La Stampa 7.2.11
Le ultime 100 tribù “incontaminate”
In Brasile indios che non hanno mai visto i bianchi: “Stiamo lontani, o moriranno”
di Mattia Bernardo Bagnoli
PIÙ NUMEROSI DEL PREVISTO I ricercatori: «La foresta non è vuota come pensiamo Ce ne possono essere altri»
CONFLITTI IN VISTA Le aree inesplorate sono ricchedi petrolio e finora erano ritenute senza abitanti
Gli
etnologi Survival International sta cercando gli aborigeni: le immagini
hanno fatto scalpore in tutto il mondo I cercatori d’oro Battono la
zona abitata dai «selvaggi»: c’è il rischio che portino epidemie
devastanti nei villaggi indigeni
Neolitici Le tribù mai contattate
dai bianchi sono cacciatori raccoglitori che vivono come i nostri
antenati della preistoria L’impatto con la società moderna potrebbe
essere devastante Già nel 1500 all’arrivo degli europei epidemie e
guerre decimarono gli indigeni
Il nostro mondo è pieno come un
uovo, Internet ormai raggiunge ogni dove, eppure allo scoccare del 2011
esistono ancora quasi cento popolazioni che non hanno mai visto l’uomo
bianco, figuriamoci un computer o uno smartphone. E neppure una banca,
una macchina, o il presidente Obama. O il concetto di Stato. Tribù,
insomma, ferme a un periodo premoderno - quasi primitivo, in certi casi -
grazie alla protezione offerta dalle foreste pluviali. Che però si
fanno sempre più piccole a causa del disboscamento. Popolazioni che sono
quindi in pericolo non tanto di restare per sempre isolate ma, al
contrario, di venire a contatto con l’uomo contemporaneo: e venir dunque
decimate dalle malattie, come capitò agli indios al tempo dei
conquistadores.
Il caso dei popoli perduti è riemerso con forza
dopo che sono state diffuse le immagini di una tribù scoperta
dall’organizzazione Survival International ai confini tra il Brasile e
il Perù. L’Ong ha adesso rivelato che un altro gruppo indigeno, sempre
parte della popolazione degli Yanomami, vive indisturbato nella parte
settentrionale dello stato brasiliano di Roraima. La tribù, i Moxateteu,
vive però in un’area piagata da un’alta concentrazione di cercatori
d’oro illegali. Se questi bracconieri di metalli pregiati non verranno
presto espulsi, dicono gli esperti, c’è il rischio che la maledizione
dell’uomo bianco possa colpire i Moxateteu, come è già capitato altre
volte in passato.
«Ci sono molte popolazioni indios sperdute», ha
detto a Survival International Davi Kopenawa, portavoce del popolo
Yanomami - di quella parte cioè già emersa dal cuore della giungla. «Io
vorrei aiutarli: hanno il nostro stesso sangue e non hanno mai visto il
mondo moderno».
Il mito delle popolazioni perdute, insomma, non è
una leggenda ma un fatto. «Queste persone esistono davvero», ha spiegato
all’ Independent on Sunday José Carlos Meirelles, funzionario del
Funai, il ministero brasiliano per gli Affari degli Indios. «Quegli
spazi vuoti del parco Yanomami - ovvero la zona off-limits creata nel
1992 dopo varie campagne di pressione internazionali - non sono così
vuoti come la gente pensa. Anzi mi spingo sino a dire che in quest’area
possa esistere più d’una tribù ancora da scoprire».
«Queste
immagini - ha commentato Fiona Watson, direttrice del settore ricerca di
Survival International - ci dicono che queste popolazioni sono vive e
più che sane. E contraddicono in pieno il pensiero di chi sostiene siano
state inventate dagli ambientalisti impegnati nella battaglia contro lo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Amazzonia».
Il
Sudamerica, insomma, è davvero una specie di Arca di Noé dei popoli
perduti. Oltre a Brasile e Perù, infatti, anche il Paraguay custodisce
una tribù ancora da contattare: gli Ayoreo-Totobiegosode. Gli unici a
vivere al di fuori dell’Amazzonia, nella vasta distesa di boscaglie che
si estende tra Bolivia, Paraguay e Argentina. Ovvero un’altra area ad
alto rischio ambientale a causa degli interessi legati all’allevamento
del bestiame. La storia è sempre la stessa: giù le foreste e largo ai
pascoli.
L’altra zona della Terra che potrebbe custodire molte
sorprese è la Papua occidentale. Qui la presenza dei militari e il
terreno particolarmente accidentato rendono infatti le esplorazioni
praticamente impossibili. Detto questo, il direttore di Survival
International ha sottolineato come un cambiamento di attitudini da parte
dell’uomo «civilizzato» nei confronti di queste popolazioni possa
essere la vera chiave per proteggere il loro stile di vita. «Spesso - ha
dichiarato - questi popoli vengono visti come retrogradi perché vivono
in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece
retrograda e incivile».
Corriere della Sera 6.2.11
Bellocchio, il labirinto vuoto
di Franco Cordelli
I
pugni in tasca di Marco Bellocchio dopo quarantasei anni arriva sulla
scena. Si tratta di un tipo di operazione che ha una storia illustre e
che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. A scoprire che
per fare teatro non è necessaria una scrittura drammaturgica furono le
avanguardie. Il teatro si può fare anche recitando l’elenco del
telefono, il teatro non è che scrittura scenica: dal Tarzan di Memè
Perlini (un romanzo di Edgar Rice Burroughs) al Mago di Oz di Fanny e
Alexander (un film di Victor Fleming). Ma qui siamo di fronte a registi e
spettacoli nei quali il testo originario era un punto di partenza e poi
di riflessione e trasfigurazione. Diversa cosa sono gli allestimenti
(cito i recenti) di Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, de
L’appartamento di Billy Wilder o di questo I pugni in tasca. A tradurre
la sceneggiatura in copione teatrale è stato lo stesso autore del film.
Ci si chiede perché si sia lasciato tentare. Così dimostra di credere
non in ciò che fece in quanto regista, ma in ciò che scrisse in quanto
sceneggiatore. Bellocchio crede nelle storie, nelle storie in sé, nella
loro intrinseca pregnanza. Al contrario, le storie in sé sono quasi
nulla, poco più o poco meno che cronache giornalistiche: le consumiamo e
in fretta ce ne dimentichiamo. Assistendo allo spettacolo intitolato I
pugni in tasca ciò è chiarissimo. Prima di tutto, della storia
originaria non è rimasto che lo scheletro. I passaggi narrativi che
giustificavano (per quanto possibile) azioni morbose o efferate, qui non
ci sono più, si resta a bocca asciutta, spettatori dell’inespresso,
ovvero dell’incomprensibile. Se si capisce, si capisce in termini
grossolani, pessimi luoghi comuni di quanto di peggio può accadere in
una famiglia vissuta come ambiente claustrofilo. Poi c’è la questione
cruciale. Ogni sceneggiatura, se la si prende per buona, se la si prende
in quanto tale, benché adattata, è una scrittura virtuale o, meglio,
funzionale. L’intensità del film di Bellocchio non era data dalla
drammaticità della storia ma dallo sviluppo delle sequenze e dalla
icasticità di ognuna di esse. Quella certa battuta aveva quel certo
valore perché a dirla era Lou Castel dal regista inquadrato in un certo
modo, su uno sfondo, o in un contesto piuttosto che in altro. Qui gli
attori sono nudi, all’aperto, al freddo, impacciati, spauriti, sembrano
aggirarsi sul palcoscenico non avendo di meglio da fare; e qualunque
cosa dicano ci si chiede perché la dicono, che valore abbia, essa
risuona puntualmente in un inimmaginabile vuoto di regia. La regista è
Stefania De Santis, ma di lei sappiamo il nome, che cosa avesse in mente
nessuno lo sa. Questa storia, di quattro fratelli imbranati o pazzi, al
meglio potrebbe somigliare a una pessima commedia di Tennessee
Williams. Ma quando Ambra Angiolini dice qualcosa e la scena si svuota e
lei rimane poggiata a un palo, o asta o colonnina, in silenzio per un
minuto e mezzo, come se da questo silenzio si dovesse sprigionare chissà
che tensione, noi spettatori si resta francamente imbarazzati. Non solo
non ha senso il copione, ma è lo spettacolo a risultare d’una
dilettantesca goffaggine. In quanto alla Angiolini, se ne tocca con mano
l’insicurezza, si percepisce d’essere di fronte a un’attrice che si
vede e si sente recitare, un’attrice che pensa a ogni parola o gesto che
fa. La scena, una specie di labirinto su più piani, è di Daniele Spisa.
Tra gli interpreti ricordo Pier Giorgio Bellocchio (il più credibile)
nella parte che fu di Lou Castel.
La Stampa 6.2.12
Il film di Bellocchio secondo la De Santis
Fiacchi “Pugni in tasca”
di Masolino D’Amico
Lunghi silenzi. La scena è fiocamente illuminata, l’atmosfera quasi cecoviana
Le
commedie tratte dai film sono di due tipi, quelle per chi non ha visto
il film, che quindi funzionano anche indipendentemente, e quelle per chi
invece ha visto il film e vuole per così dire ripassarselo. Ora, I
pugni in tasca che Marco Bellocchio ha tratto dal copione del folgorante
esordio cinematografico (1965) suo e dell’interprete Lou Castel (che il
grande critico inglese Kenneth Tynan paragonò al Marlon Brando del Tram
) non rientra agevolmente né nella prima né nella seconda categoria. Si
può chiedere al cinefilo di rievocarlo con facce diverse - anche se
quella di Pier Giorgio Bellocchio come lo spiritato Alessandro ricorda
tanto quella di suo padre giovane - senza quel bianco e nero sprezzante
dell’eleganza, già rétro in un’epoca in cui il colore dilagava? Ma anche
come semplice dramma noir regge male, almeno nello spettacolo diretto
da Stefania De Santis: spezzettato in miniepisodi precariamente saldati
con oscuramenti; poco agilmente articolato in una scenografia su più
livelli nessuno dei quali consente una visione davvero soddisfacente;
fiocamente illuminato, con un’atmosfera quasi cecoviana (lunghi silenzi)
poco adatta alla ferocia della storia. Questa, si sa, riguarda una
famiglia con madre cieca e soavemente ricattatrice, un figlio pazzo, un
figlio normale ma stronzo, un figlio schizofrenico-epilettico, e una
figlia frustrata. Liberatoriamente, il figlio schizofrenico elimina la
madre e il pazzo e violenta la sorella, consegnando così il patrimonio,
una casa di campagna con terre, al fratello normale.
Nell’indimenticabile film questa truce materia coniugava dolore,
passione repressa, malinconia; qui rimane inerte. Vestiti da Armani, i
cinque attori parlano sommessamente, molto composti tranne Bellocchio
junior, per 90 filati; l’attesa Ambra Angiolini è diligente e graziosa.
Al Quirino di Roma fino al 13
Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il
celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha
adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco
Visione
senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica
profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio
I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui
riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle
relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di
distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma
magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare
il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso
Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono
Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli
crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte
omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è
giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni,
del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro
mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo
un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo
d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e
ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale
"liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra
in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi
impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la
teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo
d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di
accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più
comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di
Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta
parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale
che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici
che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei
rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che
l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della
madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla
ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto
(e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è
il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella.
Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto
fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari.
Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza
di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e
disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio
Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra
Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e
versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso
delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza
matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di
Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia
di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni
in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità,
dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo
stesso tempo.
Il Messaggero 5.2.11
Quirino/“I pugni in tasca” di Marco Bellocchio
Il seme del dolore
di Rita Sala
qui
Repubblica 8.2.11
Donne in piazza, manifestazioni in 70 città
di Anna Bandettini
ROMA - Non era mai successo: domenica ci saranno manifestazioni di piazza, cortei, letture di poesie contemporaneamente in dieci, trenta, cinquanta... fino ad oggi settanta città italiane. E la lista continua ad allungarsi di giorno in giorno: si va da Trieste a Sassari, da Bolzano a Messina... Perfino Arcore. Altro che veterofemministe e basta: quella di domenica 13 febbraio si preannuncia come una delle manifestazioni più imponenti e popolari contro Silvio Berlusconi. In piazza le donne: donne delle associazioni femminili (moltissime quelle che hanno aderito da DiNuovo che ha lanciato l´appello alla mobilitazione, Usciamo dal Silenzio, Filomena la rete delle donne...), e donne qualunque che per rabbia, indignazione, hanno deciso di prendere parola pubblica. E reclamare la propria dignità contro lo spettacolo della politica italiana, contro la rappresentazione aberrante delle donne e della relazione uomo-donna «ostentato da una delle massime cariche dello Stato, che incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni», come accusa l´appello che, con lo slogan "Se non ora, quando?", ha chiamato alla mobilitazione anche gli uomini che non si riconoscono nel modello sessista del "sultano" del Rubygate.
La mobilitazione del 13, lanciata solo una settimana fa da un gruppo di donne, artiste, scrittrici tra cui Cristina Comencini, Silvia Avallone, Margherita Buy, Laura Morante, Valeria Parrella, Lunetta Savino, perfino una suora, Suor Eugenia Bonetti, e tante altre, ha immediatamente avuto una valanga di adesioni nella società civile e, trasversalmente, anche nella politica: tra le promotrici c´è Giulia Bongiorno di Futuro e Libertà, la leader della Cgil Susanna Camusso e sia il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che Antonio Di Pietro di Idv hanno detto che saranno in piazza. «La trasversalità degli orientamenti è nello spirito della manifestazione. Né vogliamo fare distinzioni di sorta tra donne buone e donne cattive. Il problema non è la donna, semmai un certo comportamento maschile», dice Francesca Izzo, una delle promotrici del gruppo DiNuovo. Ogni città farà la sua manifestazione secondo modalità autonome: a Roma - il programma verrà presentato stamane- si parte alle 14 dalla Terrazza del Pincio per arrivare a piazza del Popolo dove sono previsti interventi dal palco. Ad Andria ogni donna porterà un fiore, a Genova sciarpe bianche e strumenti musicali, a Milano il concentramento sarà dalle 14.30 in piazza Castello. Moltissime le personalità pubbliche che aderiscono all´iniziativa (le voci e i volti su Repubblica.it): ieri Claudia Gerini ha invocato la piazza perché «anche senza essere bigotte, le donne non sono quella cosa lì». Fausto Brizzi autore di Femmine contro maschi, film superpop sulle relazioni di coppia dice: "Se fossi nelle donne farei causa al premier per l´immagine che ha dato di loro all´estero". E Carla Fracci: «Credo non se ne possa più: questa situazione sta mettendo in imbarazzo l´intero paese. Chi è coinvolto in queste vicende si assuma le sue responsabilità".
l’Unità 8.2.11
Silvio, l’ultima tentazione di Marco spacca i Radicali
Pannella dialoga col Cavaliere e lo scontro con la compagna di partito Bonino si fa duro: «Capisco le sue ragioni, ma non mi fido del premier: non è più in grado di gestire alcunché»
di Maria Zegarelli
Marco Pannella dialoga con il Cavaliere, lo ha visto già due volte e lo rivedrà domani. Dice: «Sorreggere le istituzioni, anche istituzioni disastrose, è un dovere repubblicano». Aggiunge anche, «trattiamo, vediamo cosa ci offre. Berlusconi almeno quando dice di volerci vedere poi mi fissa subito un incontro, Rosy Bindi e Bersani hanno sempre detto “ci incontriamo, ci incontriamo” e li hai mai visti?». Il ministro Franco Frattini lavora di fino: spera proprio che i radicali votino la riforma della giustizia a cui sta lavorando il Pdl, perché sulla giustizia, osserva, hanno una proposta addirittura più radicale della maggioranza.
Dunque, la maggioranza si allarga? I democratici non si sono mai mostrati preoccupati, «i radicali hanno sempre votato con noi». Ma ecco Pannella che ri-tende la mano al premier provocando fibrillazione anche tra i suoi, tanto che Emma Bonino frena subito attraverso i microfoni di Radio Radicale. «Capisco questa iniziativa di Marco ribatte pubblicamente dopo giorni di aspro confronto quando dice che bisogna scommettere il pochissimo probabile contro il molto possibile. Ma io rispetto a lui ho meno fiducia, Berlusconi non mi pare più in grado di gestire alcunché politicamente parlando, non lo ha fatto nemmeno in periodi meno turbolenti, e non vedo perché dovrebbe farlo adesso».
Una parola sui diritti civili Parlando con La Stampa Pannella spiega che ai radicali basta «una parola sui temi etici, o sulla grande questione sociale, amnistia o indulto, o un’accelerazione della legge Ichino-Cazzola radicali sulle pensioni».
E se Frattini spera nel miracolo, Bonino riporta in terra: «Ancorché Berlusconi ritenga che io sia la ventriloqua di Pannella mi capita a volte invece di pensare». Tre le ipotesi in campo, secondo la laeder radicale: «Il Pd, vede il male assoluto del Paese in Berlusconi e fatto fuori lui e innocentizzati tutti gli altri, si fa un nuovo esecutivo con Formigoni, Tremonti e non so chi, nella formula Cln»; le elezioni anticipate «anche con una legge pessima, che non si sa perché diventa un dettaglio» e, infine, Pannella che, «in assenza di una alternativa credibile in termini di proposta e di leadership, ritiene meglio cercare di ottenere da questo governo almeno qualche inizio di provvedimenti utili al Paese».
«Non si tratta di entrare al governo o in maggioranza aggiunge -. Consiglierei prudenza a chi grida ai tradimenti, è già stato fatto prima del 14 dicembre e poi i voti a Berlusconi sono arrivati da qualche transfuga dell'Idv e del Pd, non da noi, così come sull'ultima votazione sulla perquisizione per il caso Ruby».
Prudenza Marco Cappato premettendo che se arrivassero vere liberalizzazioni, o «una riforma americana delle istituzioni o una riforma organica sulla giustizia», sarebbero pronti a votare, aggiunge anche che sono temi «neanche all’ordine del giorno e certo non siamo a caccia di poltrone». Per Rita Bernardini che ha incontrato con Marco Pannella il ministro Angelino Alfano le voci di una possibile trattativa per l’ingresso al governo (con lei sottosegretario con delega alle carceri) non sarebbero altro che «fantascienza», ma certo il dialogo con il premier c’è, anche se è «solamente un inizio di dialogo».
Di sicuro c’è che il 31 gennaio scorso tra Bonino e Pannella il botta e risposta è stato piuttosto animato: Emma non crede possibile alcun dialogo con il Cavaliere e non ha mancato di ricordare a Marco le distanze siderali con la maggioranza sui diritti civili, dal biotestamento alle coppie di fatto, dall’amnestia alla riforma della giustizia».
Il Fatto 8.2.11
Farsi corteggiare da Berlusconi? La Bonino non si fida
Le divergenze della senatrice radicale con Pannella: niente dialogo con il centrodestra in crisi
di Paola Zanca
Finora lui e Emma ne hanno parlato “solo 30 secondi, en passant”. Ma entro giovedì prossimo, un accordo lo dovranno trovare. Quel giorno, a Chianciano, si apre il congresso del partito Radicale: a Marco Pannella ed Emma Bonino toccherà decidere se invitare Berlusconi (e Fini) a “portare un saluto”. Non una cosa da niente, ammette Pannella, perché “sono cose importanti, sono riconoscimenti”. E non è detto che la Bonino abbia voglia di darne. Ieri, nella sua conversazione settimanale con Radio radicale, ha confessato le sue divergenze con lo storico leader del partito. Lui – che aveva già ventilato l’ipotesi di votare la fiducia al governo il 14 dicembre – da giorni va ripetendo che con Berlusconi bisogna dialogare (lo farà di nuovo mercoledì) perché “sorreggere le istituzioni quando vanno in sfascio è un dovere civile del repubblicano”. Lei ha pubblicamente confessato di non riporre nel premier le stesse speranze: “Io rispetto a lui ho meno fiducia, Berlusconi non mi pare più in grado di gestire alcunché politicamente parlando”. Non è uno smarcamento da poco, sono cose importanti, quasi un disconoscimento. D’altronde è la stessa Bonino a premettere che “le capita a volte di pensare”, nonostante “Berlusconi mi ritenga la ventriloqua di Pannella”. Lei, diversamente dal suo leader, pensa che sia meglio non credere alle aperture del premier sui temi cari ai radicali: la giustizia, le carceri, i temi etici, l’economia. E non è la sola. Anche il deputato radicale Marco Beltrandi si fida “pochissimo, praticamente zero, delle capacità di questo governo di mantenere quello che promette”. La senatrice Daniela Po-retti concorda: “Magari Berlusconi facesse le cose che dice dal ‘94...magari! Dopodichè - ironizza - i miracoli posso pure avvenire, qui ci tocca perfino diventare credenti!”. Tutti, comunque, dicono di fidarsi di Pannella. Solo Rita Bernardini aggiunge: “Non dico che degli altri non mi fido, ma so che possono più facilmente sbagliare, possono non capire il momento politico. Lo dico perché ne ho la riprova: nella storia radicale le cose impossibili di Pannella si sono avverate”. È un insegnamento che conosce anche la Bonino. A proposito di Berlusconi sentenzia: “Uno è nel futuro quello che è stato nel passato, né più né meno”. E forse lo stesso vale per Pannella. Dal ‘94 a oggi, ha aperto e chiuso le porte a Berlusconi diverse volte, e non sono molte quelle in cui ha portato a casa qualcosa. Cominciò bene nel ‘94, con la nomina della stessa Bonino a commissario europeo contro Giorgio Napolitano. L’allora ministro Giuliano Ferrara consigliava a Berlusconi di preferirle l’attuale presidente della Repubblica. Lui capitolò con i Radicali. E sarebbe interessante sapere, oggi che è tornato a consigliare il premier in crisi, come interpreta il direttore de Il Foglio, le nuove avances radicali. Oggi come nel '96, si riavvicinano le elezioni. Berlusconi all’epoca venne accolto con tutti gli onori al congresso dei “riformatori” di Pannella. Bonino lo avvertì: “Quando servirà, le persone del governo le potrai trovare qui”. Al governo ci andò Prodi, ma durò poco. Nel ‘98 la lusinga arrivò via cavo, questa volta dal fronte opposto: “Pronto Marco? Qui è il regime che parla...”, scherzava Massimo D’Alema al telefono offrendo un posto da ministro alla solita Bonino. Emma alla fine preferì andarsene a Strasburgo, al Parlamento europeo, mentre Berlusconi la accusava di essere “una protesi” di Pannella. Se ce ne fosse stato bisogno, la smentita arrivò a luglio del ‘99: di fronte ai 20 quesiti referendari pro-posti dai radicali, i leader del Polo Berlusconi, Fini e Casini, decisero di lasciar libera la base di firmarli, senza spendersi oltre. Pannella fu contento, lei si permise di obiettare: “È un’ambiguità dire che si è d’accordo, e poi non scendere in campo”. Il ritorno in Parlamento (e al governo) arriva solo nel 2006, con il secondo governo Prodi. Bonino diventa ministro per il Commercio Estero. Oggi è senatrice, e un anno fa ha provato a scuotere il Pd candidandosi alla presidenza della Regione Lazio. In mezzo, insomma, c’è finita sempre lei. Forse – sono parole della deputata radicale Rita Bernardini – per “l’immagine che danno di lei: la principessa buona, e noi i 'puzzoni'”. Emma non si fida. Deve aver già sentito l’odore di fregatura.
Il Fatto 8.2.11
Emma la ribelle: tutto pur di non fare la fine di Capezzone
di Pino Corrias
ALLA BELLA ETÀ di 62 anni, pronunciando quel tenue “no, di Berlusconi non mi fido”, Emma Bonino si sta forse liberando del padre padrone Marco Pannella che dall’altro secolo la tiene prigioniera in quella setta incantata che ha la forma psicanalitica della rosa stritolata in un pugno. Da un paio di settimane il vecchio Pannella, che lei chiama “il mio caro scimmione”, è in piena frenesia da sottopotere. Gira tra Arcore e Palazzo Grazioli: ha fiutato l’animale morente. E rimboccandogli le coperte gli offre servigi, un po’ di voti, frutta cotta, la scheggia di uno specchio dentro cui elogiarlo. Esperto in maquillage politici, arzigogola interviste in cui “non può escludere” un accordo con l’amico Silvio “forse, vedremo”, magari “per il bene della disastrata Repubblica”. L’aveva già fatto con l’agonizzante Craxi, anni ’92-’94, che fece pure finta di dargli retta, mentre preparava le valigie e il malloppo per la latitanza tunisina. Lui spinge, Emma frena: non era mai successo. Non in pubblico almeno, in nome di una convivenza nutrita da mille ricatti, mille scenate. Non sarà la compassione, stavolta, a farle accettare senza combattere, il miserrimo destino di un altro Capezzone.
il Riformista 8.2.11
Marco l’acrobata della Giustizia crede ancora allo «spirito del ’94»
PANNELLA. Il “signor Hood” dialoga con Berlusconi: preludio a un pro- babile ingresso nell’esecutivo. Partito disorientato, la Bonino è critica
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Repubblica 8.2.11
Il fantasma azionista
di Ezio Mauro
L´unica cosa su cui vale la pena ragionare, nell´attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti – di tipo addirittura fisico, antropologico – e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell´appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l´ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell’”azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un´aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".
Eppure la storia breve del Partito d´Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell´avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com´erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l´idea dev´essere davvero formidabile se ha attraversato sessant´anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell´intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d´elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.
È un´ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell´Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell´errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.
Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell´interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un´Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell´azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell´impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel ´47, ecco l´allarme ideologico. Parte l´invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.
Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall´impaccio di regole e leggi. Un´Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un´Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell´abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l´elogio del malandrino, in cui l´avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".
Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell´azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest´epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant´anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.
Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l´antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l´azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l´anticomunismo.
Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l´anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l´equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un´altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.
Ce n´è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un´Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell´Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d´altra parte, sull´"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".
Repubblica 8.2.11
La lunga notte degli italiani
di Massimo L. Salvadori
Nessuna crisi di sistema politico è uguale all´altra, ma delle analogie possono ben esservi e concretamente vi sono. Ci troviamo infatti nel pieno di una crisi, che, per significato e profondità, è paragonabile a quella dei primi anni ‘90 del secolo scorso. Essa scoppia a poco meno di vent´anni da quel 1992 che segnò da un lato la fine dell´asse di potere Dc-Psi, l´affossamento del leaderismo di Craxi, il ridisegnarsi della mappa dei partiti, l´emergere in forza della Lega; dall´altro, l´esplodere della "questione morale" radicata nell´intreccio corruttivo tra politica e mondo degli affari, cui fece seguito l´azione della magistratura che tolse il coperchio a "Tangentopoli" ma al contempo diede fiato al "grido di dolore" di quanti - partiti, imprese e singoli individui - levarono la loro protesta contro il persecutorio "potere dei giudici".
Non è difficile scorgere le analogie tra la fine della Prima repubblica e la situazione presente, che mostra appieno come la speranza che a quella seguisse una durevole rinascita nazionale - capace di assicurare all´Italia il suo ingresso nella tanto auspicata "normalità democratica", basata sulla formazione di ben definiti schieramenti alternativi, che si legittimassero reciprocamente così da assicurare stabilità ai governi ed efficienza al lavoro del Parlamento e da aprire una vigorosa stagione di riforme - è risultata delusa. Sono passati vent´anni, e assistiamo al ritorno, pur con le inevitabili varianti, di troppe cose che non si voleva tornassero. È riesplosa la questione morale, con una virulenza enorme e in forme ancor più fangose; le istituzioni restano assai deboli; i rapporti tra i partiti sono improntati alla bagarre; la loro reciproca legittimazione è un discorso privato di senso; la fisionomia dei possibili nuovi schieramenti è in alto mare e le leadership dei partiti sono incerte; l´attacco alla magistratura si è rinnovato con i toni più estremi. L´unico punto fermo è il Presidente della Repubblica.
Le analogie tra quel passato e questo presente sono dunque palesi. Ma ogni stagione ha le sue peculiarità: quelle odierne rivelano punti di degenerazione senza precedenti. Tangentopoli mise in luce un universo corruttivo che aveva radici politiche e sociali; la questione morale odierna vede emergere, a fianco della corruzione legata agli interessi economici di una casta di clienti del potere, i comportamenti privati del capo di governo che gli hanno valso le accuse - dopo quelle attinenti alle sue attività di imprenditore - nientemeno che di concussione e di pratica della prostituzione. L´azione contro Tangentopoli fu sorretta da un vasto consenso dell´opinione pubblica; oggi una parte, forse non maggioritaria ma certo assai consistente, sembra non lasciarsi scuotere da niente, così mostrando a quale grado di inquinamento sia purtroppo giunto lo spirito civile di una componente importante della nazione. Tangentopoli vide la Lega schierata contro la corruzione al punto da sventolare i nodi scorsoi; oggi la Lega mostra di digerire ogni nefandezza.
E ora veniamo a quello che attualmente costituisce il problema dei problemi. Sotto l´urto di Tangentopoli il sistema dei partiti franò, e sull´onda di una nuova speranza, destinata ad andare rapidamente delusa, si fece strada, come ho ricordato, la prospettiva di una "normalizzazione democratica" basata sulla legittimazione degli schieramenti in competizione, sulla fine del muro contro muro, sull´alternanza al potere in un quadro di sostanziale bipartitismo, sulle riforme istituzionali ed economiche, sul risanamento etico della vita pubblica. Ebbene, il bilancio parla un linguaggio opposto e il quadro si presenta inquietante per l´asprezza dello scontro in atto tanto tra i poteri dello Stato, che ha superato il livello di guardia quanto nel Parlamento e nel paese.
Su un fronte sta un raìs all´italiana chiuso nella sua casamatta, che raccoglie gli oligarchi, le clientele che lo circondano e le schiere dei seguaci pronte a seguirlo in una Termopili della malapolitica, del malaffare e della malamorale, inveisce contro i traditori, cerca di restare in sella grazie alla compra-vendita di parlamentari, invoca, mentre pratica un traffico indecente, "l´etica della responsabilità", mobilita i mass media nelle mani dei suoi cortigiani. Sull´altro fronte si colloca il multiforme schieramento "anti", deluso dal non essere ancora riuscito a provocare se non il 25 aprile quanto meno il 25 luglio del Cavaliere, che, se il re-sondaggio dice la verità, continua a restare il leader del più forte partito italiano e a mantenere la sua presa su molta parte dell´elettorato. Ma se ciò la dica lunga, appunto, sul grado di indebolimento civile del popolo italiano, non basta a spiegare il consenso di cui, nonostante tutto, continua a godere Berlusconi. Determinante punto di forza di questo consenso è che il cemento che unisce i partiti in chiave negativa contro Berlusconi non appare tale da offrire una garanzia alternativa credibile di governabilità. La ricerca di strategie continua, ma non è ancora approdata a proposte sufficientemente condivise in termini di programma, di leadership, di alleanze. Alle proposte seguono immediati i veti. A chi pensa che si debba prendere atto che il bipolarismo non funziona, si contrappone chi considera una simile posizione un inaccettabile ritorno al vecchio; la guida di Bersani a capo del Pd viene contestata un giorno sì e un giorno no dentro il suo stesso partito; le primarie offrono uno spettacolo in troppi casi sconfortante; Vendola lancia la sua sfida nel centrosinistra; l´accordo ipotetico tra il Pd e l´Udc piace agli uni e spiace agli altri. Tutti avranno pure le loro ragioni, ma la somma di queste ragioni - ecco il punto dolente - è di indebolire alle fondamenta lo schieramento anti-berlusconiano.
Molti possono essere gli incubi che travagliano i sonni degli italiani i quali sperano che la lunga notte che stanno attraversando abbia a finire. Il peggiore è che le prossime elezioni, per le debolezze non perdonabili delle opposizioni, facciano rispuntare il sole con il volto ridente del Cavaliere o di un suo fedele erede
La Stampa 8.1.11
Intervista
Renzi: l’antiberlusconismo danneggia l’opposizione
Il sindaco di Firenze: non siamo in un’emergenza democratica
di Carlo Bertini
Comincia con una premessa, «ho fatto un fioretto e per sei mesi non parlo del Pd e del suo vertice». Continua giustificando lo scontento di quelli che protestano pacificamente perché non ce la fanno più. Ma poi, a differenza di quanto declamato all’assemblea nazionale da D’Alema e Franceschini, spiega che a suo avviso «non si può parlare di emergenza democratica per il caso Ruby, ma al massimo di emergenza sessuale».
Per lei gli scontri di Arcore sono un clamoroso regalo a Berlusconi. Condanna solo i tafferugli o anche la scelta di manifestare sotto casa del premier?
«Mi verrebbe da dire, “meno male che Giorgio c’è”, perché il Capo dello Stato, in questo momento di palude della vita politica, è un grande punto di riferimento. Separerei dunque il giudizio sugli esagitati che sono andati lì a cercare lo scontro, da quello su chi è andato lì a manifestare pacificamente con un po’ d’ironia. Politicamente però credo che non basti la protesta, un problema che va avanti da 17 anni. Rispetto la passione civile di molte persone andate lì ed ho fatto una bella discussione su facebook con diversi ragazzi...»
Che sul suo blog gliele hanno cantate. Ne hanno subito approfittato per rinfacciarle il famoso pranzo ad Arcore. O no?
«Non direi, la maggioranza invece è d’accordo con me, 614 persone mi hanno detto ok, una cosa che non mi succedeva da diverso tempo. Dei 340 commenti, la gran parte sono a favore, poi naturalmente c’è chi mi dice basta con queste polemiche, oppure “spiegaci tu se la politica diversa vuol dire andare a cena ad Arcore! Meglio andare in piazza”. Detto questo, credo che il punto sia uscire da questo clima di derby e rissa permanente. Non voglio fare tutte le volte il grillo parlante del Pd che dice “ci vorrebbe ben altro”, ma sono convinto che non sarà la piazza a mandar via Berlusconi. Fermo restando che in un paese civile il premier si difende in tribunale e non in tv».
Dunque lei non ritiene che il caso Ruby segni un degrado morale e che si debba reagire a questa emergenza democratica?
«Io credo che tutto si può dire, tranne che questa vicenda sia un’emergenza democratica. Fatico a capire cosa c’entri Ruby con la democrazia, anche se questo mododi fare è lontano anni luce dal mio modo di vivere che sono per definizione un “anti bunga-bunga”, accusato spesso di essere un bacchettone cattolico».
Quindi il Pd non deve sostenere in questa fase la mobilitazione e l’indignazione della società civile?
«Sono molto colpito, perché ho tanti amici e mia moglie che esprimono il disgusto in generale per la politica e in particolar modo per il governo, un sentimento aumentato in questo momento dal caso Ruby e dall’altro lato ho la convinzione che per sconfiggere Berlusconi de-fi-ni-ti-vamente non si deve cavalcare l’antiberlusconismo. Non ho i sondaggi, ma sono convinto che dopo gli scontri di Arcore, la popolarità del premier sia risalita di colpo. Rispetto profondamente chi ci invita a cavalcare l’antiberlusconismo, ma penso che può vincere solo una sinistra che esca dal muro contro muro. E credo che, distinguendo bene i violenti andati lì apposta, quindi senza fare d’ogni erba un fascio, se vuoi mandare a casa Berlusconi non ti aiutano gli scontri di piazza e non ti serve il ricorso alla magistratura».
Cosa dovrebbe fare quindi l’opposizione?
«Ora nel paese c’è rassegnazione, la sensazione di essersi impantanati sulle cose da fare. E quindi penso che il Pd e in generale la sinistra debbano ridare speranza e entusiasmo, non proporre Sante Alleanze che restituiscono una verginità a Berlusconi consentendogli di fare di nuovo la vittima. Tanto più considerando invece che in questo momento chi rischia di perdere le elezioni è proprio il centrodestra e dunque farei una campagna elettorale vera, dimostrando di essere alternativa sulle cose concrete. Quindi casomai vanno chieste le elezioni, senza però proporre Sante Alleanze che non funzionavano nemmeno nel Medioevo».
l’Unità 8.2.11
Il cinismo di definirsi «pro-vita»: chi dissente è per la morte?
di Maria Antonietta Coscioni
C’è da compiere, preliminarmente un’azione di verità: da mesi assistiamo a una cinica operazione truffaldina e indebita, volta ad auto-conferirsi un “diploma” pro-vita; e di conseguenza “pro-morte” sarebbero i radicali, l’Associazione Luca Coscioni e quanti ritengono che su questioni come la dignità della vita e quando questa non merita più d’essere vissuta, la decisione spetta al singolo individuo; che la sua scelta debba essere rispettata, questa sua facoltà di poter decidere vada garantita e tutelata.
Coerente con quanto ha sempre fatto e sostenuto, autentico partito della sofferenza e del dolore anche quando non c’è ragione e speranza, la maggioranza di centro-de-
Assieme agli Englaro
Abbiamo condiviso le loro scelte, siamo con loro in questa battaglia
stra conferma le sue intenzioni. Il relatore del provvedimento sul testamento biologico a Montecitorio Di Virgilio, sostiene che il testo uscito dalla Commissione Affari sociali "segna un passo avanti...Abbiamo stabilito che alimentazione e idratazione artificiali, pur non costituendo terapie mediche, possono essere sospese quando non efficaci o gravose per il paziente, confermando quanto sostenuto dal Magistero della Chiesa".
Balle. Di tutto il paziente e importante lavoro che abbiamo cercato di fare in Commissione, le consulenze e i pareri degli esperti raccolte, non è stato tenuto alcun conto. La presunta apertura è una farsa. Vogliono approvare una legge che viola in modo clamoroso la Costituzione, il buon senso, l’opinione della stragrande maggioranza dei cittadini e dei medici. L’OMS stabilisce che alimentazione ed idratazione artificiali sono un trattamento medico a tutti gli effetti; con il ddl Calabrò che vogliono far diventare legge, tutto ciò viene stravolto, negato.
La verità è che il centro-destra usa i temi etici (che sono temi sociali: riguardano migliaia di persone e le loro famiglie) per accreditarsi come difensore e sostenitore di quelli che contrabbanda come “valori cattolici”, e che propriamente sono gli interessi delle gerarchie vaticane, e neppure di tutte se si osserva con attenzione quello che si agita in quel mondo caratterizzato da sussurri e modi felpati.
L' inquilino di palazzo Chigi ha perfino proclamato “giornata per la vita” proprio il giorno della morte di Eluana Englaro. Una vergogna! Veri e propri necrofili, sono arrivati a so-
stenere che Eluana poteva, nel suo stato, procreare; quando è morta ci hanno accusato di averla assassinata...
Sono gli stessi che nulla hanno fatto per i malati di SLA e di altre gravi patologie; che negano i fondi necessari per la loro assistenza, accampando problemi di cassa, ma questi problemi magicamente svaniscono quando si tratta di assicurare finanziamenti e sostegni economici a strutture che poi hanno buon gioco ad allinearsi alla “politica” e alle posizioni del Governo.
Quanto alla “giornata della vita”: da una parte ci saranno le strumentalizzazioni del Governo; dall’altra noi, che il 9 febbraio ci ritroveremo dalle 13 alla Camera dei Deputati insieme a Chiara Moroni, Livia Turco, Giuseppe Saro, il professor Antonio Cavicchia Scalamonti, per la presentazione de “Gli ultimi giorni di Eluana”, il libro di Amato De Monte e Cinzia Gori.
Scelta non casuale, per il tema che affronteremo, per le persone che si confronteranno: abbiamo, sia pure da varie angolazioni, vissuto e partecipato al dramma di Eluana, conosciamo la vicenda e quello che ha comportato e significato. Abbiamo condiviso la difficile scelta della famiglia di Eluana, e la decisione di rivendicare e lottare per un diritto che viene sì riconosciuto, ma a patto che lo si faccia di nascosto, confidando nella mano pietosa di un medico o di un’infermiere. Mentre, loro e noi – ed è questo evidentemente che risulta insopportabile – abbiamo voluto portare alla luce del sole una questione che si vorrebbe consumare nella clandestinità, nel "si faccia ma senza dirlo". Chiedendo che questo diritto sia riconosciuto, garantito, tutelato.
l’Unità 8.2.11
Intervista ad Amato De Monte e Cinzia Gori
«Dal governo scelta arrogante e cattiva»
Il medico e l’infermiera che sospesero la nutrizione artificiale a Eluana: «Era la cosa giusta, noi pronti a difendere ancora la libertà dei pazienti»
di Federica Fantozzi
Nell’inverno 2009 il nome di Amato De Monte provocava sentimenti contrastanti. Baffoni neri, anellino d’argento al lobo, sempre in bici, era il medico di Eluana Englaro, la paziente suo malgrado più famosa d’Italia, giunta all’ultima destinazione: la clinica La Quiete di Udine.
De Monte è l’uomo che, in mezzo alle polemiche, ha attuato il protocollo di sospensione dellanutrizione artificiale che ha portato alla morte della giovane in stato vegetativo da 17 anni. Sua moglie Cinzia Gori, era la capo infermiera che ha supervisionato le procedure e coordinato il gruppo. Insieme hanno scritto un libro, Gli ultimi giorni di Eluana (Biblioteca dell’Immagine). Insieme si battono contro l’accanimento terapeutico e l’insensibilità della politica. Due anni dopo, che cosa vi è rimasto di quella vicenda?
Gori: Una forte presa di coscienza sui temi del fine vita e una voglia ancora più grande di difendere la nostra libertà, quale che sia. Libertà invece strumentalizzata e mistificata. Anziché difenderla come bene inalienabile di tutti, i partiti ne fanno merce di scambio».
De Monte: Al di là delle strumentalizzazioni cui eventi così mediatici vanno incontro, resta l’amarezza di vedere chi dovrebbe dare risposte concrete limitarsi a dichiarazioni ed azioni a effetto. Questa politica alimenta le divisioni. Quale momento dei giorni di Udine vi ha colpito di più?
G: Mi rimarrà sempre nella memoria la sera della morte di Eluana, quando uscendo dalla Quiete ho sentito gridare a squarciagola “Vogliamo l’esame tossicologico”, “L’hanno ammazzata”. È stato come vivere un film: la mia collega smarrita al capezzale, la corsa in cerca di mio marito, la gente che urlava fuori dai cancelli. È stato l’epilogo rapido di 17 anni di silenziosa accettazione di una vita non voluta.
D: Difficile scindere un solo momento in una vicenda intimamente legate e permeata di sensazioni profonde. Ma credo la telefonata a Beppino. Come dirglielo? Come avrebbe reagito? E io avrei retto? Non passo giorno senza rivivere quella conversazione. Mi esplode dentro nei momenti più improbabili senza preavviso.
Credete ancora di aver fatto la cosa giusta? G: Si, ci credo moltissimo e sarei pronta a farlo di nuovo in difesa della libertà di scelta. Dopo Eluana, molti mi hanno chiesto di divenire fiduciaria del loro testamento biologico. Non li tradirei mai, come Beppino non ha tradito sua figlia. Sono pronta a difendere questo diritto che è anche il mio.
D: Non solo la cosa giusta ma anche quella dovuta e in linea con la deontologia. Ho agito da professionista al servizio della persona, del rispetto della sua volontà e della sua libertà di autodeterminazione.
Il governo vuole varare una legge sul biotestamento che impedisca nuovi "casi Eluana". Se passasse, in situazione analoga, voi violereste la legge? G: Se passa questa legge così impostata, avremo perso la libertà e rinnegato la Costituzione. Non voglio pensare che entri in vigore una legge liberticida e incostituzionale. Ma sarei pronta ad affiancare un altro medico in questo passo.
D: Spero che il Parlamento si ravveda. È un testo che contiene tratti oscurantisti. Riporta in auge principi anacronistici e superati da secoli di progresso della ricerca scientifica. Torneremmo a prima di Galileo imponendo la verità dall’alto in modo dogmatico e autoritario. Come medici, avete provato isolamento o solidarietà?
G: C’è stata moltissima solidarietà da parte di pazienti, colleghi, amici e sconosciuti che ci fermano per strada. Chi dissente invece non ha mai avuto la lealtà, il coraggio di dircelo in faccia aprendo un dialogo. Solo articoli denigratori.
D: Aggiungo che il sostegno nel tempo non si è affievolito. Continuiamo ad averne sia nell’esercizio della professione che nella diffusione della conoscenza su questi temi che svolgiamo con l’Associazione “Per Eluana”.
Secondo un sondaggio il 75% dei chirurghi non somministrerebbe l'alimentazione artificiale neanche se la legge lo imponesse. Secondo lei è questa la percezione della categoria? G: Posso solo sperarlo. A parole molti medici sono concordi su questo principio. Ma non so se, trovandosi di fronte a una legge che esplicitamente lo imponesse, sarebbero pronti a rischiare la carriera e magari il carcere. Ci vogliono tanto coraggio e una profonda convinzione. D: Io non credo che i medici si lascerebbero imporre questi trattamenti. Sarebbe un fatto gravissimo che andrebbe a intaccare il principio dell’autonomia professionale interferendo brutalmente con la libertà di cura basata sull’alleanza medico-paziente. Sarebbe una scelta di cui il Parlamento dovrebbe giustificarsi con la comunità scientifica internazionale».
Come commenta la scelta del governo di istituire il 9 febbraio la giornata nazionale degli stati vegetativi? G: Un affronto di bassa lega. Una caduta di stile. Una scelta meschina e bieca. Tanto che molte associazioni che si battono per i diritti dei pazienti in stato vegetativo si sono rifiutati di avallarla. Fa parte dello stile di una certa classe politica che cerca solo il plauso del Vaticano. Hanno lanciato una sfida sfrontata, nella speranza di sminuire una data che rimarrà storica per il nostro Paese. D: Cattiva, vigliacca, arrogante.
l’Unità 8.2.11
Appello e spot dei medici: «Io non costringo ma curo»
«Io non costringo, curo». A due giorni dalla «vergognosa» «Giornata nazionale degli Stati vegetativi», a due settimane dall'arrivo in aula della Camera del Ddl Calabrò sulla obbligatorietà dell’idratazione e dell’alimentazione nelle persone in stato vegetativo, la Cgil chiama a raccolta medici e operatori sanitari con un appello «per la libertà di scelta sul testamento biologico e contro l’accanimento terapeutico». Una legge che, dopo un lungo iter si è sbloccata il 12 gennaio con il via libera della Commissione Bilancio dietro l’accordo ad essere totalmente definanziata e fino alla penultima stesura paragonava il sondino gastrico e l’idratazione forzata a «pane e acqua» per il paziente. Un appello promosso dalla Funzione Pubblica della Cgil, sospinto da due video forti e essenziali (linkati su unita.it) e già firmato da Umberto Veronesi, Ignazio Marino e da tanti neurologi e chirurghi. Lo scopo è di raccogliere il maggior numero di firme da consegnare al presidente della Camera per bloccare una legge che «viola la Costituzione e il Codice deontologico». Una legge che riguarda tutti e in special modo 2-3 mila persone in stato vegetativo e 250 mila malati terminali. «È la stessa battaglia che abbiamo fatto contro la legge 40, contro la richiesta che i medici denunciassero gli immigrati regolari, contro la proibizione della pillola RU486 rincara la dose Rossana Dettori, segretario generale Fp Cgil un orrore perchè strumentalizza temi etici per biechi fini politici». Tra i primi firmatari c’è Ignazio Marino, nella doppia veste di chirurgo e senatore. «Il punto della questione spiega è che in aula si deciderà come gli italiani si dovranno curare nelle ultime settimane di vita: i diritti delle persone che perdono coscienza stanno passando nelle mani di chi vince le elezioni, del capogruppo del Pdl o dell’Udc. Noi diciamo no e per questo abbiamo presentato 1.500 emendamenti e lotteremo fino alla fine. Sappiamo ha concluso che la legge è a forte rischio di incostituzionalità e che la tanto vituperata magistratura interverrà. L’obiezione di coscienza in questo caso è poco praticabile. Per questo la battaglia che parte dall’appello è ancora più importante».MASSIMO FRANCHI
l’Unità 8.2.11
Riunione congiunta delle segreterie di Funzione pubblica e Scuola p Iniziative di lotta dopo la firma di Cisl e Uil al tavolo con il governo
Accordo separato sugli statali Cgil verso lo sciopero generale
Mobilitazione dei lavoratori pubblici, scuola e università fino allo sciopero generale. Lo propongono Fp-Cgil e Flc-Cgil contro l’intesa separata sottoscritta venerdì da Cisl, Uil, Ugl e governo.
di Marco Ventimiglia
Una dura presa di posizione, un cammino verso la mobilitazione generale che a questo punto per le organizzazioni del pubblico impiego della Cgil appare come un passaggio quasi obblicato. È quello che è emerso ieri durante la riunione congiunta delle segreterie nazionali della funzione pubblica e della federazione dei lavoratori della conoscenza (Fp Cgil e Flc Cgil), convocata venerdì in seguito all’accordo separato sugli statali siglato dalle organizzazioni di categoria facenti parte di Cisl, Uil e Ugl, mentre i rappresentanti di Corso Italia avevano abbandonato il tavolo. «Fp Cgil e Flc Cgil si legge nella nota congiunta -, valutati gli effetti dell'accordo separato del 4 febbraio sulla produttività nella pubblica amministrazione, hanno deciso di sottoporre ai rispettivi organismi dirigenti, la proposta di mobilitazione delle due categorie, non escludendo di arrivare alla proclamazione dello sciopero
generale delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici».
Subito dopo la firma dell’intesa il segretario generale Susanna Camusso aveva parlato di «una presa in giro per i lavoratori», mentre l’operato di Cisl e Uil «è un sostegno al governo nelle code velenose della sua esistenza». del resto, l’accordo recepisce il blocco della contrattazione deciso con la manovra dell'estate del 2010 (niente aumenti nazionali fino a tutto il 2013), mentre la parte accessoria del salario potrà essere incrementata solo sulla base delle risorse aggiuntive che arriveranno dai risparmi delle singole amministrazioni. Insomma, se pure riusciranno ad essere salvaguardati i salari nominali, il potere d'acquisto delle retribuzioni dei lavoratori pubblici diminuirà inevitabilmente per effetto dell'inflazione che si determinerà in questi anni.
GIUDIZIO DURISSIMO
«Nella riunione congiunta ha dichiarato Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil abbiamo parlato delle iniziative da intraprendere dopo la firma dell’intesa separata, e fra queste c’è anche uno sciopero generale, una risposta appropriata di fronte ad un’intesa che di fatto cancella il contratto nazionale e non fornisce alcuna risposta ai lavoratori precari. Entro un paio di giorni saremo in grado di definirne le modalità». Alla base di tutto, naturalmente, c’è il giudizio durissimo sulla sostanza dell’accordo: «Siamo di fronte a due organizzazioni sindacali, la Cisl e la Uil, che stanno appoggiando l’operato di un governo che di fatto agisce contro il mondo del lavoro con una serie di provvedimenti che stanno distruggendo le fondamenta del welfare nel nostro Paese».
La Stampa 8.2.11
Emergenza Rom, la disuguaglianza dei poteri speciali
di Costanza Hermann
Caro direttore, La Stampa ha dedicato la sua apertura al rogo nel campo nomadi della via Appia, a Roma, sottolineandone il carattere tragico e il rilievo politico. Le scrivo per sottoporre alla considerazione dei suoi lettori alcune informazioni sulla situazione dei rom in Italia che non ho ancora visto riportate sui giornali.
Il sindaco Alemanno si è lamentato, ieri, per gli impedimenti burocratici che avrebbero ostacolato una da lui auspicata accelerazione della politica di sgomberi attualmente in vigore in almeno cinque regioni d'Italia, una politica che faciliti il ricollocamento dei nomadi nelle aree a loro destinate dalle municipalità sulla base di piani nomadi formulati dalle municipalità. Ebbene, mi pare che il sindaco dimentichi che in Italia vige ufficialmente, dal maggio 2008, uno «Stato di emergenza in virtù della presenza delle comunità nomadi» che conferisce - sulla base di una legislazione di protezione civile concepita per i disastri naturali - dei poteri straordinari ed eccezionali ai commissari delegati all'emergenza, tra cui i prefetti di Roma e Milano.
Dal maggio 2008 con cadenza annuale lo stato di emergenza in virtù della presenza dei nomadi è stato rinnovato puntualmente ed esteso a cinque regioni italiane - l'ultima volta nel dicembre scorso protraendo la fine dell’emergenza al dicembre 2011. I commissari straordinari hanno goduto, negli anni passati, di ampissimi poteri che hanno loro consentito addirittura di censire le popolazioni rom presenti nelle loro regioni (cittadini italiani o no), con un'iniziativa del tutto dubbia dal punto di vista del diritto alla privacy e alla non discriminazione. La stessa emergenza nomadi ha permesso che nella sola città di Milano siano stati eseguiti 170 sgomberi nel 2010 e che sia nel capoluogo lombardo che a Roma siano stati adottati dei regolamenti comunali eccezionali che si applicano ai soli campi nomadi, prevedendo condizioni di soggiorno speciali per i loro abitanti, quali la necessità che l’intero nucleo familiare sia esente da condanne passate in giudicato anche se scontate; che si debba mostrare un tesserino di riconoscimento per accedere alla propria area attrezzata; che non si possano invitare conoscenti e che non si possa circolare nei campi dopo le 22. Campi spesso sorvegliati da polizia privata. E’ una legislazione dubbia e speciale nelle mani dei sindaci delle due principali città d'Italia per fronteggiare l'emergenza nomadi. Inoltre esiste una banca dati fornita dal «censimento nomadi» che serve a conoscere la sussistenza e la collocazione degli accampamenti informali.
Quanto le descrivo qui sopra è tutt’altro che esente da profonde criticità sotto il profilo del rispetto della parità di trattamento e dei diritti umani fondamentali. Oggi, mi chiedo, quali altri poteri desidera avere il sindaco Alemanno per fronteggiare l'emergenza? Persino cospicui fondi statali - più di 15 milioni di euro per commissario delegato - sono stati messi a disposizione. Sia a Milano che a Roma quei finanziamenti sono stati usati per gli sgomberi e per il ricollocamento in aree destinate, scelte tra le più inaccessibili e meno appetibili delle periferie urbane, aree ampiamente sovraffollate perché a Roma - complice un sentimento antirom efficacemente diffuso dalle pubbliche istituzioni - nessuno ha voluto vendere al Comune aree da destinare ai «villaggi della solidarietà».
Diciamo piuttosto che dal maggio 2008 l'emergenza nomadi è stata un pretesto che non ha risolto i problemi creati dall'effettivo afflusso di molte comunità rom dall'Est dell'Europa in una situazione già ampiamente degradata da politiche locali irresponsabili di segregazione, adottate in oltre venti anni nei Comuni e nelle regioni italiane. I poteri di emergenza in uso dal 2008 sono serviti ad attuare politiche ampiamente inaccettabili dal punto di vista del diritto all'eguaglianza ma altamente popolari data la comune antipatia verso i rom: censimenti, sgomberi, rimpatri, spostamento forzoso verso campi sovraffollati e dove vige un diritto «speciale». Perché il padre di quei bambini avrebbe dovuto portarli a vivere in un campo attrezzato regolato da norme simili? E magari ancora più inaccessibile del luogo dove effettivamente si è compiuta la tragedia? Pochi giorni fa, qui a New York, l'Italian Academy della Columbia University ha dedicato la sua annuale conferenza sulla memoria dell’Olocausto ai rom. In Italia non si sa neanche che c'è stato un Olocausto rom, in cui, come succede oggi, i rom erano obbligati a vivere in campi speciali, dove vigevano leggi speciali e dove le condizioni di vita non erano certo migliori di quelle che si potevano creare da soli, nelle baracche certo pericolose e pericolanti, ma almeno esenti dal diritto speciale dei sindaci.
*Ricercatrice dell’European University Institute Fulbright Fellow alla Columbia Law School, New York
La Stampa 8.2.11
Lezione di cinese ai bimbi italiani. Paga tutto Pechino
In Veneto scuola gratuita per 64 bambini delle elementari Il progetto finanziato dall’Istituto Confucio: “È solo l’inizio”
di Fabio Poletti
4,5 miliardi di dollari
Questo il budget annuo dell’Istituto Confucio che si occupa di diffondere la lingua cinese nel mondo
La conoscono tutti «Frà M a r - t i - n o - c a m - p a - n a - ro...». Sessantaquattro bambini della scuola primaria dell’Istituto comprensivo Lendinara nel mezzo del Polesine, la sanno pure in cinese. E cantano «Due-tigri-correvano-velocemente», come se niente fosse. «Bravissimi, hanno una capacità di apprendimento che noi adulti nemmeno immaginiamo», spiega Pierluca Benini, docente di cinese moderno in questa scuola, l’unica in Italia dove insieme ai primi rudimenti di inglese viene insegnata ai bambini pure la lingua di Pechino. «Ci è stata data un’opportunità. L’abbiamo presa al volo. I cinesi sono 1 miliardo e 300 milioni. La loro economia tira nel mondo. In questo mondo globalizzato è meglio imparare a farsi capire pure da loro», racconta Lucio De Sanctis, direttore di questa scuola in centro al paese, tre piani per mille allievi di tutta la zona tra scuola primaria elementare e media, dove all’ingresso sventolano il tricolore e la bandiera azzurra d’Europa ma dentro batte un cuore tutto cinese.
A Lendinara ci sono 12 mila abitanti tra italiani e stranieri, duecento sono immigrati dalla Cina. Una volta lavoravano nello zuccherificio, nelle fabbriche dove ancora si tesseva la juta. Adesso sono impiegati nelle piccole e medie aziende - scarpe e confezioni soprattutto - dove il made in Italy combatte sul mercato globale. Alcune aziende lavorano già nell’Est Europa, altre sono arrivate fino in Cina. E la Cina adesso gli è arrivata in casa grazie all’Istituto Confucio di Padova, una specie di Istituto Dante Alighieri per promuovere nel mondo la lingua e la cultura cinese. E siccome sono cinesi, fanno le cose velocemente e assai in grande.
Wang Fusheng è il direttore dell’Istituto Confucio di Padova. Uno dei quattrocento nel mondo, destinati a diventare duemila entro la fine del decennio. L’istituto lavora alle strette dipendenze dell’ambasciata a Roma, sotto il controllo diretto del governo di Pechino. Deve solo promuovere la cultura e la lingua, non fa politica, non promuove alleanze commerciali. Wang Fusheng sogna in grande: «Ci piacerebbe prendere contatti con il vostro ministero della Pubblica Istruzione. Per noi è molto importante. I corsi vengono pagati direttamente dal nostro istituto. Gli istituti Confucio nel mondo, per questo hanno un budget di 4,5 miliardi di dollari».
Tolte pure le spese per le sedi e per il personale, sono comunque tre miliardi e trecento milioni di euro più gli spiccioli che il ministro Mariastella Gelmini se li sogna di notte.
I corsi nella scuola di Lendinara sono gratuiti e aperti a tutti i bambini delle terze e quarte elementari. Più piccoli non avrebbero le capacità grammaticali per apprendere un’altra lingua. L’idea è che l’insegnamento del cinese vada avanti fino alla fine delle medie, con un percorso didattico di sei anni. Un’ora alla settimana per adesso. Al pomeriggio nell’area di insegnamento extrascolastico. Su sessantaquattro bambini si sono iscritti in sessantaquattro. Pure due bambini originari del Marocco. «In un anno imparano le frasi più semplici. In sei anni sono in grado di sostenere già una conversazione e di scrivere correttamente», assicura l’insegnante di cinese mentre racconta che la difficoltà di apprendere una lingua così diversa dalla nostra, è solo uno stimolo maggiore per tutti i bambini.
Se i piccoli alunni sono entusiasti, i genitori non sono da meno. Andrea Paio, professione commercialista, ha una figlia iscritta in questa scuola: «Io sono contento che i nostri bambini imparino un’altra lingua come il cinese. Non è solo per completare un processo di integrazione culturale. Ma so che così i nostri figli in futuro avranno una marcia in più. Io sono commercialista. Mi capita di lavorare con i cinesi. Quando parlano tra di loro ovviamente capisco nulla...». Potenza di questo Nord Est che guarda alle nuove sfide e si arrende mai. Potenza di questo Polesine laboratorio di nuove sperimentazioni didattiche. Vincenzo Milanesi, presidente dell’istituto Confucio ed ex docente all’Università a Padova, in questo progetto crede molto: «La Cina Popolare sta facendo grossi investimenti sulla cultura. E questo è un vantaggio per tutti perchè la conoscenza tra i popoli favorisce la cooperazione».
Il sindaco di Lendinara Alessandro Ferlin, eletto con una lista civica che tiene insieme centrodestra e centrosinistra - bella sfida pure quesa - fa l’entusiasta: «Che i nostri figli imparino l’inglese è scontato. Il cinese è oramai un obbligo. Il nostro è un progetto pilota destinato a continuare speriamo che anche le istituzioni capiscano l’importanza di queste cose». Maria Fernanda Barile, responsabile dell’ufficio provinciale scolastico di Rovigo raccoglie la sfida: «Esperienza positiva. Sarebbe bello trovare altre disponibilità nel territorio». E magari pure oltre, che i cinesi ci mettono un bel po’ di dollari solo per farsi capire meglio.
Corriere della Sera 8.2.11
Licei occupati, a Milano non è reato
di Luigi Ferrarella
MILANO— La scuola appartiene entro certi limiti agli studenti, che hanno diritto d’accesso anche fuori dallo stretto orario di lezione. E i giovani che nei giorni dell’approvazione della «riforma Gelmini» dell’università hanno occupato alcuni licei milanesi non hanno commesso il reato di «occupazione abusiva» delle loro scuole, perché— argomenta la Procura di Milano nel chiedere l’archiviazione per decine di ragazzi— la loro è stata «mera espressione della volontà di dare luogo a una protesta» contro «una riforma che, nell’attualità o in un prossimo futuro visto che le norme concernono l’Università, li coinvolge direttamente» . L’importante è che questa «espressione di volontà» sia «esercitata con modalità prive di qualsivoglia connotazione violenta» : se così avviene, l’occupazione di una scuola «non può assumere alcuna considerazione ai fini penali» . Questa valutazione dei profili soggettivi si salda, nella richiesta di archiviazione firmata dal procuratore aggiunto Ferdinando Pomarici e dal sostituto procuratore Grazia Pradella, con l’assenza del requisito della «arbitrarietà» dell’occupazione, dai pm giudicato mancante alla luce della «elaborazione giurisprudenziale di merito formatasi negli anni Settanta» . Essa, ricorda la Procura, «ha posto l’accento sull’appartenenza dell’edificio scolastico anche agli studenti, il cui diritto di accesso non può ritenersi limitato e legittimo solo quando venga esercitato entro i limiti e le modalità stabilite dai regolamenti scolastici, ma si deve ritenere esteso anche in caso di protesta rispettosa del principio di autoconservazione della funzione scolastica e dei confliggenti diritti di coloro che non partecipano alla protesta» . E’ pur vero che per molti anni la Cassazione ha contrastato questa interpretazione di merito dei Tribunali. Ma, rileva la Procura valorizzando una sentenza di Cassazione del 2000, «più recentemente la Suprema Corte ha mutato indirizzo» convergendo sull’idea che «non sia configurabile un limitato diritto d’accesso degli studenti all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività didattica in senso stretto» . I pm applicano dunque questi due parametri giurisprudenziali al caso concreto dell’occupazione del Liceo Artistico «Caravaggio» , dove il 18 novembre 2010 la dirigente scolastica aveva chiamato il 113 per denunciare che all’interno dell’istituto fosse in atto una occupazione da parte sia di studenti della scuola sia di giovani non frequentanti la scuola, in entrambi i casi per lo più travisati (anche se, richiesto di farlo, un loro esponente si toglieva subito il passamontagna). La mattina seguente la Digos entrava nella scuola il cui cancello esterno era stato chiuso con catena e lucchetto, e il cui portone d’ingresso era stato bloccato con alcuni tavoli. La Procura milanese motiva la decisione di archiviare la denuncia sporta dalla preside perché «l’occupazione della scuola è avvenuta dalle sei del pomeriggio del 18 novembre 2010 alle 7.30 del giorno dopo, al di fuori dell’orario scolastico e senza interruzione delle attività didattiche» , il che rende non sostenibile l’accusa di «interruzione di pubblico servizio» . Inoltre «nessun atto di violenza fisica è stato attuato dagli occupanti, nè alcun atteggiamento interpretabile come minatorio» ai danni di preside o custode. Non solo: «Una volta identificati gli occupanti, le lezioni sono iniziate regolarmente, con la partecipazione degli stessi studenti che nel corso della notte si erano intrattenuti nell’edificio scolastico» .
Corriere della Sera 8.2.11
Spartaco fu un guerriero (non un rivoluzionario)
Sbagliato dipingerlo come nemico dello schiavismo
di Paolo Mieli
In principio fu una lettera (il 27 febbraio del 1861) di Karl Marx a Friedrich Engels. È in questo testo che si trovano le prime tracce dell’interpretazione della rivolta spartachista come un’anticipazione, nell’antichità, della lotta di classe. Interpretazione che sarebbe stata ripresa prima da Lenin, poi da Stalin. Per caratterizzare successivamente il libro di Elena Mikhailovna Staerman e Mariana Kazimirovna Trofimova La schiavitù nell’Italia imperiale (Editori Riuniti). E influenzare, in maggiore o minor misura, numerosi altri studi: La tradizione della guerra di Spartaco da Sallustio a Orosio di Giulia Stampacchia (Giardini, Pisa), Schiavitù antica e ideologie moderne di Moses Finley (Laterza), Spartaco: analisi di un mito di Antonio Guarino (Liguori), Spartaco. La ribellione degli schiavi a cura di Mario Dogliani (Baldini&Castoldi). Nonché Spartaco, il famosissimo film di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo di Howard Fast, sceneggiato da Dalton Trumbo. Sulla scia della lettura di Marx, si dissero spartachisti nel 1918 in Germania i seguaci di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e, dopo di loro, molti altri gruppi comunisti. Dopodiché nella Russia sovietica e nei Paesi socialisti svariate associazioni sportive hanno preso il nome di Spartaco. Ma adesso viene pubblicato da Einaudi un volume di Aldo Schiavone, Spartaco. Le armi e l’uomo, che— sulla base di un accurato riesame dei testi antichi dedicati alla vicenda, da Plutarco ad Appiano, da Sallustio a Tito Livio — smonta gran parte dei capisaldi della lettura marxista in merito a quella lontana rivolta degli schiavi. A cominciare dai caratteri di quella ribellione che, tra il 73 e il 71 a. C., fece tremare Roma. Racconta Barry Strauss nel recente La guerra di Spartaco (Laterza) che in quel momento storico gli schiavi presenti sul territorio «romano» dovevano essere un milione e mezzo— forse due, o addirittura tre— e, tra loro, quelli che si ribellarono furono ben 60 mila. Forse più. Per comprendere il perché del terrore che quelle migliaia di uomini generarono nella Roma antica, basta riflettere sulla circostanza che quando, diciannove secoli dopo, nel 1831, si ebbe in Virginia la celebre rivolta di schiavi guidata da Nat Turner, negli Stati Uniti c’erano quattro milioni di schiavi. In quell’occasione se ne mobilitarono soltanto duecento e tanto bastò a provocare angoscia nell’intero Paese. Fatte le proporzioni, figuriamoci cosa avrebbe provocato in America nell’Ottocento l’insurrezione di 150 mila neri. In ogni caso, quella di Spartaco non fu la prima rivolta servile nei due secoli che precedettero la nascita di Cristo. Ce ne furono due in Sicilia: una tra il 135 e il 132, l’altra tra il 104 e il 100. All’epoca della prima sommossa siciliana, nel periodo che va dal 132 al 129, si creò una coalizione antiromana in Asia Minore a cui aderirono molti schiavi. E nella stessa Capua, da cui avrebbe preso le mosse Spartaco, si ebbero intorno al 104 due momenti di insubordinazione servile, l’ultimo dei quali si concluse con un suicidio in massa dei ribelli. Va poi detto che nel 73, quando si accese l’incendio spartachista, Roma era impegnata con il grosso delle truppe a contrastare le rivolte di Mitridate in Asia Minore e di Sertorio in Spagna. Ciò che spiega la sensazione di insicurezza che, dopo le prime sconfitte, si diffuse nella città. I ribelli poi si presentavano come uomini pronti a tutto. Racconta Barry Strauss che all’epoca l’aspettativa di vita di un gladiatore era breve. E cita, a riprova, i dati provenienti da un cimitero di Efeso, in Turchia, dove sono stati riportati alla luce (e studiati) 120 scheletri di combattenti da circo. Quasi tutti erano morti prima dei 35 anni, la maggior parte prima dei 25 (Strauss ipotizza che molti furono uccisi al loro primo combattimento). «Tra un terzo e la metà dei defunti» scrive lo storico, «morì di ferite così violente da tagliare o frantumare le ossa e circa un terzo di quelle ferite erano colpi alla testa; gli altri scheletri non mostrano segni di danni ossei, ma la morte potrebbe essere avvenuta comunque in modo violento, per esempio per sbudellamento, per la recisione di un’arteria o per un’infezione di una ferita alla carne» . I gladiatori di Efeso, prosegue, vissero durante il periodo della Pax Romana nel II e III secolo D C. quando i giochi erano un monopolio di Stato. All’epoca di Spartaco, I secolo a. C. nella tarda Repubblica, i giochi erano un’impresa privata e «questo probabilmente rendeva le cose peggiori per i gladiatori» . Di solito gli organizzatori erano, secondo Strauss, «uomini ricchi in cerca di popolarità e, siccome la folla amava il sangue, probabilmente facevano a gara nel numero di gladiatori da sacrificare» . La ribellione capitanata da Spartaco inizia, dunque, a Capua nell’estate del 73 a. C. Quel centro campano era assai particolare: trent’anni prima, abbiamo visto, aveva già registrato l’accensione di due focolai di insubordinazione; nel 216 a. C., dopo la sconfitta delle legioni a Canne, Capua aveva abbandonato l’alleanza con Roma per passare dalla parte di Annibale. Città infida, dunque, ma che Roma aveva saputo riassorbire facendone un luogo di commercio e un importante punto di raccolta di schiavi, che lì venivano addestrati all’arte gladiatoria. Già in pieno II secolo, racconta Schiavone, i giochi che si concludevano con lo scannamento di numerosi schiavi erano «ormai sempre più sganciati dai rituali funerari e dalle memorie sacrificali per essere inseriti stabilmente nell’esperienza della festa, del gioco, della munificenza cittadina, della condivisione ubriacante del piacere del sangue, della contaminazione del suo calore» . Il libro dei sogni di Artemidoro (Adelphi) registra già allora quanto queste manifestazioni ludiche suggestionassero l’inconscio dei romani dell’epoca. Da qualche tempo poi, a combattere non erano più solo gli schiavi, cioè «barbari» fatti prigionieri in battaglia, ma anche cittadini romani impoveriti, che scendevano nell’arena in cerca di un compenso economico. Ma questo fenomeno, su cui si sarebbe appuntata l’attenzione di Cicerone, all’epoca di Spartaco era solo in fase iniziale. Spartaco, originario della Tracia, una regione che comprende oggi la Bulgaria e la parte europea della Turchia, in quel momento aveva circa trent’anni. Nel corso della prima guerra contro Mitridate (88-85), si era arruolato, dalla parte dei romani, nell’armata di Silla. Poi però, quando la repressione colpì il popolo dei Maidi, a cui egli apparteneva, disertò e divenne un capo partigiano della sua gente. Catturato, fu venduto come schiavo a Roma. Da schiavo conobbe quella che sarebbe diventata la sua donna (di cui non è stato tramandato il nome), che era quasi sicuramente una baccante di Dioniso, culto che influenzò notevolmente entrambi. A Roma fu comprato da Lentulo Baziato e trasferito nella scuola-prigione di Capua dove, qualche tempo dopo, assieme a una settantina di uomini diede inizio alla rivolta, condividendo il comando con Crisso ed Enomao. Quando giunsero i primi contingenti romani, Spartaco (con i suoi) era già in fuga verso il Vesuvio. Fuga? Qui Schiavone si sofferma su un primo elemento che fa da cardine al suo libro. Secondo l’autore, Spartaco certo in quei primi attimi (ma anche in seguito) voleva sottrarsi agli agguati dei suoi nemici. Ma non volle mai «fuggire» . In molte occasioni avrebbe potuto darsi alla macchia, far perdere le sue tracce, tornare nella sua terra d’origine. Ma non lo fece: «la verità è che Spartaco non pensò mai di lasciare l’Italia» puntualizza lo storico. Già in quei primi momenti, al Vesuvio, la sua fu (e sarebbe restata fino alla fine) una rivolta che presto si sarebbe trasformata in guerra contro Roma. Una guerra come era stata, per dire, quella di Annibale e come sarà quella di Catilina. Tutt’altro che una fuga. Da Roma si muove contro di lui un contingente guidato da Publio Varinio. Spartaco, rivelando una grande capacità tattica, lo fa a pezzi. A più riprese. Dopo queste vittorie, Spartaco e Crisso si dividono. La letteratura antica — le fonti sono tutte romane, niente ci è stato tramandato di parte spartachista — si è molto soffermata su questa e altre successive divisioni nel campo dei rivoltosi, mettendo in evidenza il tema della «discordia intestina» . Ma Schiavone dimostra con argomenti efficaci che si non si trattò di dissensi strategici. Il piano del protagonista di quella ribellione (e dei suoi numeri due) fu— fin da quando sconfisse Varinio— quello di ritirarsi dalla Campania solo «per guadagnare un teatro d’operazioni più favorevole, dove fosse agevole manovrare, rifornirsi di viveri e avviare un nuovo reclutamento» . I ribelli puntarono verso Sud: Nocera, l’Irpinia, i monti Picentini. Giunsero a Forum Annii, l’odierno Vallo di Diano, e lì si lasciarono andare a un’improvvisa esplosione di violenza che accrebbe la loro fama. Gli schiavi del posto passavano in blocco dalla loro parte. Ma Spartaco da quel momento volle che di episodi come quello di Forum Annii non se ne verificassero più. Di lì in poi gli fu chiaro che il suo movimento avrebbe avuto successo solo se, anziché fare terra bruciata, avesse trasmesso nuovi valori comunitari su cui edificare, compiuta la sua missione, la «sua» società. Ma prima di costruire quella società doveva vincere la guerra. Spartaco adesso era fortissimo, conquistava l’intera Lucania e si affacciava sullo Jonio espugnando due centri importanti, Turi e Metaponto. Ma le città che cadevano nelle sue mani «venivano saccheggiate e abbandonate e mai Spartaco cercò di imporre con qualche stabilità il suo comando— diciamo anche la sua sovranità— su uno spazio geografico circoscritto» . In quel momento vietò ai suoi di comprare metalli preziosi o di procedere a una spartizione egualitaria della preda: le sue, scrive Schiavone, «erano sempre le disposizioni di un comandante sul campo, non ancora le norme di un sovrano legislatore; si stava preoccupando di salvare dalla bramosia acquisitiva e dalle rivalità personali la tensione e l’attitudine al combattimento dei suoi e di attirare un maggior numero di uomini dalla propria parte, non di costruire un modello alternativo di società» . A questo punto, siamo nel 72, Spartaco si divide, per esigenze tattiche, da Crisso che scende in Apulia verso il Gargano, e punta verso Nord. I romani sconfiggono Crisso, ma Spartaco li travolge nei pressi di Modena e si apre la via verso le Alpi. Se avesse davvero cercato una via di fuga adesso avrebbe avuto un’occasione d’oro. Invece si ferma e organizza i sontuosi funerali di Crisso (prova che tra i due non c’era alcuna inimicizia), facendo combattere fino alla morte trecento prigionieri romani in giochi gladiatori in onore del defunto: «Un capovolgimento di ruoli simmetrico e terribile, destinato a provocare negli spettatori uno shock emotivo fortissimo, che invertiva clamorosamente le posizioni fra le vittime e i carnefici» sottolinea l’autore. Dopodiché si dirige su Roma, dando l’ordine di uccidere i romani fin lì catturati e di respingere i molti disertori dell’esercito nemico. Perché queste decisioni? «Spartaco non si sentiva più il capo di un’armata di fuggitivi e di sbandati, ma si comportava ormai come un autentico comandante sul campo, un condottiero vittorioso venuto dall’Oriente, che la predestinazione divina aveva messo alla testa di un vero esercito, impegnato per un obiettivo che avrebbe mutato il corso della storia: colpire al cuore la potenza romana e sottrarre l’Italia al suo dominio» . E siamo al punto decisivo. L’impresa di Spartaco, sostiene Aldo Schiavone, non può essere più confinata all’interno dell’orizzonte della schiavitù romana. «Nessuna forma di "coscienza di classe"è mai esistita nella storia di Roma» scrive Schiavone «e tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una, per la semplice ragione che nella storia sociale antica non si può mai rintracciare la presenza di autentiche "classi", nel senso moderno e forte di questa parola: ma solo stratificazioni sociali anche molto articolate, la cui dinamica e i cui contrasti, tuttavia, non diedero mai vita a strutture propriamente di classe» . In che senso? Il vincolo di dipendenza personale, la condizione di schiavo che riduceva gli uomini a cose, sostiene Schiavone, «cancellava la separazione decisiva fra la persona del lavoratore e la vendita della sua forza lavoro — che è stata l’anima della modernità — e impediva perciò che si creasse la scissione costitutiva del rapporto di classe» . La sua esistenza «aveva un’origine e una regolazione del tutto extraeconomica, e questo costituiva un limite insuperabile al formarsi delle classi, perché non metteva mai di fronte lavoratori e proprietari di terre o di manifatture, ma lasciava in campo sempre un’unica figura: colui che — secondo il peculiare modello signorile — era nello stesso tempo proprietario di terra (più raramente di manifatture) e padrone di schiavi» . Né consentiva di sviluppare «quell’autopropulsività del sistema produttivo tipica dei sistemi economici moderni, poiché mentre l’operaio libero è in certo senso "creato"nella sua condizione di operaio dalla fabbrica, dalla produzione e dal contratto, lo schiavo non era "creato"nella sua condizione servile dal latifondo o dalla villa, ma da cause extramercantili, al di fuori del ciclo economico, come la prigionia in guerra, o le razzie dei mercanti della tratta; poteva essere comprato e venduto, ma non poteva essere "prodotto", in quanto schiavo, dal processo economico» . Tant’è che in latino non esisteva nemmeno una parola per esprimere la nozione (inesistente) di lavoro umano astratto, nel suo pieno significato moderno. Parola e nozione che sarebbero nate in Europa solo con la rivoluzione industriale. Secondo Schiavone la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi «è stata ed è tuttora una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato» . La lotta di classe, «che è un fatto grandioso e generativo della modernità stessa dell’Occidente (anche se, a essere rigorosi, non di tutta), individua uno specifico modello di conflitto e di soggettività collettiva il cui schema non può essere trasportato al di fuori del suo tempo storico: né all’indietro per spiegare Roma o la Grecia né in avanti, sul nostro presente postindustriale» . Niente dei comportamenti di Spartaco ci autorizza a supporre che egli abbia agito deliberatamente nel nome di tutti gli schiavi di Roma o lottato per un loro generale riscatto. Di certo non voleva abolire la schiavitù. I prigionieri romani furono trattati da lui come schiavi e da schiavi vennero fatti combattere e morire. L’idea di una società senza lavoro servile «non apparteneva alle culture del Mediterraneo antico; le grandi rivolte tra secondo e primo secolo non si prefiggevano questo scopo, volevano solo rovesciare situazioni locali e vendicarsi di padroni disumani, non sradicare un sistema in modo globale» . Spartaco dunque respingeva i disertori perché voleva trovare ben altri alleati, voleva trasformare la sua rivolta in una guerra italica e in una guerra civile. Percepiva in Italia un latente secessionismo antiromano, un po’ come nella Spagna di Sertorio. Di certo— ripetiamo — non voleva abolire la schiavitù. Mirava a qualcosa di più ambizioso: sconfiggere Roma e instaurare un suo dominio. Roma reagì mandandogli contro l’erede di una prestigiosa famiglia aristocratica, Marco Licinio Crasso, e chiedendo nel contempo al rivale di Crasso, Pompeo, di rientrare dalla Spagna. E Crasso riuscì a ottenere una prima, parziale, vittoria su Spartaco, che in cerca di alleanze (ma non tra gli schiavi, che a questo punto non si ribellavano più) stava tornando sullo Jonio. Il grande ribelle cercò adesso di sbarcare in Sicilia e di organizzare lì la sua retrovia. Ma i pirati che avevano preso con lui l’impegno di aiutarlo a passare lo stretto vennero meno ai patti. E il governatore siciliano (quel Verre che passerà alla storia per le accuse di Cicerone in un successivo processo) riuscì a impedirgli di stringere alleanze sull’isola. Fallito lo sbarco in Sicilia, Spartaco doveva risalire dall’estremo Bruzio (l’odierna Calabria). Crasso tentò di tagliargli la via con la costruzione di un gigantesco vallo tra le coste del Tirreno e quelle dello Jonio. Decisione folle e dispersiva: Spartaco riuscì agevolmente a passare. Crasso lo attaccò allora nei pressi di un lago lucano ma Spartaco ebbe la meglio. Nel frattempo Pompeo si avvicinava a tappe forzate al teatro delle battaglie e Crasso per impedire che il rivale cogliesse la vittoria (eventualità che gli provocava addirittura l’insonnia, come racconta John Leach in Pompeo, pubblicato da Rizzoli), giocò il tutto per tutto contro il nemico in una battaglia nei pressi del monte Cantenna, nella Lucania settentrionale. E stavolta riuscì quasi a distruggerne l’esercito. In seguito Spartaco vinse ancora una volta, cercò di aprire una trattativa con Crasso (tentativo fallito) e si diresse verso Brindisi. Ma in una nuova battaglia nella valle dell’alto Sele fu definitivamente sconfitto e ucciso (il suo corpo non fu mai trovato). È però una leggenda che sia stato crocefisso sulla strada che conduce da Capua a Roma, come toccò in sorte a seimila dei suoi seguaci. Un gruppo di suoi uomini rimase unito e continuò in un’azione di guerriglia che durò per un decennio. Si sarebbero uniti alla rivolta di Catilina (caduto nel gennaio del 62 nei pressi di Pistoia) e a fianco dei superstiti combatterono ancora nel 60 a Turi. Così, con «quel filo sotterraneo che unì le due insurrezioni» , si chiuse un ciclo. «Il cambiamento politico— è improprio definirlo come molti fanno una "rivoluzione"— arrivò alla fine attraverso l’unica strada possibile, in quella situazione» scrive Schiavone; «non una rottura che avesse per protagonista il fondo plebeo della repubblica: niente di lontanamente paragonabile a una "rivoluzione democratica". Ma l’ambiguo percorso di un colpo di Stato— quello di Augusto— uscito dall’interno della vecchia nobiltà senatoria, o almeno di una parte di essa» . Nella Roma del I secolo a. C. il «rinnovamento» tramite sommossa non era ben visto. Anzi. Contro Spartaco aveva giocato l’incubo delle res novae di cui parla con efficacia Sallustio: quelle terribili «novità» temute dai possidenti e torbidamente auspicate da una parte di quel popolo che era diventato ormai informe plebe. Dopo tante paure, con Augusto «le temute res novae si dileguavano senza lasciar tracce e le tensioni dell’età tardo repubblicana venivano assorbite e sterilizzate dalla passività di una base plebea (faremmo fatica a dire: popolare), che la permanente lontananza dal lavoro produttivo, e la conseguente mancanza di strutture di classe, spingeva all’immobilismo e alla rassegnazione» . Un’analisi prettamente marxista che porta a una visione assai diversa da quella che quasi tutti i marxisti dell’Otto e del Novecento ci hanno tramandato di quella tempesta che sconvolse l’ordine repubblicano nella Roma antica.
Repubblica 8.2.11
La Germania rompe un tabù "La circoncisione viola la legge" Un giornale apre il dibattito. Gli ebrei: "Non rinunceremo mai". Furiosi anche i musulmani
di Andrea Tarquini
Per gli ebrei, e per i musulmani, è precetto religioso antichissimo. Ma secondo interpretazioni più rigide dell´articolo 223 del codice penale tedesco, viola la legge: mutilazione corporale. Nella Germania moderna nessuno l´aveva messa mai in discussione. L´autorevole, aperta Frankfurter allgemeine ha lanciato il dibattito: chiedendosi se la circoncisione rituale, praticata per motivi religiosi, sia compatibile con i valori costitutivi di uno Stato di diritto, che vieta gli attacchi all´integrità del corpo umano. Così, per la prima volta dal 1945, Berlino critica una tradizione ebraica, anche se non solo ebraica, appellandosi al no alle violenze specie contro l´infanzia: dal 2000 in Germania ogni punizione corporale verso i figli è vietata dalla legge.
Stephan Kramer, segretario generale del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, ha espresso «profonda inquietudine per i tentativi di criminalizzare la circoncisione religiosa». Per lui abolire uno dei precetti religiosi costitutivi dell´ebraismo «è impensabile». Ancora più deciso l´intervento del rabbino Julian Chaim Soussan di Duesseldorf: «Anche l´ultimo bastione dell´autodeterminzione ebraica, il brit milà (così si chiama la circoncisione religiosa, ndr) è sotto tiro». Non bisogna cedere, insiste: «Da millenni decidiamo noi da soli quali siano gli elementi costitutivi dell´ebraismo, dell´identità ebraica, ci opponiamo a questi difensori della legge che vogliono oscurare la nostra identità a vantaggio di un´idea di società in cui decide solo la maggioranza». Un altro rabbino, Andrew Steimann, pur invitando a «non chiamare subito in causa il passato nazista», avverte che «insegnamento di dottrina e tradizione, shabbat e circoncisione rituale, sono elementi fondamentali della memoria collettiva che ha tenuto in vita l´identità ebraica». Per cui «rinunciare alla circoncisione rituale significherebbe tradire tutti coloro i quali hanno lottato per la nostra fede pagando spesso con la vita».
Un dibattito aperto è spesso un tabù violato, anche in una delle democrazie più solide del mondo come la Germania. Tanto più che l´articolo 223 del codice penale condanna ferite, lesioni e mutilazioni senza elencarle. Lo scontro vede uniti, per una volta, ebrei e musulmani. Nella Bundesrepublik la comunità ebraica dopo la riunificazione è rifiorita e tornata centrale nella società e nella cultura; i musulmani, a causa della forte minoranza immigrata turca, sono un fattore importante nel quotidiano. Infatti al Milli Goerus, la forte organizzazione islamica, mettono le mani avanti: e denunciano il «tentativo di limitare la nostra libertà religiosa».
I giudici "falchi" non sono d´accordo. Magistrati autorevoli come Rolf Dietrich Herzberg insistono nell´interpretazione dura delle leggi: la circoncisione viola l´integrità del corpo, tanto più se praticata per rito su minorenni incapaci di difendersi e di decidere. I maschi ebrei vengono circoncisi 8 giorni dopo la nascita, i musulmani attorno al sesto anno d´età, per cui secondo i magistrati il loro trauma è ben più grave. La difesa dell´integrità fisica, secondo i giuristi anti-circoncisione religiosa, deve far premio sul rispetto delle religioni. È una svolta nella coscienza collettiva della Germania postbellica. Eppure l´organizzazione mondiale della sanità (Oms) afferma che per i maschi circoncisi contrarre l´Aids, o favorire la formazione del tumore all´utero nelle loro compagne, sono rischi molto più improbabili.
Repubblica 8.2.11
Un saggio sulla costruzione del "flagello di dio" Attila o Dracula così si diventa "cattivi" celebri Le azioni vere o leggendarie dei sovrani che sono passati alla storia per le loro atrocità
di Agostino Paravicini Bagliani
Da Attila a Saddam Hussein, l´elenco dei sovrani e governanti che hanno lasciato tracce nella memoria storica come autori di atrocità, insomma come "flagello di Dio", è plurimillenario e non sembra destinato ad estinguersi. Prima ancora di Attila, Alarico, il re dei Visigoti, fu chiamato "flagello di Dio" – che significa letteralmente "frusta di Dio" – da sant´Agostino per avere invaso Roma nel 410. Fu il primo sacco di Roma (di cui si è ricordato l´anno scorso il millecinquecentesimo anniversario) e sconvolse i contemporanei tanto da incitare appunto il vescovo di Ippona a scrivere il suo celebre La città di Dio.
Alarico fu però perdonato dalla memoria storica, perché, come spiega Michel Rouche in un libro avvincente (Attila, Salerno Editrice, pagg. 384, euro 27), il titolo "flagello di Dio" passerà ad Attila, il re degli Unni a capo di un impero che si estendeva su gran parte dell´Europa centrale e dell´Asia centrale. Dopo essere stato sconfitto nei pressi dell´odierna Châlons-en-Champagne (durante la famosa battaglia dei Campi Catalaunici, 20 giugno 451), Attila riuscì l´anno dopo ad assediare una città importante come Aquila i cui abitanti furono ridotti in schiavitù. Gli Unni saccheggiarono poi città come Padova e Vicenza, ed anche Milano, capitale dell´Impero romano d´Occidente fino al 402. A metà del quinto secolo, la cristianizzazione aveva fatto grandi passi avanti, per cui Attila flagello di Dio – il titolo gli fu affibbiato mezzo secolo dopo la sua morte – rinviava allo scontro tra due civiltà, quella asiatica e quella occidentale rappresentata dal cristianesimo.
Così si spiega la leggenda secondo cui Attila sarebbe stato messo in fuga nel 452 da papa Leone Magno, descritto come vecchio ma capace di minacciare Attila con una spada. È la leggenda che racconterà Palo Diacono sul finire dell´ottavo secolo e che Raffaello metterà in scena in un affresco conservato al Vaticano. Leone Magno, a cavallo, avanza placido e coraggioso verso l´impetuosa orda degli Unni, ma Attila, vedendo apparire in cielo gli apostoli Pietro e Paolo, indietreggia impaurito.
Flagello di Dio, Attila lo fu per i cristiani. Ma il romano Ammiano Marcellino (morto nel 391) creò la leggenda di un Attila rozzo e difforme, a capo di Unni «che si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po´ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei cavalli». Gli storici hanno spiegato come queste dicerie fossero deformazioni della realtà. Se gli Unni mettono la carne cruda sotto la sella è per curare le ferite dovute allo sfregamento contro il dorso dei cavalli. Ma la superiorità militare degli Unni e lo spavento causato all´Occidente dalle loro incursioni fecero sì che Attila diventò la figura emblematica del nemico in assoluto. È però vero che altre leggende, di origine germanica e scandinava, presentarono un Attila positivo, il che ci ricorda un´Europa medievale dalle tradizioni culturali diverse, ricche di germanità e di nordicità oltre che di romanità.
Così avvenne anche per Teodorico di Ravenna. Gregorio Magno racconterà come Teodorico fu gettato nell´Etna, figura simbolica dell´Inferno ma la cultura germanica creerà la figura eroica di Dietrich von Bern. Teodorico fu demonizzato perché morto nella religione ariana mentre tutti gli altri sovrani della nuova Europa "barbarica" – pensiamo a Clodoveo – si erano convertiti al cattolicesimo.
Molto più tardi, l´imperatore Federico II di Svevia (morto nel 1250) fu visto sprofondare nell´Etna dopo la sua morte. Ma anche per lui la cultura germanica creerà il mito dell´imperatore che "vive e non vive", ossia dell´imperatore che tornerà alla fine del tempi. Erano due letture di uno stesso personaggio che si affrontavano da due posizioni contrapposte – il conflitto tra Chiesa e Impero –, ossia da due concezioni diverse della storia e del potere.
Fu così anche per Vlad III di Valacchia (morto nel 1476) più noto come Dracula. Ancor prima della sua morte, Vlad sarà definito l´Impalatore, perché, dissero cronache germaniche, aveva fatto impalare ed arrostire i prigionieri, costringendo le madri a mangiare i bambini così arrostiti. Nacque così «la storia crudele e terribile di un uomo selvaggio e assetato di sangue, Dracula il voivoda», sulla quale Bram Stroker creerà (1897) il personaggio moderno di Dracula. Anche Vlad condensava, nella memoria storica, uno scontro frontale, quello fra l´avanzata dell´Impero ottomano nei Carpazi e la politica di difesa del cattolico regno di Ungheria retto da Matteo Corvino.
Sono leggende che vivono a lungo e possono anche mutare di segno, interiorizzandosi. Nel 1610, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, dipinse Il martirio di sant´Orsola, una santa che, secondo un´antica leggenda, fu uccisa da una freccia nel petto scoccata da Attila perché lei lo aveva respinto. Ora, se il volto di Attila è un autoritratto, la violenza di Attila si capovolge e diventa richiesta di perdono…