sabato 12 marzo 2011

l’Unità 12.3.11
Intervista a Gustavo Zagrebelsky
Per la Costituzione
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
In piazza anche la scuola: «Giù le mani dall’istruzione»
Il presidente emerito della Consulta: «La Carta esclude il potere per acclamazione. Conflitto di attribuzioni? La Camera non ha titolo per sollevarlo»
di Federica Fantozzi


Professor Zagrebelsky lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi». Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto». Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato? «Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica? «Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica». Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre la speranza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante». La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini». Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l'appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E' passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa».

l’Unità 12.3.11
La battaglia per la Costituzione
Difendere la Carta per difendere noi stessi
di Nicola Tranfaglia


Oggi gli italiani diranno, con il linguaggio pacifico di una grande manifestazione, a Roma e in altre 80 città della penisola e milioni di tricolori alle finestre, che la difesa della Costituzione e quella della scuola pubblica sono battaglie congiunte e indivisibili. Speriamo che le tv e i giornali di proprietà del capo del governo o da lui controllati se ne accorgano. L’articolo 64 della legge 133 del 2008 intende tagliare 87.400 posti di insegnante e non è lontano dal raggiungere l’obbiettivo previsto dal provvedimento triennale. Una distruzione sistematica della nostra scuola, fattore fondamentale di integrazione degli italiani. Un musicista come Nicola Piovani ha ricordato che la scuola della costituzione ha il compito di difendere «la laicità dello Stato, l’antifascismo, la legalità, la Resistenza, tutte le religioni» e basta pensare alla famosa canzone di Francesco De Gregori per ricordare che «la storia siamo noi» e che una Nazione senza memoria e consapevolezza storica costruirà la sua casa sulla sabbia. «L’educazione ha detto a sua volta il sociologo francese Edgar Morin deve contribuire all’autoformazione della persona e insegnare a diventare cittadino.Un cittadino in una democrazia si definisce attraverso la solidarietà e la responsabilità in rapporto alla sua patria. Il che suppone il radicamento in lui della sua identità nazionale». La carta costituzionale dice con estrema chiarezza quale è il rapporto che deve esserci tra scuole pubbliche e scuole private, all’articolo 34 recita che «enti privati hanno il diritto di istituire scuole e corsi di educazione senza oneri per lo Stato». Di qui la netta incostituzionalità di disegni di legge, come quello del leghista senatore Pittoni, che vuole istituire graduatorie regionali per l’insegnamento in modo da escludere nelle varie regioni insegnanti che provengano da altre parti del Paese. E l’assurdità delle pretese, sempre della Lega Nord, che vuole sostituire il dialetto alla lingua italiana in alcune regioni. Uno scrittore come Pier Paolo Pasolini in tempi non sospetti scriveva che «il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte».
La verità è che la legge del 2008, come altri provvedimenti proposti dall’attuale maggioranza, hanno un duplice obbiettivo che diventa sempre più chiaro e preoccupante. Si tratta di favorire, attraverso l’attività legislativa di questi anni, il depotenziamento della scuola pubblica a vantaggio di quelle private e, nello stesso tempo, rendere gli italiani sempre più ignoranti, sempre più dipendenti e passivi davanti dalle trasmissioni televisive che oggi vanno in voga da Amici della De Filippi al Grande Fratello e all’Isola dei famosi che campeggiano sugli schermi Mediaset-Rai e favorire così un dominio più facile per la deriva nazionale degli ultimi vent’anni. Un progetto diabolico non c’è che dire.

l’Unità 12.3.11
Difendere la Costituzione oggi l´Italia in piazza
di Stefano Rodotà


Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l´ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.
Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d´opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.
Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.
Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.
Questo è un estratto dell´appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella manifestazione "A difesa della Costituzione"



l’Unità 12.3.11
Catalogo degli orrori da Brunetta a Bossi
Gli autori del libro sugli attacchi alla Costituzione presentano alcune delle più significative perle. Dai discorsi di Berlusconi e dei suoi fedelissimi
di Giuseppe Civati e Ernesto Maria Ruffini


Si fa un gran parlare della necessità e dell'urgenza di riformare la Costituzione, per aggiornarla ai tempi nuovi. La verità è che dalla destra di governo provengono da anni, più che proposte di riforma compiute e ragionevoli, attacchi violentissimi alle ragioni profonde contenute nella Carta.
Partiamo da Tremonti, secondo cui «se non cambi la Costituzione si blocca tutto» (13 giugno 2010), mentre per Sandro Bondi: «rifugiarsi ancora un volta dietro l’idolatria della Costituzione e la propaganda non serve all’Italia» (9 giugno 2010).
Sull’art. 1, Renato Brunetta, con il suo proverbiale equilibrio, ha affermato che «stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla» ( 2 gennaio 2010).
Sull’art. 3, quello che ci ricorda come tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, l’affermazione di orwelliana memoria con cui Berlusconi ha orgogliosamente rivendicato che «la legge è uguale per tutti, ma per me è più uguale che per gli
altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani» (17 giugno 2003). Affermazione forse superata da quella di Niccolò Ghedini, secondo cui «la legge è uguale per tutti, ma non necessariamente la sua applicazione» (6 ottobre 2009).
Sull’art. 5, quello che ci ricorda come la Repubblica sia una e indivisibile, non poteva mancare Bossi, che afferma: «io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell’Italia non me ne frega niente» (9 dicembre 2007) e ci rassicura affermando che «le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sembrano le solite cose inutili, un po’ retoriche» (4 maggio 2010). Per quelli che se lo fossero dimenticato, inoltre, ci rammenta che «il vero scopo della Lega è la secessione» (17 agosto 2009). Anche sull’art. 12 della Costituzione, la norma che ha fissato nel tricolore la nostra bandiera, un pensiero dobbiamo riservarlo al solito Bossi, che, rivolgendosi ad una signora che lo aveva esposto alla propria finestra, affermava: «Il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo» (23 gennaio 2002).
Non poteva mancare qualcosa sulla scuola pubblica e sugli articoli 33 e 34 della Costituzione. In questo caso, l’instancabile Mariastella Gelmini è riuscita a superare ogni aspettativa, affermando che «l’istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole paritarie» (10 giugno 2008).
Sull’art. 53 ̧quello sulle tasse e sulla capacità contributiva, Berlusconi ha ipotizzato che se lo Stato chiede ai contribuenti più di «un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato (...) c’è una sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità che non ti fanno sentire colpevole» (11 novembre 2004), mentre, nell’ipotesi in cui il prelievo fiscale superi il 50 per cento, sarebbe proprio «giustificato mettere in atto l’elusione o l’evasione» (1 ̊ aprile 2008). Poi c’è uno strano articolo della nostra Costituzione, l’art. 93 che prevede il giuramento di fedeltà dei ministri e del premier. Un articolo forse dimenticato da quei ministri leghisti che da venti anni si riuniscono a Pontida per recitare un altro giuramento. Anche sui giudici e sull’art. 104 della Costituzione non si sono risparmiati. Secondo Berlusconi: «questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana» (4 settembre 2003). Poi ci è andato giù pesante, definendoli «metastasi della democrazia» (25 giugno 2008).

l’Unità 12.3.11
Intervista a Andrea Orlando
«Nessun dialogo. Democrazia a rischio»
Il responsabile Giustizia Pd «È una riforma della sola magistratura Confronto solo se cambiano le priorità e si procede con legge ordinaria»
di Simone Collini


È una riforma della magistratura, non della giustizia. Ed è un’operazione che pone un problema di funzionamento della democrazia, perché si rischia di assoggettare il potere giudiziario a quel coacervo che a causa delle legge elettorale di fatto si è già venuto determinando tra potere legislativo e potere esecutivo». Andrea Orlando spiega che ovviamente in Parlamento una discussione sulla riforma della giustizia ci sarà, ma che se la maggioranza vuole essere credibile deve lasciar stare sia le leggi ad personam che l’ipotesi di modifica costituzionale. «In tal caso, noi siamo pronti a un confronto, partendo dalle nostre proposte di legge e chiarendo che per noi l’agenda delle priorità va profondamente cambiata», dice il responsabile Giustizia del Pd.
Il centrodestra vi accusa di dire un no pregiudiziale e anche nel suo partito c’è chi, come Follini, giudica un errore l’arroccamento.
«Non è questione di arroccamento anche perché da tempo abbiamo avanzato le nostre proposte, e la maggioranza deve chiarire che utilizzo intende fare di questa riforma perché il sospetto è che si tratti semplicemente di un ballon d’essay per andare avanti con provvedimenti più contingenti».
Più contingenti?
«La legge sulle intercettazioni, quella sul processo breve. La maggioranza intende proseguire su questa strada?».
Ammettiamo che non lo faccia: non vi si crea un problema a dire no se accantona le leggi ad personam? «No perché non verrebbero meno le nostre critiche al testo presentato, che non è una riforma della giustizia ma soltanto della magistratura. L’effettivo perimetro della riforma, se il governo vuole dimostrare di volere il confronto, va definito insieme a tutti gli operatori del settore. Alfano convochi giudici, magistrati, avvocati, lavoratori del comparto e discuta con loro l’effettiva agenda delle priorità».
Che per voi sarebbero?
«Semplificare i processi, riformare la giustizia civile, riorganizzare le sedi, informatizzare. Tutti temi su cui abbiamo presentato precise proposte di legge in Parlamento e su cui possiamo aprire un serio confronto. Questa è un’agenda che si occupa della giustizia dal punto di vista dei cittadini». E se in fondo a questa agenda il governo mettesse anche la riforma della magistratura?
«Siamo pronti al confronto a patto che si affronti la questione con legge ordinaria, non costituzionale». C’è però chi vi ricorda la Bicamerale... «Che prevedeva una revisione degli equilibri complessivi dell’assetto costituzionale, non di una sola parte, e che non prevedeva la separazione delle carriere tra giudici e pm». Legge ordinaria sì, costituzionale no: potrebbe sembrare un altro pretesto per evitare il confronto.
«Non lo è, si tratta anzi di un problema di funzionamento della democrazia. Oggi c’è già una sostanziale commistione, per via della legge elettorale e di una deformazione della Costituzione sostanziale, tra Parlamento e governo. Assoggettare anche il terzo potere, quello giudiziario, al controllo di questo coacervo che si è venuto determinando è oggettivamente pericoloso».
Lei dice assoggettare, il governo parla di bilanciamento dei poteri. «La finalità di questa riforma è limitare il potere di chi ha disturbato il manovratore. Basti pensare all’introduzione di due Csm, all’aumento al loro interno dei membri laici, all’abbandono dell’obbligatorietà dell’azione penale e all’individuazione da parte del Parlamento delle priorità in questo esercizio. Con l’assenza di contrappesi il cittadino sarebbe meno garantito. Anche la separazione delle carriere, con un corpo dei pm distinto dai giudici, rischia di accentuare gli elementi polizieschi piuttosto che rafforzare le garanzie per l’imputato». Non sempre: dopo un’assoluzione in primo grado il pm non potrebbe più chiedere di ricorrere in appello. «Ipotesi abominevole. Si pensi soltanto a certi processi per strage o a grandi vicende più recenti: le vittime non avrebbero risposte».
E della responsabilità personale dei magistrati nei casi di colpa, che dice? «Che si possono anche pensare meccanismi di responsabilità più efficaci, ma prevedere forme di sanzione economica, di risarcimenti pecuniari, rischia di creare delle impunità di fatto. Chi si sarebbe preso la briga di aprire un’inchiesta sul caso Parmalat, con la paura di commettere un errore nel corso dell’indagine?».

l’Unità 12.3.11
Demolitori di democrazia
di Moni Ovadia


L'ultimo provvedimento del governo Berlusconi, la proposta di legge per la riforma costituzionale della giustizia, è l'atto conclusivo di smantellamento del cuore della democrazia italiana, il pilastro costituzionale della separazione dei poteri. Il senso di questa azione demolitrice è stato dichiarato con chiarezza dallo stesso premier: se la riforma elaborata dal suo visir Alfano fosse stata operante nel 1994 non ci sarebbe stata tangentopoli, ovvero un potere corrotto e corruttore sarebbe stato al riparo dalle indagini della magistratura. Dunque lo scopo della riforma è semplicemente quello di rendere impunite le malefatte dei potenti e dei loro cortigiani e, in particolare, per rendere ingiudicabile il Sultano. Non bisogna essere giuristi per capirlo basta fare funzionare per qualche istante la meravigliose cellule grigie di cui siamo forniti gratuitamente anche se non tutti (troppi nel nostro paese) approfittano del meraviglioso dono. Basta chiedersi: ma dove sono i provvedimenti e gli investimenti per rendere la giustizia uguale per tutti? ma dove erano tutti questi garantisti della domenica, e dove sono quando i poveracci subivano e subiscono i malfunzionamenti della macchina burocratica della giustizia? Li trovavi e li ritrovi in televisione a sproloquiare e a starnazzare contro i coraggiosi servitori dello Stato di diritto. Oggi, nelle città d'Italia saremo ancora una volta nelle piazze per difendere la Costituzione dagli attacchi di chi vuole demolirla con la scusa di riformarla. Non è in questione in questo momento l'orientamento politico dei cittadini, né il sistema dei partiti e della loro collocazione. Oggi è in gioco il futuro della nostra democrazia, il suo destino e il suo carattere. Oggi lottiamo per affermare la democrazia come sistema di diritti e di valori che portano all'uguaglianza e alla dignità di ogni essere umano.

l’Unità 12.3.11
La sinistra? Ha perso lo spirito di solidarietà
«I termini socialismo, anarchismo, comunismo vanno unificati»
Edgar Morin A colloquio con il grande filosofo e sociologo francese «ll trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto del Pd incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti»
di Anna Tito


Se fossi candidato alla presidenza della Repubblica non sbarrerei la strada ai miei rivali, bensì indicherei loro la rotta. Non farei promesse, ma proporrei una Via. Non formulerei un programma poiché questi non sono realizzabili in condizioni incerte e mutevoli, ma definirei una strategia che tenga conto degli eventi e degli imprevisti», scriveva nel 2007 in un testo finora inedito. Ma si candiderà alle elezioni del 2012? Edgar Morin scoppia a ridere: «No, non mi presenterò, ma scriverò una dichiarazione per un candidato ideale che non esiste più». Inizia così il nostro incontro con Morin, nel suo luminosissimo appartamento al quinto piano di uno stabile parigino. Fedele alla sua origine ebraico sefardita, si anima e gesticola nel corso nella conversazione, con espressione vivace e divertita.
Compirà novant’anni nel prossimo giugno, eppure conserva intatte la curiosità e il gusto di intraprendere nuove vie di riflessione. Il pensiero di questo filosofo e sociologo, eclettico, transdisciplinare e indisciplinato, ex resistente ed ex comunista, appare ancora ricco e rivolto al futuro. Se fossi candidato è uno dei ventitrè saggi riuniti nell’antologia La mia sinistra. Rigenerare la speranza appena apparsa da Erickson (pp. 256, 18,50 euro), curata e tradotta da Riccardo Mazzeo, con contributi di Nichi Vendola, Mauro Ceruti e Sergio Manghi. Si tratta di analisi e di riflessioni politiche, redatte negli ultimi due decenni e in parte inedite, che intendono stimolarci a uscire dalla «grande recessione».
«In La mia sinistra sottolineo che esiste una triplice eredità, che noi dobbiamo mettere a frutto, data dai termini socialismo, anarchismo e comunismo, che vanno unificati. Cosa significa il termine socialismo? Riformare la società. Comunismo? Creare una comunità umana. Anarchismo? Dare libertà all’individuo». Eppure lei sembra non amare il temine socialismo: «È vero, ma perché si è molto degradato, in entrambi i sensi, sia in quello sovietico, trionfo del socialismo totalitario, sia in quello della socialdemocrazia che è rimasta senza fiato ovunque abbia governato».
Non usa mezzi termini questo studioso rigoroso in I paladini della speranza, saggio del 1993 di stupefacente attualità: aldilà della parola socialismo che forse è divenuta poco «raccomandabile» invita subito a ricordare ciò che «resta e resterà», ovvero le aspirazioni al tempo stesso libertarie e di fraternità, alla fioritura umana e a una società migliore. Ha sempre respinto il LA unificatore della sinistra. Per quale motivo? «Perché occulta le differenze, le contrapposizioni e i conflitti all’interno della sinistra, nozione complessa, che comporta in sé unità, certo, ma anche concorrenze e antagonismi».
Morin continua a rivendicare di essere rimasto uomo di sinistra, coerente non solo nel ritenere mai venute meno le parole d’ordine della rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité ma anche considerandole strettamente legate l’una all’altra. Su di sé così ironizza: «Sono un gauchista di destra». Cosa intende dire? «Che mi definisco di destra perché ho un senso molto acuto del rispetto delle libertà, ma al tempo stesso di sinistra per via della mia convinzione che la nostra società richieda riforme acute e radicali».
Il filosofo della complessità prosegue tracciando un bilancio dei successi e degli insuccessi della sinistra che, a suo avviso, ha lasciato molto spesso da parte il sentimento della solidarietà. La «sua» sinistra mostra di avere bisogno non tanto di calcoli su maggioranze elettorali, ma prima di tutto di una iniezione di sentimento: lo spirito di solidarietà. Difende una democrazia partecipativa: «Deve pur esistere, quale complemento alla democrazia parlamentare e istituzionale, una democrazia di base che possa controllare, o decidere di certi problemi come la costruzione di un’autostrada o l’installazione di una fabbrica». Quali modalità proporrebbe? «Purtroppo non ho una soluzione magica. Si corre il rischio che i diretti interessati donne, anziani, giovani, immigrati non vi prendano parte. La popolazione tutta andrebbe educata alla democrazia partecipativa, sarebbe utile anche potenziare le università popolari, che fornirebbero ai cittadini nozioni di scienze economiche, politiche e sociali». Cosa intende per concezione neoconfuciana che a suo avviso andrebbe adottata nelle carriere dell’amministrazione pubblica e nelle professioni che comportano una missione civica, quali quelle degli insegnanti e dei medici? «In primo luogo promuovere una modalità di reclutamento che tenga conto dei valori morali del candidato, della sua propensione a dedicarsi agli altri, al bene pubblico, a preoccuparsi della giustizia e dell’equità».
Ancora, per Morin «lo svilimento della missione del medico e dell’insegnante in semplice professione, che fa sì che essi non rivendichino altro che aumenti salariali, la sclerosi dei partiti di sinistra, la decadenza dei sindacati hanno svuotato di ogni ideologia emancipatrice il popolo di sinistra». Ne sono conseguenza il razzismo e la xenofobia, «che fra i lavoratori di sinistra non si esprimevano se non in privato, ma erano inibiti nella vita politica visto che votavano per i socialisti o per i comunisti; una massa di ex elettori comunisti vota ormai per Le Pen. Una Francia reazionaria balza in prima linea, inaridita e sciovinista. Accetta, o auspica, il rifiuto dei lavoratori stranieri irregolari».
Il Partito socialista si è rivelato incapace di effettuare uno sforzo di pensiero e si è limitato a stilare programmi zeppi di promesse illusorie. La sua unica speranza è quella di beneficiare del discredito della destra al potere per succederle, una destra che aveva già approfittato dei suoi fallimenti per soppiantarlo. La vittoria di Sarkozy del 2007 va pertanto attribuita essenzialmente alle carenze socialiste, e solo secondariamente alla sua astuzia politica. Ritiene che, seppure sotto forme diverse, la situazione sia la stessa in altri Paesi europei, e in Italia in particolare? «Direi di sì. Il trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto di un Partito democratico incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti, e che vede il suo popolo scomparire in Toscana, in Piemonte e in Emilia-Romagna. Lo stesso avviene in Germania, dove parte degli esponenti socialdemocratici trova rifugio in un linguaggio obsoleto, mentre la destra si lancia nella modernità. E vediamo l’Olanda, Paese della tolleranza per antonomasia, diventare xenofoba e reazionaria».
Se la diagnosi è severa per le sinistre europee, le proposte di Morin appaiono eccitanti quanto un cardiotonico: «siamo in una fase di grande regressione, da cui non usciremo se non prendendo coscienza di essa e dei rischi mortali che fa correre ai popoli, alle democrazie, all’umanità. E dunque, all’erta, svegliamoci!»

il Fatto 12.3.11
La corona littoria
di Nicola Tranfaglia


Gli italiani, tra i popoli europei, appaiono quelli che mostrano maggiore difficoltà a trovare i fili della propria storia e lo si avverte in queste settimane nelle quali sono incominciate le celebrazioni, avversate dalla maggioranza e dalla Lega in particolare, per i centocinquant’anni della nostra unità.
Ma, come era prevedibile, il problema maggiore si tocca quando si parla della dittatura fascista. Il tentativo, durato più di vent’anni di parlarne come di un incidente, o addirittura una parentesi senza conseguenze, ha avuto illustri sostenitori (a cominciare da Benedetto Croce) ma poi ha dovuto cedere il passo all’identificazione di una dittatura nuova e con tratti moderni che non è arrivata per caso, ma sulla base di antichi difetti della nostra unificazione e soprattutto dei governi liberali. Questa dittatura, se è caduta, è stato soprattutto per le vicende militari e l’azione di gruppi minoritari anche se estesi in tutto il paese che hanno lottato eroicamente contro i nazisti e i fascisti insieme con le truppe angloamericane sbarcate sulla Penisola.
SE LA GUERRA non avesse costretto le istituzioni fondamentali della società italiana, il Vaticano e la monarchia sabauda a dissociarsi dal dittatore, questi sarebbe durato altri trent’anni come avvenne puntualmente a Francisco Franco in Spagna e a Salazar in Portogallo. Del resto la Repubblica sociale italiana di Mussolini tra il 1943 e il 1945 era vissuta soltanto come stato satellite e subalterno della Germania di Hitler essendone complice nella deportazione degli ebrei e degli oppositori politici come nella crudele politica razziale. Questa considerazione pone agli storici che continuano a ragionare fuori degli stereotipi problemi di interpretazione e analisi sia del sistema di potere del regime sia del comportamento politico e culturale delle istituzioni che hanno sostenuto e condiviso il potere con il dittatore romagnolo.
Le polemiche sull’atteggiamento dei pontefici e di Pio XII in particolare sono state assai forti e nuovi documenti americani, inglesi e italiani che pubblicherò nel prossimo autunno accresceranno ancora lo sconcerto nel mondo cattolico più vicino a quel papato.
Ma c’è un’altra istituzione politica che ha avuto un ruolo decisivo nell’instaurazione e nella sopravvivenza della dittatura e ha fatto bene Paolo Colombo a dedicare un saggio analitico e puntuale a La monarchia fascista 1922-1940 (Il Mulino editore, pagine 264, 25 euro) che ricostruisce con precisione il processo attraverso il quale venne instaurata la diarchia di fatto tra il dittatore romagnolo e Vittorio Emanuele III, il funzionamento che si stabilì successivamente con le leggi fascistissime e la progressiva cancellazione di norme fondamentali dello Statuto Albertino, il contrasto sempre maggiore tra il cerimoniale monarchico e la liturgia di regime fino allo scontro aperto e al crollo della dittatura nel periodo culminante della Seconda guerra mondiale.
L’autore si ferma al 1940 quando l’Italia entra in guerra al fianco di Hitler e dimostra con pagine di grande chiarezza come Vittorio Emanuele III avesse abbracciato armi e bagagli la veste della monarchia fascista di cui restano testimonianze dirette e incontestabili come quella del fascista Giuseppe Bottai che nel 1938 scrive una considerazione difficilmente contestabile chiusa da un interrogativo in parte retorico: “Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati? “
LO STORICO delle istituzioni sottolinea “la natura profonda di un dilemma che pare difficile sciogliere in maniera definitiva: vediamo il fascismo cercare di impadronirsi dell’impianto di feste e celebrazioni costruito nel tempo dal sistema liberale con infissa bene nel centro la dinastia del padre della patria e il suo apparato simbolico: ma vediamo il re prestarsi in innumerevoli occasioni al gioco propagandistico del regime.
È il fascismo che sta fagocitando la monarchia o è quest’ultima che si rivela capace di garantirsi una visibilità pubblica e l’indispensabile flusso di vitali risorse simboliche avvalendosi dei canali comunicativi approntati dal governo di Mussolini?”
L’esposizione dei fatti dimostra in maniera difficilmente contestabile che la monarchia diventa a tutti gli effetti una dinastia del fascismo trionfante dal momento in cui il sovrano sabaudo nega al presidente del Consiglio liberale Facta la firma al decreto di stato d’assedio per la progettata marcia su Roma fascista del 28 ottobre 1922 e prosegue negli anni successivi con alcuni scontri simbolici come quello che si verifica subito dopo l’impresa di Etiopia e la creazione dei primi marescialli dell’impero che vedono Mussolini e il re appaiati nella nuova carica di regime.
Ma le scaramucce tra i due giungono allo scontro mortale soltanto quando la guerra è persa, gli angloamericani sbarcano in Sicilia e nel Lazio e i gerarchi fascisti, appoggiati dal re e dal Vaticano, tolgono la fiducia nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 a Mussolini come comandante supremo delle forze armate fasciste. Ed è così che dopo ventuno anni che la complessa diarchia alla fine crolla e il regime cade clamorosamente.

il Fatto 12.3.11
Colpa di Eva
di Massimo Fini


Non si sa per quale ragione, disturbo della psiche, perversione mentale sia venuto in testa al dispettoso Iddio la bizzarra idea di affiancare nel Paradiso Terrestre, infima enclave nell'immenso, asettico, sterile e perfetto Universo, ad Adamo, che ne era stato fino ad allora l'unico abitante, Eva. Eva la civetta, Eva la maliarda, Eva la lasciva, Eva la fedifraga, Eva la curiosa. Adamo, tontolone come tutti i maschi, si sarebbe accontentato di qualche partita fra Cherubini e Serafini e in Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) fra gli Angeli Superiori. Anche se, doveva ammetterlo, non erano molto divertenti perché quelli non facevano un fallo neanche a morire e comunque le partite dovevano finire sempre in parità perché il Supremo non voleva che qualcuno insuperbisse. La cosa era diventata più interessante quando il bellissimo e orgoglioso Lucifero, con un manipolo di Angeli ribelli, si era rivoltato contro il Dittatore ed era stato precipitato negli Inferi (“Meglio esser primi in Inferno che in Ciel servire”, Paradise Lost). Capitava allora che un paio di volte l'anno venissero su a giocare gli Angeli decaduti ed erano botte da orbi, fallacci, entrate col piede a martello e orribili bestemmie. E, anche con la squadra decimata per le espulsioni, riuscivano a vincere. Ma il Supremo, che faceva l'Arbitro, ribaltava a suo piacimento il risultato. Era o non era l'Onnipotente? Ma ad Adamo le cose andavano bene anche così. In fondo Dio lo lasciava libero di fare ciò che voleva. Gli aveva posto un unico divieto: non mangiare la mela di un certo albero. Ad Adamo le mele facevano schifo e in ogni caso non si sarebbe mai sognato di disubbidire a un ordine di Dio. Eva invece era inquieta, si annoiava, a lei le partite e in genere i giochi con la palla, oggetto dalla forma rotonda di cui non capiva l'utilità e l'impiego, non erano mai interessati, Adamo non le prestava molta attenzione (preferiva masturbarsi di nascosto, peccato veniale, tollerato, non essendo ancora prevista la procreazione), in quanto alla contemplazione, sia pur delle meraviglie del Paradiso Terrestre, non era affar suo. Venne il serpente e la tentò. In verità, per l'occasione, Lucifero aveva ripreso le forme del fascinoso ragazzo che era, decisamente maudit. “Resisto a tutto, tranne che a una tentazione” disse lei ridendo e con i bianchi dentini cominciò a sbocconcellare la mela. Ma è mai possibile, perdio, che con tutte le mele che c'erano in quel Giardino dovesse addentare proprio quella, la mela dell'Albero della Conoscenza? Adamo si precipitò da Dio e inginocchiandosi davanti a Lui chiese perdono. Ma il Supremo, che era un po' stronzo, non volle sentir ragioni. “Cosa fatta capo ha” disse e buttò i due fuori dal Paradiso Terrestre. Da lì, dalla conoscenza, sono iniziati tutti i nostri guai. L'uomo è l'unica bestia del Creato a essere lucidamente consapevole della propria morte. E il virus della conoscenza lo spinge verso una ricerca inesausta che non ha mai fine né senso. Scopre il neutrino e crede che sia la particella ultima della materia, senza rendersi conto che, come nel forziere di Paperone, dopo il neutrino si aprirà un'altra botola e poi un'altra ancora e così all'infinito. Ravana nel Dna illudendosi di arrivare alle origini della Vita e non ha introiettato nemmeno l'insegnamento di Eraclito, che la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e che man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana (“Tu non troverai i confini dell'anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”). E così, per quel morso sciagurato di Eva, ci siamo condannati all'eterna infelicità.

La Stampa Tuttolibri 12.3.11
Claudio Pavone: “È stato Ettore il mio primo eroe garibaldino”
Le interpretazioni del Risorgimento, «conteso» tra fascismo e Resistenza, nella testimonianza dello studioso «azionista», oggi novantenne
di Alberto Papuzzi


Risorgimento e Resistenza. O Resistenza come secondo Risorgimento. E' una complessa questione storica, e politica, che torna d'attualità con le celebrazioni per i centocinquant’anni dell'Unità d'Italia. Perché Radio Monaco e Radio Londra trasmettevano entrambe l'«inno di Garibaldi», Va’ fuori d’Italia, va’ fuori stranier? E come mai il Movimento comunista d'Italia, piccolo gruppo antifascista romano, invocava «l'epopea del Risorgimento»? Lo storico ed ex resistente Claudio Pavone, che in novembre ha festeggiato i novant’anni, ha scritto intense pagine su questi temi sia in Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991), sia nel saggio Le idee della Resistenza ripubblicato nel volume Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) e di recente dalle Edizioni dell’Asino, dopo essere apparso mezzo secolo fa sulla rivista Passato e presente . Ora esce, sempre da Bollati Boringhieri, con il titolo Gli inizi di Roma capitale , una raccolta di saggi, anch’essi degli Anni Cinquanta, sull’inserimento di Roma e del Lazio nello Stato unitario.
Il suo è lo sguardo di un «azionista postumo», come si definisce, nel senso che non è mai stato azionista, ma alla fine di un lungo percorso l’azionismo gli sembra interpretare l'atteggiamento di quella minoranza illuminata e influente che però non è mai riuscita a esercitare il potere politico. L'8 settembre, a Roma, aveva preso contatto coi socialisti, venendo arrestato già alla fine di ottobre. Uscito alla fine di agosto 1944 dal carcere di Castelfranco Emilia, militò in un piccolo gruppo milanese, composto soprattutto da intellettuali e appartenente al Partito italiano del lavoro che aveva la sua base in Romagna. Quindi il confronto col Pci: «Sono stato per molto tempo rispetto ai comunisti o un compagno di strada o un utile idiota, dipende dai punti di vista». Vide nel Sessantotto «una riapertura del campo del possibile», si unì al gruppo di Democrazia Proletaria e strinse rapporti molto forti con Vittorio Foa, che divenne il suo principale punto di riferimento. Conclusasi l'esperienza, rientrò nella posizione di indipendente di sinistra.
Professor Pavone, qual era il significato attribuito al Risorgimento dagli antifascisti?
«Il Risorgimento era al centro di vivaci discussioni. Giustizia e Libertà , giornale dell’omonimo movimento che si stampava a Parigi, ospitò nel 1935 un importante dibattito sul tema. Il punto era questo: perché l'Italia, nata dal civile Risorgimento, ha poi dato vita al fascismo, divenuto il prototipo della moderna barbarie, che per di più pretendeva di rappresentare la provvidenziale conclusione del Risorgimento stesso. Era dunque necessario riesaminare ombre e luci di quel grande momento della nostra storia. Si trattava di contrapporre alla interpretazione fascista una interpretazione democratica e critica a un tempo. Parteciparono alla discussione Carlo Rosselli, Franco Venturi, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Umberto Colosso. Per Benedetto Croce, invece, il Risorgimento più che essere passato al setaccio della critica doveva essere soprattutto difeso: in questo manifestava una contrapposizione generazionale. Il dibattito agitava anche i comunisti: Togliatti scrisse nel 1931 su Stato operaio un violentissimo articolo contro GL, che egli temeva potesse conquistare l'egemonia dell’antifascismo. Il “cosiddetto Risorgimento”, scriveva Togliatti, era un “mito” che alle orecchie piccolo-borghesi di GL suonava “come la fanfara per gli sfaccendati”. Ma dopo il VII Congresso dell'Internazionale nel 1935, che varò la politica dei fronti popolari, da cui scaturì quella dell’unità nazionale antifascista, il Risorgimento non poteva non essere recuperato politicamente e culturalmente. Il pensiero di Gramsci, ovviamente sconosciuto durante la Resistenza, consentirà poi alla cultura comunista di elaborare una ben più complessa interpretazione del Risorgimento. Ma già durante la lotta antifascista era stato dato il nome di Garibaldi alle brigate combattenti, prima in Spagna e poi in Italia».
Ma era fondata l’idea della Resistenza come secondo Risorgimento?
«Da un punto di vista storiografico è indubbiamente una forzatura, ma occorre interrogarsi sui vari significati che allora la fortunata espressione assunse e sulla influenza che ebbe. Dei quattro santi padri - Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II - Garibaldi era di gran lunga il più popolare. Il primo numero dell’ Unità , uscito dopo l'8 settembre, aveva in prima pagina a grandi caratteri “Torna Garibaldi”. A Milano sotto il monumento si trovava scritto: “Peppin, vien giò, che i son a mo’ chi”».
Anche il fascismo cercò di usare la retorica risorgimentale? Garibaldi e Mazzini sono stati, per così dire, anche due eroi fascisti?
«Esisteva, come ho già ricordato, una interpretazione fascista del Risorgimento, di cui Mazzini, soprattutto dopo l'8 settembre, fece le spese. Su un francobollo della Rsi figurava l'immagine di Mazzini, mentre avrebbero stonato quelle di Garibaldi e di Cavour. Di Vittorio Emanuele II, nonno del re fellone, neanche a parlarne».
Ora che ha compiuto i novant’anni, che cosa ricorda per esempio delle sue letture giovanili?
«Premetto che io sono molto lento e purtroppo lo sono stato anche nel leggere. Delle prime letture ricordo quelle canoniche di Salgari e Verne, ai quali aggiungevo una grande passione per la storia delle scoperte polari. Un libro ebbe per me una importanza particolare: Le storie della storia del mondo di Laura Orvieto, dove imparai a conoscere la guerra di Troia. Naturalmente parteggiavo per i troiani e rimasi male quando al liceo un professore molto fascista ci spiegava che Ettore era un eroe piccolo-borghese (l'addio ad Andromaca? Piagnistei) e che Achille era invece un vero eroe, una sorta di superuomo. Questo professore aderì poi alla Rsi, ricoprendovi un importante incarico. Mio padre, antifascista rassegnato, era innamorato di Dickens e mi trasmise questa passione. Ma la forma d'arte da me prediletta era la musica».
«Una guerra civile», il suo opus magnum, poggia su una ricca bibliografia anche letteraria: se lei dovesse consigliare a un giovane delle opere narrative per capire la Resistenza, che cosa gli consiglierebbe?
«Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Il partigiano Johnny di Fenoglio».
«Vittorini, Uomini e no …»
«Lo considero meno schietto. E poi mi dà fastidio quell'altezzoso “e no”, ai confini col razzismo: forse che i fascisti non erano anch’essi uomini?».
Lei ha insegnato storia contemporanea a Pisa: come considerava e continua a considerare l’uso di fonti letterarie per la storia?
«Lo considero fondamentale. Dicevo ai miei studenti: se volete studiare la campagna di Russia di Napoleone, leggete prima Guerra e pace . Oggi direi: se volete studiare la guerra in Russia durante il secondo conflitto mondiale, leggete prima Vita e destino di Vasilij Grossman, centrato sulla battaglia di Stalingrado».
Potrebbe dirci qualche libro che ha esercitato un’influenza decisiva nella sua formazione?
«In chiave storiografica, Pensiero e azione di Luigi Salvatorelli che fece capire a me e molti della mia generazione che il Risorgimento non era quello che ci insegnavano a scuola. Nel campo dei massimi problemi, e lo dico con la timidezza che suscita il nome di Kant, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica . Nella mia prima giovinezza ero stato un cattolico sempre in cerca di prove inconfutabili dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo e della legge morale. Kant, dimostrandomi che non c'era né in un caso né nell’altro bisogno di Dio, mi fece uscire da quello che era diventato per me un vero tormento».
Lei si è laureato in giurisprudenza ma ha studiato anche filosofia?
«Subito dopo la guerra mi iscrissi a filosofia, anche per obbligarmi a riprendere un organico percorso di studi. Ebbi due ottimi docenti in Guido De Ruggiero e, all'estremo opposto, Ugo Spirito. Entrambi avevano una grande capacità di dialogare con gli studenti. Naturalmente l'affinità intellettuale e politica mi legò molto di più a De Ruggiero. Ma ricordo che in un seminario di Spirito ebbi una discussione molto accesa sul concetto di lavoro: lui sosteneva che pensare e lavorare erano la stessa cosa, io lo negavo recisamente. Pochi giorni dopo sostenni l'esame, presi trenta e lode e una collega commentò: “Io pensavo che dopo quella litigata ti avrebbe bocciato”». Un’ultima cosa: qual è il libro che non si può fare a meno di leggere? La Divina Commedia ».

Corriere della Sera 12.3.11
Crocifisso, davanti al nostro caos sarà Strasburgo a mettere Ordine
di  Marco Ventura


Il 18 marzo prossimo, alle tre del pomeriggio, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo renderà pubblico il giudizio sul ricorso del governo contro la sentenza del 2009 che ha condannato l’Italia per l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule delle scuole statali. È possibile che la Corte di Strasburgo rovesci la decisione di primo grado e affermi che l’Italia ha tutto il diritto di obbligare studenti non cattolici a studiare sotto il crocifisso. Sarebbe la grande vittoria del governo, della Santa Sede, dell’episcopato cattolico e di chi ci ha più sostenuto nella battaglia contro l’Europa laica e senz’anima: la Russia di Putin e i fondamentalisti americani. È anche possibile che i giudici europei si schierino con i colleghi che, all’unanimità, hanno condannato Roma. Sarebbero allora i laici alla francese e i militanti atei a brindare. Insieme ai tanti per cui il crocifisso non deve essere imposto dallo Stato ma scelto da chi crede. Due sbocchi meno radicali sono anche possibili. Il primo consisterebbe in una condanna dell’Italia, ma non del crocifisso. L’Italia sarebbe condannata perché impone il crocifisso a tutti gli alunni, ma il crocifisso potrà restare se si istituiranno procedure per ascoltare studenti e famiglie a disagio. È la soluzione adottata in Baviera, quando la Corte costituzionale bocciò l’obbligo di crocifisso in Germania. Il secondo sbocco meno traumatico consisterebbe in un’assoluzione con riserva. La Corte non ci condannerebbe, ma censurerebbe il pasticcio giuridico frutto delle nostre ambiguità: uno Stato laico ma anche cristiano-cattolico, giudici contro il crocifisso ma anche a favore, Parlamento e Corte costituzionale imbarazzati, norme confuse. Nell’udienza dello scorso giugno, incalzato dal giudice inglese, il povero rappresentante del governo balbettò che il nostro diritto «non è chiaro» , e assicurò che si sarebbero trovate soluzioni per gli studenti non cattolici. Davanti al nostro caos, i giudici europei potrebbero assolverci con riserva: tenetevi il crocifisso, però garantite tutti con norme e procedure rigorose.

La Stampa 12.3.11
Israele e il risveglio arabo
di Arrigo Levi


Amos Oz e Sari Nusseibeh, due delle più alte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come un mago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un tale miracoloso evento.
Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nella West Bank, della rivolta popolare che ha già investito Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Arabia Saudita e in futuro chissà chi altri. Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è il momento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta in moto il negoziato di pace. Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei due Stati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione di Netanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenza militare sul Giordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremoto politico che si è verificato e di cui non abbiamo visto la fine».
Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale, ha finora ignorato, in tutti i Paesi coinvolti, una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttosto passivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere in Egitto e in Giordania. Ma non sembra proprio temere per il suo futuro. Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettiva meno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente un accordo di pace con i palestinesi.
Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista. Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte. La proposta di qualche giorno fa del Ministro degli Esteri britannico William Hague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il solo Paese che possa portare Israele al tavolo di un nuovo negoziato.
Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come il motivo dominante della «crisi del Medio Oriente». E forse non lo sarà per molto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi?
E tuttavia, gli Ebrei (che sono tornati a Gerusalemme dopo aver continuato per due millenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «la Palestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo non meno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni. Tuttavia, dice Nusseibeh, che è il discendente di una stirpe aristocratica dominante da secoli a Gerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò è molto doloroso. Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggere dolore all'altro».