Suore e puttane
di Concita De Gregorio
Nel disperato e spaventato tentativo di far sembrare la manifestazione di domenica prossima una piccola cosa, una cosa di donne, sono scese in campo le truppe da combattimento dei sostenitori e dei fiancheggiatori dell'Arcore style. Quelli che, a partire dall'anziano Ostellino, spiegano che ogni donna è seduta sulla sua fortuna dunque che male c'è, è sempre andata così, l'Italia in fondo è veramente un bordello abbiamo letto di nuovo ieri sul Corriere. I più raffinati, per così dire, schierano donne a denigrare altre donne nel tentativo di scatenare quella che, se solo si scatenasse, chiamerebbero entusiasti una rissa da pollaio. Il sottotesto, il retropensiero divertito di chi manda in tv e mette in prima pagina le Santanchè da combattimento è il seguente: ecco, guardate, donne contro donne. Come se le donne non rispondessero alle categorie di ogni essere umano e non ce ne fossero di ladre e di oneste, di servili e di libere, di capaci e di inette. Gli argomenti più in voga, per denigrare chi crede che le donne siano capaci per prime di reagire al “sistema” piuttosto che adattarvisi, sono i seguenti: sono femministe, moraliste. Predicavano il libero amore ora si atteggiano a suore. Le brave ragazze contro le prostitute, le madri contro le puttane, il mondo diviso in Maria e Maddalena così come i libri sacri ci insegnano, come gli uomini in fondo desiderano. Le puttane per strada offendono il decoro urbano, in villa sono accompagnate dagli autisti. Il femminismo e il moralismo non c'entrano: molte suore hanno firmato il nostro appello e parecchie prostitute, preti e libertini come se aveste la pazienza di leggerci capireste. Ammesso che l'obiettivo sia capire, naturalmente. Carla Corso, una donna di 65 anni che è stata ed è leader del comitato per i diritti civili delle prostitute, ci racconta oggi perché aderisce alla manifestazione. Dice, a un certo punto: “Noi eravamo in lotta contro il mondo, volevamo rompere l'ipocrisia, queste ragazze non sono contro ma sono funzionali al sistema”. Il femminismo è stato un movimento politico portatore di diritti. Le ragazze che negli anni Settanta non erano nate, quelle che come me andavano alle elementari non hanno combattuto quella battaglia: ne hanno goduto i frutti. Ma i diritti non sono dati per sempre, vanno difesi: con la cultura, con la consapevolezza. Scrivevo anni fa le storie vere di Dalia, la ragazzina dell'Est venduta dalla nonna a 12 anni, di Cristina, la studentessa che fiera di farlo rivendica il suo diritto a fare la puttana. La libertà consiste nel darsi il destino che si vuole. Credo che il “sistema” di cui parla Lele Mora e che da decenni è un modello di referimento per generazioni di ragazze – quelle sulle copertine dei rotocalchi, in tv – proponga come strada per la realizzazione di sé una libertà condizionata alla sottomissione. Un mondo di cortigiane, dice Carla Corso. Il problema non è mai chi vende, è chi compra. L'amore è gratis, si può fare in quanti e come si vuole. Anche vendersi è lecito. E' l'acquisto all'ingrosso, della società intera, che fa schifo. In specie se si comprano adolescenti: che siano consenzienti, e i loro padri con loro, non migliora. Peggiora piuttosto la responsabilità di chi dovrebbe indicare altri orizzonti e non lo fa. Di chi cavalca la sua privata debolezza spacciandola per legge di vita.
l’Unità 9.2.11
«Se non ora quando» In tutto il Paese domenica le donne lo diranno in versi
Un minuto di silenzio. Poi piazza del Popolo esploderà in urlo. Tutte unite, le donne. «Mai contro nessuna». Sognando un’altra patria «al femminile». Viatico i versi di Patrizia Cavalli. E Lucia Annunziata prepara la diretta.
di Mariagrazia GerinaUn minuto di silenzio, seguito da un urlo collettivo. Quasi un rito di purificazione per tirare fuori rinnovata la voce. E anche le parole. Le prime, scandite domenica prossima alle 14 dal palco di piazza del Popolo, saranno versi. Scritti e letti da una donna, Patrizia Cavalli, tra le voci più significative della poesai italiana. Dedicati all’Italia. Anzi, a La patria (titolo del suo ultimo libro, edizioni Nottetempo, in libreria dal 17 febbraio). «Certo,/ sarebbe un gran vantaggio/ poterla immaginare, tutta intera,/ dai tratti femminili, dato il nome...». E non potrebbe esserci viatico migliore a una manifestazione che rivendica di voler mutare l’Italia in «un paese che rispetti le donne» (reciterà così lo striscione srotolato dalla terrazza del Pincio).
Una patria al femminile. Non solo sognata, ma cercata, inseguita, sperata. Altro dal paese che «ci reprime e non ci considera persone», per dirla con Susanna Camusso, primo segretario donna della Cgil. Altro dall’Italia di Arcore e di Berlusconi, «che sta facendo passare il principio per cui alla politica accedono le donne che partecipano alle sue feste», per dirla da destra con il direttore del Secolo, Flavia Perina. Due donne, che nemmeno si conoscevano, prima. «Ciao piacere. Non c’è più posto?». «Ma no, c’entriamo tutte». Si sono trovate fianco a fianco nell’appello «Se non ora quando», si sono presentate ieri, alla conferenza stampa di lancio della manifestazione che da quell’appello (51.500 firme) prende le mosse. «L’hanno firmato donne di diverse età e provenienze politiche, in cerca di un comune denominatore», spiega la “regista” della mobilitazione Francesca Comencini. Con lei, l’attrice Lunetta Savino, l’europarlamentare Silvia Costa, la storica Francesca Izzo, Nicoletta Dentico, Titti Di Salvo, l’italianista Maria Serena Sapegno. Una mobilitazione che si vuole «plurale» e senza etichette. Nemmeno quella «moralizzatrice», che i «media cercano di attribuirci». «Non stigmatizziamo il comportamento di nessuna, non vogliamo dividerci in buone e cattive», ribadisce Comencini, felice di salutare l’adesione del Movimento per i diritti delle prostitute. «Questa piazza è aperta a tutte». Anche agli uomini «ovviamente», incitati a partecipare.
Contro nessuna, tanto meno contro Ruby. «Poi ciascuna di noi è qui a testimoniare la sua storia, in una relazione di confronto», spiega Camusso. Per altro: «la divisione tra puttane e madonne su cui soffiano i media dà molto fastidio giovanissime», avverte da prof universitaria Serena Sapegno. Assenti dal tavolo della conferenza, le giovanissime «stanno aderendo in tante» e saranno sul palco, assicurano le organizzatrici. «Noi senza loro e loro senza noi non andiamo da nessuna parte». In sala, c’è anche Lucia Annunziata. «Sono una giornalista, non firmo appelli». Però prepara la prossima puntata di In Mezz’ora. Domenica, in diretta da piazza del Popolo.
il Fatto 9.2.11
Le “altre” donne. Francesca Izzo
“Paese vecchio e maschilista”
di Chiara Paolin
L’episodio è passato in cavalleria. Una settimana fa l’onorevole Pdl Lucio Barani sventolava felice il garofano rosso che porta sempre nel taschino – è un nostalgico craxiano – per festeggiare il successo di Montecitorio: niente perquisizioni negli uffici del ragionier Spinelli. Di tutt’altro umore Rosi Bindi: per contrastare l’esultanza del collega si è stretta al collo la sciarpa bianca con cui ricordare la manifestazione che domenica prossima porterà nelle piazze di tutta Italia migliaia di donne stanche di bunga bunga. Ma Barani a quel punto s’è offeso moltissimo, e, sempre col fiore in mano, ha mimato un gesto osceno: “Bindi, quell’antisocialista, faceva gestacci – ha spiegato il deputato –. Allora mi sono tolto il garofano e le ho fatto capire che ero pronto a metterglielo”. Scene di ordinaria volgarità e disprezzo nelle sacre stanze istituzionali. Basterà una protesta di piazza per cambiare le cose? “Ci proviamo. Anche perché, come dice lo slogan, “Se non ora quando?”: Francesca Izzo, docente di dottrine politiche all’Università Orientale di Napoli, è una delle organizzatrici.
I numeri?
Oltre 50 mila adesioni online, 117 città e paesi in cui il 13 febbraio si chiederà all’Italia di riscattare la dignità di tutti e di tutte, ponendo fine alla devastazione del ruolo femminile. Un successo inaspettato, evidentemente abbiamo toccato un punto che, sotto la pelle della nostra società, era già sensibile.
Lei scrive saggi sulla “Morfologia del moderno” e “Il cosmopolitismo di Gramsci”. Che c’entra Ruby?
C’entra eccome perché le vicende poco private di Berlusconi sono soltanto la punta dell’iceberg. L’Italia è un Paese vecchio e maschilista: la disastrosa condizione delle donne è il segno più evidente della nostra arretratezza.
Lo dice anche Pia Covre, rappresentante delle prostitute italiane che ha aderito alla protesta. Ma chi è pronto a cambiare davvero?
Le donne, tutte. Infatti con noi ci saranno Susanna Camusso della Cgil e Flavia Perina di Futuro e libertà, artiste come Francesca Comencini o Margherita Buy, industriali come Miuccia Prada. Siamo volutamente e felicemente trasversali.
Eppure molte esponenti del Pdl difendono il premier a spada tratta, e il sottosegretario Roccella dice che farete una manifestazione di donne contro donne.
Al contrario, chiediamo il rispetto di tutte le donne. A partire da quelle che subiscono questa forma di violenza, lo sfruttamento sessuale, o anche solo la pressione psicologica di dover essere carine, bellocce, disponibili.
Ma le Papi-girls sono giovani furbe, che hanno imparato dalle mamme la libertà sessuale, o ragazze perdute?
Sono vittime di una forma odiosa di corruzione: gli uomini, che detengono il potere, impongono un modello obbligatorio. Infatti, proprio ai maschi chiediamo grande solidarietà e partecipazione: senza una loro presa di responsabilità sarà impossibile cambiare le cose. Anzi, già che ci siamo, posso chiedere anche a voi una cosa?
Prego.
Capisco il dovere di cronaca, ma cercate di ricordare sempre la differenza tra una ragazzina e un uomo di Stato. L’Italia deve davvero fare un passo avanti, è questo il momento giusto per spiegare – soprattutto ai giovani – che un altro futuro è possibile.
DICE LA FRASE del Talmud, presa in prestito da Primo Levi per il titolo del suo libro e rilanciata dalle donne: “Se io non sono per me, chi sarà per me? Ma se io sono solo, che cosa sono io? E se non ora, quando?”.
Repubblica 9.2.11
«Perché continuate a volerlo?»
Il papi padrino
di Barbara Spinelli
Cari elettori berlusconiani, vi sarà giunta voce, immagino, che gli italiani sono divenuti un enigma per le democrazie alleate. Il mistero non è più Berlusconi, che da anni detiene un potere non normale: controllando tv, intimidendo giornali e magistrati. Dopo tante elezioni, siamo noi, singoli cittadini, a essere il vero rebus.
Quel che ripetutamente ci chiedono è: «Perché continuate a volerlo? Perché insistete anche ora, che viene sospettato di corruzione di minorenni e concussione?». Nessun capo di governo potrebbe durare più di qualche giorno, fuori Italia: la stampa, la televisione, i suoi pari lo allontanerebbero, costringendolo a presentarsi ai giudici. Di questo le democrazie non si capacitano: se non ora, quando vi libererete?
A queste domande ciascuno deve saper rispondere: chi lo vota e chi non l´ha mai votato, giudicando non solo ineguale la battaglia fra schieramenti (per disparità di mezzi d´influenza) ma profondamente atipica. Tutti siamo contaminati, dal modo in cui quest´uomo entrò in politica e dalla natura del suo potere, che costantemente mescola il suo privato col nostro pubblico. Tutti viviamo in una sorta di show, dominato dal sesso e dai processi al premier.
La cosa peggiore a mio parere è quando inveiamo contro le sue passioni senili. Come se a far problema fosse l´età; come se bastasse che a Arcore ci fosse un trentenne, perché le cose cambiassero. È la trappola in cui spesso cadono gli oppositori. Vale la pena leggere quel che ha scritto lo scrittore Boris Izaguirre, a proposito del consenso tuttora vantato dal premier. Le sue debolezze sono in realtà forze nascoste: «La corruzione, quando si espone, crea meraviglia. La capacità di scansare ogni controllo e di schivare la giustizia affascina». Affascina anche l´epifania finale dell´anziano concupiscente. Nella «rivoluzione del gusto» che questi impersona, l´epifania è «l´unica opzione per l´uomo maturo moderno, e ineluttabilmente attrae un elettorato che condivide sogni di eterna gioventù» (El Paìs, 7-2-11). Il nostro, lo sappiamo, è un paese di vecchi: l´offensiva che accoppia età e reati del premier è qualcosa che turba sia voi sia me. Fa cadere ambedue in una rete che imprigiona, che impedisce di far politica normalmente, di reinventare quel che sono, in democrazia, destra e sinistra.
La rete in cui cadiamo è un film che non minaccia davvero il leader: è il suo film, noi e voi siamo comparse di una sua sceneggiatura, impastata di sesso, cattiveria, abuso di potere. Sono anni che abitiamo un mondo-fantasma lontano dalla realtà, imperniato sulla vita privata del capo. È lecito quel che fa? Osceno? I benpensanti sono convinti che di questo si occuperanno i magistrati, che politici e stampa debbano invece cercare una tregua. Ma tregua con chi? Si può patteggiare con un burattinaio che ci tramuta in pupazzi o spettatori di pupazzi? Se non si fa luce sulle notti di Arcore, è inevitabile che i film sulle papi-girl sfocino nel ridanciano. Ogni cittadino, berlusconiano o no, già ci scherza sopra, probabilmente, come gli spettatori ridono increduli negli ultimi giorni dell´uomo descritti da Kierkegaard, quando irrompe il buffone e dice che il teatro brucia. Nel momento in cui inizia la risata lo show sommerge il reale. Anche voi elettori Pdl lo intuite: le novità che attendete da anni rischiano di esaurirsi in un teatro in fiamme, con noi imbambolati a fissare il buffone.
C´è da domandarsi se non sia precisamente questa, la forza del Cavaliere: distruttiva, ma pur sempre forza. Come Napoleone quando parlava dei propri soldati, egli sembra dire: «I miei piani, li faccio coi sogni degli italiani addormentati». Imbullonati nello spettacolo senza vederne le insidie, ammaliati da veline e spazi azzurri che usurpano lo spazio della Cosa Pubblica, continueremo a esser pedine di un suo gioco. Sarà lui a decidere quando termina lo show di cui è protagonista. Lui occupa entrambi gli spazi, il fantasmatico e il reale, secondo le convenienze. È la sua doppia natura a confondere le menti: il suo essere Jekyll e Hyde. Chiamato a presentarsi in tribunale si rifugerà nell´inviolabile privato, esibendo la sguaiataggine di Hyde. Quando lo show tracimerà, ridiverrà l´impeccabile Dr Jekyll e dirà tutto stupito: «Propongo un patto di crescita economica, e l´armistizio sul resto». A Galli della Loggia, che è storico dell´Italia, vorrei chiedere: con questa doppia personalità urge far tregue?
È il motivo per cui nessun politico dovrebbe, oggi, invitare gli italiani a sognare un paese diverso. L´Italia ha già troppo sognato. Nel caldo delle illusioni ha disimparato lo sguardo freddo, snebbiato. Non di sogni c´è bisogno, ma di risvegli. L´altra Italia da raccontare fuori casa non è quella «che va a letto presto», come dice la Marcegaglia. È quella che veglia, che osa di nuovo sapere, informarsi (Umberto Eco ha ben risposto, nella manifestazione di Libertà e Giustizia: «Io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant»). Come i prestiti subprime, l´Italia è chiusa in una bolla, fabbricata da chi si pretende garante della sua stabilità. Ma le bolle scoppiano e voi lo sapete, elettori Pdl: quel giorno i pescecani si salveranno, e il vostro grande sballo finirà.
Finché resta la bolla, è evidente che il premier conserverà influenza. Vi invito a leggere un articolo scritto nel 2002 sul Paìs da Javier Marìas (è riprodotto nel blog mirumir.blogspot.com). Lo scrittore enumera gli ingredienti della seduzione berlusconiana: la sua disinvoltura sempre «sottolineata in rosso», il «sorriso falso perché costante», il passato di cantante come allenamento per staccarsi dai domestici e mischiarsi ai potenti, la mentalità di vecchio portinaio franchista ossequioso coi potenti e sdegnoso coi domestici, il risentimento dietro una bontà caricaturale, il terrore d´essere escluso dalle cerchie dei grandi, l´assenza d´ogni «vergogna narrativa». Egli seduce i declassati identificandosi con loro, e tanto più li sprezza. La sua morale: sei un perdente, se non infrangi come me leggi, diritti, costituzione.
Dicono che vi piace l´antipolitica. Credo piuttosto che vi aspettiate troppo, dalla politica. Avete sognato un re-taumaturgo onnipotente e permissivo al tempo stesso, non un democratico. È inutile proseguire l´omertoso patto che vi lega a lui nell´illegalità: i risultati attesi non verranno. Questo è infatti Berlusconi: un potere fortissimo, ma impotente. Non è il fascismo, ma i primordi del fascismo quando era pura «dottrina dell´azione» ripetuti come un disco rotto. Le masse cullate nell´illusione: tali sono i primordi. Poi la dottrina divenne politica, guerra, e fu rovina. Ma fu un agire. Non così Berlusconi. Da anni l´immagine è fissa sui preamboli fascisti del mago che seduce le folle umiliando l´uomo, come il Cavalier Cipolla che ipnotizza le vittime nel racconto Mario e il Mago di Thomas Mann.
L´era Berlusconi è costellata di questi torbidi patti: patti con la mafia per proteggere impresa e famiglia; patti con giudici corrotti; patti con ragazze alla ricerca di soldi e visibilità. Si può indovinare quel che hanno pensato i loro genitori: «Meglio vergini offerte al drago, che precarie in un call-center». Erano pagate per le prestazioni, e poi perché tacessero. Per questo possono divenire, da ricattate, ricattatrici del papi-padrino.
Ma la storia italiana è anche storia di decenza, di morti caduti difendendo lo Stato, contro le mafie. Anche voi ammirate questa storia: avete ammirato i tre ultimi capi di Stato, e prima Pertini. Senza di voi tuttavia il Quirinale può poco e l´Europa ancor meno. Ambedue ci risparmiano per ora il baratro, e forse l´Europa solo economico-monetaria è un po´ la nostra sciagura: i pericoli, ci toccherà intuirli dietro tanti veli. Ma li intuiremo. Se l´Egitto ha avuto la rivoluzione della Dignità, perché l´Italia non può avere una rivolta della decenza? La decenza ricomincia sempre con la riscoperta di leggi superiori a chi governa, del diritto eguale per tutti, della libera parola.
Repubblica 9.2.11
"Noi donne in piazza per urlare basta"
Domenica 117 manifestazioni. Le promotrici: gli uomini amici sono benvenuti
di Giovanna Casadio
ROMA L´idea è cominciare con un urlo. Un urlo liberatorio dalla Terrazza del Pincio fino a piazza del Popolo, domenica alle 14 a Roma ma ci sono altre 117 piazze in Italia e nel mondo perché non se ne può più. Le donne italiane non ne possono più di essere finite «in un cattivo film degli anni ‘50, in cui solo chi sta fuori dalla storia può pensare come spiegano le organizzatrici della mobilitazione "Se non ora quando?" che le donne corrispondano all´immaginario di vitelloni che non sanno fare l´amore, né confrontarsi, né lavorare al fianco e alla pari con le donne». In un video che va forte su Youtube (sul web sono arrivate decine di migliaia di adesioni all´appello), l´attrice Angela Finocchiaro invita alla manifestazione per fare dell´Italia quello che non è più, «un paese per donne», che «rispetti le donne».
Raccontano le ragioni delle piazze di domenica il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il direttore del Secolo d´Italia, Flavia Perina; Francesca Comencini; Titti Di Salvo; Silvia Costa; Lunetta Savino; Nicoletta Dentico. E la conferenza stampa è stata convocata non a caso nella sede della stampa estera, perché c´è un problema: spiegare all´estero com´è che siamo arrivati a questo punto. Con un premier indagato per concussione e rapporti con una minorenne, circondato da amici accusati di sfruttamento della prostituzione. E com´è che metà dello spazio sui media se ne vada a discutere se in piazza il 13 non vadano per caso le donne «per bene» contro quelle «per male». Una rappresentazione rilanciata da ministre e politiche del Pdl, intervistate dal settimanale berlusconiano Chi. Una sorta di "bigotte" contro "bocca di rosa". Altro fumo sui fatti. Camusso invita a guardare al cuore delle cose: «Anche in questo caso si deve sempre parlare delle ragazze, del lavoro delle prostitute, e non si parla dell´origine del problema, cioè la domanda maschile dei clienti, si cerca il dito e non la luna: se non ora quando un´Italia normale? Con la negazione della dignità delle donne non c´è futuro». La mobilitazione è trasversale. Lo spiega Perina, che è donna di destra, finiana. Un´altra donna di Fli, e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Giulia Bongiorno, è stata invitata a parlare sul palco a Roma. Prima, la poetessa Patrizia Cavalli che ha preparato una orazione civile dal titolo "La patria". A Milano, sul palco anche Perina.
Ovvio che le perplessità femministe non mancano. Sul sito donnealtri. it si dibatte sui rischi di moralismo e di strumentalizzazione. Pia Covre, leader del Movimento per i diritti civili delle prostitute, dice: «Noi ci saremo». I leader politici che parteciperanno, sappiano di essere ospiti: né simboli di partito né simboli sindacali. Un mini vademecum della mobilitazione recita: «La manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, o per dividerle in buone e cattive, cartelli e striscioni ne terranno conto»; la manifestazione è promossa dalle donne ma «la partecipazione di uomini amici è richiesta e benvenuta».
Repubblica 9.2.11
La Finocchiaro a Repubblica Tv: la mobilitazione femminile è un grande fatto politico
"La nostra dignità è quella del Paese ora possiamo far cadere il premier"
di Laura Pertici
ROMA Berlusconi può cadere anche grazie alla dignità delle donne. Alla loro presa di coscienza. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, a Repubblica Tv parla ovviamente di politica. Dunque delle 117 piazze che domenica saranno unite da un coro: "Se non ora, quando?".
La mobilitazione cresce di giorno in giorno.
«E´ un grande fatto politico. Per le dimensioni, per la sua natura spontanea, perché non ci sono patronati di partiti. In passato il movimento delle donne ha pagato le divisioni, oggi invece ciascuna firma l´appello dell´altra, prevale la necessità di fare massa critica».
Cosa vuol dire per l´Italia?
«La dignità delle donne corrisponde per una volta a quella del Paese. La loro identità, faticosamente costruita, le donne vogliono difenderla. Sono in fondo la parte più vivace della società, lo dimostra qualsiasi statistica su scuola e professioni. E´ per questo che un tale movimento può portare il presidente del Consiglio alle dimissioni».
Le donne del bunga bunga non sono libere di scegliere?
«Certo che sono libere. Così come qualsiasi donna adulta che voglia prostituirsi senza costrizioni. Il problema è la concezione che Berlusconi ha del mondo femminile: usate per proprio capriccio, le donne gli vengono procacciate, lui ne diventa l´utilizzatore finale e poi le destina a cariche pubbliche. Ho sempre pensato che le donne nelle istituzioni non possono che far bene, ma non se sono oggetto di mercato. Le nostre figlie hanno lavorato per veder riconosciute le loro capacità, non per essere selezionate. Non si tratta quindi di una rivendicazione di genere, per questo a manifestare saranno anche gli uomini».
Intanto Berlusconi annuncia la "scossa" economica, oltre che il ritorno al processo breve.
«Chiunque abbia conosciuto la natura del potere berlusconiano non può pensare che tutto finisca senza colpi di coda. La modifica dell´articolo 41 della Costituzione è solo uno show, i tempi sarebbero lunghissimi. In quanto al processo breve, l´opposizione sarà dura anche perché si possa tornare a cogliere il senso vero delle parole: processo breve non significa che la giustizia in Italia riprenderà a funzionare, bensì che il capo del governo non andrà a giudizio».
Il patto con la Lega ancora non si scioglie. Che fine farà il federalismo?
«La Lega tiene al laccio il premier e se lo porta in giro come un giocattolino. Ma sbaglia, non è con lui che può fare il federalismo, perché il premier e Tremonti hanno in testa un Paese in cui gli enti locali non contano niente e il potere rimane di poche persone, magari solo due. Per adesso Bossi sta cercando di raccogliere il maggior utile possibile prima delle elezioni, per poterlo spendere nei comizi. Non si arriverà alla fine della legislatura. Berlusconi è un uomo accerchiato».
il Fatto 9.2.11
Roberto, se non ora quando?
di Paolo Flores d’Arcais
Caro Roberto, ho riascoltato su Internet il tuo intervento al Palasharp, dove hai scandito, fra le ovazioni, che “non ha senso avere le mani pulite, se si tengono in tasca”. Un invito a impegnarsi direttamente in politica, visto che hai concluso con un “è molto facile star lontani dall’agone e sentirsi puri”. Come darti torto? Viviamo in una democrazia parlamentare (anche se ridotta in macerie da un regime di “populismo proprietario”, che conosce solo la libertà mannara dei prepotenti e delle cricche), e dunque non c’è protesta, movimento di massa, iniziativa popolare, indignazione e rivolta morale, che possa porre fine al cupo “quasi ventennio” arcoriano se non si prolunga in un coerente esito elettorale.
Il Palasharp si chiamava nove anni fa Palavobis, e allora furono quindicimila cittadini dentro e trentamila fuori a manifestare la stessa indignazione e volontà di democrazia, rispondendo al “resistere, resistere, resistere!” di Francesco Saverio Borrelli. Molti di quei cittadini probabilmente erano ad applaudire il tuo “sogno di un altro paese”. E nei nove anni trascorsi, assieme a tante altre centinaia di migliaia di concittadini, hanno riempito piazza San Giovanni e il quartiere limitrofo almeno tre volte, e piazza Navona, e piazza del Popolo, per non parlare delle tante lotte contro le mafie, che spesso hanno visto protagonisti i più giovani. O le lotte sindacali e operaie, quelle dei precari, e infine il movimento degli studenti.
NESSUN PAESE occidentale vede da anni una tale imponente e inesausta mobilitazione di massa della società civile. Eppure il regime di Berlusconi ha potuto proseguire nella sua opera di demolizione della Costituzione repubblicana. Perché nei rapporti di forza politici, che hanno nel Parlamento il pallottoliere dove si tirano le somme, quella straordinaria mobilitazione non ha trovato rappresentanza, e neppure voce. A chi ti rivolgevi, perciò, col tuo accorato e inoppugnabile monito? Alle centinaia di migliaia di tuoi e miei concittadini che con la generosità della passione civile hanno continuato a scendere in piazza ma non hanno ancora trovato la pazienza e la forza di dar vita a liste elettorali che li rappresentassero? Immagino che intanto tu ti indirizzassi a chi, in tutti questi anni, troppe volte ha preferito restare a casa, a lucidare il suo “particulare” e infiocchettarlo con schifate esortazioni a non “fare il gioco di Berlusconi”, come se non fosse proprio il rifiuto ad accettare l’invito alla piazza che gli “estremisti” e “girotondini” e “viola” rivolgevano loro, a facilitare la putinizzazione dell’Italia. Le gerarchie del Pd, in primo luogo, se non vogliamo avvitarci in quelle ipocrisie che tu, citando Gobetti e Camus, evidentemente consideri nefaste. Ma anche taluni che hanno preso la parola al Palasharp – sempre se vogliamo prendere sul serio la lezione di Gobetti e Camus – e che per anni hanno rifiutato di contaminarsi, in nome dell’unità e del realismo, ça va sans dire, con quel giustizialismo cui di fatto devono oggi riconoscere la sola descrizione tempestiva e puntuale del potere berlusconiano.
Proprio perché, caro Roberto, “è venuto il tempo di pensare a ciò che siamo e ciò che vogliamo”, per ripetere la frase con cui hai chiuso il tuo intervento, e proprio perché avevi richiamato, pochi secondi prima, la “rivoluzione a cui Monicelli faceva riferimento” , bisognerà pur sostanziarla di proposte concrete quella “priorità dell’unità” che hai martellato come imprescindibile e che è sempre nei voti di tutti, ma poi si scontra con le tentazioni all’accomodamento col regime, deprimente spettacolo cui troppe volte i cittadini hanno dovuto assistere (di cui l’inciucio ha costituito solo il degradante diapason) e a cagione del quale in tre/quattro milioni circa, nel volgere di due o tre anni, sono passati dal voto per il Pd al ritiro in un personale e angosciato aventino del non voto.
Tu sai bene che sul recupero di questi non-voti si giocherà il risultato delle prossime imminenti elezioni. Se non ci sarà, Berlusconi grazie alla legge “Porcata” avrà una maggioranza in Parlamento con cui fare strame in sei mesi di ogni articolo della Costituzione, addomesticare con nuove nomine la suprema Corte, e dopo un paio d’anni salire trionfalmente al Quirinale.
POICHÉ immagino che il minimo di “quel che siamo e vogliamo” sia sventare questo incubo, non possiamo restare nel generico, caro Roberto. Concretamente: pensi che sia credibile recuperare una parte cospicua di quei milioni di giustificatissimi “disertori” del centrosinistra senza che nell’alleanza unitaria siano presenti una o più liste di società civile, formate da cittadini senza appartenenze di partito? Tutte le ricerche demoscopiche rispondono di no, ma è comunque necessario che tu prenda posizione, poiché svicolare da un tale decisivo interrogativo somiglierebbe troppo a quel “facile star lontani dall’agone e sentirsi puri” che hai giustamente stigmatizzato. La “Porcata” ha infatti un solo pregio: dentro un’alleanza nessun voto finisce disperso. Nel 2006 con Prodi si presentarono anche una lista di pensionati e una lista di consumatori, insieme presero meno dell’1%, che incrementò il peso delle altre liste della coalizione. Anzi, en passant: se per il Senato fossero state accettate le “liste civiche regionali” pronte per quasi tutte le regioni, accreditate nei sondaggi a seconda delle zone tra un 2% e un 12%, Prodi si sarebbe trovato in entrambe le Camere con una larga maggioranza e senza dover trattare con i Ma-stella e altri padri della patria di analoga risma. Ma D’Alema Veltroni e Rutelli dissero di no, Prodi, si piegò, il seguito lo sappiamo.
Sei pronto a usare tutta la tua influenza presso i partiti della sinistra, perché tanto scempio non si ripeta? Perché accettino con pari dignità nell’alleanza tutte le liste di società civile, comprese quelle che scioccamente vengono gratificate di “giustizialismo” e di “girotondismo”?
E CON QUALI punti qualificanti pensi si debba concretare nella comunicazione verso gli elettori quel positivo “cosa vogliamo” che giustamente consideri all’ordine del giorno? Ad esempio, l’abrogazione di tutte le leggi ad personam? La “implementazione” della già esistente (dal 1957!) legge sul conflitto di interessi, per la quale basterebbe una modifica minima ? L’introduzione della legislazione statunitense in tema di falsa testimonianza e ostruzione di giustizia, oltre che di falso in bilancio? La restituzione dell’etere al pluralismo, oggi negato dall’appropriazione indebita berlusconiana? Il ripristino e la radicalizzazione delle leggi di contrasto degli omicidi bianchi?
La lotta contro la piaga del precariato endemico, che già alcune leggi del centrosinistra avevano propiziato? Una legge sulla democrazia in fabbrica, per cui siano gli operai ad avere l’ultima parola sul contratto, che segnerà la vita loro, non quella di eventuali corrivi cacicchi sindacali? Sai bene, caro Roberto, che sarebbe facile continuare, secondo una logica assai semplice, che consiste nel prendere sul serio la nostra bellissima Costituzione e cercare di realizzarla nei suoi valori. Tra i quali, l’idea (art. 49) che i partiti sono uno strumento attraverso cui i cittadini si occupano della Cosa pubblica, non un viatico di affarismo e di privilegi. Saresti d’accordo con leggi che riportino a dimensioni tollerabili il potere della Casta (se distruggerlo sembra troppo “sanculotto”, mentre dovrebbe essere ovvio, perché privilegio e democrazia formano un ossimoro): non più di due mandati da parlamentare (c’è già nello statuto del Pd! Ma poi c’è il codicillo delle eccezioni...) dopodiché si torna al proprio lavoro nella società civile, ad esempio? Mi fermo qui.
TU SAI perfettamente che nei prossimi mesi, ma potrebbe essere anche nelle prossime settimane, si giocherà il futuro dell’Italia almeno per una generazione. Tra chi vuole realizzare la Costituzione democratica e chi la vuole distruggere, la partita è infatti a somma zero. Berlusconi, se vince, non farà prigionieri, e dell’edificio della democrazia nata dalla Resistenza non lascerà una sola pietra. Vogliamo agire di conseguenza?
Un abbraccio
l’Unità 9.2.11
La coalizione costituente viene definita dal governatore della Puglia «autolesionismo puro»
Il leader del Pd: «Dimmi allora quale sarebbe la tua alternativa per battere Berlusconi»
Faccia a faccia Bersani-Vendola. Ma niente intesa sulle alleanze
La questione alleanze rischia di complicarsi se il governo dovesse reggere. Colloquio tra Bersani e Vendola: niente convergenza. Veltroni: «Evitiamo di correre appresso un giorno a Casini e un giorno al leader di Sel».
di Simone Collini
C’è l’azione della magistratura, c’è il dubbio che da un momento all’altro possa uscir fuori qualche foto compromettente capace di provocare al premier più danni di tante pagine scritte e lette, c’è l’impatto che potranno avere le manifestazioni di domenica e c’è la possibilità che il federalismo si incagli di nuovo in una commissione parlamentare. Ma anche se tra le forze di opposizione si continua a discutere di alleanze, sotto sotto si fa strada la consapevolezza che per quanto debole e per quanto si poggi, per dirla con D’Alema, sulla «corruzione di parlamentari», questo governo ha i numeri per rimanere in sella ancora per un bel po’ (e non è un caso che sia stato fatto slittare il voto sulla mozione di Fli sul pluralismo in Rai). Anzi, chi oggi interviene per sostenere questa o quella formula di coalizione, lo fa per posizionarsi in vista di una partita che sarà piuttosto lunga. Bersani, che vuole far giocare al Pd il ruolo di «cardine» attorno a cui costruire un’alleanza di cui faccia parte non solo il centrosinistra tradizionale ma anche l’Udc, sta lavorando per sintetizzare in una decina di slogan e di cartelle il programma messo appunto con le tre assemblee nazionali, per avviare poi un confronto con le altre forze di opposizione. Di Pietro, che ha capito che il Pd potrebbe anche sacrificarlo sull’altare del Terzo polo (sono soprattutto l’area che fa riferimento a Letta e quella che ruota attorno a Fioroni a spingere in questa direzione), ha lanciato un’offensiva contro la “Santa alleanza”, insistendo sul fatto che se vogliono essere «credibili» ci vuole una coalizione limitata a Idv, Pd e Sel. E poi c’è Vendola, che da un lato definisce in un’intervista al sito web di “Libertà e giustizia” «autolesionismo puro» l’ipotesi dell’alleanza costituente, dall’altro sta giocando una partita più sottile, mostrandosi anche disponibile ad aprire un confronto con Casini («io non pongo veti») e chiudendo invece a un’eventuale intesa con Fini: «Vuole rifondare il centrodestra, io il centrosinistra».
COLLOQUIO TRA BERSANI E VENDOLA
Ieri il leader del Pd e quello di Sel hanno discusso della questione. Il colloquio non è però bastato a far trovare ai due un punto di convergenza. Vendola ha chiesto di «non insistere» con la proposta della coalizione costituente perché non verrebbe capita dagli elettori di centrosinistra e perché comunque non la vogliono i finiani («ogni volta che si parla di alleanza da Vendola a Fini la pattuglia parlamentare di Fli rischia di perdere pezzi»). Bersani ha replicato chiedendo al governatore della Puglia quale sarebbe allora in questa fase di «emergenza democratica» la sua proposta alternativa per battere il premier, aprire una fase nuova e ricostruire sulle macerie lasciate da questi anni di cura berlusconiana.
Sull’ipotesi della coalizione costituente Bersani ha compattato tutto il Pd, ma non è detto che riuscirà a tenerlo unito se i tempi si dovessero allungare. Veltroni dice che se si andasse al voto a maggio bisognerebbe fare «un’alleanza di carattere costituzionale per fare le riforme di cui il Paese ha bisogno» e che sia guidata da «un federatore esterno» (non un leader di partito), mentre se le urne si allontanassero sarebbe auspicabile «un governo di decantazione con le forze responsabili». Ma l’ex segretario è anche convinto che se la legislatura andrà avanti il Pd dovrà rivedere la sua strategia. Le incognite su come si muoverà il Terzo polo sono molte con l’allungarsi dei tempi (ieri Rutelli ha proposto «un governo di larga convergenza che vada da Fi al Pd, senza gli estremi che non vogliono governare, ma solo gridare»). E per Veltroni il Pd «deve evitare di correre appresso un giorno a Vendola e un giorno a Casini». Per l’esponente di Movimento democratico il suo partito deve «rimettersi al centro, avere la forza di dare un messaggio per Paese e su questa base verificare le alleanze possibili». È quello che vuole fare anche Bersani, ma più durerà il governo, più la strada verso l’alleanza costituente sarà in salita.
il Fatto 9.2.11
Manifesto futurista
“Il fascista libertario”: la nuova destra da Eastwood a Saviano
di Luciano Lanna
“Il fascista libertario, da destra oltre la destra tra Clint Eastwood e Gianfranco Fini” scritto dal direttore del “Secolo d’Italia”, Luciano Lanna (Sperling & Kupfer, collana “Le radici del presente”) parte dall’immaginario, dalle idee, dai miti, dalle passioni di una generazione che da destra si è affacciata alla politica negli anni ‘70. E delinea il Pantheon del post-fascismo da Leo Longanesi ed Ezra Pound, fino a Ennio Flaiano e Roberto Saviano, passando per Indro Montanelli e Vasco Rossi. Ne pubblichiamo uno stralcio.
Eastwood è sempre stato un’icona cara alla destra. Fascista o non fascista, dai tempi di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, passando per l’Ispettore Callaghan, sino al suo diretto impegno in politica a destra – è stato, negli anni Ottanta, anche sindaco repubblicano di Carmel, in California – e ai film da lui diretti, da Gli spietati a Million Dollar Baby, Eastwood non ha mai smesso di rappresentare una cifra precisa nell’immaginario e sempre si è definito un “libertario”. “Non sbaglia un film”, ha scritto Roberto Savia-no, l’autore del best-seller Gomorra, lo scrittore che, come egli stesso ha ammesso, deve molto alla sua lettura giovanile di autori come Céline, Jünger e Pound. “Ogni sua pellicola è necessaria. Sembra, il suo, un percorso che cerca nelle storie un modo per ordinare il mondo, per chiarirsi le idee. Un catalogo di vicende che come in Gran Torino, Million Dollar Baby o Lettere da Iwo Jima non stanno a raccontare come dovrebbe andare il mondo, ma come lo fanno andare le persone, gli individui, attraverso ogni loro scelta. Che sia giusta, falsa, marcia o vera. È l’individuo che Eastwood racconta”. Nell’autunno del 2009 Roma è stata per qualche giorno tappezzata da manifesti politici che riprendevano la sua interpretazione di Walt Kowalski in Gran Torino. Il personaggio è un classico uomo di destra, ligio alle regole e allo stile, un reduce di guerra che prova una grande passione per la propria Ford Torino, modello classico del 1972, custodita religiosamente nel suo garage. E in quel manifesto Kowalski era ripreso nel suo consueto e straordinario segno di pollice e indice a indicare la pistola come nei giochi dei bambini, gesto che coinciderà con il suo sacrificio per aiutare la comunità degli immigrati asiatici. (...) E anche nel suo film successivo, Invictus, Eastwood rilanciava il suo antirazzismo “da destra”. Intervistato a Los Angeles, il vecchio Clint spiegava perché avesse scelto di girare una pellicola tutta dedicata alla battaglia anti-apartheid di Nelson Mandela. “Sono cresciuto a Oakland, in California, con una vasta popolazione di neri”, esordiva il cineasta. Aggiungendo: “Amavo la musica, ma non capivo perché i musicisti neri non potessero suonare nella band dei bianchi” (...) Tutto questo Eastwood lo sostiene senza rinnegare nulla delle sue radicate convinzioni politiche libertarie, quelle che nei primi anni Settanta lo fecero bollare – a partire dalla nota stroncatura della critica statunitense Pauline Kael – addirittura come “fascista” (...) Ma oggi, sostiene lui, la frontiera della libertà passa attraverso la capacità di “scavalcare le linee di partito” (...)La via è quella dell’ossimoro. Callaghan è libertario. A destra e antirazzista. La lezione eastwoodiana, conclude Saviano dopo aver visto Invictus, è quella “di come la politica sappia essere cosa diversissima da quella che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Di come possa essere, in tutti i sensi, il sogno di un uomo e di un popolo ancora desideroso di conquistare diritti e felicità...”.
il Fatto 9.2.11
Il diluvio
di Oliviero Beha
Vaglielo a dire a Berlusconi, Bossi e Maroni, e Cicchitto ecc., e olimpicamente a Napolitano e specularmente a Bersani che forse ha ragione l’Ecclesiaste, il quale non vota e dunque non costituisce un pericolo imminente. Vaglielo a spiegare che c’è un tempo per la semina e un tempo per il raccolto, e tutto il repertorio stagionale che magari consideriamo “ciofeca” superata e invece è ancora lì, a reggere il mondo. Vaglielo a dire che non è neppure sorprendente che spunti alla fin fine un Saviano post-televisivo che spiegabilmente infiammi la “piazza” del Palasharp, con quell’eloquio calmo e un po’ raffazzonato che arriva più penetrante della sua pagina scritta, con quel volto antico da Inri contemporaneo e/o da camorrista buono, una specie di cura omeopatica contro i Casalesi e tutta quella gentaglia che ce l’ha con lui ma almeno altrettanto con noi, con quelli che intendono diversamente il rapporto tra persone. Vaglielo a ripetere che la “piazza” deflagra comunque quando il disagio è eccessivo, quando la politica è vuota, quando non si capisce un beneamato di alcun programma e persino sul famoso, famigerato o fatidico “federalismo fiscale” non torna un conto che è uno, quando il futuro è stato polverizzato e il presente dura un istante e a volte neppure quello in assenza di uno straccio di memoria storica. Vaglielo a dire che i 150 anni di Unità (d’Italia) sono una gran bella cosa ma che ancora migliore sarebbe una nuova spedizione dei Mille tra il mediatico e il piazzaiolo perché altrimenti tutto resta chiuso in un Palazzo grigissimo che non dà più risposte da un pezzo e le folle grandi e piccole si chiedono “che fare?” a Lenin ultrasepolto e in attesa motivatamente spasmodica di fare a meno anche di Berlusconi? “Dopo”, per tornare all’Ecclesiaste e alle sue stagioni, dopo che accadrà? Oppure la paura che Berlusconi sopravviva a se stesso è tanto forte da rimuovere anche questa cruciale domanda? Allora sì che ci sarebbe un berlusconismo a livelli industriali senza il prototipo... con Saviano o senza di lui (mentre dalla penombra si affacciano i berluschini della politica di entrambi gli schieramenti con aggiunta di terzipoli, dell’imprenditoria, della finanza, dell’editoria...). Nel frattempo si dispiega mediaticamente la “paura della piazza” e chi ne scrive come sto facendo è quasi obbligato a premettere (o post-mettere, nel caso) che è “contro ogni violenza” in una tiritera che dovrebbe essere acquisita e suonare offensiva per chiunque abbia un poco di memoria per gli anni di piombo e un poco di sensibilità per questi anni di merda. Certo, sono contro la violenza, e temo ogni strumentalizzazione della piazza. Ma non al punto di additare la piazza come il nemico pubblico principale di uno status quo truffaldino che ci ha ridotti così. Basterebbe riprendere in mano qualche pagina di Machiavelli, per esempio quelle delle “istorie fiorentine” citate in “Giustizia e bellezza”, di Luigi Zoja, (Bollati Boringhieri). Da sempre c’è stato un “palagio” cui però si opponeva una “piazza”, dal latino platea: era il Rinascimento. Oggi in una Seconda Repubblica che è diventata semplicemente una Reprivata c’è il Palazzo o i Palazzi o il Residence del potere ma la piazza è stata sostituita dalla piazza/tv, dalla sua farsesca e annichilente riproduzione mediatica. Adesso sembra vicina la resa dei conti e ve ne meravigliate? Davvero si pensava che potesse durare così all’infinito? E non dipenderà da Ruby e dalle minorenni, ma dall’Ecclesiaste e dai tempi maturi: in “Dopo di Lui il diluvio”, maggio 2010, ed.Chiarelettere, cito dai verbali della D’Addario sul lettone di Putin le parole testuali del premier che le dice “pisciami addosso” motivando il titolo del pamphlet. Non era un reato penale, perlomeno non in senso proprio, no. Semplicemente il momento dell’Ecclesiaste (e di Saviano...) non era ancora giunto.
il Riformista 9.2.11
Si cerca un candidato Veltroni vuole un esterno
Walter cerca un federatore, modello Draghi. Vendola: «Voglio destrutturare il centrosinistra e aprire un cantiere per il nuovo». E nel Pd s’avanza l’ala per includerlo.
di Ettore Colombo
qui
il Riformista 9.2.11
Un altro partito comunista? Lo fa il compagno Giannini
di Ettore Colombo
qui
il Riformista 9.2.11
Non tutta la sinistra riparte dal Palasharp «Saviano presidente forse è meglio di no»
di Giacomo Russo Spena
qui
http://www.scribd.com/doc/48476028
il Riformista 9.2.11
Nessuna scusa alla Fiom?
di Peppino Caldarola
Ho aspettato qualche giorno prima di scriverne in attesa di reazioni. Parlo della notizia di Marchionne che vuole trasferire a Detroit la testa della Fiat e forse altrove tutto il resto. Aspettavo di leggere dichiarazioni di scusa alla Fiom. Del tipo: «C’eravamo sbagliati». Appena poche settimane fa abbiamo letto articoli e dichiarazioni che facevano la lezioncina ai metalmeccanici della Cgil sulla loro arretratezza culturale e sulla atavica diffidenza verso il management Fiat. Per giorni e giorni governo, Bonanni e leader della sinistra hanno invitato gli operai a liberarsi dalla cultura settaria per aprirsi alle nuove relazioni sindacali. Mi interessa ora soprattutto mettere a fuoco l’atteggiamento dei leader della sinistra marchionnizzati. Che cosa dire di loro? Sono dei “boccaloni”, per usare una espressione, credo toscana, che indica un esemplare ittico che figura nell’elenco delle cento specie dichiarate più dannose al mondo. Non ci voleva molto acume per capire il trucco del piano di Marchionne. L’iniziativa dell’ad della Fiat è stata letta come l’annuncio della controffensiva liberista, da alcuni, o come il duro prezzo da pagare alla crisi, da altri. Abbiamo invece assistito alle prove tecniche di sganciamento dell’azienda dall’Italia. La richiesta della Fiom di vedere il piano prima di trattare la condizione operaia era una piattaforma realista e moderata per scongiurare scelte pericolose. Ora siamo tutti più deboli. Spero che i “boccaloni” se ne siano accorti.
Corriere della Sera 9.2.11
Marino: «La norma non rispetta la volontà della persona»
ROMA— Senatore Ignazio Marino, lei ha firmato un appello dei medici contro la legge sul fine vita. Perché la avversa? «Perché contiene almeno due punti inaccettabili. Non è giusto che l’inserimento di un tubo nell’intestino per l’alimentazione e idratazione diventi obbligatoria anche per coloro che hanno espresso la volontà di rifiutare questi trattamenti. Parliamo di cure, di veri e propri atti medici. Inoltre la legge non garantisce che le volontà della persona siano rispettate visto che il testamento non è vincolante» . Che significa in pratica? «Significa che un medico ha il potere di mantenere in vita quella persona e di commettere una violazione. Parliamo di una legge voluta dalla destra, ma non dagli italiani. Il 70%dei chirurghi hanno affermato che disobbediranno. Il 77%dei cittadini intervistati da Eurispes si sono espressi a favore della libertà di scelta» . C’è una via di compromesso? «È stata respinta la proposta del Pd di sostituire la legge con un unico articolo dove si dice che tutte le terapie, incluse alimentazione e idratazione, devono essere garantite a meno che la persona abbia lasciato scritto un no» . Cosa succederà nei reparti di rianimazione se la legge diventasse pratica quotidiana? «Ci sarebbe un’ondata di ricorsi alla Corte costituzionale da parte dei familiari che non ritenessero rispettate le volontà del proprio caro. Viene violato l’articolo 32 della Carta sulla libertà di scelta» . Che ne dice della giornata sugli stati vegetativi? «Il governo dimostra di preferire le provocazioni al dialogo. Dovrebbe essere la giornata del silenzio, come ha chiesto Englaro. Invece ci sarà una crociata ottusa e senza rispetto per la memoria di Eluana» .
il Fatto 9.2.11
Intervista
“La giornata degli stati vegetativi è uno schiaffo a Beppe Englaro”
Per Ignazio Marino l’iniziativa di oggi “è una violenza”
di Caterina Perniconi
Non è potuta morire in pace, né adesso la lasciano riposare in pace. Oggi, secondo anniversario della scomparsa di Eluana Englaro, ricorre la giornata nazionale degli stati vegetativi, celebrazione indetta dal Consiglio dei ministri, su proposta del sottosegretario Eugenia Roccella. Non bastavano, per Beppe Englaro, le urla in Senato il giorno della morte, o le leggi dell’ultimo minuto che hanno cercato in tutti i modi di bloccarlo. Ancora una volta la politica è entrata nella vita della famiglia di Lecco, che ha definito questo ennesimo gesto di sfida “indelicato e inopportuno”.
Senatore Ignazio Marino, tutti possono capire perché questo gesto è indelicato. Lei, da medico e da politico, ci può dare gli strumenti per capire quanto è anche inopportuno?
Questo atto va al di là dell’arroganza. Fa parte di quella destra violenta che non è riuscita a fare in modo che Englaro, tramite la legge, non potesse far rispettare le decisioni della figlia e ora lo vuole colpire con uno schiaffo in pieno volto. Quindi trasforma la giornata della morte di Eluana in una giornata di conflitto per il paese.
Che lo spacca a metà.
Sono sempre più preoccupato dal fatto che nel nostro paese le questioni che interessano la vita delle persone diventano secondarie al conflitto politico. Le lotte di potere su temi sensibili come questo distaccano la politica dai cittadini.
Dopo la morte di Eluana sembrava che una legge sul testamento biologico fosse urgentissima.
È stata invece chiusa in un cassetto e ora la riportano in parlamento senza discutere sulla vita, ma solo sperando nella divisione delle opposizioni per la sopravvivenza del governo Berlusconi.
Lei ha presentato 1500 emendamenti al ddl Calabrò.
Nessuno può essere curato contro la sua volontà. Nessuno può avere la possibilità di fare violenza sulle persone e decidere quali trattamenti può ricevere e quali no.
Il nodo è quello dell’obbligo di idratazione e alimentazione.
L’articolo 3 prevede che anche chi ha lasciato scritto il suo no all’idratazione e all’alimentazione venga comunque trattato, perché lo vogliono la Roccella e altri politici. Né io, né lei né chi legge potrà più scegliere .
Quindi le indicazioni lasciate dal cittadino (come quelle che ieri ha annunciato di aver scritto Beppe Englaro) non saranno più vincolanti.
Dopo questo percorso di legge no. A scegliere saranno le convinzioni e la cultura del medico e non quelle del paziente. Perciò se perdi coscienza perdi anche ogni diritto. È una proposta così inaudita che io faccio fatica a spiegarla ai miei colleghi all’estero.
Questo vale anche per i casi come quello di Welby, in cui paziente è cosciente?
All’inizio la proposta riguardava anche quei casi, per fortuna siamo riusciti, dopo un grande lavoro, a scongiurarlo. La legge resta comunque anticostituzionale.
Si riferisce all’articolo 32?
Certo, e fu una persona religiosa come Aldo Moro a far introdurre la parte che prevede che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Non capisco perché continuare a scrivere e votare leggi che poi devono essere smontate dalla magistratura perché anticostituzionali come la fecondazione assistita.
Lei ha fatto una sua proposta.
Sì, che per quanto mi riguarda è già un bel passo indietro. É un solo articolo e prevede che le terapie siano garantite a tutti tranne a chi l’ha esplicitamente dichiarato. Mi spiego meglio: se io perdessi coscienza vorrei che i miei familiari scegliessero per me. Nella mia proposta non è possibile, può averlo scritto solo il paziente. Capisce che per me è un bel passo indietro ma sono disposto a farlo nell’interesse delle persone.
Perché il Partito democratico fa così fatica a trovare una sintesi sui temi etici?
Perché all’interno ci sono persone che potrebbero votare con la destra sul biotestamento e non si fanno una ragione del fatto che i temi eticamente sensibili sono semplicemente diritti civili. Ma troveremo una convergenza.
Tutti dovrebbero garantire i diritti civili.
Questa è una fase politica in cui qualunque argomento viene utilizzato per scegliere una posizione e non discusso nel merito .
All’assemblea del Pd D’Alema ha chiesto un maggiore impegno della società civile in politica. Può essere un modo per discutere questioni più vicine ai cittadini?
Io sono convinto che la politica debba essere a servizio del paese e non fatta solo da professionisti. Uno ha un impegno temporaneo e poi torna al suo lavoro.
Saviano potrebbe essere un esempio?
Chiunque si senta di dare un contributo – senza fare propaganda sui nomi – con un vero impegno personale.
il Fatto 9.2.11
La proposta alternativa del medico composta da un solo articolo
Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di dare soluzione al problema delle indicazioni sui trattamenti sanitari, nella consapevolezza che la vita biologica ha un limite, garantendo comunque la qualità e la dignità della vita nelle fasi terminali di essa. Introdotto negli Stati Uniti nel 1991, il living will, o dichiarazione anticipata di trattamento, mira a garantire che una persona possa lasciare, se lo desidera, indicazioni in merito alle terapie nel caso in cui non sia più in possesso delle proprie facoltà di intendere e di volere. (...) Qualora il medico ritenga di dover agire diversamente da quanto indicato nel testamento biologico, si ritiene necessario coinvolgere il comitato etico dell’ospedale per valutare le motivazioni del medico, confrontarle con le indicazioni del testamento e giungere a una decisione che salvaguardi il migliore interesse del malato anche nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione. Rispettare un testamento biologico non dovrebbe mai portare ad agire contro il benessere del paziente, come invece potrebbe accadere, paradossalmente, nel caso di un documento redatto in maniera poco chiara o pericolosamente restrittiva.
l’Unità 9.2.11
Pazienti o prigionieri?
Perché la loro legge insulta la Costituzione
La nostra Carta stabilisce il diritto universale alle cure (articolo 3) ma anche la libertà di rifiutare qualunque terapia (articoli 13 e 32). Eppure governo e maggioranza hanno deciso di marciare nella direzione opposta
di Vittorio Angiolini
La Giornata degli stati vegetativi che si celebra oggi è puro atto di arroganza politica del governo. L’art. 32 della Costituzione garantisce alla persona il diritto ad avere le cure: il medico e la struttura sanitaria debbono curare, alla sola condizione che la cura, anche di carattere palliativo e volta solo ad alleviare la sofferenza, risulti tale ad una corretta valutazione tecnico-scientifica. La giurisprudenza ne fa discendere la “posizione di garanzia” del medico come professionista.
Nell’ambito stesso del diritto alla cura, la Costituzione (articoli 13 e 32) sancisce anche il diritto di non farsi curare, di fermare la mano di chi, pur in veste di medico e professionista, pretenda di invadere il nostro corpo. Non è un altro diritto, ma è lo stesso diritto alla salute, in quanto diritto della persona ad autodeterminarsi.
Nel caso di Eluana Englaro, i giudici hanno sancito come non si possa, con gli artifici della scienza medica, costringere a sopravvivere chi non può più essere tolto, perché la medicina stessa non ha mezzi accertati per toglierlo, dallo “stato vegetativo”. La libertà del rifiuto deve valere sempre, affinché il diritto di curarsi non si trasformi per la persona, tanto più se cosciente, in uno stato di soggezione: un malato terminale, che si trova in hospice per ricevere cure solo palliative, se non messo al corrente della propria situazione ed in grado di decidere sul tempo che gli rimane, non è più un paziente ma solo un prigioniero.
Il governo Berlusconi e la maggioranza che lo sostiene hanno negato il diritto a rifiutare la cura. Ne è riprova la trasformazione del progetto di legge sul cosiddetto “testamento biologico” nell’esatto opposto; su spinta del governo, quella che doveva essere una legge per consentire a ciascuno di esprimere la propria volontà anticipata sul rifiuto di determinati trattamenti sanitari, per il frangente in cui si perdesse la facoltà di esprimerla direttamente, si è tramutata in una legge che rimette la salute della persona alle decisioni altrui, non solo del medico ma del legislatore politico. Ed il governo non ha fatto questo per impegnarsi, invece, ad assicurare il diritto di essere effettivamente curati. Tutto il contrario. Per il governo Berlusconi, il servizio sanitario non è un servizio indefettibile, ma al più è una concessione graziosa: come attestano i“tagli” alla spesa sanitaria, operati costantemente a prescindere da una qualunque seria verifica sulla possibilità dei medici e delle strutture di assolvere la loro “posizione di garanzia” nei confronti delle persone.
È in questo contesto che oggi, 9 febbraio, il governo, dopo aver negato i diritti costituzionali dei loro congiunti, ha voluto adunare le famiglie di coloro che sono tanto malati da non poter avere una voce propria, e purtroppo talora neanche la ragionevole speranza di poterla recuperare, per dire loro che è preoccupato. A famiglie che hanno congiunti in condizioni disperate, il governo non parla di diritti, ma solo del suo potere di eventualmente concedere benefici, cancellando per l’ammalato tanto il diritto a non essere abbandonato quanto la libertà a che altri non si ingeriscano nella sua malattia.
La Giornata degli stati vegetativi è nella logica del “riparliamone”, ma non c’è niente di cui riparlare. Ci sono solo diritti costituzionali da ripristinare, perché il governo li ha calpestati.
Vittorio Angiolini, professore ordinario di Diritto Costituzionale, ha assistito Beppino Englaro nella sua battaglia legale.
l’Unità 9.2.11
Un altro strappo tra i sindacati sulla scia del modello imposto Pomigliano-Mirafiori
Polemica dopo l’accordo separato sul salario degli statali. Sciopero Fp-Cgil a fine marzo
Dalla Fiat al pubblico impiego i sindacati sempre più divisi
Firmato un altro accordo senza la Fiom sui permessi sindacali in Fiat. E non cessano le polemiche sull’assenza del governo nella vertenza. Intanto i “pubblici” Cgil preparano lo sciopero mentre Cisl e Uil difendono l’intesa.
di Giuseppe Vespo
Fiat: ancora una divisione tra i sindacati sulla scia del modello Pomigliano-Mirafiori. In attesa del ritorno a Roma di Marchionne, chiamato a spiegare l’ipotesi che il Lingotto sposti la sede centrale a Detroit, ieri a Torino è stato siglato l’ennesimo accordo senza la Fiom, mentre non cessano le critiche, soprattutto su come il governo ha gestito la partita. «Non ho visto nessun intervento, né pro, né contro, né di striscio, su questo tema», attacca l’ex premier Romano Prodi «Questa non è una polemica politica ma è la constatazione di una realtà incredibile. Siamo stati mesi e mesi senza ministro dello Sviluppo nel corso della crisi più grave degli ultimi decenni». Sabato, il vertice tra l’esecutivo e Marchionne avviene con colpevolissimo ritardo. «Mi aspetto che da questo incontro esca ciò che da un anno dovrebbe essere fatto gli fa eco la leader Cgil Susanna Camusso cioè che si apra un tavolo, con i sindacati, con l'azienda in cui venga illustrato il piano di investimenti per l'Italia».
I tavoli che si sono visti finora hanno portato una divisione dopo l’altra. L’ultima ieri. Al centro della contesa c’era il rinnovo del cosiddetto “accordo di miglior favore”, firmato per la prima volta nel 1971 che prevedeva per la figura del “delegato esperto” e per il resto delle Rsu Fiat ore di permesso sindacale retribuite in più rispetto a quelle garantite dalla legge. Ieri l’azienda ha preteso che il rinnovo di queste condizioni passasse per l’accettazione da parte dei sindacati della «clausola di responsabilità», ovvero uno dei punti degli accordi di Mirafiori e Pomigliano contestati dalla Fiom perché limitativi del diritto di sciopero. Fim, Uilm e Fismic, hanno acconsentito, la Fiom no.
A inasprire il clima, la polemica seguita all’accordo separato di venerdì sul salario accessorio degli statali. Mentre Fp-Cgil e Flc-Cgil preparano uno sciopero generale per fine marzo, ieri si sono riuniti gli esecutivi nazionali del pubblico impiego di Cisl e Uil, che hanno firmato l’intesa. Presenti i due leader, Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni, tornati a ribadire la bontà dell’intesa sottoscritta col governo che, affermano, in questo modo sono stati difesi: per Cisl e Uil con l’intesa le retibuzioni non perderanno un euro, a differenza di quanto sarebbe accaduto con la riforma Brunetta che, non a caso la Cgil aveva duramente contestato. Inoltre viene taciuto dai firmatari che i costi dell’operazione ricadranno sulle spalle dei lavoratori pubblici precari che non verranno stabilizzati.
l’Unità 9.2.11
Rom, la tragedia che nessuno vuole fermare
di Dijana Pavlovic
A Roma sono bruciati vivi con la loro baracca e la loro miseria Fernando 3 anni, Sebastian 7 anni, Raul 5 anni, Elena Patrizia 11. Sono morti come Emil 13 anni, nel marzo scorso a Milano, Menji 4 anni, Lenuca 5 anni, Daciu 11 anni ed Eva 8 anni nell’agosto del 2007 a Livorno. Una strage a cui si aggiungono le tante morti di anni di emarginazione in un costante silenzioso porrajmos, la “shoah dei rom”, che non è finito con la fine dei campi di concentramento. Un porrajmos che diventa visibile con le morti innocenti ma scompare quando tocca ai tanti bambini ai quali le ruspe distruggono i quaderni e i libri che non potranno più usare perché le ruspe li cacciano da scuola e fanno perdere il poco lavoro in nero ai padri. Una gara feroce che non si ferma neppure quando, come a Milano, maestre e genitori inseguono le famiglie di via Rubattino da uno sgombero all’altro, li accolgono in casa, fan di tutto perché quei bambini non perdano la scuola, diritto costituzionale e speranza per il loro futuro.
Come sempre per qualche giorno si parla di rom non solo per demonizzarli con luoghi comuni e pregiudizi, perseguitarli con sgomberi inutilmente crudeli perché colpiscono sempre gli stessi. Si apre un dibattito sulle responsabilità: sono delle amministrazioni che tollerano il degrado o dei genitori che abbandonano i figli nella baracca per far la spesa? Ma nessuno si interroga davvero su cosa sia necessario per evitare simili disgrazie e il dibattito finisce presto perché poi incombono le solite urgenze politiche. Un dibattito ipocrita perché nessuno vuole davvero risolvere questo problema. Un problema semplice sono solo 130.000 i rom e i sinti in tutta Italia, metà dei quali cittadini italiani ma anche un problema “elettorale”, perciò irrisolvibile: porta voti a chi li perseguita mantenendoli nel degrado, li toglie a chi li aiuta a uscire da quelle discariche sociali che sono i campi.
Ma in questa occasione c’è stato un fatto nuovo che mi ha colpita e commossa e che da solo vale tutte le parole spese per il mio popolo: il gesto di grande umanità del presidente della nostra Repubblica seduto insieme con i genitori e la sorella di questi bambini a condividere la loro disperazione. Un gesto che squarcia il velo dell’ipocrisia, che cancella l’ottuso razzismo del consigliere regionale lombardo, il leghista Bossetti, che non si alza in piedi nel minuto di silenzio dedicato ai quattro bambini, un gesto che, accompagnato dalla richiesta di mettere al primo posto dell’agenda politica il destino di queste persone, ci fa sperare che possiamo ritrovarci uomini e donne che portano ad altri uomini e donne il riconoscimento della comune umanità fatta di convivenza civile e reciproco rispetto.
La Stampa 9.2.11
Lite Pannella-Formigoni
«Quello di Roberto è un regime». «È pazzo»
«La differenza tra Pannella e il Pd è che il Pd fa le stronzate sottotraccia, Pannella le fa alla luce del sole. Ma sempre di stronzate si tratta». Filo diretto amaro, per Marco Pannella. La sua Radio Radicale diffonde malcontento. I militanti tremano all’idea di un’apertura a Silvio Berlusconi. Gridano «vergogna» e «tradimento». Inneggiano alle perplessità di Emma Bonino e temono di rivivere un trauma pari a quello del passaggio al Pdl di Daniele Capezzone. A nulla sembrano valere le ragioni del dialogo, che Pannella si affanna a spiegare. Lui giura che i radicali non si venderanno per una poltrona. Ma neanche questo, a quanto pare, è abbastanza. «Non accettiamo ministeri, non accettiamo di fare parte della maggioranza», dice in serata Pannella al Tg1.Tra coloro che ritengono utile «sbarazzarsi di Berlusconi» c’è «la magistratura di Milano con quel signore neopromosso Bruti Liberati», che è pronta «a far fare la marcia su Roma ad uno che è molto casto, ma anche molto imbroglione come Roberto Formigoni». Lo ha detto il leader dei Radicali, Marco Pannella, in un’intervista al Tg1. Formigoni, sottolinea Pannella, è «protetto da quella magistratura milanese che ha fatto l’impossibile per incastrare Berlusconi e ci è riuscito, sulla storia della puttane. Mentre contemporaneamente ha lasciato impunito un presidente, un regime come quello di Cl, con buona pace di don Giussani». Dopo pochi minuti la replica di Formigoni. «Che Pannella fosse un prevaricatore violento, nonostante i suoi tentativi di proclamarsi l’opposto, lo sapevamo da tempo. Ora abbiamo un’altra certezza: è pazzo».
il Fatto 9.2.11
Capaci di tutto
Pannella rimembri ancora?
A Massimo Bordin storico conduttore
Di “Stampa e regime” su Radio Radicale non è piaciuta la rubrica che Pino Corrias ha dedicato sul “Fatto” di martedì alla divergenze tra Emma Bonino e Marco Pannella sul dialogo con Berlusconi. Possiamo capirlo. Non tanto per le “volgarità” dell’articolo che proprio non ci sono. Quanto per la difficoltà di spiegare quella che rappresenta una svolta sorprendente nella pur scoppiettante politica del leader radicale. Noi del “Fatto”, per esempio, non possiamo dimenticare l’articolo a firma Marco Pannella che abbiamo pubblicato come editoriale di prima pagina il primo settembre 2010. Una frase per tutte: “Sei davvero divenuto uno di quei capaci davvero, ma proprio davvero proprio di tutto. Categoria, questa, che finisce per far precipitare nel vuoto di ragionevolezza, di democrazia e legalità i suoi eroi. Temo che tu sia in questa condizione e che rischi di precipitare anche tu in questo baratro”. Chiediamo a Pannella: cosa è cambiato in cinque mesi?
il Fatto 1.9.10
Verso il baratro
di Marco Pannella
Presidente Berlusconi, ascoltando le tue dichiarazioni a e con Gheddafi, ho provato un empito di vergogna. Ripetendo a più riprese, come hai fatto, che, non solo i due Stati, ma anche i “due popoli”, l’Italiano e il Libico, sono oggi uniti per festeggiare l’intesa tra la Repubblica italiana e la Jamaria, ti qualifichi come erede, semmai, dei “Graziani” di quella Italia, estraneo perfino a questa partitocratica, non democratica, che gestisci. In tal modo tu rappresenti il popolo italiano tanto quanto Gheddafi quello libico. Non adontarti di questa equazione: è tua! Se un feroce dittatore, per te, rappresenta il suo popolo tanto quanto il premier di una Repubblica dalla Costituzione democratica, ravvivi il ricordo di quell’individuo per il quale il Fascismo offriva vacanze non male ai suoi oppositori: dai Matteotti ai Carlo e Nello Rosselli, dagli Ernesto Rossi agli Altiero Spinelli, ai Pertini e migliaia di altri vacanzieri antifascisti. Della Libia si sa così poco, da non sapere se le vittime del tuo grande amico personale siano di meno o di più di quelli uccisi da noi Italiani. Comunque ci sono come anche altri Africani, spesso Eritrei, Somali, Etiopi, i cui genitori conobbero anch’essi la civiltà di quel colonialismo. Voglio precisare che qui non discuto affatto, come in Parlamento, il principio e modalità importanti imprenditoriali e commerciali, anche di per loro positivi, dell’accordo. Ma del costo gravissimo e superfluo, e francamente intollerabile, che tu imponi ai danni di standard internazionali democratici e più semplicemente civili, morali. Presidente, lo so che anche per D’Alema la Libia è “strategica”; ma mi chiedo fin dove tu sia, ormai, capace di intendere e di volere più o diversamente da un Gheddafi o da un “Graziani” qualsiasi. Sei davvero divenuto uno di quei capaci davvero, ma davvero proprio di tutto. Categoria, questa, che finisce per far precipitare nel vuoto di ragionevolezza, di democrazia e legalità i suoi eroi. Temo che tu sia in questa condizione e che rischi di precipitare anche tu con la sola forza accelerata di gravità in questo baratro. Faremo – lo sai – tutto il possibile per impedirti di finire – e farci finire – come fanno in genere costoro. Con la nostra nonviolenza e tolleranza confido che ci riusciremo. Evitando pure che ti e vi seguiamo nello stesso destino anche noi, vostri popoli, il libico l’africano e l’italiano.
Repubblica 9.2.11
Il socialista Nencini lancia l’area laico-democratica
ROMA Il segretario del Psi Riccardo Nencini (foto) lancerà oggi insieme con l´ex radicale Massimo Teodori e l´ex dirigente del Garofano Luigi Covatta il manifesto dell´area laico-democratica. Un appello rivolto al perimetro del centrosinistra, al mondo radicale che non condivide il dialogo di Pannella con Berlusconi, agli intellettuali, al mondo delle università. Obiettivo: 100 firme "pesanti", in grado di scuotere la società civile. Fra i primi firmatari viene dato per sicuro il filosofo della scienza Giulio Giorello.
l’Unità 9.2.11
«Niente cambia se non cade il raìs.
Non ci fermiamo»
Secondo il blogger e attivista dei diritti umani i manifestanti sbaglierebbero se accettassero che la transizione fosse gestita dall’attuale leader
di U.D.G.
Da un regime liberticida a uno Stato di diritto: è questo il sogno che i ragazzi di Piazza Tahrir vogliono realizzare. Un Egitto dove la libertà di espressione non sia più una rivendicazione che apre le porte della galera; un Paese in cui le elezioni non siano più una farsa e la corruzione il motore dell’economia. Di questo sistema Hosni Mubarak è stato per trent’anni il perno. A chi dice che senza di lui la transizione finirebbe nel caos, ribatto che la piazza non smobiliterà fino a quando il rais non sarà uscito di scena». A parlare è una delle figure più rappresentative della «Rivoluzione dei Loto»: Gamal Eid, tra i fondatori del movimento creato su Facebook «Siamo tutti Khaled Said» (il ragazzo torturato a morte dalla polizia pochi mesi fa), direttore esecutivo della Ong Network Arabo per i Diritti umani. «Per restare in sella dice Eid a l’Unità Mubarak ha promesso aumenti di stipendi e pensioni, cercando così di dividere il movimento di protesta. Ma ha fatto male i suoi calcoli: i milioni di egiziani che in queste due settimane sono scesi in strada a rischio della loro vita, non intendono barattare diritti e libertà con qualche lira in più promessa dal regime».
La rivolta è entrata nella sua terza settimana. La piazza non smobilita e Mubarak continua a rifiutare di farsi da parte sostenendo che la sua uscita di scena farebbe precipitare l’Egitto nel caos...
«Quello che Mubarak chiama caos per noi è la ribellione a un regime liberticida. In questi trent’anni abbiamo vissuto sulla nostra pelle quello che il regime ha spacciato per “ordine” e “stabilità”: elezioni truccate, oppositori in galera, una nomenclatura che si arricchiva alle spalle del popolo. Questo è l’ordine di Hosni Mubarak: un ordine iniquo contro cui ci siamo rivoltati. La nostra è una battaglia di libertà».
Il rais ha promesso aumenti di stipendi e pensioni e la costituzione di una commissione che modifichi la Costituzione..
«Ma è sempre lui a voler condurre il gioco. Mubarak non è il simbolo del regime che per trent’anni ha soggiogato l’Egitto, di quel regime lui è il perno, la mente. Ciò che sta accadendo in Egitto, che è accaduto in Tunisia e un domani non lontano in tutta la Regione, è l’”89” del mondo arabo. È come se allora ai ragazzi di Berlino che si erano rivoltati contro il regime, fosse stato detto: fermatevi, se no è il caos, affidate la transizione a Honecker... Il Muro di Berlino è stato abbattuto. Ora tocca ai nostri “Muri”.
In molti si chiedono chi sia il leader della rivolta... «Una curiosità che resterà delusa. Non esiste un capo. Non stiamo sfidando un rais per portarne al potere un altro. Questa è la forza del movimento: avere una dirigenza plurale, tante teste che provano poi a fare una sintesi. Prima di predicarla, la democrazia va praticata. Ed è quello che sta avvenendo in queste settimane a Piazza Tahrir, che non è solo il simbolo della rivolta anti-Mubarak ma è anche un laboratorio politico a cielo aperto». Quanto ha pesato l’esempio tunisino?
«Si parla molto dell’esempio tunisino, ma prima c’è stato un altro “esempio” di straordinaria importanza...».
A cosa si riferisce?
«All’”Onda verde” iraniana. In comune c’è la determinazione a sfidare regimi autoritari, in nome dei diritti civili e politici. Protagonisti di queste rivolte sono soprattutto i giovani, in Iran, in Tunisia, in Egitto...».
È la «generazione Internet»...
«È la generazione che ha rivoluzionato il linguaggio della comunicazione facendo di Twitter, Facebook veicoli di informazione, denuncia e organizzazione in tempo reale. Non è un caso che tutti i regimi contestati abbiano cercato come primo atto di chiudere questi spazi, arrestando centinaia di blogger». Sorte che è toccata anche a lei... «Si chiamino Ben Ali, Mubarak, Ahmadinejad, tutti i dittatori hanno paura della libertà d’espressione. Una libertà che oggi viaggia sul web».
l’Unità 9.2.11
Il saggio Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Storia Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un «regime» democratico alla sua massima espressione...
di Nicola Tranfaglia
Tra i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195, euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo: tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del 1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia, sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno, perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.
il Fatto 9.2.11
Storia. Fratelli Rosselli
Vergognoso segreto di Francia
Perché Mitterrand non ha sollevato il velo su La Cagoule, l’organizzazione che assassinò Carlo e Nello? Il veto era stato posto dal generale De Gaulle
di Nicola Tranfaglia
Un oscuro segreto emerge dopo settant’anni. Un segreto che riguarda nello stesso tempo la storia della Francia e dei suoi miti e quella dell’Italia, del fascismo e degli uomini che furono uccisi dalla dittatura.
Carlo e Nello Rosselli vennero assassinati il 9 giugno 1937 dalla setta fascista con forti tendenze razziste e antisemite della Cagoule. Ma chi faceva parte di quella organizzazione di estrema destra? Soltanto i fascisti francesi e i loro confratelli italiani? O anche personaggi che dopo la Liberazione avrebbero fatto parte di altre forze, opposte, nello schieramento repubblicano?
FRANÇOIS Mitterrand (è così che si scrive il suo nome) è nato nel 1916 durante la Prima guerra mondiale e proprio mentre si combatteva nel sud-ovest della Francia la grande battaglia di Verdun, una delle più sanguinose del conflitto che divise l’Europa e condusse alla crisi da cui sarebbero nati i fascismi, prima in Italia, poi in Germania e nei paesi dell’Europa orientale. Durante la Seconda guerra mondiale catturato dai nazisti tedeschi riesce a fuggire a Parigi dove diventa un ufficiale del governo collaborazionista di Vichy fondato e guidato dal maresciallo Petain. E questo non è un caso perché, a vent’anni, Mitterrand è un militante della setta di estrema destra La Cagoule (secondo altri storici della setta La Lègion francaise des combattants et des volontaires de la rivolution nationale, sempre fascista) che il 9 giugno 1937, su ordine di Galeazzo Ciano e del SIM italiano, in cambio di mille fucili regalati dal governo fascista, uccide a Bagnoles sur L’Orne stroncando la vita di due giovani di grandi qualità e possibilità future: Carlo era il fondatore e leader del movimento di Giustizia e Libertà in Francia e in Italia e Nello era uno storico del Risorgimento italiano, di Carlo Pisacane, di Mazzini e Bakunin.
Il giovane funzionario da gennaio ad aprile 1942 lavora presso La Lègion, dal giugno 1942 al Commissariato per il reinquadramento dei prigionieri di guerra, dal quale si dimetterà nel gennaio 1943.
Nel dicembre 1942, Mitterrand scrive nel giornale ufficiale di Vichy France, Revue de l’Etat nouveau: “Se la Francia non vuole morire in questa melma, gli ultimi francesi degni di questo nome devono dichiarare una guerra senza quartiere a tutti quanti, all’interno come all’estero, si preparano ad aprirne le dighe: ebrei, massoni, comunisti… sempre gli stessi e tutti gollisti”.
Di fronte ad affermazioni di questo genere non si possono avere esitazioni sulla prima fede petainista e filofascista del giovane francese che nel 1942 ha ventisei anni.
L’anno successivo, nel 1943, anno fatale nella Seconda guerra mondiale perché cade l’Italia fascista e Petain va in crisi come alleato della Germania nazista, con un plateale “salto della quaglia” (come diciamo noi italiani per i processi di trasformismo cui siamo purtroppo abituati anche oggi nella nostra tormentata storia) Mitterrand, dopo un incontro difficile con il generale De Gaulle, entra nella resistenza gollista conservando peraltro le sue mansioni presso l’amministrazione di Vichy. Una volta eletto nel 1981 alla presidenza della Repubblica francese, e fino al 1992, Mitterrand deporrà una corona di fiori sulla tomba del maresciallo Petain; nella primavera del 1943 è decorato dell’ordine della Francisque; una distinzione onorifica del regime di Vichy.
È impossibile, insomma, mettere in dubbio la sincerità e la saldezza della sua fede giovanile per i regimi fascisti e collaborazionisti con la Germania nazista. Non è ancora del tutto chiaro se fosse esplicitamente antisemita, ma le organizzazioni di cui faceva parte, a cominciare dalla Cagoule, lo erano.
Nel 1943 il giovane funzionario diventa il capo di una rete di spie che prende contatto con i funzionari dell’Amministrazione francese in vista dell’ormai vicina liberazione assicurando la fiducia di funzionari, burocrati, e prefetti alla nuova Repubblica francese. Quindi diventa leader di un piccolo partito radicalsocialista, l’Union democratique et socialista de la Resistence, l’UDGR.
DI QUI INIZIA intorno ai trent’anni la sua carriera prima di ministro della Repubblica, poi di leader della sinistra europea e in particolare del socialismo non comunista e in questa veste ascenderà nel 1981 dopo due tentativi falliti, alla presidenza della Repubblica francese di cui è titolare per due mandati, quattordici anni, dal 1981 al 1995.
Ma non dimentica la sua giovinezza e i suoi trascorsi. E lo dimostra con una decisione che finora gli storici non solo italiani non avevano mai notato. E che a me è invece molto chiara, grazie alla mia lunga esperienza di ricercatore della vita e dell’opera di Carlo Rosselli di cui ho appena pubblicato per Baldini e Castoldi una biografia completa (2011, pp. 518; euro 22). Ebbene, il generale De Gaulle negli anni Cinquanta quando era asceso al potere aveva posto il veto al fascicolo su La Cagoule negli Archivi di Stato francesi, i presidenti gollisti che gli sono succeduti hanno mantenuto quel veto e nessuno storico, a cominciare dal sottoscritto, ha mai potuto consultare il fascicolo che riguarda gli assassini di Carlo e Nello Rosselli. Ma il fatto grave è che anche negli anni Ottanta e Novanta quando Mitterrand è stato presidente della Repubblica non ha eliminato il veto che De Gaulle aveva posto agli inizi della Repubblica sul caso de La Cagoule. Ne abbiamo una prova clamorosa leggendo non soltanto gli scritti di Gaetano Salvemini negli anni Trenta e Quaranta ma anche nel saggio, ottimo, che Mimmo Franzinelli ha pubblicato nel 2007 su Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico (Mondadori editore): non c’è traccia, a causa di quel veto, della documentazione francese su La Cagoule che tuttora esiste negli Archivi Nazionali Francesi e che i cataloghi appositi testimoniano ancora. Detto in maniera semplice, il leader del socialismo europeo, per quattordici anni presidente della Repubblica e uomo simbolo (non soltanto in Francia) del socialismo non comunista ha oscurato un delitto compiuto dai fascisti peggiori del suo paese, servi dei regimi europei, a distanza di più di cinquant’anni da quello che resta uno dei più terribili delitti che il fascismo abbia compiuto negli anni Trenta quando in Italia dominava Mussolini e in Germania Hitler era al potere. Come si può spiegare l’atteggiamento di François Mitterrand e della Repubblica francese?
È un problema storico di notevole entità. E mette in luce, ancora una volta, le contraddizioni della vicenda europea ancora aperte e la difficoltà di superare completamente l’eredità del fascismo, in Italia come in Francia. È una constatazione amara per chi ha trascorso finora la sua vita a ricostruire la storia del Vecchio Continente e dell’Italia degli ultimi cento anni.
Repubblica 9.2.11
La vera storia di via Rasella
risponde Corrado Augias
Caro Augias, leggo che addirittura Sergio Romano è caduto nella trappola del cosiddetto senso comune, a proposito dell'attentato di via Rasella. Accompagno ogni anno per conto del Comune di Roma e con l'Irsifar (Istituto romano per l'antifascismo e la Resistenza) classi di scuola media alle Fosse Ardeatine; i ragazzi vengono preparati da un incontro tenuto da esperti, poi si va con il pullman a visitare le tombe dei martiri. In genere i ragazzi non sanno quasi nulla, o al massimo a casa hanno sentito dire che se i colpevoli dell'attentato si fossero presentati, la strage sarebbe stata evitata. Non è così, la vulgata costruita nei mesi successivi alla strage ha del tutto falsato la realtà. Dopo la visita i ragazzi escono dal monumento ai caduti colpiti, commossi, consapevoli. Potenza della memoria e del senso della storia, da non trascurare mai più, pena la perdita della nostra identità.
Elisabetta Bolondi
Per gli immemori e per coloro che non hanno voluto sapere, vale la pena di ripetere lo schema orario dei fatti. L'attacco contro una colonna di soldati germanici di ritorno da un addestramento, avvenne in via Rasella alle ore 15.45 di giovedì 23 marzo 1944. Buona parte del pomeriggio passò per concordare, anche in contatto con Berlino, il tipo di rappresaglia. Alla fine si stabilì che dieci cittadini italiani fossero uccisi per ogni soldato tedesco morto: 33 questi, 330 gli italiani. Il massacro in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina ebbe inizio alle ore 15.30 del successivo venerdì, ora in cui un pastore che stazionava nei pressi testimoniò d'aver udito i primi colpi. Un macabro particolare conferma che la notizia fino a quel momento era stata tenuta segreta. Nella loro furia i carnefici avevano finito per superare la già tragica lista di 330 todeskandidaten ( candidati alla morte ) . Gli assassinati alla fine furono 335, cinque in più del previsto. I conti erano sbagliati e si ordinò di uccidere anche quei cinque perché, testualmente, si ordinò: "Questi hanno visto tutto, uccidete anche loro". Nulla doveva infatti trapelare alla popolazione fino al comunicato ufficiale. Dopo quattro ore di spari e di grida, i carnefici erano così esausti che si dovette distribuire del cognac perché terminassero le esecuzioni, le quali ebbero fine alle ore 20 di venerdì 24. Verso le 23 di quel venerdì ci fu un comunicato che l'agenzia Stefani (diretta da Luigi Barzini) distribuì a giornali e sale stampa e che venne pubblicato solo sui quotidiani di sabato 25. Dato il coprifuoco, i giornali, stampati al mattino, arrivavano in edicola verso mezzogiorno. Nessuno sa se gli esecutori dell'attacco, sapendo, si sarebbero presentati. Il fatto è che seppero, come tutti, solo a cose fatte. Si vorrebbe non doverlo più ripetere.
Corriere della Sera 9.2.11
L’eroina che sfidò le tirannie
Angelica Balabanoff ruppe con Mussolini e Lenin. Morì povera e sola
di Pierluigi Battista
A ngelica Balabanoff morì sola, povera e abbandonata, ma è stata una protagonista, sconfitta, della grande stagione del socialismo libertario e antitotalitario. Il suo nome appare di sfuggita nei manuali della storia del movimento operaio. Ma la Balabanoff fu una donna energica e testarda, e seppe tener testa come nessun altro ai dioscuri delle due tragiche deviazioni autoritarie della storia socialista: Mussolini e Lenin. Spese tutta se stessa per un ideale di emancipazione sociale che non contrastasse con la difesa della libertà. Fu una grande donna di una sinistra allergica alle dittature, come Rosa Luxemburg. La solitudine che afflisse gli ultimi anni della sua vita è il simbolo di una sinistra messa ai margini, gettata nel dimenticatoio, cancellata. Per questo è più che benvenuto il libro di Amedeo La Mattina che porta il titolo Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff, la donna che ruppe con Mussolini e Lenin (Einaudi). È il racconto di una vita straordinaria, la narrazione, alimentata da una documentazione di prima mano, di una donna di indomito coraggio che recise con dolore i rapporti con la sua benestante famiglia russa (un fratello verrà seviziato e ucciso dai bolscevichi appena arrivati al potere). Che nei primi anni del Novecento vagò per le università e le biblioteche d’Europa per studiare i grandi classici del pensiero sociale, consacrarsi al socialismo, affrontare con spirito temerario e anticonformista le battaglie politiche e giornalistiche del movimento operaio. È un racconto di incontri, di relazioni burrascose. Un andirivieni dei personaggi che hanno popolato il quartier generale del movimento socialista mondiale. Tempestoso il rapporto della Balabanoff con un giovane dallo sguardo incendiario e dai modi grossolani e sbrigativi che si chiamava Benito Mussolini. Lei ne subì il fascino sensuale (per anni girò la diceria che lei fosse la vere madre di Edda). Lo aiutò maieuticamente a mettere ordine nel ribollire caotico delle sue letture, a temperare la frenesia disordinata di un carattere straordinariamente impulsivo. Fu lei a dare solidità alla direzione mussoliniana dell’ «Avanti!» . Fu lei a soffrire di più per la cocente delusione nata dal «tradimento» di Benito: una frattura personale insanabile, con lui che dall’interventismo passerà al fascismo, e lei fedele a un intransigente internazionalismo pacifista. La Balabanoff è stata una delle grandi donne della politica italiana della prima metà del Novecento. La Mattina insiste con grande sensibilità sulla rivalità con Margherita Sarfatti, che non fu solo gelosia e contesa per le attenzioni di Mussolini, ma scontro tra due modelli femminili, l’eleganza algida e leziosa della Sarfatti contro la mistica del sacrificio di ogni forma di femminilità incarnato dalla Balabanoff. Rivalità politica quella con Anna Kuliscioff, specchio del duro contrasto che nei primi anni del Novecento contrappose il socialismo massimalista e verboso di Mussolini al riformismo di Filippo Turati. Rivalità quasi antropologica con la Krupskaja, la moglie di Lenin, subalterna, e adorante nei confronti del marito-Capo di cui invece la Balabanoff intuì tempestivamente le caratteristiche del tiranno spietato e sanguinario, incapace di calcolare gli immensi costi umani di una rivoluzione guidata da un dottrinarismo gelido e disumano. La Balabanoff non diplomatizzò mai il dissenso con i «potenti» di turno. Esule dall’Italia fascista dell’ex amico, compagno (e amante?) Benito Mussolini, lei non esitò a rompere con il bolscevismo detestandone la fredda logica autoritaria, la repressione su scala di massa, l’onnipotenza della polizia politica. Ruppe anche con il fuoriuscitismo socialista riparato a Parigi, dove lei condusse una vita grama, ridotta alla fame, alla solitudine, alla malattia. Ruppe perché i socialisti si ostinavano a voler conservare un rapporto «unitario» con i comunisti e con quella parte del movimento operaio che considerava prioritario il rapporto di fedeltà con la «patria del proletariato» , con l’Unione Sovietica della Gpu, del Gulag, dello stalinismo come apocalittico compimento del progetto leninista di repressione totale. Per una socialista libertaria come lei, l’Urss non era una deviazione da un percorso comune, ma l’antitesi di tutto ciò che pensava e che l’aveva spinta ad aderire al socialismo umanitario, all’ideale di una società «giusta» . Con la peste nazista che stava contagiando l’Europa e con il comunismo stalinista fondato sulla deportazione e la cancellazione fisica di ogni voce dissidente, la Balabanoff venne presa da una disperazione assoluta. La disperazione di chi si sentiva inascoltato e che non doveva aspettare il ’ 39 e la rivelazione del patto nazi-sovietico siglato da Ribbentrop e Molotov per cogliere le affinità che i totalitarismi del Novecento stavano tragicamente maturando. Quando, con la rinascita della democrazia nell’Italia post-fascista, la Balabanoff tornò in Italia, la vecchia socialista che aveva rotto con Mussolini e con Lenin, non esitò a rompere con il partito che aveva accettato il patto unitario con i comunisti. Intravide nel socialismo democratico di Giuseppe Saragat una strada possibile per conciliare ideali socialisti e difesa a oltranza della libertà. Ma, seppure senza arrivare a una frattura personale definitiva con Saragat, non tardò a maturare un profondo disprezzo per il ceto politico dirigente del partito saragattiano, immerso nelle pratiche di sottogoverno, e troppo subalterno, a suo parere, alla deriva «clericale» nutrita dall’alleanza con la Democrazia cristiana. Veniva esibita come una laica madonna pellegrina, il simbolo di una continuità ideale con la stagione eroica del passato, ma quei dirigenti del Psdi non facevano che sopportare malamente quella «vecchia» mugugnante e recriminatoria che era la rappresentazione vivente del loro distacco dal socialismo di un tempo. La socialista libertaria e anti-autoritaria non trovava più ascolto. Dopo la sua morte nessuno ha voluto inserire la sua figura nel pantheon ideale di una lunga storia: troppo perdente, troppo rompiscatole, troppo sola. Il libro di La Mattina ne è un primo, doveroso risarcimento.
Corriere della Sera 9.2.11
Ma quel Deineka era un vero pittore comunista
di Pierluigi Panza
A nche se le relazioni postmoderne tra Italia-Russia sembrano cementate grazie al lettone di Putin e alle condotte della Gazprom, ci fu un tempo, diciamo lontano, in cui l’ideologia e il totalitarismo la facevano da padrone. Era «il secolo breve» , anno domini 1935, e il massimo pittore del regime stalinista, Aleksandr Deineka, veniva nientemeno che ad abbeverarsi nella Roma superfascista al fine di coniugare il rosso della falce e martello con l’estetica della classicità. Ne vennero fuori dei bei quadri di regime, in puro Realismo sovietico: atleti con la tuta Cccp che vincono, lavoratori che avanzano sicuri verso il sol dell’avvenire, ragazze contente nei campi di grano, bandiere con il profilo dello zio Josif e tutto il bagaglio che oggi ci appare di ferrivecchi. E così, sarà un bel vedere, il 17 febbraio, l’inaugurazione della mostra «Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità» al Palazzo delle Esposizioni di Roma, evento inaugurale del programma diplomatico di scambio culturale italo-russo (2011 Anno di Italia-Russia). Più di ottanta capolavori, provenienti oltre che dalla Galleria Tret’jakov anche dal Museo Statale di San Pietroburgo e dalla Pinacoteca Statale Deineka di Kursk, si articoleranno in un percorso che abbraccia l’intera opera dell’artista (esposizione a cura di Irina Vakar, Elena Voronovic e Matteo Lafranconi). Un bel vedere perché, come annunciato ieri a Mosca, a tagliare simbolicamente il nastro ci sarà l’uomo del nuovo corso del Cremlino, Dmitri Medvedev e poi l’anticomunista per eccellenza, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Più l’ex fascista e sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Saranno loro a tagliare il nastro di un pittore comunista davvero, amico personale di Renato Guttuso, grande cantore dell’epopea del comunismo italiano. «La prossima settimana sarò in visita a Roma, dove insieme alle autorità italiane parteciperò al lancio dell’anno della cultura e della lingua russe in Italia e della cultura e della lingua italiana in Russia» , ha detto ieri Medvedev. «L’annuncio della visita del presidente della Federazione Russa in occasione dell’inaugurazione dell’anno della Cultura Italiana in Russia e della Cultura Russa in Italia testimonia l’eccellente livello delle relazioni culturali tra i due Paesi» , ha risposto il ministro Sandro Bondi, per altro ex comunista. Questa mostra, sarà solo il primo degli eventi dell’anno dedicato agli scambi culturali Italia-Russia organizzati dagli ex ministri Giuliano Urbani e Mikhail Shvidkoy. Programmi che si concluderanno con l’inaugurazione del restaurato Bolshoi di Mosca, che riaprirà dopo cinque anni il 2 ottobre 2011 con un balletto e il «Requiem» di Verdi eseguito dall’Orchestra del Teatro alla Scala.
Repubblica 9.2.11
Eros e analisi
Quando gli psicoanalisti tradiscono i pazienti
Luigi Zoja racconta il suo nuovo saggio "A volte la seduzione prevale sulla cura"
L´analista può andare oltre il suo ruolo incoraggiando l´atteggiamento erotico
di Luciana Sica
L´innamoramento analitico, secondo Luigi Zoja, somiglia a quello della poetica stilnovista che «non aspira al possesso della persona amata, ma all´elevazione di chi ama». Come un´esperienza spirituale, nella dimensione del sacro. Capita però che l´analista, eccessivamente idealizzato dal paziente, più spesso dalla paziente, non sappia mantenere la "giusta distanza" e scivoli in un rapporto dove la seduzione prevale sulla cura. In alcuni casi l´infrazione si fa grave, ha conseguenze imprevedibili e un marchio infamante: quello dell´abuso sessuale.
«Il cuore dell´analisi è etico», scrive Zoja nella prima riga del suo breve saggio, Al di là delle intenzioni (esce domani da Bollati Boringhieri, pagg. 156, euro 12). Il titolo allude alla natura inconscia che lega la coppia analitica e ai rischi dovuti a quella "materia incandescente" che deborda. Per dirla con l´autore: «Aldilà delle intenzioni coscienti, s´intende a volte l´analista può abusare del suo ruolo, del suo potere. Allora il viaggio analitico deraglia dai suoi binari, deroga all´imperativo che affonda nella tradizione kantiana e mai vede l´altro come un mezzo».
"Etica e analisi" fa da sottotitolo a questo libro che per nulla si presta al gossip, alla pruderie e tanto meno allo scandalismo, ma che non tace sull´asimmetria di una relazione delicatissima. Di scuola junghiana e orientamento cosmopolita, per la formazione zurighese e i molti anni a New York, Zoja ha affrontato con coraggio garbato i temi etici legati alla cura analitica, un´esperienza che colloca in una "zona grigia" dove non esistono contrasti netti tra il bianco e il nero, come nella sfera della pura razionalità.
Transfert e controtransfert sono i termini tecnici per dire il rapporto tra analista e paziente, il loro incrocio di emozioni. L´analisi avrà un cuore etico, ma non è anche un luogo erotico per eccellenza?
«Non necessariamente. Io lo vedo come un luogo fisico, ma prima di tutto psichico dell´approfondimento di sé, di ricerca della trasparenza e dell´onestà intellettuale. Il lavoro analitico ha un cuore etico intanto perché il comandamento "non mentire" si estende e diventa: "non mentire, non solo agli altri, ma neppure a te stesso"... In molti casi, che nelle sedute aleggi anche eros si può dire solo a costo di tirare il concetto per i capelli».
Per Freud eros è desiderio, pulsione di vita, certo non consumazione di un atto sessuale. E secondo Lacan, la psicoanalisi non ha nulla a che fare con la psicologia ma con la "erotologia": un paradosso lontano dal punto di vista junghiano?
«A noi sta a cuore la consapevolezza, la giustizia rispetto alla legge, l´unicità rispetto all´uniformità, l´individuazione. Sapendo però che l´analisi è un contenitore di ambivalenza e di complessità, dove si può raggiungere una profonda identità emotiva e un grado d´intimità superiore a quello presente in ogni altro tipo di relazione».
Quando la coppia analitica cede invece all´attrazione e il desiderio si fa sessuale?
«La relazione diventa rischiosa quando l´analista, magari senza esserne davvero consapevole, non contiene ma al contrario incoraggia l´atteggiamento erotico della paziente. Si tratta di un inciampo grave: sul piano analitico, è il "sintomo" di un bisogno di gratificazione, di una fragilità incontrollata, di una narcisistica e infantile onnipotenza. Soggiacere a delle tentazioni è profondamente umano, ma un analista che si accorga di scivolare dal piano simbolico a quello reale dovrebbe chiedere immediatamente aiuto a un collega».
E lo fa?
«Gli analisti seri e preparati tendono a farlo. Del resto, quelli importanti che finiscono sui giornali sono pochissimi, e prima o poi costretti alle dimissioni. Nel sottobosco analitico, non saprei dire quel che succede: quando si tratta di nomi senza peso, che non suscitano curiosità, non fanno clamore... ».
Fenomeno poco quantificabile. Ma anche nervo scoperto, argomento tabù. Si liquida dicendo "sono mascalzonate, e in tutte le professioni ci sono mascalzoni". A lei sembra sufficiente?
«No, perché andare dall´analista non è come andare dal dentista. Inoltre, almeno nei paesi anglosassoni, per queste "mascalzonate" diventa quasi automatica l´esclusione dalla scuola di appartenenza. L´abuso sessuale è un marchio che lascia senza lavoro, e l´abusatore non solo è obbligato a rifondere tutto quel che la paziente ha pagato, ma anche a pagarle una nuova analisi, senza limiti di tempo».
Qui da noi, in casa freudiana e junghiana, certi casi sono stati affrontati correttamente? Nel suo libro, fa un parallelo con la faticosa autocritica da parte della Chiesa sui preti pedofili... Non avrà esagerato?
«No, perché riconoscere l´esistenza degli abusi è decisivo per l´etica psicoterapeutica, e seppure il prete e l´analista hanno ruoli diversi, nei fatti attivano dinamiche inconsce molto simili. Da noi bisogna ammetterlo c´è stata una tendenza al silenzio, all´omertà. Ma può sorprenderci che l´Italia non sia un Paese "normale", soprattutto nel rigore? Se in passato c´è stata anche troppa elasticità, va però detto che col tempo la severità è cresciuta. Del resto, il corporativismo è un rischio universale e in più nei comitati dei probiviri è difficilissimo un giudizio su "gli analisti che sbagliano": per le troppe dinamiche di amore-odio, i legami affettivi, i conflitti irrisolti».
Accenna anche ad altri abusi: economici, religiosi, ideologici...
«Per me c´è abuso ogni volta che l´analista utilizza la propria autorevolezza per raggiungere un suo beneficio. Vuole qualche esempio? Pensi a quei pazienti "convinti" a devolvere danaro a una certa fondazione o anche ad abbracciare una qualche credenza: in America sono casi frequenti... L´abuso ideologico? Magari hai in analisi un editore e gli suggerisci di pubblicare il tuo libro o quello di un collega».
"Che ne pensa il tuo analista?": domanda ingenua, ma diffusa in certi ambienti... Non ci saranno anche gli analisti "direttivi", quelli che hanno la ricetta in tasca su come vivere?
«Io non li conosco. Non c´è nulla di più anti-analitico che "indicare la strada" al paziente: perché l´analisi non è un processo didattico, non è prendere delle lezioni private... Un analista può pensare che il paziente sta combinando dei disastri, ma lo lascerà comunque libero di sbagliare».
Corriere della Sera 9.2.11
Il «cortile» dove si incontrano fede e ragione
Parte da Bologna il dialogo tra atei e credenti ispirato allo spazio per i «gentili» del Tempio di Gerusalemme
di Armando Torno
Nell’antico Tempio di Gerusalemme vi era uno spazio chiamato «Cortile dei Gentili» . Ad esso potevano accedere tutti, non soltanto gli israeliti. Non c’erano vincoli di cultura, lingua o religione. In tal modo, accanto al luogo nel quale Dio aveva fissato la sua presenza, si apriva un’area per i non ebrei, per gli «altri» , o meglio per i non credenti nel Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe. Un atrio esterno, rappresentato appunto da questo cortile dei gojim, con porticato e colonne, sotto cui sostavano scribi e sacerdoti per dialogare con coloro che chiedevano di conoscere meglio la religione di Israele. La sua esistenza è attestata a partire da Antioco III (223-187 a. C.) e ad esso si riferisce forse l’Apocalisse: «Ma l’atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani» (11,2). Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche (XV, 417) parla dell’iscrizione che proibiva l’ingresso agli stranieri, sotto pena di morte, nella parte riservata al popolo ebraico. Qui si fermò anche Gesù. Da questa consuetudine, dopo un invito di papa Benedetto XVI alla fine del 2009, è nata l’idea del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di dare vita a uno spazio di incontro e confronto sulla fede chiamato, appunto, «Cortile dei Gentili» . Un dialogo che non si terrà in un luogo fisso come un tempo usava ma percorrerà le città del mondo, incontrando le diverse culture. Cercherà risposte alle domande della fede, alimenterà una reciproca conoscenza tra credenti e non credenti. Ravasi invita ogni uomo e punta sul dialogo: affida ad esso le speranze, gli approfondimenti, nonché la creazione di nuovi contesti per meglio comprendere i problemi attuali. Del resto, Platone consegnò ai dialoghi il suo pensiero; ora si guarda con spirito aperto a questa forma di comunicazione per scoprire idee e opinioni condivise, allargare le comuni consapevolezze. Il cardinale nota: «In ogni incontro c’è già un valore» . Non è possibile scrivere in questo momento un programma definitivo del progetto riguardante il «Cortile dei Gentili» , perché le richieste stanno giungendo da ogni parte del mondo. Possiamo soltanto ricordare che codesta odissea di ragione e fede comincerà a Bologna il prossimo 12 febbraio; il 24 e 25 marzo sarà la volta di Parigi, ma già si parla di Tirana, Praga, Stoccolma, Ginevra, Mosca, Chicago, senza contare le richieste che stanno giungendo dall’Asia e dal Sud America. Perché Bologna? Ravasi chiarisce: «Cominceremo il nostro viaggio nella più antica università d’Europa, con una grande tradizione laica. Sabato prossimo sarà la vera e propria "prolusione"di un itinerario di dialogo e di ricerca dalle tappe molteplici. L’idea nasce quasi in connessione, in concorrenza con l’evento di Parigi, in particolare con la manifestazione della Sorbona» . Il rettore, Ivano Dionigi, precisa che «un’università pubblica e laica che ospita il confronto tra il credere e l’intelligere non abdica alla propria autonomia, ma assolve la funzione di istituzione vocata, per natura e storia, alla formazione e alla ricerca» . Il suo intervento e quello del cardinale apriranno, poco dopo le 10, i discorsi dei primi quattro «relatori» del «Cortile» : lo scienziato Vincenzo Balzani, il costituzionalista Augusto Barbera, i filosofi Massimo Cacciari e Sergio Givone. Saranno intervallati da letture dell’attrice Anna Bonaiuto (tra l’altro, ha lavorato con Pupi Avati, Liliana Cavani e Nanni Moretti), che farà rivivere brani di Agostino (Confessioni), Pascal (dei Pensieri la parte sulla «Scommessa» ) e Nietzsche (Così parlò Zarathustra). Sottolinea Ravasi: «L’iniziativa sarà aperta a tutti: studenti, docenti e anche a coloro che desiderano percorrere i sentieri di altura della ricerca sia filosofica sia teologica, sia razionale sia di fede. L’universitas torna a raccogliere ogni disciplina, compresa la teologia, e si rivolge all’agorà, alla comunità, a chi cerca e si interroga» . — per l’eminente uomo di Chiesa questo è il primo di due passi da intraprendere: «Mi sono ora rivolto all’orizzonte alto della cultura ed è auspicabile che sia l’inizio di un percorso di confronto nell’ambito accademico o, se si vuole, in quello del sapere più qualificato e specialistico; il secondo, invece, è delicato, decisamente arduo: sarà un confronto serrato, anche aspro, con la tipologia dominante della non credenza attuale che è quella nazional popolare dell’indifferenza, dell’amoralità, dello sberleffo ateistico» . Inoltre Ravasi chiarisce i termini del primo incontro: «Il rettore e io non faremo, ovvero non daremo il là; vorrei ribadire che la tonalità del dibattito è lasciata completamente libera. Noi presenteremo soltanto la ragione di indole culturale che esige un simile confronto, perciò non sarà mai la finalità dell’incontro strettamente apologetica o volutamente laica, ma quello che si intende avviare è un dibattito aperto, un dialogo sulle letture differenti delle questioni umane fondamentali» . Chiediamo degli esempi. In tal caso il cardinale mette in campo parole pesanti, che stanno al centro dell’attenzione di scienza e teologia, oltre che in secolari controversie filosofiche: «Vita, morte, oltrevita, bene e male, amore e dolore, verità e relativismo, trascendenza e immanenza» . Aggiunge: «Ovviamente ci sarà un’attenzione per le questioni bioetiche, in modo da essere sempre attenti ai progressi delle scienze ma al tempo stesso anche alla complessità del valore della vita e della persona, che restano il punto di riferimento sia per la teologia che per la filosofia» . Il «Cortile dei Gentili» combatte la sonnolenza dello spirito, quel genere di torpore — per fare un esempio— alimentato da quell’editoria che fa notizia ma è inutile alla cultura, cara a coloro che confondono il messaggio con il massaggio. È iniziativa che ribadisce il valore della fede e ricorda con Dostoevskij l’impossibilità di vivere pienamente senza riflettere su Dio. Ci accomiatiamo da Ravasi chiedendogli cosa si aspetta, come teologo, da questa iniziativa. «Con essa — risponde — attendo, oltre quel dialogo ricordato, un aiuto per coloro che desiderano uscire da una concezione povera del credere. Vorrei invitare il laico a non considerare la teologia un reperto archeologico o mitologico, perché ha una sua dignità "scientifica"; mentre il credente comprenda le ragioni profonde della teologia e non la veda come ostacolo: la intenda come un sussidio, una componente fondamentale per percorrere le strade della fede» .
La Stampa TuttoScienze 9.2.11
Il primo esodo dei Sapiens è scritto con asce e frecce
“Lasciarono la culla africana molto presto, già 125 mila anni fa”
Le orgini dell’umanità
di Gabriele Beccaria
La prova nella Penisola Arabica Dal sito di Jebel Faya emergono utensili uguali a quelli dei «fratelli» dell’Etiopia
"UNA SAVANA STERMINATA Si estendeva fino al Medio Oriente ed era punteggiata da boschi, fiumi e laghi"
Sono stati soprannominati i «Sapiens d’Arabia» e l’enfasi non è affatto fuori posto. Questi progenitori senza volto potrebbero riscrivere un capitolo-chiave della storia, quando la nostra specie ha lasciato la culla africana e ha cominciato a esplorare gli altri continenti. Fu quella l’epoca eroica della globalizzazione primigenia.
E’ proprio il momento a fare la differenza. Nella sempre rovente controversia che tra gli esperti è nota come «out of Africa» una scoperta riporta clamorosamente indietro la migrazione decisiva. Non 60 mila anni fa, come recita la teoria ortodossa, ma almeno 125 mila. Una capriola vertiginosa, testimoniata da un sito che si chiama Jebel Faya e che si trova negli Emirati Arabi Uniti, non lontano dallo stretto di Hormuz.
Invece che mucchietti di ossa fossilizzate, le prove sono esempi eloquenti di primordiale tecnologia, emerse da una roccia crollata su quello che doveva essere un rifugio. Si tratta di almeno 500 frammenti di amigdale piccole asce di pietra senza manico oltre a raschietti e punte di freccia. La prima sorpresa è che la tecnica di luminiscenza li ha datati a 125 mila anni fa e la seconda è che il «set» appare come un clone degli utensili usati dai primi umani nell’Africa orientale. Niente di sofisticato, anzi. Il team, guidato da Hans Peter Uerpmann della Eberhard Karls University di Tubinga, li giudica strumenti rozzi, ma molto efficaci, figli di una tecnica che rimase immutata per millenni e millenni.
Basta uno sguardo alle mappe e oggi Jebel Faya spicca come un’anomalia geografica, relegata in una delle estremità orientali della penisola arabica. Oltre 2 mila chilometri di deserto e di mezzo c’è uno dei più terribili, il sinistro Rub’ al Khali lo separano dal corridoio liquido del Mar Rosso. Ma ai tempi del «low tech» litico i paesaggi erano completamente diversi, come se fossero appartenuti a un altro mondo. La fine della glaciazione aveva cosparso le terre che oggi chiamiamo Etiopia e Arabia Saudita di boschetti e fiumi e anche di molti laghi. Una sterminata savana, decisamente più lussureggiante dei rimasugli attuali, si estendeva a Ovest e a Est e ulteriore colpo di scena il livello dei mari era più basso di quello di oggi, addirittura di un centinaio di metri.
Ecco spiegato sottolinea l’articolo su «Science» uno dei tanti misteri sulle nostre origini. Se l’invasione delle dune di sabbia era ancora uno scenario futuribile, il Mar Rosso assomigliava a una pozzanghera stagnante e si poteva facilmente attraversare con una zattera oppure, in diversi tratti, addirittura a piedi. Non fu necessario risalire la Valle del Nilo, affacciarsi in Medio Oriente e inoltrarsi a Sud, come pensava qualche archeologo. Sarebbero bastate buone gambe e una volontà di ferro (doti che ai Sapiens del tempo non mancavano) per sfruttare il ponte naturale tra le terre primordiali e le terre promesse: lo stretto di Bab al-Mandab, che oggi separa il corno d’Africa dall’Arabia, era così risicato da non esistere nel senso che i geografi gli danno nel XXI secolo. La linea delle coste confondeva Ovest ed Est, creando un’unica e accogliente mega-piattaforma.
E’ probabile che le coraggiose tribù di esploratori non si siano nemmeno rese conto di lasciarsi alle spalle un mondo per colonizzarne uno nuovo. I panorami continuavano ad assomigliarsi, con monotonia, chilometro dopo chilometro. Fino all’arrivo al sito di Jebel, che ipotizzano gli studiosi potrebbe essere stato utilizzato come trampolino di lancio per ulteriori migrazioni a lungo raggio, nella Mezzaluna Fertile e in India. «Adesso queste scoperte dovranno stimolare una nuova analisi dei modi e dei mezzi con cui noi umani siano diventati una specie globale ha sottolineato uno dei ricercatori, Simon Armitage della University of London -. Quei gruppi, ormai anatomicamente moderni, si sono evoluti in Africa circa 200 mila anni fa e poi hanno popolato il resto del mondo». Non ci sono dubbi, secondo Uerpmann: «Sono loro i nostri antenati».
Così si butta all’aria una consolidata cronologia del popolamento della Terra e si risolve, per esempio, l’enigma delle prime tracce dei Sapiens in Australia: se l’uscita dall’Africa deve essere retrodatata a 125 mila anni fa, ha senso lo sbarco in Australia di quelli che sarebbero stati chiamati aborigeni intorno a 50 mila anni fa. Anche i loro predecessori devono essere partiti dall’Arabia o, più precisamente, da una valle oggi perduta l’Ur-Schatt River Valley che ora giace in fondo al Golfo Persico: prima dell’innalzamento dei mari, conclusosi 8 mila anni fa, era una distesa fertile grande almeno quanto la Gran Bretagna, sostiene uno studio apparso su «Current Anthropology». Poi arrivò un diluvio.
Repubblica 9.2.11
Nell´ultimo libro di Paola Mastrocola la sconfitta degli insegnanti
Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile
di Pietro Citati
Quando, l´estate, vado al mare, prendo volentieri l´ombra vicino ai capanni dove giocano i bambini. Ci sono bambini di due, tre, quattro, cinque, sei, sette anni: qualcuno viene da Torino, altri da Firenze, da Prato, da Padova, da Trieste; e le voci mescolano e confondono i loro accenti.
Mi piace ascoltare quel fitto o fittissimo chiacchiericcio infantile, interrotto da esclama zioni, grida, urla, pause, racconti. Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca, divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si degrada.
Paola Mastrocola, che dedica un piacevolissimo libro alla scuola italiana (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, tra qualche giorno in libreria), parla di rado delle chiacchiere infantili sulla spiaggia. C´è una sola condizione che le interessa: il ragazzo o la ragazza che frequentano le medie o la prima classe del liceo scientifico. Per loro, ha una passione insaziabile. Ogni mattina, alle sette e trenta, le ragazze si preparano per la scuola; jeans attillati, scarpine con un po´ di tacco, cinturina di lamé, orologino Armani, brillante minutissimo alla narice destra, piccolo tatuaggio alla caviglia. Mezz´ora dopo, una massa scura occupa parlottando e fumacchiando la nebbia fitta che avvolge le scuole di Torino. I ragazzi e le ragazze hanno gli occhi cerchiati e tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, le braccia penzolanti, lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi. Sembrano posseduti dalla noia.
Nessuno, o quasi nessuno tra quei ragazzi perduti nella nebbia, ha voglia di andare a scuola. Nessuno si vergogna di questo rifiuto. Tutti detestano leggere o scrivere o ascoltare le lezioni. Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole: usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra, a ciascuno di loro, un´impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità e movimento.
Paola Mastrocola ama i suoi ragazzi perennemente annoiati, e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni, desideri, speranze. Quando guarda verso le cattedre, si accorge che i professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri, non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari, l´intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole: smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all´inizio del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu la scuola italiana.
***
Nel 1943, avevo tredici anni, come gli alunni sonnacchiosi di Paola Mastrocola, e attraversavo le stesse esperienze. Non andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un´immensa casa in Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo. La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone.Tutti i libri della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e esplorassi, l´immensa casa grondava di libri. Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell´alveare ronzante di libri.
Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All´improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell´Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all´invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura.
Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D´Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto – monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere – per sempre – di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un´esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni.
Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: – la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono.
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Malgrado la passione di Paola Mastrocola, temo che il suo libro sia troppo ottimista. In questi anni di presunte riforme, non assistiamo soltanto al disastro (certo più grave) della scuola italiana, ma a quello di tutta la scuola occidentale. In Gran Bretagna, il governo ha reso facoltativo, nel programma dei ragazzi più adulti, lo studio delle lingue straniere: questo studio – sostiene il Ministro – non serve più a niente, visto che, nel mondo, tutti letteralmente tutti, parlano e scrivono inglese. Per una volta, il ministro inglese è più sciocco di quello italiano: poiché immagina che la conoscenza di un´altra lingua sia soltanto un fatto utilitario: mentre arricchisce il lessico, la fantasia e l´intelligenza di chi la apprende. Il secondo esempio è ridicolo. Da qualche anno, gli studiosi di storia medioevale non conoscono più il latino di Gregorio di Tours o di Liutprando o di san Francesco. Anche questa conoscenza, suppongo, viene considerata inutile. Non è necessario conoscere un testo medioevale latino: bastano le traduzioni.Un evento ancora più grave minaccia l´intera società occidentale. Le fabbriche americane o inglesi o francesi o italiane non producono più automobili o scarpe in Europa: le producono in Cina o in India; mentre l´Occidente è rimasto la sede della pura attività finanziaria ed economica. Così, in pochi anni, l´Europa ha perduto una vocazione essenziale: quella di costruire una seggiola, o un tavolo, o una lavatrice, o un computer. Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l´Occidente era il luogo dell´esperienza e dell´avventura. Oggi, siamo diventati quello del niente e del vuoto.