi impegni pontifici per studiare e scrivere) va rintracciata nel suo desiderio di portare un contributo significativo in un contesto culturale in cui le fondamenta storiche delle origini cristiane e la stessa questione della storicità di Cristo vengono aggredite da molti lati. Una percezione viva nei settori più dinamici della Chiesa cattolica ma forse non ancora adeguatamente passata nella maggior parte del clero e dell'episcopato. Una percezione ben presente, invece, nella mente di papa Joseph Ratzinger.
Da quali lati arrivano gli attacchi alla figura storica di Gesù Cristo che preoccupano il papa? Da un lato studi e ricerche (anche qualificate) soprattutto di matrice anglossassone (ma non solo), che mirano a decostruire l'immagine tradizionale delle origini cristiane con metodologie scientifiche; dall'altro un'esplosione di contenuti mediatici che riportano (a volte in maniera acritica o grossolana) estratti di questi studi rilanciandoli al di fuori dei protetti ambienti universitari e dandoli in pasto al grande pubblico.
Un esempio lampante è quello del Jesus Seminar, che ha riunito negli Stati Uniti dagli anni Ottanta circa 150 specialisti in scienze bibliche e ha adottato un metodo di votazione con palline colorate per stabilire una visione collettiva sulla storicità di Gesù, in particolare riguardo a ciò che può o non può aver detto e fatto in quanto figura storica. Un procedimento "democratico" (molto simile a quello dei filosofi del circolo di Vienna) che non ha però potuto riconsegnare una visione chiara e condivisa del Gesù storico. L'esperimento è stato ora ripreso da The Jesus Project.
In campo italiano è molto attivo il prof. Mauro Pesce dell'università di Bologna, autore, insieme al giornalista Corrado Augias, del fortunato libro Inchiesta su Gesù, nel quale esprimeva in maniera divulgativa le sue tesi frutto di anni di ricerca storica indipendente. Pesce, autore anche de Le parole dimenticate di Gesù e di L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita (scritto con l'antropologa Adriana Destro), lavora tenendo in considerazione in egual modo tutti gli scritti più antichi del cristianesimo nascente (canonici e apocrifi), rifiutando l'idea di studiarli all'interno del canone del Nuovo Testamento (che sarebbe una riclassificazione molto posteriore alle origini cristiane), ma confrontando minuziosamente i testi con i reperti archeologici, sulla base di una metodo che si allarga fino a comprendere la sociologia e l'antropologia culturale del mondo antico palestinese.
Accanto a questi contributi, sfidanti per il cristianesimo "ufficiale" e la Chiesa, si aggiungono poi moltissimi contenuti più o meno scandalistici o polemici veicolati dai mass media. Dall'eclatante successo del Codice da Vinci di Dan Brown, un romanzo che, con un artificio retorico, si proponeva come "storico", al Vangelo gnostico di Giuda, scoperto nel 1978, restaurato completamente nel 2001 e pubblicato in italiano nel 2006 da National Geographic, fino ai libri e all'attività divulgativa del matematico Piergiorgio Odifreddi e dell'ateologo francese Michel Onfray. Sono, inoltre, molti i siti internet che negano l'esistenza storica di Gesù (vai alla scheda) oppure cercano di demolire le certezze fondamentali del cristianesimo. Due esempi: il sito sulla "tomba di Gesù", ossia il portale che descrive i sondaggi archeologici sulla tomba e gli ossari ritrovati presso Talpiot, a sud di Gerusalemme, e Zeitgeist, il cliccatissimo filmato del Venus Project (sottotitolato anche in italiano), che tratta della religione cristiana come fosse un mito, comparando la storia del Cristo con quella di diverse religioni precedenti, in particolare con il mito egiziano di Horus, e propone una lettura della Bibbia su base "astronomica".
In questo contesto problematico si colloca il libro del papa, che, nella prefazione del primo volume, pur apprezzando e servendosi dei contributi della metodologia storico-critica, afferma che questi hanno portato a «distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più incerta, prese contorni sempre meno definiti». Tutti questi tentativi, prosegue ancora il papa, hanno avuto l'esito di lasciare l'impressione «che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la sua fede nella divinità ha plasmato la sua immagine». Da qui lo sforzo di Ratzinger di tornare al Gesù dei vangeli, presentandolo come il "Gesù storico" nel senso autentico del termine. «Io sono convinto – scrive il papa – e spero se ne possa rendere conto anche il lettore – che questa figura è molto più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontar negli ultimi decenni». Per Ratzinger solo in presenza di un personaggio straordinario, che superava radicalmente le aspettative e le speranze dell'epoca, si possono spiegare la crocifissione e il movimento che dopo ne è seguito. La domanda che il papa pone a tutti gli studiosi e ai suoi lettori è in ultima analisi questa: «Non è più logico pensare che la figura di Gesù fece saltare tutte le categorie disponibili e poté essere così compresa solo a partire dal mistero di Dio?».
Avvenire 10.3.11
La Genesi mette in evidenza un legame tra uomo e donna che ha il proprio modello nella reciprocità dialogica delle tre persone divine. Per evitare l’individualismo dell’identità
Maschio e femmina: così il «genere», di cui tanto oggi si parla, è un principio umano che interroga filosofia, neuroscienze e teologia
Identici e diversi, ma uniti nella Trinità
di Cettina Militello
Parlare di identità maschile e femminile pone in campo quanto meno tre termini: identità, sesso, genere. Quello di 'identità' è il concetto chiave. Ci consente, infatti, di affermare la permanenza del nostro io, pur nel mutare delle contestualità spaziotemporali. Si tratta di dire ciò che siamo, nel segno della permanenza. L’io che noi siamo, come garanzia di identità di noi a noi stessi, è supportato da una complessa mutazione fisico-chimica, regolata dai tempi della crescita e dello sviluppo del nostro corpo, sino alla cesura della morte. Se è dunque il corpo il supporto necessario all’affermazione della mia identità, la seconda questione che si pone è quella della 'sessuazione', dato permanente nell’orizzonte dell’homo sapiens , il cui autocomprendersi passa dall’esperienza di un corpo femminile o maschile.
La difficoltà d’oggi è quella della complessità d’approccio al fenomeno. Lungamente abbiamo interpretato la 'sessuazione' nel suo aspetto funzionale riproduttivo, quasi sciogliendola dall’orizzonte del 'genere', che, invece, torna a esserci riproposto come categoria forte. «Il genere è un modo di classificare l’esistenza di tipi… Propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine 'genere' segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere».
Ma proprio questa insistenza sulla obbligata relazionalità sottesa alla nozione, mette in evidenza un termine ulteriore, quello della 'differenza'.
Il fatto è che la categoria di identità nella sua accezione filosofica e nel suo accadimento antropologico si fa compiuta solo nella 'differenza sessuale'. Le teoriche del femminismo hanno declinato questo dato lungo direttrici radicalmente diverse: essenzialismo o culturalismo, decostruzionismo, pensiero della differenza sessuale, teoria delle differenze locali, situate. Si approda da ultimo a un 'nomadismo di genere', con evidenti derive culturaliste che suonano estranee all’argomentare teologico.
In esso, a prevalere è stata sin qui una visione androcentrica della differenza iscritta soprattutto nella 'natura'. In gioco è l’adeguata correlazione tra natura e cultura, tra dato empirico e dato trascendente. Proprio il dibattito aperto sul rapporto fra 'natura' e 'cultura', l’oscillazione dall’uno all’altro polo, esige d’immettersi in un cantiere 'altro' e 'aperto'. In questa direzione la necessità dell’ascolto critico di un linguaggio e di un orizzonte altri da quelli della teologia. In particolare alle neuroscienze viene posta la domanda circa la plausibilità del ricorso alla nozione di genere e sulla correlazione che quest’ultima può ingenerare in vista di una comprensione integrale dell’essere umano. E poiché le stesse neuroscienze articolano il loro sapere in un quadro di riferimento antropologico, in questo suo primo momento, il confronto si sviluppa sulla doppia interlocuzione tra le neuroscienze e la riflessione antropologica. Teologicamente, infatti, il doppio racconto della Genesi ci offre il dato di una alterità che riflette nell’essere creato maschio/ femmina la reciprocità dialogica delle divine Persone. Il visà- vis genesiaco, in questa prospettiva, diventa manifesto dell’immagine impressa, sicché l’imago Trinitatis è costitutiva dell’accadimento umano e ne sigilla la vocazione all’alterità e alla comunione. C’è un piano, se vogliamo metafisico, rispetto al quale maschio e femmina sono reciprocamente 'persona', in ciò assolutamente identici. C’è un piano funzionale, un 'essere per' nel quale la differenza prevale, orientata com’è alla riproduzione. E, tuttavia, afferendo all’essere umano, ineludibilmente persona, la stessa differenza sessuale deve pur avere una significazione altra, non meramente strumentale.
Donde la necessità di una integrazione tra sapere neuro-scientifico, antropologia filosofica e la stessa teologia Occorre, insomma, con metodologia transdisciplinare, riflettere insieme su 'cultura', 'natura', 'identità', 'costruzione dell’identità', aprendo laboratori nuovi che oltrepassino queste stesse schematizzazioni e consentano alla teologia, ma anche alle altre scienze, di proiettarsi oltre.
Si tratta di ri-significare, in fecondo dialogo, questi concetti chiave, ricollocandoli tuttavia nell’orizzonte loro nativo, cristianamente parlando. Infine, resta la sfida dell’incontro uomo-donna oltre le modalità mutilanti o omologanti, lo stupore dell’esserci e dello scoprirsi prossimi e diversi, in ciò perfettamente a immagine di un Dio fattosi carne, la cui umanità è segnata anch’essa da identità, genere, sesso. La teologia, l’antropologia cristiana, non può procedere, per asserzioni astratte, spersonalizzate e anestetizzate. Deve piuttosto dar ragione della sua costituzione e della sua storia (cfr. GS 62). Storia di carne, di un Logos fatto carne, e perciò di pathos, di esperienza sensibile, all’origine e al termine illuminata dalla divina Bellezza, il cui circolo è sfida, teoretica, certo, ma anche pratica, operativa, utopica se vogliamo, comunque concreta di concretezza misterico-sacramentale.