venerdì 11 marzo 2011

il Fatto 11.3.11
Una riforma al giorno toglie il giudice di torno
di Gian Carlo Caselli


Le leggi “ad personam” hanno imbarbarito il sistema violando i principi fondamentali dell'ordinamento ma non sono servite a granché. L’ossessione del premier per i suoi processi non si è calmata, e poco sollievo gli è venuto dall’incessante azione di illustri avvocati che intrecciano la difesa privata con responsabilità istituzionali.
Meglio lasciare da parte l’accetta che trancia di netto i delitti più “rischiosi”. Persino un’opinione pubblica assuefatta e ipnotizzata potrebbe a un certo punto svegliarsi. Invece delle brutali leggi “ad personam” si possono imboccare strade più elusive ma non meno efficaci. 
Per esempio qualche modifica della Costituzione che consenta al governo di condizionare la magistratura o addirittura di impartirle direttive.
ESATTAMENTE questa è la situazione che si avrà con la sedicente riforma della Giustizia (sobriamente denominata epocale...) che il Consiglio dei ministri ha messo in cantiere.
Direttore dei lavori è un cavaliere/presidente che nello stesso tempo è imputato in vari processi. Un ossimoro? Forse, ma soprattutto un modo per regolare i conti con questa magistratura golpista ed eversiva che continua a coltivare un’assurda pretesa: chiedere conto anche al premier di azioni od omissioni che si presentino in contrasto con la legge penale. 
Ma anche a prescindere (e non si può) dalle vicende giudiziarie del premier e dalle sue ansie, è evidente innanzitutto che non si tratta di una riforma della Giustizia (l’inefficienza del sistema resterà tal quale), ma del tentativo di liberare il potere politico dal fastidio di aver a che fare con magistrati indipendenti. È poi impossibile ignorare un dato di fatto: il nostro – purtroppo – è tuttora un paese caratterizzato   da un fortissimo tasso di illegalità che comprende una spaventosa corruzione, collusioni e complicità con la mafia assai diffuse, gravi fatti di mala amministrazione e fenomeni assortiti di malaffare. Quasi sempre ci sono pezzi consistenti di politica coinvolti in tali vicende, per cui consentire loro (come avverrà con la pseudo-riforma della Giustizia) di pilotare la magistratura nel modo che ad essi più conviene sarebbe micidiale: per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la stessa credibilità della nostra democrazia.
In altre parole, grazie alla pseudo-riforma potrà dare ordini alla magistratura, stabilendo come   e chi indagare, proprio quel potere politico che di solito – è storia – respinge i controlli di legalità relativi ai suoi esponenti, preferendo autoassoluzioni perpetue. Ad esempio minimizzando il gravissimo cancro della corruzione sistemica riducendolo (la tradizione al riguardo si è consolidata negli anni) ad isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. E non è un caso che il presidente del Consiglio, presentando baldanzosamente la “sua” riforma, abbia dichiarato con candore che così Mani Pulite non ci sarebbe stata. Che se invece avessimo a che fare anche noi con politici capaci di dimettersi sol perché scoperti a copiare una tesi di laurea, allora potremmo pure discutere sull’opportunità o meno dell’opzione legata alla separazione delle carriere. Per contro, la concreta realtà del nostro paese (ancora fuori degli standard delle democrazie occidentali   per ciò che qui interessa) non ci consente assolutamente un simile lusso. Posto infatti che sempre – ovunque vi siano forme di separazione – il governo in un modo o nell’altro ha poteri direttivi sui pm, in Italia (nella situazione ancora attualmente data) il sistema sarebbe suicida, perlomeno finché certe decisive componenti della classe politica resteranno esclusivamente preoccupate della propria impunità. Sarebbe come affidare alle volpi la custodia del pollaio! Se poi la separazione delle carriere si combina (come previsto nella pseudo-riforma del governo) con altre misure mirate all’impunità dei potenti, ecco che il cerchio   si chiude ed i giochi sono fatti. Così, l’indebolimento dell’obbligatorietà dell’azione penale mediante liste, stabilite dalla politica, che distinguono quali reati perseguire e quali no; - il controllo delle attività investigative della polizia giudiziaria esercitato dal governo e non più dal pm; - la mortificazione del Csm a ruoli meramente burocratici; - la previsione di un Csm separato per i pm, così sottratti all’utile “koinè” con la magistratura giudicante; - il conferimento al Guardasigilli di un potere di ispezione e relazione sulle indagini destinato a funzionare come ponte verso la costruzione di un rapporto gerarchico con l’ufficio del pm; - una nuova disciplina della responsabilità dei magistrati che rischi di esporli a bufere scatenate strumentalmente, incompatibili con la serenità e l’autonomia della giurisdizione. 
SON TUTTI interventi che univocamente convergono verso l’obiettivo di riservare al potere politico l’apertura o chiusura del “rubinetto” delle indagini, prevedendo per giunta forme indirette ma efficaci di dissuasione verso i pm che tardino a capire che conviene “baciare le mani” a chi può e conta, piuttosto che servire gli interessi generali. La posta in gioco è la qualità della democrazia. E forse è bene cominciare a rileggere quel passo di Calamadrei in cui sta scritto che “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”.

Repubblica 11.3.11
Il disegnino del Cavaliere
E mostrando la prova della bilancia Silvio ritorna ai trucchi del piazzista
di Filippo Ceccarelli


LA CHIAMANO ancora conferenza stampa, ma è qualcosa di più e un po´ anche di peggio. Così anche ieri, fra il cerottone e le bilancette, nella sala stampa di Palazzo Chigi l´agenda riformatrice del quarto governo Berlusconi si è concessa uno spettacolino d´inedita creatività, e dimostrativa.

È andato in scena, il muto siparietto, quando il presidente del Consiglio, ha estratto a sorpresa da una delle sue cartelline il disegno di due bilance e con studiata lentezza, a beneficio delle telecamere, con la faccia seria e quasi per metà occupata dall´immensa benda adesiva, ha mostrato questo assai semplice bozzetto agli italiani. Ad assoluta e definitiva riprova della bontà del suo provvedimento sulla giustizia, oggi senz´altro - come da illustrazione - sbilanciata.
Il Guardasigilli Alfano, che al suo fianco svolgeva la parte del giovane promettente, perché disponibile e assennato, ha accolto con un segno del capo il numero dell´arzillo presidente. La condizione permanente dell´allievo prevede infatti un caloroso, ma discreto assenso rispetto a una delle più celebrate massime berlusconiane, sul cui cinismo non si starà qui a disputare essendo abbastanza compatibile con i «normali» codici del potere. E comunque: «Ricordatevi - il Cavaliere dixit ai suoi seguaci - che il pubblico medio che vi ascolta in tv ha fatto la seconda media, e magari neanche al primo banco».
L´ammaestramento ha tutta l´aria di risalire all´eroico periodo della vendita: prima d´immobili e poi di pubblicità; ma in quella forma letterale Berlusconi lo recò in dote ad alcuni candidati di Forza Italia nella primavera del 2002. Ogni stagione e ogni governo hanno in effetti i loro sussidi visivi e persuasivi, comunque destinati a convincere quel non proprio stimatissimo pubblico.
Giusto allora il presidente del Consiglio andava girando per l´Italia e appena possibile tirava fuori un enorme foglio, un lenzuolone su cui erano appuntati tutti i provvedimenti del governo e il loro stato di realizzazione. Erano così tanti, diceva il messaggio, da meritarsi un´estensione, una prolunga. In questo mondo di segni rudimentali da trasmettere a un popolo divenuto piuttosto credulone Porta a porta non si tira mai indietro. Così, nel maggio di quello stesso 2002, Berlusconi non solo si presentò con il suo bel lenzuolone, ma in un accesso di gigioneria applicata lo appese anche alla penna che Vespa, un altro maestro di effetti speciali del potere, gli aveva fatto trovare sulla scrivania di ciliegio su cui un anno prima il candidato premier del centrodestra aveva firmato il suo Contratto con gli italiani.
Vennero poi altri accessori e ingegni di scena: lavagnette, schermi, tabelloni, cartine geografiche, lucidi, diapositive, tutto quanto serviva a celebrare opere mai compiute, ma simulate; come dire, nel linguaggio del potere, date per fatte: ecco la nuova Salerno-Reggio Calabria, ecco il ponte di Messina e così sia.
Sotto gli occhi degli Alfani di turno, nel corso degli anni il presidente Berlusconi ha platealmente stracciato programmi degli avversari, impugnato simboliche ramazze per sgominare l´immondizia napoletana (disposta a piazza San Giacomo da addetti della Protezione civile per il pianificato show!), mentre agli intimi ha anche promesso visioni di lividi e graffi che attestavano, sotto gli indumenti, la voglia che le folle hanno di abbracciarlo, di toccarlo, fino a fargli male.
L´ostensione delle bilancette, da questo punto di vista, appare un escamotage assai meno rischioso, ma certo ha il merito di ripristinare uno scenario narrativo che si era perso. Sì, gente, forza, credetemi, la mia riforma è perfetta, come vedete con i vostri occhi. E di nuovo lo spettacolo s´incrocia con il mestiere dell´imbonitore e quest´ultimo evoca una panacea. E così, dopo essersi frantumato nelle farmacie, tra i banchi del mercato e sui palcoscenici ritorna alla luce l´antico mestiere del ciarlatano. Il carrozzone prevede cerotti, unguenti, elisir, improbabili successori, simboli in liquidazione e tanta felicità per tutti.

Repubblica 11.3.11
Il documento del Welfare: l´Italia si reggerà sui lavoratori stranieri
L´Italia sarà salvata da due milioni d´immigrati
di Vladimiro Polchi


L´ITALIA ha bisogno di nuovi immigrati? Certo: «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a 260mila». Tradotto: nei prossimi dieci anni avremo bisogno di "importare" un milione e 800mila lavoratori. A metterlo nero su bianco non è un sindacato, né un´associazione di categoria bensì il ministero del Lavoro, diretto da Maurizio Sacconi.
E così mentre dal Viminale si lancia l´allarme contro «l´esodo biblico» pronto a scatenarsi dalle coste del Nord Africa, i tecnici incaricati dal ministero del Welfare lavorano concretamente alle «previsioni del fabbisogno di manodopera». In un dettagliato rapporto del 23 febbraio scorso, la Direzione generale dell´immigrazione ragiona, infatti, sul numero di lavoratori stranieri necessari a reggere il "sistema Italia". La stima è cauta e si basa su diverse variabili.
«Il fabbisogno di manodopera è legato contemporaneamente alla domanda e all´offerta di lavoro - si legge nel Rapporto "L´immigrazione per lavoro in Italia" - dal lato dell´offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in 10 anni a un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo». Ciò detto, qual è il numero di immigrati di cui l´Italia avrà bisogno? «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a circa 260mila». Insomma da qui a dieci anni il nostro Paese dovrà aprirsi a poco meno di due milioni di lavoratori stranieri.
«Questi dati smascherano la demagogia di chi continua a ripetere che gli immigrati sono una minaccia - commenta Andrea Olivero, presidente nazionale Acli - senza di loro il Paese imploderebbe e accoglierli civilmente non è solo atto umanitario, ma intelligente strategia per il futuro. Per questo è giusto chiedere che cambi la politica dei flussi, andando al più presto a prendere atto di chi già oggi lavora utilmente nel Paese e ancorando le cifre dei nuovi permessi alle reali necessità. Ci fa piacere che il ministero del Lavoro guardi ai dati con realismo, perché soltanto in questo modo sarà possibile avviare finalmente quel governo del fenomeno immigrazione che è mancato in questi anni, dominati da un´ottusa logica di mero contenimento, che peraltro è fallita. Nessuno, la Lega si metta il cuore in pace, può fermare un flusso che ha ragioni così forti sia nei Paesi di provenienza, sia nel nostro, come ci dicono i dati. Perciò l´integrazione è la scelta insieme più civile e più realistica».


il Fatto Saturno 11.3.11
Due pontefici e il fine vita
Testamento biologico? Te lo dico papale papale
di Giorgio Cosmacini


Proponibili a una doverosa riflessione sono due citazioni autorevoli, attinenti entrambe ai problemi di fine vita connessi al testamento biologico. Espressione quest’ultima alla quale sarebbe preferibile testamento biografico, poiché la vita di cui si parla non è la vita “biologica” dell’organismo, ma la vita “biografica” della persona: una vita intrecciata non alla biomolecole, alle cellule, ai tessuti, agli organi che compongono il suo corpo, come quello di altri, ma alla “storia di una vita”, la sua e non un’altra. Quella appunto espressa dalla parola “biografia”, della cui unicità fanno parte passioni e ideali particolari, intuizioni e motivazioni proprie, nonché affetti ed esempi da trasmettere, scopi e progetti concepiti sia prima che durante il tempo del morire, tutti quanti meritevoli di quella pietas che Immanuel   Kant ha tradotto nella categoria del “rispetto”.
La prima citazione autorevole è ricavata da uno dei Discorsi ai medici (editi postumi nel 1959) di papa Pio XII: «Se il tentativo della rianimazione costituisce per la famiglia un onore che, in coscienza, non si può ad essa imporre, questa può lecitamente insistere perché il medico interrompa i suoi tentativi. […] In questi casi, perciò, una richiesta da parte della famiglia di sospendere il tentativo è più che legittima, e il medico vi può lecitamente acconsentire. In tal caso non c’è alcuna diretta disposizione della vita del paziente e neppure eutanasia».
La seconda citazione, altrettanto autorevole, è legata alla voce che papa Paolo VI volle far giungere ai medici cattolici riuniti a congresso nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo   a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto impegnarsi ad alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo».
Alle due citazioni tratte dai discorsi pontifici si potrebbe aggiungere la frase che un altro papa, Giovanni Paolo II, di fronte alla minaccia di un prolungamento artificioso della propria agonia, sussurrò ai medici prima della terza tracheotomia: «Lasciatemi tornare alla Casa del Padre».

La Stampa 11.3.11
Benedetto XVI: Israele un “popolo santo”
Presentato ieri il nuovo libro del Papa su In cerca del Messia reale, che ha separato religione e politica
di Giacomo Galeazzi


Così Cristo è morto e risorto: parola di Papa. Nel 2007 aveva dato alle stampe la prima parte di una rilettura della vita di Gesù, adesso il «biografo» Joseph Ratzinger continua a cercare il Messia reale, non un cadavere rianimato. Nel suo nuovo libro (edito dalla Lev, da ieri in libreria), Benedetto XVI riconosce a Israele la qualifica di «popolo santo», attribuisce a Cristo la separazione tra religione e politica e a una Chiesa «spesso nella tempesta» ricorda che «se le anime sono insensibili al male, esso prende il potere». Nel secondo, più ancora che nel primo volume, Benedetto XVI «ha un atteggiamento da fratello maggiore, molto simpatico», sottolinea Claudio Magris, scrittore incaricato dal Vaticano di presentare ieri l’opera ai giornalisti e rimasto colpito dalla ratzingeriana «cristologia dal basso». Un libro di 350 pagine stampato in oltre un milione di copie e pronto per la traduzione in 22 Paesi e per la versione e-book.
Nella prefazione il Pontefice già preannuncia l’ultima parte della trilogia: un affresco dell’infanzia di Cristo, «se mi sarà ancora data la forza». La «struttura giuridica» della Chiesa è «necessariamente maschile», però sono le donne «ad aprire la porta al Signore, ad accompagnarlo fin sotto la croce e a poterlo così incontrare anche quale risorto». Il diavolo fa crescere l’erba cattiva, anche la Chiesa ne è minacciata, ma «Dio è più forte di tutte le forze controverse». Senza la resurrezione, Gesù sarebbe stato soltanto «una personalità religiosa fallita». Non è una favola né il «miracolo di un cadavere rianimato», perché se così fosse «non ci interesserebbe e non sarebbe più importante della rianimazione, grazie all’abilità dei medici, di persone clinicamente morte», evidenzia il Papa.
Con il suo annuncio, inoltre, «Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica». Una svolta «che ha cambiato il mondo» e che «appartiene all’essenza della sua nuova via». Cristo non va dipinto come un rivoluzionario, come fece negli Anni Sessanta «un’onda di teologie politiche e della rivoluzione». La violenza «non instaura il regno di Dio», al contrario è «lo strumento preferito dell’Anticristo».
Per l’ex professore divenuto Vicario di Cristo, quella della produzione letteraria si sta dimostrando una forma di apostolato e uno stile di governo. Oltre alle encicliche, Benedetto XVI si rivolge direttamente ai fedeli e al grande pubblico per spiegare la fede cattolica con l’obiettivo di superare tanto le riduzioni pseudo-scientifiche quanto le esaltazioni esoteriche. Il Pontefice liquida certi studi divulgativi, definendo «presuntuoso e insieme sciocco» voler «scrutare la coscienza di Gesù», voltando pagina anche rispetto al metodo storicocritico. «Se la esegesi biblica scientifica

Repubblica 11.3.11
"Così diventiamo noi stessi"
Gli inediti di Giovanni Jervis


Dalle favole al lavoro così si costruisce l´identità

Esce una raccolta di inediti di Jervis, scomparso nel 2009. Nel testo che pubblichiamo il celebre psichiatra affronta il tema dell´evoluzione del sé
Il processo di formazione della personalità ha procedure diverse a seconda dell´età

Anticipiamo un brano da Il mito dell´interiorità di Jervis (a cura di Gilberto Corbellini e Massimo Marraffa) in uscita da Bollati Boringhieri
L´identità non è tanto una scelta, quanto in primo luogo una necessità. Contrariamente a quello che ci piacerebbe, non possiamo cambiare identità come vorremmo: o per meglio dire, il cambiare identità, nella misura in cui pure è possibile – ed è una misura molto limitata – è processo precario, problematico e difficile. Si può osservare che i pochi eventuali mutamenti rapidi di identità – soggettiva e oggettiva – avvengono oggi, perlopiù, in occasione di talune varietà di conversioni religiose: ma ci si può anche chiedere, scetticamente, quanto poi ogni convertito, al di là delle proprie autosuggestioni e di una varietà di gratificazioni settarie, porti pur sempre dentro di sé il vecchio Adamo. (...)
Nell´infanzia, e in particolare a partire dal terzo anno di vita, la coscienza di sé oltrepassa il semplice riconoscimento del proprio corpo (che avviene intorno ai 18 mesi), per fare leva, invece, sul linguaggio e arrivare a essere descrizione, e anzi descrizione narrativa: è uno scoprirsi, caso per caso, maschi oppure femmine, l´essere un bambino possibile fra gli altri bambini, avere quel papà e quella mamma, avere una storia, e altre storie da ascoltare e raccontare. La sensazione-certezza di essere amati e protetti, che è fondamento dello sviluppo di una vita affettivoemozionale sana e felice, è inscindibile dalla possibilità di riconoscersi in una «descrizione accettante».
In pratica, dunque, la crescita affettiva è inseparabile dalla costruzione dell´identità. Con insistenza e, si potrebbe dire, con voracità, il piccolo dai tre ai sei anni vuole di sé una descrivibilità coerente, che sia descrivibilità pienamente legittimata dai genitori, e socialmente valida e riconoscibile, e capace di suscitare attenzione, e base e trama per transazioni affettive di continuo rinnovate. Una volta di più, le componenti emotivo-affettive e quelle cognitive della mente – tradizionalmente tenute distanti – si rivelano, invece, inestricabilmente interconnesse e anzi, a ben guardare, neppure ben distinguibili fra loro.
Sempre nel corso dell´infanzia, lo sviluppo dell´identità soggettiva è caratterizzato da un curioso paradosso: che mentre ciascuno di noi con chiarezza sempre maggiore costruisce e riconosce la singolarità del proprio essere se stesso, singolarità non confondibile con gli altri, al tempo stesso, e in contraddizione con questo processo, ciascuno «gioca» con identificazioni, introiezioni, proiezioni, mescolando le proprie caratteristiche di personalità, in modo più o meno temporaneo, con quelle di altri. In primo luogo, come è ben noto, la costruzione infantile della propria identità avviene attraverso un inglobamento progettuale, o modellante, attraverso un «far proprie», per via di introiezione, le caratteristiche dell´identità di altri; soprattutto quelle, idealizzate, del genitore dello stesso sesso.
Ma non si tratta solo di questo: infatti il gioco del «far finta», così manifesto dal terzo anno di vita in poi, rende esplicita la disposizione del bambino a sentirsi temporaneamente diverso da quello che è, a passare attraverso identità fittizie, ad arricchirsi, o esplorare il suo essere e i suoi confini, confondendosi con identità non sue: per esempio nel proiettarsi in vicende e soggetti «altri», e dunque a sentirsi Pollicino, e Pollicino nel bosco, ogni volta che ne riascolta la favola; oppure nell´introiettare, per periodi che possono essere brevissimi oppure lunghissimi, le caratteristiche di forza del padre, la grinta dell´eroe preferito, le grazie e i modi della madre, e così via.
Anche la crisi adolescenziale, e con essa l´autonomizzazione sociale postadolescenziale, chiamano in causa la questione dell´identità. In pratica investono, infatti, il problema di come sostenere, e gestire, la fine dell´eteronomia dell´identità, per cui il proprio «esser così» era fino a quel momento una funzione delle definizioni date dai genitori: toccano dunque il problema, per ogni soggetto, di come passare, in un salto aleatorio, all´acquisizione di un´identità svincolata da ogni «riconoscimento» protettivo. Da questo punto di vista i rischi di uno screzio psicotico, e anzi di una crisi o di uno scompenso psicotici, così drammatici e frequenti fra i 16 e i 18 anni, sono interpretabili, in larga misura, proprio come fallimenti nell´acquisizione dell´autonomia dell´identità.
Meno studiati, ma di quasi pari importanza, sono i problemi di identità del terzo decennio, e in particolare fra i 25 e i 30 anni. Chi si avvicina a quest´età della vita portandosi dietro il carico e la confusione di disturbi psichici, di disordini comportamentali, di derive sociali non risolte, comincia spesso a soffrire in modo acuto del fallimento della costruzione di un´identità adulta, autodeterminata, socialmente riconoscibile e accettabile, caratterizzata da un interesse sociale dominante e da un mestiere, svincolata dalle indefinite disponibilità e progettualità del periodo giovanile; e facilmente vede aggravarsi, in questa crisi che può essere dolorosissima, i problemi psicologici preesistenti. Si affaccia qui una più chiara identificazione, o almeno un accostamento più stretto, fra il tema dell´identità e il tema dell´autostima: l´insufficienza dell´una si lega indissolubilmente alle carenze dell´altra.
Nel quarto e quinto decennio di vita, l´esistenza di molte persone normali, o almeno passabilmente normali, è dominata dalla scoperta – che è tardiva, perlopiù, ma forse è inevitabile che sia così – delle proprie reali caratteristiche di personalità: e dunque delle proprie inclinazioni di base. Noi tutti diventiamo noi stessi, e somigliamo a noi stessi, assai più a quarant´anni che a venti. Il processo di individuazione, sul quale Jung ha scritto pagine molto interessanti, è la scoperta e realizzazione di sé, e avviene non già nell´età giovanile ma nella maturità; solo allora, perlopiù, ci liberiamo dai condizionamenti familiari e ambientali che ci avevano segnato nell´epoca dell´immaturità, e ci chiediamo che cosa veramente ci piace e vogliamo fare. Ne nascono revisioni talora difficili. E non a caso gli studi sulla personalità ci rivelano cose che appaiono singolari ai non psicologi, come il fatto che due gemelli separati alla nascita, e cresciuti in famiglie diverse, scoprono di somigliarsi assai di più se si incontrano a quarant´anni che a quindici o venti.
Si può dunque concludere che l´autocostruzione dell´identità, nel corso dell´infanzia e poi anche oltre, modifica le sue procedure e le sue caratteristiche a seconda delle tappe della vita: ma sempre la sua importanza è tale che possiamo considerarla il cardine dello sviluppo di tutta l´esistenza dell´individuo.
© 2011 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol

 il Venerdì di Repubblica 11.3.11
Noi Bellocchio, una famiglia da film
di Federica Lamberti Zanardi


"Per noi della famiglia Bellocchio Sorelle Mai ha un valore molto più profondo del semplice film. In quei 90 minuti sono concentrati dieci anni di vita: confronti, scontri, riappacificazioni. E poi c'è Bobbio, il nostro luogo". Pier Giorgio Bellocchio, primogenito di Marco racconta così il film girato con suo padre nel paesino emiliano. Perché ci sono case che sono appunto luoghi dell'anima, dove i muri, le finestre, le stanze, sono evocazioni di legami, ricordi, stagioni della vita. È così per la casa di famiglia di Marco Bellocchio nel centro storico di Bobbio in Val di Trebbia. Lì nel 1965 il regista ci ha girato il suo rivoluzionario esordio I pugni in tasca, lì ci torna ogni estate per i corsi di cinema che dedica ai giovani. Lì si svolge Sorelle Mai (dal 16 marzo nei cinema) che fra realtà e finzione si snoda lungo dieci anni della vita "estiva" di una famiglia sui generis: due vecchie zie (le vere zie del regista vitalissime nonostante l'età), Giorgio venticinquenne inquieto a cui spesso è affidata la nipotina Elena, figlia di sua sorella Sara, bella e assente anche quando c'è perché troppo concentrata sulla sua carriera di attrice. Gli interpreti, a parte Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher, fanno tutti parte del clan Bellocchio. Così Elena è la seconda figlia di Marco (la mamma è la montatrice Francesca Calvelli). E Giorgio è Pier Giorgio Bellocchio, che - come in un cerchio generazionale che si chiude - è in questo giorni a teatro con I pugni in tasca adattamento del film del padre.
Perché ha detto che questo film è una seduta di psicoanalisi lunga dieci anni?
"Perché ho cominciato a girare che avevo 24 anni, ero single, senza figli, in cerca di una mia identità. Ho finito che ero sposato, con due figli e con un rapporto più sereno con mio padre. Siamo cambiati tutti in questi anni. Ci sono famiglie che si riuniscono per i compleanni, noi per fare cinema".
Ma lei va in analisi?
"Certo, da anni e continuerò a farlo".
Tim Burton dice che lui non va in analisi perché scrutare l'inconscio non è utile per un artista.
"Bisognerebbe portarlo a cena con mio padre, che senza la psicoanalisi non avrebbe più fatto un film".
Però i film che ha girato durante l'analisi non sono i più riusciti.
"È vero: durante il lavoro analitico con Massimo Fagioli ha girato dei film difficili, ma perché stava facendo un lavoro complesso. Dopo, però, sono arrivati L'ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni. E se a 70 anni ha girato un'opera come Vincere, non si può pensare che tanti anni di analisi non abbiano avuto un ruolo nell'arrivare a quell'età con la brillantezza, la vitalità e la capacità di guardare avanti che ha dimostrato di avere".
Quanto è difficile essere il figlio di Marco Bellocchio?
"È la prima volta, in tanti anni, che questa domanda è posta nella maniera corretta perché il problema per me è essere figlio dell'uomo Bellocchio, complesso, coerente, rigoroso, che non accetta compromessi, e non del grande regista. Con un padre così devi sempre dimostrare di mirare alto".
Ma oggi il rapporto com'è?
"Bello. I miei genitori si sono separati quando io avevo sei anni. Quando, a 18 anni, sono andato a vivere da solo, la nostra relazione è diventata più intensa, ma anche molto conflittuale. Fino a quando, 16 anni fa, è nata mia sorella Elena che amo moltissimo. Allora ho riscoperto mio padre".
E lei che padre è?
"Ancora non lo so. Creare una famiglia è davvero complicato".

Cacciari...
Corriere della Sera 11.3.11
«È come Nietzsche, la democrazia lo infastidisce»
di Elsa Muschella


MILANO— «Se dice che i cittadini sono rompiballe lo riconosco, anzi si è trattenuto: Massimo parla così da sempre, è Nietzsche tradotto e condensato in pillole politiche» . Cesare De Michelis, 67 anni, studioso e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, scrittore ed editore, per quasi 10 anni (dal ’ 65 al ’ 74) ha lavorato con l’ex sindaco di Venezia alla direzione dell’Angelus novus, il trimestrale di estetica e critica che nel titolo omaggiava Paul Klee. Da allora conosce «in profondità» il Cacciari pensiero: «È un mio carissimo amico, so perfettamente cosa gli passa per la testa: gli uomini sono esseri orrendi e gli unici frequentabili sono i Superuomini» . Un pensiero condivisibile? «No di certo, io sopporto solo gli uomini e gli Übermenschen mi fanno paura. Ciò che Massimo si ostina a non riconoscere è la regola che gli impone di passare metà del suo tempo a trattare con i cittadini: si chiama democrazia e nella sua visione è una cosa terribile e fastidiosa proprio perché offre voce a quella che lui definisce, insultandola, la gente. Oh, la gente! Gli causa un fastidio talmente evidente da indurlo a lamentarsene in pubblico. Peccato che in democrazia la competenza di un filosofo valga come l’opinione di un tassista. Cacciari è un nichilista, vorrebbe andare oltre la democrazia. Ma tutti sanno che oltre quell’oltre c’è solo la dittatura. A meno che l’intelligenza degli uomini non trovi sbocchi migliori» .

Corriere della Sera 11.3.11
Wisconsin, passa la legge anti-sindacato
Giornata di fuoco al Parlamento invaso dai manifestanti, poi la spuntano i repubblicani
di Massimo Gaggi


Un «blitz» repubblicano dopo una guerra di trincea che paralizza da tre settimane il Parlamento del Wisconsin ha sbloccato la legge che limita drasticamente i diritti di negoziazione dei sindacati del pubblico impiego. Prima l’approvazione notturna al Senato, con un «escamotage» (contestato dai democratici) col quale è stato eluso l’ostruzionismo dell’opposizione. Poi una giornata di fuoco al Campidoglio di Madison invaso dai manifestanti, decisi a impedire il voto della Camera, pronta a ratificare il provvedimento con un’ampia maggioranza. Ma il voto finale è stato più volte rinviato tra sgomberi e nuove occupazioni dell’aula, in un clima confuso e paradossale coi funzionari che assistono i parlamentari democratici accusati dai repubblicani di aver fatto rientrare dalle finestre i manifestati che la polizia aveva fatto uscire dalla porta. In serata, l’aula trasformata in una bolgia dalle urla del pubblico «vergogna vergogna» , ha approvato definitivamente il provvedimento. Intanto, vari gruppi e organizzazioni giovanili hanno invitato gli studenti di tutte le scuole d’America a scendere in piazza oggi, venerdì, alle due del pomeriggio, poco prima della fine delle lezioni. Forse si risolverà tutto in una bolla di sapone, ma è la prima volta da decenni a questa parte che qualcuno, negli Usa, tenta di animare un movimento studentesco di protesta a livello nazionale. Ed è anche la prima volta che gruppi di attivisti provano a usare il canale digitale delle reti sociali, da Facebook a Gather. com, per coordinare una ribellione, richiamandosi esplicitamente all’esperienza dei giovani del Cairo e degli altri Paesi mediorientali in rivolta contro i loro regimi autocratici. L’America, a differenza del Nord Africa, è la culla della democrazia, ma l’asprezza della battaglia sulla contrattazione collettiva ((che molti considerano un diritto inalienabile) e l’azzeramento degli spazi di mediazione tra repubblicani e democratici ha creato una situazione senza precedenti: i 14 senatori democratici dello Stato fuggiti da tre settimane in Illinois per far venir meno il numero legale nelle votazioni, il Parlamento in uno stato di occupazione permanente, minacce di morte nei confronti di diversi parlamentari repubblicani. Adesso chi vuole trasformare la protesta in aperta ribellione ha trovato il suo leader: il regista Michael Moore che l’altra sera ha definito «una dichiarazione di guerra» il voto a sorpresa del Senato del Wisconsin e che, parlando durante un talk show della rete televisiva Msnbc, ha invitato gli studenti a scendere in piazza e ha pronunciato parole incendiarie: «I ricchi hanno commesso questi crimini e la gente chiederà che finiscano in prigione» e poi un ancor più scioccante: «Ricchi, banchieri, abbiamo diritto al vostro denaro» . Cosa ha generato una situazione così esplosiva? La miccia l’ha accesa quasi un mese fa il neogovernatore del Wisconsin, il repubblicano Scott Walker, che, nell’ambito delle misure di contenimento dello straripante deficit dello Stato, ha messo in cantiere la norma che elimina la contrattazione collettiva nel pubblico impiego salvo che per la negoziazione del salario minimo. Una legge drastica contro la quale i sindacati hanno mobilitato la loro base, mentre i 14 senatori della minoranza democratica si sono rifugiati in Illinois per impedire al Parlamento di Madison di votare. In base alla legge dell’Illinois, infatti, alle votazioni che hanno un impatto sul bilancio deve partecipare una maggioranza qualificata di senatori. E quelli che si rifiutano di votare possono essere accompagnati con la forza in Parlamento dalla polizia. È così iniziato il lungo braccio di ferro, con Walker deciso ad andare avanti anche perché questa legge era al centro del suo programma elettorale e perché convinto che la maggior parte dei cittadini— altrimenti chiamati a versare più tasse per pagare stipendi e benefit di un pubblico impiego in genere trattato meglio dei dipendenti privati— sarebbe stato dalla sua parte. Il governatore è riuscito a trascinare altri Stati sulla stessa strada (l’Ohio ha appena votato una misura simile), ma la durezza della reazione dei manifestanti ha indotto i conservatori di altre parti del Paese ad essere più cauti. Il pubblico impiego, soprattutto gli insegnanti, è visto da qualcuno come un’area di privilegio, da altri come un ultimo lembo di ceto medio da proteggere.