martedì 8 marzo 2011

La giornata internazionale delle donne si celebra dal 1977. Venne indetta dalle Nazioni Unite che riconobbe «gli sforzi della donna in favore della pace e la necessità della piena e paritaria partecipazione alla vita civile e sociale».Pane e rose Nel 1908 a New York decine di migliaia di operaie protestarono con una marcia per ottenere lavoro e paga più dignitosi, per il diritto di voto e l’abolizione del lavoro minorile. Lo slogan era «Bread and Roses»: il pane e le rose.

l’Unità 8.3.11
La giornata delle donne è anche in onore delle lavoratrici uccise nel rogo di Manhattan
A ricostruire le identità di quelle ragazze, molte italiane, è stato il ricercatore Michael Hirsch
Cancellate per un secolo Ora hanno un nome le operaie di New York
Un ricercatore ricostruisce le identità delle vittime del rogo di New York: era il 25 marzo del 1911. Nell’incendio persero la vita 129 donne e 17 uomini. Molte di loro erano poco più che bambine.
di Viviana Devoto


Erano operaie sbarcate a Ellis Island, giovani immigrate e senza documenti, intimidite dalle già severe regole dell'America delle opportunità. Il fuoco fu così violento che impedì il riconoscimento delle identità, lasciando ai parenti soltanto la certezza dei letti vuoti, senza un ritorno dopo le dodici ore di lavoro. Era il 25 marzo. Morirono 129 donne e 17 uomini nel rogo della fabbrica Triangle Shirtwaist, che produceva tessuti di media qualità nel cuore di Manhattan, nel 1911. Morirono come topi, chiuse a chiave nello stabilimento dai padroni che temevano potessero allontanarsi o rubare. Alcune per sfuggire alle fiamme si lanciarono dalla finestra. L'incendio aprì uno squarcio, doloroso e tragico, nella “Mela” pre New Deal. Mostrò di colpo, di colpo come una vampata, le condizioni di lavoro alle quali erano costretti gli immigrati, italiani, russi, rumeni, scampati ad altre miserie e accecati dall’“oro” americano.
NOMI SCONOSCIUTI
Un secolo dopo, a ridare volto ai nomi sconosciuti all'indifferenza della cronaca, un ricercatore che si appassionò a quell'elenco di corpi carbonizzati dal fuoco e dalla storia. Michael Hirsch ha scoperto che alcune vittime vivevano nel suo quartiere e si è improvvisato rabdomante di memorie facendo la spola per anni tra il cimitero di Evergreens, al confine tra il Brooklyn e Queens dove le vittime sono state sepolte, le case dei parenti di quarta generazione (spingendosi fino in Arizona, a intervistare la nipote di una vittima di origine siciliana, Maria Giuseppa Lauletti) e gli archivi del tempo che raccontavano di quel fuoco in un "tranquillo, assolato, pomeriggio di marzo" e vicino all'orario di chiusura della fabbrica.
LA RELAZIONE DELLA CROCE ROSSA
Non fu facile, anche perché il più attendibile documento prodotto dopo la tragedia, la relazione della Croce Rossa, era appositamente impreciso nel tentativo di proteggere l'anonimato delle famiglie che ricevevano in nero i pagamenti in contanti. Con i nomi di Max Fiorin, Fannie Rosen Dora Evans e Josephine Cammarata, l'elenco delle 146 vittime è ora completo: «Riteniamo che la sua lista sia il migliore documento mai prodotto sulla questione», spiega Curtis Lyons, direttore del Centro per Kheel Labor-Management Documentazione e Archivio della Cornell University, che protegge uno degli archivi più approfonditi circa il "triangolo del fuoco".
Il 25 marzo la città ricorderà l'episodio della storia che denunciò gli anfratti avidi dell'inizio della rivoluzione industriale in America: il loft a un passo da Washington Square dove lavoravano cinquecento impiegati prese fuoco lasciando soltanto le finestre all'ottavo e nono piano dell'edificio come unica via di scampo.
«Il rogo è stato uno degli eventi più straziante nella storia di New York, un incendio che ha avuto una profonda influenza su codici di costruzione, le leggi sul lavoro, la politica e l'inizio del New Deal due decenni più tardi», commenta il New York Times ricordando il corteo commosso di cittadini dopo la tragedia.
DALLA MIA FINESTRA...
Il lavoro appassionato di Hirsch, che ricorda la puntigliosità di Elio Petri nel raccontare la tragedia delle duecento giovani in coda per un posto da dattilografa in “Roma ore 11”, era diventata un’ossessione, un dovere: «Dalla mia finestra, vedo le scale che Lizzie Adler aveva probabilmente sceso per andare in fabbrica il giorno del fuoco». Il rapporto del Dipartimento del Lavoro americano rileva numeri che cento anni dopo non confortano, rispetto allo sfruttamento di operai immigrati: il 67% delle fabbriche di abbigliamento di Los Angeles e il 63% delle fabbriche di abbigliamento di New York violano salario minimo e le leggi di lavoro straordinario. Altre Lizzie resteranno anonime.

l’Unità 8.3.11
«Uomini, tocca a voi. Ribellatevi a Berlusconi e alla sua orgia di Stato»
Come il marito, Josè Saramago, Pilar del Rio lancia una sfida pubblica: «Cari maschi non accettate che un Paese sia infangato da un uomo con problemi di autostima. Scendete in strada per dire basta. Saremo con voi»
di Pilar Del Rio Saramago


Un giorno, anni fa, lo scrittore portoghese – e anche italiano, perché no? – Josè Saramago lanciò una sfida pubblica: che gli uomini uscissero in strada, solo gli uomini, per dire alto e forte che loro non maltrattavano le donne, che non accettavano la vessazione come moneta di scambio nelle relazioni fra generi.
Aggiunse che se le donne sono le vittime, sono gli uomini ad avere il problema perché sono gli uomini a maltrattare. Proprio per questo gli uomini rispettosi, quelli che trattano le donne come loro stessi vorrebbero essere trattati, devono farsi sentire senza sosta per non essere confusi con gli altri: quelli che ancora non si sono resi conto né delle dimensioni del
loro crimine, né di quanto diventano sporchi nell'ignorare che le donne non sono cose e hanno pienezza di diritti: possono dire «io» senza che nessuno le uccida, le disprezzi o le segreghi. Uguali davanti alla legge, uguali nei diritti e nei doveri, tanto in casa quanto nel lavoro e nel governo comune della società.
Ebbe successo, Saramago: in varie città – Sevilla e Montevideo in testa – migliaia di uomini rispettosi ed educati uscirono per strada condannando il flagello sociale dei maltrattamenti e denunciando l’uso che della donna fanno certi mezzi di comunicazione, condannando un certo modo di sentirsi uomo, meglio sarebbe dire maschio, un modo assolutamente incompatibile con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
In quelle manifestazioni il nome di Berlusconi era presente. Non per gli scandali, né per incidenti come quelli che gli sono occorsi di recente, ma per l'indecenza del suo comportamento civile e l'assenza di etica che lui e i suoi accoliti imponevano come norma nei mezzi di comunicazione dei quali andava impadronendosi. Pubblici o privati che fossero, sempre che la distinzione sia possibile visto che tutti i canali televisivi sono concessioni pubbliche.
Quelle manifestazioni che si ripetono anno dopo anno perché anche le coscienze più dure capiscano che le donne sono compagne e non mercanzia per l'uso personale del maschio e quel messaggio di Saramago, valgono oggi per l'Italia, la Grande Italia di Verdi, che ha visto centinaia di migliaia di donne, come un’immensa bandiera bianca spiegata, in strada per dire no a un modo di governare che non rispetta né gli esseri umani, né i valori che ci hanno fatto progredire lungo i secoli allontanandoci dall’orda e facendoci diventare comunità.
Per questo, e nello spirito che abitava in Josè Saramago e che la sua nobiltà ingigantiva, mi azzardo a suggerire – ora che le donne italiane, compagne nell' anelito per un modo più pulito più giusto e più bello, si sono espresse e si esprimono ogni giorno – che siano gli uomini a uscire per strada, solo gli uomini, per dire a Berlusconi che le loro madri, figlie, spose, amiche, amanti non possono essere trattare così.
Nemmeno per scherzo. Che lo Stato non è un’orgia, che la schiavitù è finita da secoli, che le malattie fisiche e psichiche si possono curare, che un Paese non può essere infangato perché una persona ha problemi di autostima e quella mancanza di autostima la obbliga a collezionare corpi come se i corpi non fossero animati e, tanto spesso, corrotti con lusinghe e minacce.
Sì: gli uomini che non accettano la distorsione democratica come norma di governo, lo sperpero, l'arbitrio e la mancanza di rispetto verso i propri simili. Ecco, quegli uomini non potranno far altro che organizzarsi e scendere per strada per dire ora basta, come hanno fatto le donne italiane.
Quel giorno, speciale e importantissimo, in cui gli uomini scenderanno in piazza per dire di non essere e di non voler essere Berlusconi, noi donne dai lati delle strade li applaudiremo e li riempiremo di fiori. Dopo potremo incontrarci, da pari a pari, per avanzare insieme nel processo di umanizzazione che Berlusconi e i suoi frenarono con violenza, con le peggiori astuzie e i più miserabili artifici.
Uomini, compagni, amici, amanti, mariti, fratelli, padri: se non siete uguali a coloro che ripudiamo, se ci amate e ci rispettate, se partecipate ai nostri sogni di un mondo migliore, ditelo senza paura. Le donne non temono l’orco ne i suoi seguaci: sanno che tutti insieme riusciremo a fare in modo che tornino nelle caverne e tra loro, solo tra loro, liberino i loro istinti, giochino a quel che vogliono, bevano quel che gli va e ridano fino alla fine dei tempi delle loro stupide barzellette. Agli altri, a noi, questi giochi non divertono. Non apparteniamo a quella sottospecie: siamo Italia, la terra di Dante, della poesia che innamora, della musica che consola, anima i nostri corpi ed eleva i nostri spiriti. Siamo la patria dell'arte: lo diremo molto chiaro, in modo che lo capiscano anche coloro che l’abbruttimento ha reso sordi.
Vogliamo, uomini, che siate nostri simili. Vi offriremo fiori quando uscirete per strada per dire che nessuno vi paragoni a quelli che oggi comandano e disgovernano, che voi siete nel presente e nel futuro, siete i nostri compagni dell'anima, amatissimi compagni.

l’Unità 8.3.11
Intervista a Luciana Castellina
«Non date la colpa a Ruby, il Cavaliere offende prima di tutto i maschi»
Luciana Castellina: «Vorrei che la politica tornasse a mettere in contatto mondi diversi, a me il Pci evitò di diventare stupida e cieca»
di Jolanda Bufalini


In questa storia di Ruby e Berlusconi, finisce che la colpa è di Ruby», Luciana Castellina, 82 anni meravigliosamente portati, è in giro per l’Italia a presentare «La scoperta del mondo», “romanzo” di formazione dalle partite a tennis con Anna Maria Mussolini all’impegno nel Pci. Ma fra poco uscirà, sull’onda del successo francese, anche il suo «Indignatevi», per l’editore Aliberti.
Josè Saramago chiese agli uomini di scendere in piazza per dire “Non sono io che sfrutto e umilio”. «È quel che dico anch’ io, nella vicenda di Berlusconi e Ruby mi sembra che la prima identità sessuale ad essere offesa sia quella maschile. Sono loro che dovrebbero essere indignati in prima persona e meraviglia che non si sentano offesi. Andare in piazza in solidarietà delle donne è poco, anche perché va a finire che la colpa di questa brutta storia ricade su Ruby».
In “La scoperta del mondo” c’è una fotografia con la didascalia nonna, mamma, figlia e nipote. E tua figlia Lucrezia ha fatto la prefazione del libro. Una scelta di genere, matrilineare? «È stata Lucrezia a propormi di scrivere e mi ha fatto molto piacere. Ma non ci sono gli uomini della famiglia, me lo ha fatto notare mio nipote, Alfredo Reichlin junior. Eppure la voglia di raccontare mi è venuta proprio dai nipoti. Per loro la mia scelta comunista è una bizzarria e quando sentono che anche il nonno Alfredo era comunista si stupiscono, “non è possibile ... una persona così seria”».
È difficile spiegare la tua scelta di vita, ora che il comunismo non esiste più. «Non c’è mai stato un assassinio della storia come questo, con il passaggio del millennio il Pci è stato espulso dalla storia. E i ragazzi sembrano dei rottamatori, non gli interessano né il passato né il futuro. Il presente è l’unica dimensione e Internet dà l’illusione che non ci sia nulla da scoprire. È drammatico».
Abbiamo iniziato con Saramago, autore di “Cecità”, e nel tuo libro racconti una sorta di cecità e poi la scoperta attraverso l’impegno politico del mondo.
«Il Pci mi ha evitato di essere stupida e cieca. Mi ha fatto incontrare persone diverse da me che non avrei mai potuto conoscere se fossi rimasta chiusa nel mio ambiente, di scoprire la Jugoslavia di Tito e l’Indonesia che combatteva contro il colonialismo olandese. Io mi sento schifosamente fortunata perché la nostra è stata una generazione felice, scoprivamo il mondo perché eravamo sicuri di poterlo cambiare. La prima proposta di Alfredo, come titolo del libro, era “La felicità”. E anche Lucrezia lo scrive: “La nostra è una generazione materialmente più fortunata, ma la vostra è stata felice”». Con il lavoro politico c’è la scoperta persino geografica di Roma: Garbatella, Tiburtino III, Primavalle...
«Nelle borgate, quando avvicinavamo le donne che magari si prostituivano per necessità, questa dimensione mondiale dava il senso di appartenere a un grande movimento. Invece oggi la politica è tornata ad essere un affare di lor signori».
Nel tuo diario adoloscenziale hai trovato un appunto, 8 marzo 1947, Sibilla
Aleramo. Cosa era per te l’8 marzo?
«La nostra è la generazione in cui le donne volevano assomigliare agli uomini, cercavamo di dissimulare la femminilità per essere come loro. È stata Lucrezia a farmi capire, molto dopo, che essere donna non è un disvalore ma un altro valore».
Però tu stessa, ragazza, ti stupisci quando tua mamma, solo nel dopo guerra, si inventa un lavoro. «Mia madre aveva già 40 anni quando ha iniziato a lavorare. E altrettanto incredibile mi sembrò la discussione, nel 1948, sul voto alle donne. Con il passaggio della Seconda guerra mondiale, il cambiamento diventò veloce».
Racconti anche, divertita, un Pci bigotto, molto attento alla moralità delle ragazze. Tu venivi da un ambiente anticonformista.
«Per mia madre i vicini erano “così borghesi!”, nel senso di conformisti. Poi sono stata io a sentirmi dire, nelle sezioni, che ero borghese. Era una connotazione di classe e, secondo me, una diffidenza sacrosanta».
Andasti a costruire la ferrovia in Jugoslavia, dimostrando di non essere da meno dal punto di vista del lavoro manuale.
«Italo Calvino, che faceva le corrispondenze per l’Unità, lo scrisse: “Se pensate che sia uno scherzo sbagliate”.
Italo Calvino...
«Io allora non sapevo chi fosse Calvino ma anche lui non sapeva ancora di essere Italo Calvino». Nelle tue prime avventure comuniste c’erano anche Dorazio e Vespignani, i fratelli Bertelli ... fior di artisti e intellettuali.
«Erano tutti coltissimi e io avevo una grande soggezione, anche questo è cambiato, allora la politica era inscindibile dalla cultura». C’è un altro notevole ritratto di donna nel tuo libro, quello di Anna Maria Mussolini.
«Eravamo in classe insieme e lei era arrogante ma simpatica. Era il terrore del professore, riferiva le cose che sentiva in casa, per esempio il giudizio del Duce su Vittorio Emanuele: “Questo re è un cretino”. Sapeva che non sarebbe stata punita e così, quando succedeva qualcosa in classe, diceva subito: “professore sono stata io”».

l’Unità 8.3.11
Anna Finocchiaro
«Dalle donne alla giustizia il delirio di onnipotenza del premier è senza confini»
La senatrice Pd «Una riforma costituzionale non può scaturire da un risentimento personale. La piazza ha svegliato il Paese apatico»
di Maria Zegarelli


Un filo che tiene tutto insieme», le inchieste e questa riforma annunciata più come una minaccia contro la magistratura che come un intervento per risolvere i problemi veri del paese. Solo che stavolta è cambiato qualcosa, dice Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato: c’è stato il 13 febbraio e quel movimento è più vivo che mai. Risponde anche a chi accusa il Pd di non voler cambiare nulla: «Siamo pronti ad aprire il confronto ma ripartendo dall’idea della Bicamerale: una giurisdizione unica per magistrati ordinari, contabili e amministrativi; un unico organo di autogoverno e il controllo disciplinare affidato ad un’autorità che per selezione e qualità si rifaccia ai criteri della Corte Costizionale». Questo 8 marzo arriva dopo la grande manifestazione del 13 febbraio. Il Ruby-gate e l’uso delle donne da parte del potere, l’inchiesta dalla magistratura e l’annuncio di una riforma “epocale” della giustizia. Tutto si lega?
«Tutto si lega e si tiene insieme grazie alle due ossessioni del premier, le donne e la magistratura. Una riforma costituzionale avrebbe bisogno di un largo consenso e invece viene usata impropriamente come una clava, più volte minacciata e poi ritirata. Stavolta mi sembra che siamo arrivati al passo definitivo e che approderà in Parlamento, ma nel modo peggiore perché una riforma costituzionale non può passare attraverso un risentimento personale».
Finocchiaro, lei è un ex magistrato, dirigente del Pd e il 13 febbraio era in piazza. Praticamente rappresenta tutto ciò contro cui si sono espresse le donne Pdl, definendo quelle come lei «accecate da furore ideologico». «Non sono mai stata mossa dal furore ideologico e non intendo reagire proprio oggi a questa provocazione. Ho però il dovere politico di sostenere alcune posizioni, la prima delle quali è quella che a testimoniare in piazza c’erano donne di diversissime fedi politiche e esperienze di vita. Erano lì per la dignità delle donne frantumata dal premier con i suoi comportamenti. Non capisco come le donne del governo possano sentirsi offese da quelle piazza che invece avrebbero dovuto sforzarsi di capire meglio. L’altra questione è che stavolta i comportamenti personali, ispirati da quel modo di guardare alle donne, potrebbero configurare un illecito penale e il punto su cui il premier salda la sua ossessione sulla magistratura italiana. Qui siamo di fronte ad una visione berlusconiana illiberare del potere e ad un delirio di onnipotenza che ha nei comportamenti privati delle ricadute pesanti anche sul pubblico».
Voi del Pd pensate davvero che possa crearsi un forte movimento di opinione sulla riforma della giustizia? «In questo paese quella che sembrava una sorta di rassegnata apatia, anche motivata dalle condizioni di vita delle persone che riguardano la precarietà del lavoro e la difficoltà a far fronte alla quotidianità, oggi sembra si stia trasformando in voglia di partecipazione, la piazza del 13 e la raccolta di firma del Pd ci hanno dato un segnale molto positivo. Sono convinta che ne arriverà un altro anche con la manifestazione del 12 marzo per la scuola. Penso, quindi, che usando le parole giuste e spiegando quale è la posta in gioco con la riforma della giustizia l’Italia saprà rendersi conto di quale sia il livello di aggressione al sistema democratico che sta lanciando Berlusconi».
Quali sono i punti critici di questa riforma ancora non presentata? «Con questa riforma si ridefinisce il ruolo della magistratura nell’equilibrio costituzionale. Quando si riducono spazi per un potere inevitabilmente ce ne è un altro che prevale, senza il controllo e i limiti che l’esistenza dell’altro potevano constrastare». Facciamo un esempio.
«In questa riforma sembra che ci sia una attribuzione alla polizia giudiziaria e a quella inquirente di uno spazio di autonomia rispetto alla magistratura. Lo capiranno gli italiani che questo significherà una riduzione delle garanzie nel corso delle indagini? Lo sarà necessariamente perché, pur avendo una polizia democratica, è ovvio che non ci saranno le garanzie di controllo oggi esercitato dal magistrato».
C’è chi vi accusa, compreso Fini, di essere conservatori tanto quanto Berlusconi. «Fini fa propaganda al suo movimento politico. Noi non diciamo no alle riforme, diciamo no a questa riforma perché l’innovazione non è quella indicata da Berlusconi che, al contrario, ripercorre un passato di disequilibrio tra i poteri dello Stato. Credo che dovremmo tornare a coltivare l’idea nata nella Bicamerale: giurisdizione unica, un’unica magistratura ordinaria, contabile e amministrativa con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza, con un sistema unico di autogoverno. In questo quadro si potrebbe pensare ad una responsabilità disciplinare di tutti i magistrati affidata ad un organo esterno, con le stesse qualità e garanzie della Corte costituzionale. Le sembra che non siamo disposti a fare le riforme?».

l’Unità 8.3.11
Le donne e gli altri movimenti
8 marzo della dignità e della riscossa
di Barbara Pollastrini


La ragione per festeggiare c'è, siamo di nuovo in tante a rialzare la testa e a pensare che il conflitto se solitario è spesso doloroso, se collettivo può dare persino gioia. In fondo anche gli anniversari sono il simbolo di conflitti. Quasi sempre. Come per quel rogo di NewYork dove 129 lavoratrici persero la vita, rinchiuse dentro la fabbrica da un padrone stanco della mancata produttività! Cinquant’anni prima l’Italia era divenuta uno Stato unitario, in un clima dove delle donne e dei loro diritti non si occupavano che poche avanguardie coraggiose.
Eppure, se rileggiamo il Novecento, la sola vera rivoluzione democratica che ha vinto è stata quella femminile. Dove le donne si sono sollevate, conquistando la parola e una coscienza, lì la soglia della libertà complessiva si è elevata. Viceversa, ogni qualvolta la dignità e l’autonomia delle donne è stata limitata o soppressa, a pagare è stata la società nel suo insieme. Come accade oggi, in angoli diversi del pianeta. Dall’Afghanistan alle dittature che continuano a violare il corpo e la libertà delle donne, assistiamo a una guerra consumata sulla frontiera della dignità femminile. E le immagini di queste settimane, le rivolte che incendiano la costa sud del Mediterraneo, ci parlano di un'insopprimibile domanda di liberazione e di futuro. Ma questo 8 marzo è un passaggio particolare anche per tutte noi. Perché cade a meno di un mese da quelle piazze gremite, di donne e non solo, che hanno segnato lo spartiacque tra un prima e un dopo. In quelle piazze non si è espressa una domanda di decoro. Non erano le voci di un nuovo galateo nei costumi. In quelle piazze c’era l’indignazione verso un potere concepito come arma di pressione, ricatto, negazione di dignità. E c’era soprattutto la spinta nuova verso una combinazione di diritti, economia e democrazia. Perché mai come oggi quelle tre dimensioni coincidono. I diritti di chi non ha un avvenire nel lavoro, nella formazione, nei meriti. I diritti umani e civili come quello al testamento biologico o al voto per i migranti. Il bisogno di pensare a una economia e a uno sviluppo diversi. La qualità di una democrazia che può smarrire il senso della partecipazione e delle regole. L’8 marzo, quest’anno, parla un linguaggio di verità con una mobilitazione come che si ricongiunge a quelle di lavoratori, studenti, ricercatori, ragazzi per la legalità e ovunque tante giovani protagoniste. E' un sentimento di dignità e riscossa che confligge con un premier e una destra per cui proviamo vergogna. Ma confligge più in generale con quel conservatorismo e quelle chiusure che connotano pezzi interi delle élites di questo Paese, ovunque. La traversata è lunga ma possiamo vincere con l'ambizione di cambiare la politica.

Repubblica 8.3.11
Il ritorno dell´8 marzo un futuro rosa è possibile
Potere, cultura e sentimenti i sogni per un´Italia diversa
di Michela Marzano


Si era trasformato in un appuntamento per happy few. Poche persone che, un po´ per abitudine, un po´ per dovere, continuavano a festeggiarlo per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche degli anni Sessanta e Settanta. Proprio mentre la realtà ci stava travolgendo, trasformando le donne in comparse sempre più marginali di un copione per soli uomini. Ma qualcosa è cambiato e questo sembra un nuovo 8 marzo. Le donne sono stanche di ascoltare tutti quelli che continuano a pretendere che il "secondo sesso", più fragile e meno sicuro di sé, non ha altro che la bellezza per farsi notare. Non si accontentano più delle briciole. Vogliono che la situazione, in Italia, migliori davvero. Che la libertà e l´uguaglianza non siano più semplici parole, ma diventino "vita, politica e realtà". Che gli sforzi che tante di loro fanno siano realmente riconosciuti, valorizzati, ricompensati… È anche per questo che, nonostante le minacce e gli insulti, sono state più di un milione a manifestare in tutta Italia il 13 febbraio.
Giovani e meno giovani. Madri e figlie. Eterosessuali ed omosessuali. E che, nonostante le battute sarcastiche di chi non ne vuol proprio sapere di queste "radical chic" che dovrebbero smetterla di creare inutili problemi, saranno tantissime a festeggiare con i propri mariti, amici e figli l´8 marzo di quest´anno in Italia. Spettacoli, conferenze, dibattiti, manifestazioni… Per la prima volta dopo tanto tempo, la festa delle donne non è più solo un giorno per commemorare le lotte e le conquiste femminili, ma un appuntamento centrale per cominciare a trasformare la società. Non più solo un modo per dire "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", ma anche e soprattutto per spiegare quello che vogliamo, sogniamo, speriamo…
A cominciare dal nostro corpo. Non tanto (e non solo) per riprendere gli slogan degli anni Settanta che già sottolineavano l´importanza, per ogni donna, di disporre liberamente del proprio corpo. Ma soprattutto perché, in questi ultimi tempi, il corpo femminile è diventato un vero e proprio campo di battaglia su cui ci si accanisce senza tregua. Come se, per la donna, l´unica possibilità di esistere fosse quella di "incarnare" la perfezione. Certo, esistono come sempre delle eccezioni. Come quando Glamour pubblicò le foto della modella "normale" Lizzi Miller, che sfoggiava con orgoglio i suoi 79 chili. Allora furono centinaia di migliaia le lettrici che scrissero alla redazione del giornale: "Finalmente una donna vera, una come noi!" Ma si trattò solo di un istante di sollievo. Prima di ripiombare nella routine, e soffocare di nuovo sotto il peso delle norme. Essere, apparire, controllare… nel nome delle immagini!
Eppure sarebbe bello "liberare" definitivamente il corpo delle donne. Non liberarsi dal corpo, come hanno preteso per secoli i filosofi. Perché, nonostante tutto, il corpo c´è. È nel corpo e grazie al corpo che ciascuno di noi è nato, vive, muore. È nel corpo, e per suo tramite, che si incontrano gli altri, si esprimono le proprie emozioni, si manifestano i propri sentimenti. Ma liberare per sempre il corpo femminile dalle aspettative e dagli stereotipi di genere. Questa sarebbe la vera libertà. Il primo passo per l´uguaglianza. Indipendentemente dalla dittatura del gusto, dalle ingiunzioni sociali, dalle norme culturali. Per poter scegliere se vestirsi di rosa, di nero o di giallo, non perché "si fa" o di "deve", ma semplicemente perché si ha voglia di farlo. Per decidere se essere conformi o ribellarsi, senza che qualcuno ne tragga immediatamente le conclusioni che impone il bon ton. E smetterla, una volta per tutte, di ridurre la donna ad un semplice corpo-immagine…

Corriere della Sera 8.3.11
Le due piazze delle donne divise da un fiocco
di Alessandra Arachi


ROMA— Niente da fare per l’Otto marzo: le manifestazioni a Roma saranno due. Da un lato il novello comitato «Se non ora quando» , quello che il 13 febbraio ha trascinato nelle piazze d’Italia un milione di persone, in maggioranza donne. Dall’altro i collettivi femministi, quelli che i contenuti della manifestazione delle «donne del 13 febbraio» non riescono proprio a condividerli. Il primo problema nasce subito, dal simbolo: l’idea di un fiocco rosa le novelle femministe non la riescono proprio a tollerarla. Peggio ancora ad ascoltare lo slogan che caratterizza il simbolo della loro manifestazione: «Rimettiamo al mondo l’Italia» . Ai collettivi femministi, questo, fa venire l’orticaria. Daria Colombo sospira: «Che dispiacere. È il vecchio vizio della sinistra. E non solo. Il viziaccio del femminismo: dividersi, proprio quando bisognerebbe rimanere uniti. Io ho scritto un libro dove la divisione di una manifestazione storica allontana la protagonista della politica» . Non c’è bisogno di azionare la fantasia letteraria. Oggi a Roma il movimento delle donne si è diviso, prima ancora di nascere unito. Le «donne del 13 febbraio» si vedranno in piazza Vittorio per rivendicare la dignità femminile, al grido di «né strega né bigotta, né barbie né mignotta» . E i collettivi femministi sfileranno da piazza Bocca della Verità a Campo de’ Fiori, rivendicando i consultori, contestando la legge 40, pretendendo la pillola Ru486. «Ma io sono ottimista: ci ricomporremo. Bisogna andare oltre i distinguo ed optare per la massima inclusione. Io il 13 febbraio scorso ho ascoltato sul palco l’onorevole Bongiorno mettendo tra parentesi il fatto che fosse stata l’avvocato di Andreotti. E non è certo stata una parentesi da poco» . Lidia Ravera oggi sarà in piazza Vittorio, anche se prima sarà la protagonista di un «flash mob» in piazza del Campidoglio. «Sarò vestita da oca, con tanto di piume vere. È simbolico, vogliamo risvegliare la città» , dice Lidia Ravera, spiegando di non aver avuto alcun dubbio a proseguire l’onda del 13 febbraio, un’onda che non si deve interrompere. Anche Ritanna Armeni tifa per l’inclusione, a tutto tondo. «Non mi sono affatto stupita che i collettivi si siano imposti in questa divisione. Sono giovani. Hanno la necessità di far sentire le proprie idee» . Ritanna Armeni non andrà a nessuna manifestazione, oggi. Ma soltanto per motivi pratici. «Avevo degli impegni pregressi. E questo mi ha impedito di pormi il problema a quale manifestazione andare. Tra l’altro penso che siano uguali. E sono convinta che questa divisione durerà molto poco: il movimento delle donne fagocita, include. È molto diverso dall’universo maschile» .

l’Unità 8.3.11
«Giusto mobilitarsi. Dobbiamo fermare la Tienanmen libica»
Il portavoce italiano di Amnesty International:
«L’Italia è un Paese ripiegato su se stesso Pesa troppo l’allarme sull’arrivo dei profughi»
di U.D.G.


La gravità dei massacri in Libia e le difficoltà a costruire una mobilitazione di protesta e solidarietà in Italia. L’Unità ne discute con Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International. Partirei da una sua dichiarazione: «Gheddafi ha paragonato la situazione alla crisi di Tienanmen, mi rifaccio a lui nel dire che in Libia si sono superate diverse Tienanmen per numero di feriti e di morti...». La priorità, ha aggiunto, «è proteggere i civili intrappolati nel conflitto». Ma in Italia c’è sufficiente consapevolezza che il Libia è in atto un genocidio? «Io credo che le informazioni ci siano e abbiano anche contribuito a dare un senso di gravità e urgenza all’azione della Comunità internazionale, Italia inclusa. Questo è un fatto positivo rispetto alle incertezze e alle titubanze riscontrate nei primi giorni della rivolta...». Tuttavia la percezione di questa gravità non ha prodotto una mobilitazione adeguata...
«Da parte delle organizzazioni per i diritti umani la mobilitazione c’è stata, è stata tempestiva e ha contribuito ad ottenere risultati importanti: mi riferisco, ad esempio, al deferimento della situazione libica alla Corte penale internazionale dell’Aja...».
Ma le piazze restano vuote... «Vedo due possibili ragioni tra le molte: la prima, quella di un Paese ripiegato su se stesso, che continua a guardare ciò che accade al proprio interno come se fosse l’unica cosa rilevante; la seconda ragione, che riguarda specificamente la Libia, è che vedo ancora molto imbarazzo rispetto all’approvazione, quasi plebiscitaria, dell’Accordo Italia-Libia. Almeno da oltre un decennio, le istituzioni italiane hanno mostrato accondiscendenza e favore verso il leader libico Gheddafi, scordandosi che in Libia ci fosse un grave problema di diritti umani. Alla luce di questa considerazione, capisco che chiamare alla mobilitazione per i diritti umani in Libia non venga proprio spontaneo, ma mobilitarsi è necessario oggi così come lo sarebbe stato da anni».
In questo ritardo non c’è anche la responsabilità della società civile organizzata? «Su questo posso aggiungere due cose a quanto detto in precedenza: pesa un tema di sottofondo che ritorna di frequente nelle dichiarazioni ufficiali e anche nei mezzi d’informazione, che guarda alle rivolte epocali del Maghreb e del Medio Oriente quasi esclusivamente in termini di “mamma mia, quanti ne arriveranno...”. In questo vedo un regresso generale. Di percezione e non solo. Nel 1989, quando cadde il Muro di Berlino ci fu una grande partecipazione e solidarietà. Non ci chiedemmo quanti tedeschi dell’Est, russi, rumeni, polacchi...sarebbero arrivati. Oggi, nel 2011, succede qualcosa del genere alle porte Sud di casa, e non ce ne stiamo rendendo ben conto”.
In ultimo, vorrei tornare sulle dimensioni del bagno di sangue in atto in Libia. Qual è il quadro che risulta ad Amnesty International?
«Nei primi giorni della rivolta, quando gli ospedali delle principali città erano ancora in grado di registrare i decessi, le vittime si contavano già a centinaia. Poi, secondo le nostre fonti, gli ospedali non hanno più retto e le famiglie hanno iniziato a seppellire i propri cari senza registrarli. Di lì a poco Gheddafi ha fatto un sinistro paragone tra la situazione del suo Paese e quella della Cina del 1989, dicendo che in quel caso la stabilità della Cina era stata più importante dei fatti della Tienanmen. In quel modo ha annunciato uno scenario del genere per la Libia ed è più che probabile che l’abbia superato».

l’Unità 8.3.11
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi


La pace perpetua
Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione

Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente.
Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.

La Stampa 8.3.11
La primavera araba è in rosa
Organizzata via Facebook per oggi al Cairo la “marcia di un milione di donne”
di Francesca Paci


Quando domenica 27 febbraio il premier tunisino Ghannouchi ha ceduto alla pressione popolare e s’è dimesso, Amal Shamel stava preparando la piccante zuppa «shorba» per i suoi quattro figli. «È stato come il giorno in cui Ben Ali se n’è andato: appena ho sentito la notizia in tv ho chiesto a Said, il maggiore, di occuparsi per poche ore dei fratelli e con un taxi ho raggiunto mio marito in avenue Bourguiba» racconta al telefono. Una settimana dopo, nella cairota piazza Tahrir, decine di casalinghe hanno affiancato le rivoluzionarie a tempo pieno come Isra Abdelfatah, in prima linea dal 25 gennaio, per inneggiare al nuovo capo del governo egiziano Isam Sharaf, subentrato a grande richiesta dei manifestanti all’inviso «mubarakiano» Ahmad Shafiq.
Chi avesse tralasciato il contributo muliebre al terremoto mediorientale e magrebino può rifarsi oggi con la «Million women march», il corteo organizzato via Facebook per archiviare con la dittatura l’annesso sistema patriarcale di potere, e che conta di portare nelle vie del Cairo un milione di mamme, mogli, figlie, studentesse disinibite e colleghe velate, la quota rosa della primavera araba.
La partecipazione femminile è la cartina di tornasole della democrazia. «Le donne sono la chiave di quanto sta accadendo nelle piazze arabe» osserva il libanese Nadim Houry, analista di Human Rights Watch. Secondo la direttrice dell’associazione egiziana Nazra for Feminist Studies, Mozn Hassan, lungi dall’unirsi alla protesta, le donne l’hanno concepita: «Prima ancora che cambiassero le cose, sono cambiate loro, noi, e siamo solo all’inizio». Si calcola che almeno tre dimostranti su dieci fossero ragazze.
Il percorso è accidentato. Nessuno lo sa meglio delle protagoniste che al Cairo come a Tunisi, ma anche a Bengasi, Manama, Algeri, Sana'a, Casablanca, sfidano da decenni, nell’indifferenza occidentale, la centralità dell’uomo, covata nel conservatorismo familiare e troppo spesso sublimata dall’opportunismo politico.
«Non posso più accettare la legittimità di una storia che mi consente di restare viva solo distogliendo l’attenzione da ciò che sono» scrive la giovane giornalista tunisina Fawzia Zouari nel racconto «Sherazad ha i giorni contati». Il mondo delle Mille e una notte, con la fascinosa fanciulla che evita la morte ammaliando il sovrano, è per le donne arabe il corrispettivo del reggiseno bruciato dalle femministe nel ‘68. Prova ne sia il nuovo libro dell’autrice libanese Joumana Haddad, «Ho ucciso Shahrazad, Confessioni di una donna araba arrabbiata».
Certo ci sono Paesi più emancipati come la Tunisia, in cui la poligamia è vietata dal 1957 e la direttrice della Biblioteca Nazionale Olfa Youssef discetta regolarmente di teologia islamica in saggi a dir poco polemici con l’ortodossia, o il Marocco, che si è dotato di un codice di famiglia all’insegna della parità dei sessi. Ma, sebbene in misura minore, le cittadine del Bahrein avvolte nell’abaya, quelle yemenite pudicamente a distanza dai cortei degli uomini e le libiche nelle trincee sotto il tiro di Gheddafi, hanno partecipato e partecipano alle proteste per la democrazia mostrando voglia di vivere anziché di morireda martiri.
In Egitto, dove il 42% delle donne è quasi analfabeta e nel parlamento del 2010 ce n’erano appena 8 su 454 deputati, piazza Tahrir ha annullato le differenze di genere. «Le casalinghe c’erano e ci sono, eccome, paradossalmente hanno più tempo delle altre» insiste Dalia, blogger attivissima come Asma Mahfouz, Leil Zahra Mortada, Sanaa el Seif, le firme rosa della controcultura digitale. Da tempo, più o meno platealmente, hanno riscoperto il nome di Huda Shaarawi, la celebre femminista egiziana del primo Novecento: oggi una su quattro lavora fuori casa. Una nuova centralità sociale di cui si sono accorti i Fratelli Musulmani che, seppur mantenendo nel proprio statuto il divieto per copti e donne di accedere alla presidenza dello Stato, accettano volentieri il contributo femminile negli ospedali, nei centri di assistenza, nei gruppi di base su cui fondano la formidabile penetrazione nella comunità.
La rivoluzione politica della primavera araba sovvertirà anche l’ordine sociale, spazzando via con l’autoritarismo il sessismo che sovente l’accompagna? «È presto per parlare di un movimento femminista separato» nota l’accademica del Bahrein Munira Fakhro, candidata alle elezioni del 2006. Vorrà però dire qualcosa se la monarchia saudita, terrorizzata dall’effetto domino e dalla giornata della rabbia indetta per venerdì, si è affrettata a promettere il voto alle donne. Ed è un segno dei tempi che il più agguerrito blog di Gaza, fustigatore della triplice occupazione dei palestinesi da parte di Hamas, Fatah e Israele, sia firmato da una ragazza, Asmaa Aghoul, irriducibile nonostante l’arresto di un mese fa, al punto da aver convocato via Facebook una nuova manifestazione per il 15 marzo.
Le donne arabe stanche del paternalismo patrio quanto della compassione occidentale per la condizione impari imposta dall’islam chiedono rispetto. A tutti, a cominciare dai propri mariti, dai genitori, dai figli. Nella Cairo che, infaticabile, si accinge a scendere di nuovo in piazza nel nome della rivoluzione incompiuta la gallerista Loulia sorseggia un cappuccino nel cuore del quartiere Zamalek e distribuisce agli altri avventori i volantini con i quindici comandamenti della rivoluzione del 25 gennaio: mi impegno a non gettare cartacce in terra,a rispettare il semaforo rosso, a non molestare le donne...

Repubblica 8.3.11
Pd, i veltroniani incalzano Bersani "Addio urne, cambiare linea e leader"
Ma Franceschini e D´Alema blindano il segretario
di Goffredo De Marchis


Il rilancio del patto con il Terzo polo ritenuto inadeguato dalla corrente di Walter Veltroni

ROMA - Il sostegno di Dario Franceschini. Il via libera di Massimo D´Alema. Persino la "simpatia" di Antonio Di Pietro che anziché sferrare il solito attacco al Pd dice: «Penso che Bersani guardi al dopo Berlusconi, con l´obiettivo di una ricostruzione delle basi democratiche. Non ha proposto un´ammucchiata». Dopo l´intervista a Repubblica che conferma l´apertura al Terzo polo e l´obiettivo finale di un´alleanza costituente, il segretario del Pd incassa alcuni apprezzamenti di peso. Ma allo stesso tempo apre ufficialmente lo scontro con la minoranza che fa capo a Walter Veltroni. «Se la linea è quella di stare fermi, faremo poca strada - spiega il veltroniano Stefano Ceccanti -. Perché gli altri partiti si muovono. E si muove anche il quadro generale». Movimento democratico si chiama, giustappunto, l´area creata dall´ex segretario, da Gentiloni e da Fioroni. Quest´area vuole chiudere definitivamente la stagione della larga alleanza. «Senza voto anticipato a breve non ha più senso - insiste Enrico Morando -. Abbiamo bisogno invece di seguire la rotta del Lingotto 2, di un nuovo congresso e di un nuovo leader». Veltroni? «Non è detto», risponde Morando. Ma non è neanche escluso. Un´alternativa che piace in quel campo è Matteo Renzi. Fioroni lo considera una specie di figlioccio.
Per D´Alema è riduttivo leggere le parole di Bersani come una semplice «apertura al Terzo polo. Il segretario rilancia l´idea di un governo costituente per il bene dell´Italia», dice il presidente del Copasir. E non parte, secondo D´Alema, dallo «schieramento politico, ma dai bisogni del Paese. Per questo il ragionamento è giusto». Il capogruppo del Pd alla Camera Franceschini invita tutti a non farsi condizionare dai sondaggi: «Ha fatto bene Bersani a rilanciare la proposta di un´alleanza larga. Non si può ricostruire dalle macerie con una vittoria al 30 per cento. Anche se a vincere fossimo noi». Di Pietro boccia l´intesa con il Terzo polo. «Ma Bersani - osserva - fa un discorso più alto e più complesso: per la ricostruzione ognuno deve fare la sua parte con senso delle istituzioni». Il responsabile Giustizia Andrea Orlando è convinto che «quello di Bersani sia un progetto strategico. L´emergenza non è finita, dobbiamo offrire al Paese una via d´uscita in una fase straordinaria». Va oltre Livia Turco: «Sono d´accordo con il segretario. Ci vuole generosità e bisogna tenere aperto il progetto. E Bersani è il miglior candidato premier».
Ma le critiche non mancano. Tace Casini ma si sa che punta all´autonomia dell´area moderata. Il coordinatore di Fli Roberto Menia chiude la porta a un dialogo con la sinistra, ipotesi che ha già fatto parecchi danni tra i finiani. «La nostra prospettiva è diversa - dice Menia -. Non ci sarà nessun patto del centrosinistra col Terzo Polo». Benedetto Della Vedova è altrettanto netto: «Stiamo facendo un´altra cosa». Per Sinistra e libertà parla Fabio Mussi: «Con il Terzo polo il Paese finisce nelle mani di Berlusconi». L´offensiva vera però partirà dentro il Partito democratico. Modem annuncia una nuova assemblea per il 4 aprile, prima dunque delle amministrative. La tregua interna si può considerare archiviata. «La risposta di Bersani è sbagliata», attacca ancora Morando. E Walter Verini, il dirigente più vicino a Veltroni, chiede un cambio di rotta deciso, altro che rimanere fermi sulle proprie posizioni. «C´è un po´ di tempo a disposizione, il nostro problema oggi è allearci con gli italiani, non con i partiti». Verini pensa che Bersani abbia confuso il capo con la coda. «La coalizione è il punto di arrivo non la base di partenza. Nelle parole del segretario vedo un ragionamento ribaltato».

il Riformista 8.3.11
È già ricominciato l’assedio a Bersani
di Ettore Colombo

qui

il Riformista 8.3.11
Il segretario dei democratici annuncia il sì al referendum
Nucleare
ChiccoTesta: «Un Pd debole sbaglia per paura di perdere Vendola»
di Francesco Persili

qui

il Fatto 8.3.11
Chiesa e fine vita, quante bugie
L’alleanza terapeutica tra Berlusconi e la Chiesa
Ruby val bene un accordo: invocano la salvezza del malato, ma l’unico a beneficiarne sarà il governo
di Marco Politi


La legge sul testamento biologico da ieri in Parlamento non rappresenta lo sforzo di dare una risposta civile ed eticamente responsabile ad un problema delicato. Fotografa, invece, perfettamente la visione commerciale di Berlusconi. Diecimila euro per mantenere buone le squinzie dello staff postribolare di Arcore. Un baciamano a Gheddafi per fare affari con lui. La promessa di un bonus-scuola per ammansire l’episcopato. Il “sondino di stato” per accontentare il Vaticano.
Anche personalità generalmente favorevoli alle istanze della Chiesa come Ferrara e Galli della Loggia respingono la rozzezza di un progetto, che disprezza la volontà del malato. Ma i vertici ecclesiastici, in nome dei “principi non negoziabili”, vogliono l’alimentazione e la nutrizione obbligatoria. Fiat lex, pereat mundus. Si faccia la legge a scapito dell’umanità.
Gli italiani a suo tempo si sono schierati dalla parte di Beppino Englaro, basta riguardare i sondaggi dell’epoca. Un’inchiesta dell’Ordine dei medici (Fnomceo) del 2007 ha rilevato che il 64 per cento di loro concorda sul rispetto della volontà del malato, che non vuole attuare o chiede di interrompere i trattamenti di sostegno vitale.
La società civile si è già pronunciata. Berlusconi se ne infischia poiché vuole pagare questo prezzo al Vaticano. Ruby val bene la sorte di sofferenti anonimi .
Ma nella società mediatica il pensiero totalitario, che non ammette pluralità di opzioni etiche, deve per forza manipolare le parole per creare una parvenza di consensi. Dunque si dice che il coma vegetativo persistente (non stiamo parlando di tre mesi, ma di dieci anni) è una “grave disabilità”. La parola si smercia facilmente, evoca un portatore di handicap che i cattivi vorrebbero sopprimere.
Non è questa la posta in gioco. La Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat) riguarda chi si trova persistentemente privo di conoscenza, impossibilitato a riprendere coscienza e a recuperare una vita relazionale. Nessuno vuole sopprimere nessuno. Ma il cittadino ha il diritto sancito dalla Costituzione di decidere in autonomia se continuare o meno cure, che non cambieranno la sua sorte e si configurano come accanimento terapeutico ad oltranza.
La seconda falsità in circolazione è di far credere che una vera legge sul biotestamento potrebbe stabilire se certe vite sono “degne o non degne” di essere vissute. Hanno usato l’argomento le lobby delle assicurazioni private in America per sabotare il progetto di sanità pubblica di Obama. Il che dimostra quanto sia cinico e menzognero l’argomento. Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta. Ma ogni uomo e ogni donna hanno il diritto di scegliere se prolungare artificialmente una vita vegetativa (o un’esistenza inesorabilmente votata al soffocamento come quella di Welby) oppure accettare il corso della natura.
Il filosofo cattolico Giovanni Reale ha confutato una volta per tutte le falsità di chi agita lo spettro dell’eutanasia per impedire l’autodeterminazione. “Un conto è darsi la morte – ha dichiarato durante le polemiche sul caso Englaro – e un conto è lasciare che arrivi la morte”.
Ma poiché questo è un ragionamento comprensibile e condiviso dalla maggioranza degli italiani, ecco che i fautori della vita forzata scendono in campo con lo slogan dell’obbligatorietà dell’alimentazione e idratazione in quanto “sostegni vitali”. Elemento vitale è anche il sangue, eppure nessuno si sogna di obbligare un cittadino a fare una trasfusione se va contro i suoi principi o le sue scelte. Milioni di nostri nonni e nonne, cattolici e no, sono spirati per secoli serenamente, sussurrando ai loro congiunti di non forzarli più a mangiare e nessuno si è sognato di nutrirli con l’imbuto.
Perché la vera minaccia è che una “civiltà tecnologica totalizzante voglia sostituirsi alla natura” (Giovanni Reale) oppure che – più umanamente – medici terrorizzati da cause di un qualsiasi parente o erede intubino per mettersi al sicuro e si rifiutino di disporre altrimenti.
L’ultima manipolazione delle parole, messa in campo da chi esalta la Vita ma non si occupa mai della “vita durante” (le famiglie in difficoltà, i giovani precarizzati in eterno, i cittadini in azienda privati del diritto di scegliersi un delegato: vedi modello Marchionne osannato dal ministro Sacconi) è l’invocazione dell’ “alleanza terapeutica”. Parola bellissima, che vale tuttavia quando medico e paziente decidono d’amore e d’accordo cosa fare e il paziente non è mai obbligato a sottoporsi ad un’operazione o un trattamento medico o a continuarlo senza limiti.
Qui, invece, nella Santa Alleanza creatasi tra Papi e l’istituzione ecclesiastica, “alleanza terapeutica” vuol dire che il medico può fare l’opposto di quello che ha disposto il malato o chiede il suo fiduciario.
La cura forzata è inquietante come la morte. Nel 2008 la Fondazione Don Gnocchi ha scritto che il “non rinunciare in alcun caso all’idratazione-nutrizione artificiale può rientrare nell’accanimento terapeutico da abuso di tecnica”. Di questo bisognerebbe parlare.

il Fatto 8.3.11
“Fermate subito questa legge sul testamento biologico”
L’appello del Pd in aula: facciamone un’altra insieme


“Fermiamoci, fermatevi. Non approvate un testo anticostituzionale e irragionevole”. Con le labbra serrate e il volto tirato Livia Turco ha lanciato ieri, dall’aula di Montecitorio, l’appello del Partito democratico sul testamento biologico. La legge che spacca l’opposizione è approdata alla Camera per un iter che durerà più di un mese. Il voto finale, infatti, è slittato ad aprile. Il Pd ha annunciato la richiesta di una questione sospensiva, ma all’interno del partito c’è chi chiede la libertà di coscienza sul voto. Idv e Radicali hanno presentato due pregiudiziali di costituzionalità, mentre l’Udc, che in commissione ha votato a favore del ddl firmato dal senatore Calabrò, punta a vedere approvati in aula i suoi emendamenti.
La maggioranza ha puntato su una legge che divide le minoranze per riacquistare un po’ di forza parlamentare e stendere un velo (momentaneo) sul caso Ruby, tendendo una mano verso il Vaticano. Diviso quindi il Pd, ma diviso anche il Terzo Polo, dove l’Api di Rutelli e i finiani hanno a loro volta posizioni diverse: i primi puntano a migliorare la legge partendo dal testo esistente mentre il gruppo di Futuro e Libertà mira ad una “soft law”, un testo leggero, che istituisca una sorta di riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra i pazienti, i loro familiari e i medici.
IL DDL CALABRÒ uscito dal Senato prevede infatti che le dichiarazioni rilasciate dai pazienti non siano più vincolanti e che tutti vengano idratati e alimentati, anche se le volontà espresse in precedenza non lo contemplavano.
“Il testo elaborato dalla commissione Affari Sociali alla Camera rappresenta un giusto punto di equilibrio tra autodeterminazione, diritto dell’individuo e ruolo del medico” ha assicurato il relatore di maggioranza Domenico Di Virgilio, nel primo dei 14 interventi di ieri, auspicando un voto bipartisan. “Siamo davanti ad un testo che limita la nostra libertà. La maggioranza è preda di un delirio di onnipontenza”, ha risposto il relatore di minoranza della legge , Antonio Palagiano. “Il Pdl – ha aggiunto il parlamentare dell’Idv – sta costringendo gli italiani a sottoporsi a idratazione e alimentazioni a subire trattamenti obbligatori. Il testo è incostituzionale”.
É toccato quindi a Livia Turco cercare di fermare l’iniziativa della maggioranza: “Ve l’abbiamo detto nei mesi scorsi, lo ribadiamo oggi: costruiamo insieme una legge condivisa, una legge umana, mite, che sia animata dal sentimento della pietas, che sia rispettosa della singola irripetibile persona, che promuova e valorizzi la relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari, che ascolti la volontà del paziente all'interno della relazione di cura con il medico e i familiari; una legge che non imponga ma che rispetti la persona, che non lasci nessuno solo di fronte alla morte, che combatta la solitudine, che garantisca a ciascuna persona le cure necessarie ma anche la presenza amorevole. E soprattutto rispetti la Costituzione”. L’articolo 32 della Carta prevede infatti che nessuno possa essere obbligato “a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. E continua: “ La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ma una frangia del Pd non è d’accordo con la maggioranza del partito. Beppe Fioroni ha dichiarato in aula che questa legge, prevedendo indirettamente l’esistenza di una dichiarazione di volontà, seppur non vincolante, “rischia di introdurre una forma di eutanasia passiva”.
POI È TOCCATO a ad Antonio Buonfiglio spiegare le ragioni di Fli: “Il ddl sul testamento biologico mostra delle luci, ma in esso prevalgono le ombre. L’esigenza di legiferare è nata dal tentativo di dare risposta a un caso concreto, quello di Eluana Englaro, e il testo risente delle discussioni e delle polemiche che hanno accompagnato quell’evento. Ma, esaurita la fase emergenziale, la discussione deve riprendere con pacatezza e analizzare ogni conseguenza che deriverà dal ddl”. L’arrivo del ddl in aula è stato contestato dall’esterno di Montecitorio con un sit-in organizzato dai Radicali al grido di “aguzzini con i sondini” e “no allo Stato bioetico”.
“Questa è una legge contro il testamento biologico – ha detto Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni – contro la Costituzione e contro la volontà dell’80% degli italiani. L’unica possibilità che questa legge ha di passare è se l’opposizione non farà l’opposizione e se non ci saranno confronti su questo tema nei grandi spazi di disinformazione di Rai e Mediaset” .
Domani toccherà invece alla Cgil, che consegnerà al presidente della Camera, Gianfranco Fini, 5000 firme raccolte tra i medici e gli operatori sanitari durante la campagna “Io non costringo, curo”. C.Pe.

La Stampa 8.3.11
Ho fatto il testamento biologico
di Umberto Veronesi


Io ho fatto il testamento biologico qualche anno fa, e per tre motivi. Per riaffermare le mie convinzioni sulla libertà di disporre della propria vita. Per l’amore profondo verso i miei familiari, che non voglio siano mai straziati dal dubbio sul che fare della mia esistenza. Per il rispetto verso i medici che si prenderanno cura di me. Ho voluto anche renderlo pubblico: «Io sottoscritto Umberto Veronesi, ..., nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione)... Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me...».
Considero il testamento biologico l’atteggiamento più corretto soprattutto verso i medici curanti, cioè verso chi si troverà, concretamente, ad avere la responsabilità terapeutica di un individuo non più consapevole. Nel febbraio 2009 il giurista Stefano Rodotà, argomentando intorno al caso di Eluana Englaro, ha scritto: «Proprio nell’art. 32 il tema della costituzionalità della persona si manifesta con particolare intensità. Dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possono essere previsti solo dalla legge, e tuttavia “in nessun caso” possono violare il limite imposto dal “rispetto della persona umana”. E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, della necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’ indicibile . Nessuna volontà esterna, fosse pure coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di Habeas corpus , a un’autolimitazione del potere».
Il testamento biologico, che certifica la volontà dell’interessato, è quindi lo strumento più adatto a far sì che nessuna volontà esterna possa prevalere. A questo principio si ispirò nel 1997 la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, il cui articolo 9 prevede che vengano tenuti in considerazione «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà». Per quanto riguarda il nostro Paese, il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la bioetica approvò un documento in cui si auspicava un intervento del legislatore volto a obbligare il medico a prendere in esame le dichiarazioni anticipate di volontà e a motivare ogni diversa decisione in cartella clinica. Purtroppo tutto si è fermato per il timore, da parte di chi è contrario all’eutanasia, che proprio il testamento biologico le aprisse un varco.
Così nella primavera del 2010, mentre una perfetta operazione mediatica presentava con grande risalto l’entrata in vigore della legge che organizza e finanzia le cure palliative, alla Camera, dov’è in gestazione la legge sul testamento biologico, passava tra le proteste di pochi un emendamento che inficia gravemente il diritto all’autodeterminazione del paziente: alimentazione e idratazione artificiali non possono costituire oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Se dovessero risultare inutili o dannose, saranno i medici a decidere.
Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio, che è stato effettuato su un campione significativo di 4300 maggiorenni, e realizzato dall’Ispo, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Prima di parlare degli altri aspetti emersi dalla ricerca, mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: «Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere la sua volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe aspettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?».
Ebbene, ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in reparto di rianimazione, a casa), mentre il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la proprio volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/ genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché «la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla», un altro 5% affida la decisione «a una commissione etica di esperti», e un residuo 1% «a un giudice/magistrato». Il brano che pubblichiamo è tratto dal nuovo libro di Veronesi «Il diritto di non soffrire» (Mondadori)

La Stampa 8.3.11
415 d.C.: l’Africa brucia e i cristiani fanno i talebani
Un parallelo tra la tumultuosa epoca di Sant’Agostino e i giorni nostri
di Silvia Ronchey


Chi veniva da fuori si integrò nelle strutture dell’Impero Romano
Influirono anche elementi climatici da un lato e corruzione dall’altro

Tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo l’impero romano era assediato dai barbari: Goti, Vandali, Galli, Unni, Alani, Persiani, Saraceni, Sassoni, Alamanni, Sciti, Ircani, Sarmati, Quadi, Burgundi, Vidini, Agatirsi, Scordisci. Quell’epoca, che gli storici avrebbero chiamato «la Decadenza», fu descritta da un tormentato filosofo nordafricano, Agostino, che assistette al sacco di Roma dei Visigoti nel 410 e lo interpretò come il segno dell’imminente fine di una civiltà e del sorgere di un’altra a lei contrapposta. Pochi decenni dopo Roma avrebbe subito un secondo, ancora più epocale saccheggio, da parte dei Vandali, che la raggiunsero per via d’acqua salpando dalla costa della Tunisia.
Nel frattempo, anche e soprattutto fuori della capitale, le province erano in fiamme, in un incendio etnico e religioso che investiva l’impero mediterraneo e le sue zone di «irradiazione spaziodinamica» che Braudel avrebbe chiamato Mediterraneo Maggiore. Sembrava proprio che si stesse avvicinando la fine del mondo. O, almeno, la fine di un mondo.
Del grande sommovimento etnico cui un tempo gli storici davano il nome di «invasioni barbariche», ma per il quale oggi si usa più correttamente la definizione inglese di Migration Period a sua volta calcata su quella tedesca di Völkerwanderung - «movimento di popoli» appunto -, gli storici hanno voluto scorgere cause a volte tanto bizzarre quanto sorprendentemente attuali. Per esempio il cambiamento climatico - allora di segno opposto all’effetto serra -, secondo alcuni causa dello smottamento a catena di popolazioni. O l’avvelenamento da piombo - all’epoca provocato non dall’inquinamento atmosferico ma dalle stoviglie e dagli utensili -, che avrebbe indebolito le popolazioni cittadine, rendendole più vulnerabili a febbri ed epidemie, incrementate peraltro dall’ampliarsi dei bacini microbici a seguito dei fitti scambi consentiti dall’immensa rete viaria dell’impero tardoantico. Un precedente delle odierne pandemie, virali o batteriche, favorite dalla facilità dei trasporti e dai continui spostamenti nel mondo globalizzato?
Molto più certo e fondamentale il ruolo della Grande Crisi, che nel terzo secolo aveva depauperato l’impero e disintegrato il potere economico con cui Roma controllava, a suon di tributi, le etnie «barbariche» lungo le vaste frontiere geopolitiche della sua influenza. Di questi veri e propri ancorché fluidi stati satelliti il «gendarme mondiale» dell’epoca aveva condizionato le rudi élites, colmandole di privilegi e regalie e garantendo così la propria egemonia imperialistica, espansionistica o difensiva, sul piano militare come su quello economico e sociale.
Dopo la Grande Crisi, le cose cambiarono. E mentre le periferie dell’impero erano devastate da lotte etnicoreligiose e rivolte per il pane, la vita politica e civile della Città Eterna era caduta tanto in basso quanto mai nella sua lunga storia. Ammiano Marcellino raccontò angosciato la lussuria sessualedei nobili, l’avidità dei ricchi, l’inutile vita dei plebei tra alcol e stadio, i loro deprecabili cibi.
Marcellino considerava particolarmente perniciosa per la società del suo tempo una minoranza turbolenta: i cristiani. La loro religione era, secondo lui, troppo assoluta. Trovava pericolosi l’integralismo dei nuovi monoteisti e la loro disinvolta vicinanza con la morte, che non temevano, considerando la vita individuale come eterna. Di recente si è istituito un parallelismo tra il cristianesimo «talebano» che insanguinò il Nordafrica tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo e le frange fondamentaliste con cui l’attuale Islam sembra infiltrare o comunque estremizzare le rivolte nuovamente divampate in quelle regioni del globo. L’anno scorso il film Agorà di Alejandro Amenábar ha narrato i tumulti di piazza nell’Egitto dell’epoca, culminati nel feroce assassinio di una tollerante filosofa, Ipazia, sotto gli occhi della più moderata classe dirigente cristiana rappresentata dal suo allievo Sinesio, in seguito vescovo di Tolemaide nell’attuale Libia. L’assassino di Ipazia, il patriarca cristiano Cirillo, era presentato nel film come un terrorista e i suoi adepti come integralisti islamici, perfino nell’accento.
A un anno di distanza, guardando con sgomento esplodere, dopo i Balcani, dopo il Caucaso, dopo le antiche Mesopotamia e Battriana, oggi Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, anche le tradizionalmente più occidentalizzate nazioni del Nordafrica - l’Egitto di Ipazia, l’Algeria di Agostino, la Libia di Sinesio -, molti sono tentati di pronosticare di nuovo un’apocalittica «fine» del nostro mondo, nel cosiddetto odierno «scontro fra civiltà» come nello scontro tra paganesimo e cristianesimo segnalato da Agostino.
Se l’attualizzazione storica è sempre forzata - per esempio il ruolo di «gendarme internazionale» esercitato da Roma era certo molto diverso da quello degli Usa, impero in senso stretto il primo, mai stato tale il secondo -, non è per questo meno legittima. Se ogni epoca legge la storia antica con gli occhi del presente, è non solo possibile, ma anche auspicabile leggere il presente guardando alla storia antica. Come diceva Tucidide, è a questo che serve la storia: a proporre, attraverso la «diagnosi» dei fatti passati, una «prognosi» di quelli futuri.
Ma gli storici hanno ormai fatto giustizia dello stereotipo della «decadenza». I cosiddetti barbari finirono per integrarsi nei meccanismi di governo e nelle classi dirigenti dell’impero. Alla «caduta silenziosa» della sua parte occidentale nel 476 è opposto oggi il prosperare millenario della «Seconda Roma» fondata da Costantino sul Bosforo: un impero in cui le civiltà in apparente scontro e le religioni in apparente antitesi avrebbero continuato a convivere e a integrarsi a vicenda, creando un ponte tra Oriente e Occidente, tra popoli e tra civiltà.

Repubblica 8.3.11
Cervello
La cultura "salva" l’ippocampo
di Francesco Bottaccioli

Uno studio italiano pubblicato su Human Brain Mapping conferma, usando la moderna imaging cerebrale, che l´educazione scolastica degli anni giovanili interagisce con la trama neurale e protegge dalla demenza
Nel 1996 fece scalpore la ricerca sulle suore americane apparsa su Jama

Una vecchia idea della scienza cognitiva concepisce la mente come un sofisticato programma di elaborazione delle informazioni che "gira" su una macchina, il cervello, alquanto insensibile alla qualità delle attività mentali. Non ci sarebbe cioè alcuna influenza delle attività mentali sul cervello. Secondo questa impostazione se io passo gran parte del mio tempo ad avvitare bulloni alla catena di montaggio oppure a guidare un taxi, oppure a comporre musica, a scrivere libri, a fare ricerca scientifica, la differenza starebbe solo nelle attività svolte e non nella struttura cerebrale di chi svolge quelle attività.
Un lavoro di un gruppo di ricercatori della Fondazione S. Lucia di Roma, primo firmatario Fabrizio Piras, pubblicato su Human Brain Mapping, dimostra invece che c´è una relazione tra gli anni passati sui libri e le caratteristiche ultrastrutturali dell´ippocampo. Quest´ultima è un´area cerebrale chiave sia perché è uno snodo fondamentale del circuito della memoria sia perché intrattiene relazioni cruciali con il cosiddetto asse dello stress, l´asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che è una struttura master di tutto l´organismo. Con l´invecchiamento, l´ippocampo tende fisiologicamente a ridursi di volume, ma soprattutto a cambiare struttura interna, per questo gli anziani tendono ad avere più difficoltà a memorizzare dati nuovi. Ma l´ippocampo è cruciale anche perché è una delle strutture più colpite in corso di demenza. Lo studio dei ricercatori romani dimostra che più alto è il numero degli anni di formazione scolastica e minore è il cambiamento negativo della struttura ippocampale. Sono stati studiati i cervelli di 150 soggetti in buona salute sia tramite Risonanza Magnetica sia con uno strumento più sofisticato chiamato Diffusion Tensor Imaging (Dti). Con la Rm si sono misurati i volumi di varie aree, ippocampo compreso, e con la Dti si è valutato lo stato del tessuto nervoso, la trama delle connessioni tra neuroni. Conclusione: chi ha un livello di educazione scolastica più alto ha anche una trama neuronale ippocampale più compatta. Questo vuol dire che ha mantenuto un buon numero di neuroni, ma anche (e soprattutto) i collegamenti tra loro, cioé le strade su cui circola l´informazione mentale.
Questo lavoro, impiegando strumenti di imaging cerebrale molto moderni, giunge alle stesse conclusioni a cui giunse nel 1996 uno studio che fece scalpore: il cosiddetto Nun Study, pubblicato su Jama. Una ricerca fatta su 93 suore della Congregazione della School Sister of Notre Dame di età compresa tra i 75 e i 95 anni, studiate sia alla loro veneranda età sia quando avevano 20 anni. Come? Analizzando le autobiografie che le monache avevano scritto al loro ingresso in Congregazione(conservate negli Archivi), valutandone la ricchezza ideativa e la complessità grammaticale, si è risaliti al livello intellettuale e linguistico delle giovani suore: l´esame autoptico dei cervelli delle monache morte ha potuto stabilire una relazione diretta tra Alzheimer e scarsa abilità linguistica da giovane. In questo studio, nessuna delle monache con alti livelli linguistici era morta con l´Alzheimer. David Snowdon, epidemiologo e neurologo dell´Università del Kentucky, ideatore del Nun Study, lo sta continuando con 1000 anziani abitanti.
* Pres. onorario Soc. It. Psiconeuroendocrinoimmunologia

Repubblica 8.3.11
Lo scrittore israeliano ricorda Uri, morto in guerra nel 2006
La canzone di Grossman per il figlio perduto


Versi dedicati a una giovane vita perduta, a un dolore per la perdita di un figlio di vent´anni che Grossman - «in quei momenti non domini la mente ti fai delle domande che non ti sei mai fatto prima nella vita», ci aveva confessato settimane fa davanti a un caffè molto zuccherato - ha saputo prendere e portare dentro la sua vita di padre, di scrittore, l´ha portato dentro le sue parole. Grossman ha da tempo smesso di essere solo uno scrittore di grande successo in Israele, è un´icona a cui un´intera generazione guarda come punto di riferimento, per la chiarezza del pensiero e del sentimento che lo anima, con la sua assoluta fedeltà a Israele che riesce a conciliare con la fede altrettanto assoluta nella possibilità di una convivenza pacifica in una Terra tanto difficile.
Per musicare queste liriche si è rivolto a un artista che apprezza in modo particolare, Yehuda Poliker, il più famoso e impegnato musicista pop israeliano che combina i ritmi mediterranei con il rock. Protagonista da trenta anni della scena musicale, Poliker scalò le classifiche nel 1988 con l´album "Cenere e Polvere", primo disco di musica "leggera" a trattare in Israele il tema della Shoah. Poliker ha accettato la sfida e in questi giorni sono state ultimate le fasi di lavorazione: la canzone sarà presentata domani alla Radio pubblica israeliana, dove fra l´altro Grossman iniziò a lavorare prima di trovare il successo come scrittore. L´insieme di note e versi è commovente, ma con un ritmo incalzante che riesce a sottrarre la canzone alla disperazione di fronte alla morte.
«Breve e veloce e spezza il cuore», scrive Grossman, «Eccitata e entusiasta e sprizzante, Scintille. Ma in un attimo sfiorisce e ingiallisce. Perché ai margini già si accende l´estate. Tanto è breve qui la primavera». In ebraico primavera è un sostantivo maschile, e questo permette una migliore identificazione nei versi fra la stagione e il figlio caduto l´ultimo giorno di quella guerra nel luglio del 2006, quando già si stava per firmare il cessate-il-fuoco imposto dalle Nazioni Unite. «E tu ed io sappiamo ed è terribile che solo lei non lo sappia», scrive Grossman, «Quanto breve sia la vita, la breve vita che gli fu data».
«Per me è una poesia che parla della pienezza della vita», dice lo scrittore, «della crescita e della sua fioritura, e certamente della perdita», della fine precipitosa, appunto come le primavere in Medio Oriente. «Mi sono rivolto a Poliker perché in lui, nella sua voce e nella sua personalità, c´è una fusione penetrante e toccante di dolore e gioia di vivere». Poliker ha scritto e musicato testi dolorosi e toccanti nella sua lunga carriera ma questa volta - racconta - scrivere le note è stato davvero molto particolare. «Mi sono molto emozionato quando David si è rivolto a me e mi ha affidato il testo. Mi sono avvicinato alle parole con cautela, era importante che la musica mettesse in evidenza il testo ma senza che si venisse a creare un´altra tipica canzone di lutto». E il risultato è davvero straordinario. La canzone è resa quanto mai attuale e struggente poi dalla primavera gerosolimitana che avanza a grandi passi, con i suoi alberi in fiore nelle strade, le buganvilee colorate rigogliose sui muri delle case, i giardini che emanano quell´odore intenso di aromi che presto, però, la calura estiva porterà via. «Generosa ed eccitata e dolorosa. Tanto è breve qui la primavera».