La Stampa 7.2.11
Le ultime 100 tribù “incontaminate”
In Brasile indios che non hanno mai visto i bianchi: “Stiamo lontani, o moriranno”
di Mattia Bernardo Bagnoli
PIÙ NUMEROSI DEL PREVISTO I ricercatori: «La foresta non è vuota come pensiamo Ce ne possono essere altri»
CONFLITTI IN VISTA Le aree inesplorate sono ricchedi petrolio e finora erano ritenute senza abitanti
Gli
etnologi Survival International sta cercando gli aborigeni: le immagini
hanno fatto scalpore in tutto il mondo I cercatori d’oro Battono la
zona abitata dai «selvaggi»: c’è il rischio che portino epidemie
devastanti nei villaggi indigeni
Neolitici Le tribù mai contattate
dai bianchi sono cacciatori raccoglitori che vivono come i nostri
antenati della preistoria L’impatto con la società moderna potrebbe
essere devastante Già nel 1500 all’arrivo degli europei epidemie e
guerre decimarono gli indigeni
Il nostro mondo è pieno come un
uovo, Internet ormai raggiunge ogni dove, eppure allo scoccare del 2011
esistono ancora quasi cento popolazioni che non hanno mai visto l’uomo
bianco, figuriamoci un computer o uno smartphone. E neppure una banca,
una macchina, o il presidente Obama. O il concetto di Stato. Tribù,
insomma, ferme a un periodo premoderno - quasi primitivo, in certi casi -
grazie alla protezione offerta dalle foreste pluviali. Che però si
fanno sempre più piccole a causa del disboscamento. Popolazioni che sono
quindi in pericolo non tanto di restare per sempre isolate ma, al
contrario, di venire a contatto con l’uomo contemporaneo: e venir dunque
decimate dalle malattie, come capitò agli indios al tempo dei
conquistadores.
Il caso dei popoli perduti è riemerso con forza
dopo che sono state diffuse le immagini di una tribù scoperta
dall’organizzazione Survival International ai confini tra il Brasile e
il Perù. L’Ong ha adesso rivelato che un altro gruppo indigeno, sempre
parte della popolazione degli Yanomami, vive indisturbato nella parte
settentrionale dello stato brasiliano di Roraima. La tribù, i Moxateteu,
vive però in un’area piagata da un’alta concentrazione di cercatori
d’oro illegali. Se questi bracconieri di metalli pregiati non verranno
presto espulsi, dicono gli esperti, c’è il rischio che la maledizione
dell’uomo bianco possa colpire i Moxateteu, come è già capitato altre
volte in passato.
«Ci sono molte popolazioni indios sperdute», ha
detto a Survival International Davi Kopenawa, portavoce del popolo
Yanomami - di quella parte cioè già emersa dal cuore della giungla. «Io
vorrei aiutarli: hanno il nostro stesso sangue e non hanno mai visto il
mondo moderno».
Il mito delle popolazioni perdute, insomma, non è
una leggenda ma un fatto. «Queste persone esistono davvero», ha spiegato
all’ Independent on Sunday José Carlos Meirelles, funzionario del
Funai, il ministero brasiliano per gli Affari degli Indios. «Quegli
spazi vuoti del parco Yanomami - ovvero la zona off-limits creata nel
1992 dopo varie campagne di pressione internazionali - non sono così
vuoti come la gente pensa. Anzi mi spingo sino a dire che in quest’area
possa esistere più d’una tribù ancora da scoprire».
«Queste
immagini - ha commentato Fiona Watson, direttrice del settore ricerca di
Survival International - ci dicono che queste popolazioni sono vive e
più che sane. E contraddicono in pieno il pensiero di chi sostiene siano
state inventate dagli ambientalisti impegnati nella battaglia contro lo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Amazzonia».
Il
Sudamerica, insomma, è davvero una specie di Arca di Noé dei popoli
perduti. Oltre a Brasile e Perù, infatti, anche il Paraguay custodisce
una tribù ancora da contattare: gli Ayoreo-Totobiegosode. Gli unici a
vivere al di fuori dell’Amazzonia, nella vasta distesa di boscaglie che
si estende tra Bolivia, Paraguay e Argentina. Ovvero un’altra area ad
alto rischio ambientale a causa degli interessi legati all’allevamento
del bestiame. La storia è sempre la stessa: giù le foreste e largo ai
pascoli.
L’altra zona della Terra che potrebbe custodire molte
sorprese è la Papua occidentale. Qui la presenza dei militari e il
terreno particolarmente accidentato rendono infatti le esplorazioni
praticamente impossibili. Detto questo, il direttore di Survival
International ha sottolineato come un cambiamento di attitudini da parte
dell’uomo «civilizzato» nei confronti di queste popolazioni possa
essere la vera chiave per proteggere il loro stile di vita. «Spesso - ha
dichiarato - questi popoli vengono visti come retrogradi perché vivono
in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece
retrograda e incivile».
Corriere della Sera 6.2.11
Bellocchio, il labirinto vuoto
di Franco Cordelli
I
pugni in tasca di Marco Bellocchio dopo quarantasei anni arriva sulla
scena. Si tratta di un tipo di operazione che ha una storia illustre e
che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. A scoprire che
per fare teatro non è necessaria una scrittura drammaturgica furono le
avanguardie. Il teatro si può fare anche recitando l’elenco del
telefono, il teatro non è che scrittura scenica: dal Tarzan di Memè
Perlini (un romanzo di Edgar Rice Burroughs) al Mago di Oz di Fanny e
Alexander (un film di Victor Fleming). Ma qui siamo di fronte a registi e
spettacoli nei quali il testo originario era un punto di partenza e poi
di riflessione e trasfigurazione. Diversa cosa sono gli allestimenti
(cito i recenti) di Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, de
L’appartamento di Billy Wilder o di questo I pugni in tasca. A tradurre
la sceneggiatura in copione teatrale è stato lo stesso autore del film.
Ci si chiede perché si sia lasciato tentare. Così dimostra di credere
non in ciò che fece in quanto regista, ma in ciò che scrisse in quanto
sceneggiatore. Bellocchio crede nelle storie, nelle storie in sé, nella
loro intrinseca pregnanza. Al contrario, le storie in sé sono quasi
nulla, poco più o poco meno che cronache giornalistiche: le consumiamo e
in fretta ce ne dimentichiamo. Assistendo allo spettacolo intitolato I
pugni in tasca ciò è chiarissimo. Prima di tutto, della storia
originaria non è rimasto che lo scheletro. I passaggi narrativi che
giustificavano (per quanto possibile) azioni morbose o efferate, qui non
ci sono più, si resta a bocca asciutta, spettatori dell’inespresso,
ovvero dell’incomprensibile. Se si capisce, si capisce in termini
grossolani, pessimi luoghi comuni di quanto di peggio può accadere in
una famiglia vissuta come ambiente claustrofilo. Poi c’è la questione
cruciale. Ogni sceneggiatura, se la si prende per buona, se la si prende
in quanto tale, benché adattata, è una scrittura virtuale o, meglio,
funzionale. L’intensità del film di Bellocchio non era data dalla
drammaticità della storia ma dallo sviluppo delle sequenze e dalla
icasticità di ognuna di esse. Quella certa battuta aveva quel certo
valore perché a dirla era Lou Castel dal regista inquadrato in un certo
modo, su uno sfondo, o in un contesto piuttosto che in altro. Qui gli
attori sono nudi, all’aperto, al freddo, impacciati, spauriti, sembrano
aggirarsi sul palcoscenico non avendo di meglio da fare; e qualunque
cosa dicano ci si chiede perché la dicono, che valore abbia, essa
risuona puntualmente in un inimmaginabile vuoto di regia. La regista è
Stefania De Santis, ma di lei sappiamo il nome, che cosa avesse in mente
nessuno lo sa. Questa storia, di quattro fratelli imbranati o pazzi, al
meglio potrebbe somigliare a una pessima commedia di Tennessee
Williams. Ma quando Ambra Angiolini dice qualcosa e la scena si svuota e
lei rimane poggiata a un palo, o asta o colonnina, in silenzio per un
minuto e mezzo, come se da questo silenzio si dovesse sprigionare chissà
che tensione, noi spettatori si resta francamente imbarazzati. Non solo
non ha senso il copione, ma è lo spettacolo a risultare d’una
dilettantesca goffaggine. In quanto alla Angiolini, se ne tocca con mano
l’insicurezza, si percepisce d’essere di fronte a un’attrice che si
vede e si sente recitare, un’attrice che pensa a ogni parola o gesto che
fa. La scena, una specie di labirinto su più piani, è di Daniele Spisa.
Tra gli interpreti ricordo Pier Giorgio Bellocchio (il più credibile)
nella parte che fu di Lou Castel.
La Stampa 6.2.12
Il film di Bellocchio secondo la De Santis
Fiacchi “Pugni in tasca”
di Masolino D’Amico
Lunghi silenzi. La scena è fiocamente illuminata, l’atmosfera quasi cecoviana
Le
commedie tratte dai film sono di due tipi, quelle per chi non ha visto
il film, che quindi funzionano anche indipendentemente, e quelle per chi
invece ha visto il film e vuole per così dire ripassarselo. Ora, I
pugni in tasca che Marco Bellocchio ha tratto dal copione del folgorante
esordio cinematografico (1965) suo e dell’interprete Lou Castel (che il
grande critico inglese Kenneth Tynan paragonò al Marlon Brando del Tram
) non rientra agevolmente né nella prima né nella seconda categoria. Si
può chiedere al cinefilo di rievocarlo con facce diverse - anche se
quella di Pier Giorgio Bellocchio come lo spiritato Alessandro ricorda
tanto quella di suo padre giovane - senza quel bianco e nero sprezzante
dell’eleganza, già rétro in un’epoca in cui il colore dilagava? Ma anche
come semplice dramma noir regge male, almeno nello spettacolo diretto
da Stefania De Santis: spezzettato in miniepisodi precariamente saldati
con oscuramenti; poco agilmente articolato in una scenografia su più
livelli nessuno dei quali consente una visione davvero soddisfacente;
fiocamente illuminato, con un’atmosfera quasi cecoviana (lunghi silenzi)
poco adatta alla ferocia della storia. Questa, si sa, riguarda una
famiglia con madre cieca e soavemente ricattatrice, un figlio pazzo, un
figlio normale ma stronzo, un figlio schizofrenico-epilettico, e una
figlia frustrata. Liberatoriamente, il figlio schizofrenico elimina la
madre e il pazzo e violenta la sorella, consegnando così il patrimonio,
una casa di campagna con terre, al fratello normale.
Nell’indimenticabile film questa truce materia coniugava dolore,
passione repressa, malinconia; qui rimane inerte. Vestiti da Armani, i
cinque attori parlano sommessamente, molto composti tranne Bellocchio
junior, per 90 filati; l’attesa Ambra Angiolini è diligente e graziosa.
Al Quirino di Roma fino al 13
Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il
celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha
adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco
Visione
senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica
profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio
I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui
riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle
relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di
distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma
magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare
il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso
Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono
Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli
crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte
omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è
giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni,
del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro
mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo
un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo
d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e
ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale
"liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra
in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi
impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la
teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo
d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di
accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più
comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di
Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta
parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale
che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici
che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei
rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che
l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della
madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla
ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto
(e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è
il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella.
Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto
fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari.
Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza
di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e
disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio
Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra
Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e
versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso
delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza
matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di
Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia
di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni
in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità,
dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo
stesso tempo.
l’Unità 10.2.11
Disegno eversivo
di Giovanni Maria Bellu
Salutiamo con sollievo la decisione di Silvio Berlusconi di far causa allo Stato italiano. Certo, è molto probabile che l’annuncio di ieri vada a infoltire la lunghissima serie delle promesse non mantenute, ma il solo fatto che il presidente del Consiglio abbia manifestato il proposito di agire in giudizio contro il suo Paese va considerato un importante passo in avanti verso la chiarezza. Sono ormai diciassette anni che Berlusconi agisce contro l’Italia in modo senza dubbio efficace ma anche un po’ caotico. A tutto campo, verrebbe da dire: ne ha infangato le istituzioni facendo eleggere al Parlamento inquisiti per mafia, ne ha ridicolizzato l’immagine nel mondo prima coi suoi «scherzi» ai vertici internazionali e poi col pubblico scandalo della sua incontrollabile satiriasi, ne ha danneggiato le casse pubbliche giustificando gli evasori fiscali e ne ha offeso la memoria ironizzando sulle vittime del fascismo. Ne ha sistematicamente oltraggiato l’intelligenza con bugie colossali – dalla «ricostruzione» dell’Aquila alla risoluzione del problema dei rifiuti a Napoli – e anche il paesaggio non solo con i suoi «piani casa» ma anche con le sue case private, come l’osceno maniero che ha edificato in Sardegna. Ne ha corrotto l’anima non solo assecondando ma addirittura trasformando in «valori» gli storici vizi dai quali a fatica, e molto
lentamente, tentava di liberarsi. Ecco, giunto a un passo dal completare
l’opera di distruzione del suo Paese, ma anche a un passo dalla possibilità di essere espulso per indegnità dalla vita politica, giunto insomma a questo cruciale bivio il premier ha deciso di adire le vie legali: porterà l’Italia in tribunale per chiederle conto dei suoi giudici sovversivi che in tribunale vogliono portare lui. Quei moralisti che considerano reati le relazioni sessuali a pagamento tra adulti e minorenni. Contemporaneamente (stando almeno agli incredibili annunci giunti ieri sera dal vertice del Pdl) i suoi dipendenti politici denunceranno i giudici per lesa maestà. Sarà il processo del secolo. Anche perché ci sono buone probabilità che l’Italia, così autorevolmente chiamata in giudizio, decida di promuovere un’azione riconvenzionale chiedendo che sia Silvio Berlusconi a pagare. Com’è noto i mezzi non gli mancano, ma dubitiamo che siamo sufficienti a risarcire l’immenso danno che ha prodotto.
Un altro po’ anche ieri. La cosiddetta «scossa» economica impapocchiata lì per lì nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica e recuperare un po’ di consenso (perché il consenso del Caimano cala, checché ne dicano i suoi sondaggisti e i suoi maggiordomi) purtroppo non è «a costo zero». Cioè: lo è per quanto riguarda le risorse pubbliche disponibili (che sono zero, appunto) ma non lo è per il Paese. Perché tra le armi di distrazione (e distruzione) messe in campo c’è ora anche l’annuncio della modifica di tre norme della Costituzione. Il Caimano affonda i denti nella carne viva delle istituzioni per salvare se stesso. Staremo a vedere fino a che punto si spingeranno l’irresponsabilità e l’ambizione personale di quanti lo assecondano nel disegno eversivo.
l’Unità 10.2.11
Bersani: «Scossa? Questa è solo un’operazione di distrazione»
«Le misure annunciate dal governo? Solo una strategia di distrazione. In Italia c’è bisogno di vere liberalizzazioni». Il segretario Pd ribatte agli annunci del premier e lancia un appello alla Lega. «Fermatevi».
di Maria Zegarelli
Una scossa all’economia del Paese? «Le misure annunciate dal governo non fanno nemmeno il solletico», altro non sono che un’«operazione di distrazione», un mix di «norme astratte, calendari, niente di concreto». Pier Luigi Bersani convoca la conferenza stampa al Nazareno poco dopo quella del premier, per annunciare una lenzuolata di 34 liberalizzazioni messe a punto dal Partito democratico e per smontare pezzo per pezzo la ricetta del governo. Berlusconi fissa la crescita del Pil all’1,5% dopo la cura messa a punto dal «filosofo» Tremonti? «Se fosse vero sarei pronto a mettermi il saio e andare a piedi ad Arcore, ma non accadrà perché il Pil non supererà lo 0.5%», scommette il segretario Pd.
APRIRE ALLA CONCORRENZA
«L’Italia dice ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni, intesa in senso ampio e molteplice. Ciò vuol dire aprire alla concorrenza mercati chiusi e in regime di monopolio e come può farlo lui, che è un monopolista e un miliardario incapace di capire il paese reale?». La ricetta del Pd punta invece a maggiore potere e libertà ai consumatori e alla revisione della regolamentazione «di alcuni settori di grande impatto sociale». Per questo «non serve a nulla modificare l’articolo 41 del-
la Costituzione, che dalla nascita della Repubblica e fino agli Anni Ottanta non è mai stato un ostacolo al boom economico di questo Paese». Si facciano «41 norme concrete sulle liberalizzazioni, noi ne mettiamo in rete subito 34 e chiediamo a chi ha esperienze di vita vissuta delle idee, di interloquire con noi. Si può fare una mega lenzuolata». Stoccata aggiuntiva: «Il Pil lo si muove con le riforme e non con un articolo scritto dal volenteroso Giuliano Ferrara».
L’APPELLO ALLA LEGA
Ma è alla Lega, sempre più schierata con il premier, che si rivolge Bersani: «Fermatevi qui o si perde un’occasione storica per fare un federalismo che tenga davvero insieme questo Paese». Appello destinato a cadere nel vuoto alla luce del patto che tiene insieme Berlusconi Bossi: federalismo (anche blindandolo con la fiducia) in cambio del via libera su processo breve e intercettazioni. «La Lega vuole dice infatti il segretario ottenere una bandierina e il premier salvare la pelle» anche se questo «porterà a esiti ingestibili, a dei pasticci». Al senatur ricorda che ci sono «solo due forze con radici autonomistiche: il Pd e la Lega» e a Berlusconi che «se fosse qualcosa che assomiglia a uno statista, troverebbe il modo di levare se stesso e l’Italia dall’imbarazzo». In gioco la credibilità del Paese, «anche oggi ho ricevuto telefonate di imprenditori disperati che lavorano all’estero. C’è un punto che si chiama credibilità ed è l’immagine del paese e questo paese non è rappresentato in modo credibile. Così non si può andare avanti». Altro appello, stavolta alla classe dirigente muta davanti a quello che sta succedendo: chi tace adesso come potrà parlare dopo?
La Stampa 10.2.11
Nuova lenzuolata
La “scossa” di Bersani Contropiano in 34 punti
Rinfrancato dai sondaggi (l’ultimo quello di Ipsos diffuso a Ballarò) che danno il centrosinistra per la prima volta sopra nelle intenzioni di voto, Pierluigi Bersani reagisce a tambur battente alla campagna mediatica del premier sull’economia. Con una mossa da leader di un governoombra, convoca subito una conferenza stampa per illustrare una manovra antitetica a quella dell’esecutivo. «Ma quale scossa all’economia? Queste misure non fanno neanche il solletico, non c’è niente di concreto, è un insieme di norme astratte. Se con queste cose il Pil crescerà dell’1,5% come ha detto Berlusconi, prendo il saio e vado ad Arcore a piedi».
Il segretario del Pd dunque boccia senza mezzi termini il pacchetto del governo e ingaggia un botta e risposta a distanza col premier. A Berlusconi che dice «l’Italia ha un debito alto ma i suoi cittadini sono ricchi» e che «le lenzuolate di Bersani non hanno prodotto nessun effetto», Bersani replica gelido di provare «a chiederlo a chi ha un mutuo. Quando si ha una psicologia da miliardario non si può capire come vive il Paese, sono problemi che non si possono comprendere».
Quindi snocciola la sua ricetta, riversando in rete un elenco di 34 liberalizzazioni da fare subito, «per andare incontro alle esigenze dei consumatori, abbassare i prezzi e sostenere il lavoro per i giovani, sbloccando investimenti e attività economiche». Il pacchetto del Pd rilancia disegni di legge già presentati in Parlamento sulle professioni, proposte su una maggiore concorrenza nel mercato dei carburanti e dell’energia, presentati come emendamenti alla Manovra di luglio, iniziative sulla regolazione del settore dei trasporti, come la soppressione del pubblico registro automobilistico (Pra), proposte per liberalizzare il commercio e semplificazioni per le imprese. Un insieme di misure che potrebbero avere «effetto immediato, senza farci perdere un anno, perché la situazione del paese è critica, abbiamo un problema di stagnazione e di rilevantissima disoccupazione e il sistema delle imprese è in difficoltà». E sulla controversa riforma del federalismo, il leader Pd rilancia un appello al Carroccio di fermarsi «prima che si perda un’occasione storica facendo pasticci. Perché se si andasse avanti con una forzatura sarebbe dovuto al fatto che la Lega vuole ottenere una bandierina e il premier vuole salvare la pelle con il processo breve».
E contro il governo si scagliano pure i Verdi, denunciando che il nuovo piano casa approvato oggi «è l’ennesimo condono edilizio mascherato: le città dovranno subire un aumento della superficie abitabile di 490 milioni di metri quadrati e sopportare oltre 1 miliardo di metri cubi di cemento».
Il Sole 24 Ore 10.2.11
Intervista a Susanna Camusso:
dal governo nessuna risposta concreta, tocca alle parti sociali
di Giorgio Pogliotti
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-02-09/intervista-susanna-camusso-governo-220328.shtml?uuid=AaHEhz6C
il Fatto 10.2.11
Ezio Mauro: “Qui è un problema fare l’opposizione”
Il direttore di Repubblica: “Saviano farà solo lo scrittore”
intervista di Luca Telese
“D’Alema e Veltroni hanno iniziato a litigare nel 1994. Il che vuol dire, anche senza esprimere giudizi di merito, litigano da quattro partiti, perché hanno iniziato nel Pd, hanno proseguito con il Pds, poi con i Ds e infine nel Pd...”. Pausa. Sopracciglia che si sollevano: “In questo lasso di tempo non breve, l’America è riuscita ad eleggere cinque presidenti, è stata inventata una cosetta come Google, e - anche se può sembrare incredibile - persino l’Inter è tornata a vincere lo scudetto”. L’apologo sintetico di Ezio Mauro arriva come una scudisciata perché il tono del direttore di Dronero è pacato, non varia di un semitono rispetto a quando mi parla di Bobbio, di Zagrebelsky e di Montesquieu. Però, quando rialzo la testa dal taccuino e lo guardo, noto un inarcamento, in un angolo della bocca - che in fondo è un sorriso. Nel corso dell’intervista il direttore di Repubblica concede un’apertura di credito al centrosinistra (“Finalmente hanno finito con le aperture sulle riforme”) parla soprattutto di Silvio Berlusconi. Lo sfida, di fatto a querelarlo (di nuovo),dedica lunghe riflession ia quella che savianamente chiama “la fabbrica del fango”, cesella epiteti sprezzanti per Brunetta e Sacconi (“Ministri facinorosi che inseguono le vendette del ‘900”), dice che sarà “lui stesso” (lui è Berlusconi) a creare le condizioni perché tutte le opposizioni si uniscano. Dedica stilettate memorabili a Minzolini Ferrara, Vespa e ad Alfonso Signorini (che non cita direttamente). Rivela la notizia esplosiva di un quasi-ricatto a “un giornalista sgradito al governo”. Definisce “folle” chi dice di una sua candidatura a premier e che Saviano “vuole essere e fa bene lo scrittore”. Repubblica - dice - fa giornalismo, e non politica. Fruga sulla scrivania, estrae un foglietto ingiallito: “È l’unica tessera che io abbia mai avuto in vita mia, quella del Partito d’azione. Un cimelio. Arriva da un lettore”.
Da due anni batti sul tasto dell’anomalia democratica...
Sì. Vedo che anche i dirigenti del centrosinistra accettano questa verità. Posso partire da un’immagine?
Quale?
Oggi, nella stanza dei caporedattori, avevamo quattro schermi accesi sui tg italiani e internazionali.
E che notizie davano?
Quelli italiani trasmettevano Berlusconi che presentava un improbabile piano di rilancio, la Bbc dava le breaking news sulla richiesta di rito immediato contro il nostro premier.
Ti stupisce?
Affatto. Si citavano i capi di imputazione: il primo: “prostituzione minorile”. Il secondo, da noi “peculato”, era tradotto, efficacemente: “abuso d’ufficio”.
Cosa hai pensato?
Da noi milioni di persone ancora non sanno che di questo si discute: pochi tg hanno usato altrettanta linearità. Queste due cose non stanno insieme.
Rilancio e prostituzione?
Esatto. Sei con le mani e con i piedi dentro uno scandalo, hai un governo in stato pre-agonico, eppure cerchi di spostare l’attenzione su un annuncio che ha tutta l’aria di una diversione.
Non credi che Berlusconi ci creda?
Non è riuscito a fare questo quando era appena uscito dal voto, investito da un mandato mai visto, da una maggioranza di cento voti e da un consenso fortissimo. Perché dovrebbe ora?
Basta un voto in più dopotutto...
Ha riaggregato un materiale umano terribile. Gente su cui nessuno fa affidamento. E non ci crede nemmeno lui, un minuto dopo averli comprati.
Comprati?
Su Repubblica abbiamo pubblicato il contratto, con tanto di importo, con cui si retribuivano due ex deputati della Lega. Ma ci sono anche transazioni non direttamente economiche.
Berlusconi querela molti giornali...
Quando ci ha querelato, per le nostre dieci domande, 138 giornali in tutto il mondo le hanno riprese.
Ora pubblicate le dieci bugie...
Mi farebbe quasi piacere se querelasse ancora. Ma capisco che non voglia ripetere l’esperienza.
Anche voi avete querelato lui.
Per l’invito a boicottarci! Ma invece di andare in tribunale, ha usato lo scudo del Parlamento per l’immunità.
Ha risposto, in parte, però. Oh, sì... Chiuso dentro il recinto del suo notaio personale, e di un libro della sua casa editrice. “Il notaio” è Vespa, un bell’epiteto.
(Stupore) Non è un’illazione.
Non credo che Vespa sia contento.
È il ruolo che si è scelto. Ha iniziato a recitarlo davanti alla scrivania del contratto degli italiani, allestita dallo spin doctor dell’epoca, Crespi.
Il premier sarebbe al suo posto senza controllo di giornali e tv?
Ovviamente no. Sono strumenti che vengono usati per mistificare, per sviare l’attenzione, propagandare false verità mascherate di antimoralismo.
E tu non sei moralista su Ruby?
Cosa c’è di morale in messaggi dettati dal cielo con episodi di giornalismo imbarazzante?
Alt. Stai parlando dell’intervista al Tg1 di Augusto Minzolini, con le domande inserite ex post.
Ho conosciuto Minzolini quando dava l’anima per cercare le notizie, ora guardo con fatica i titoli del suo tg. Oggi dà l’anima per nasconderle.
Non guardi più il Tg1?
Cosa c’è da vedere? Ci sono le reazioni del potere alle notizie che non sono date. Cosa può capire lo spettatore?
Il problema sono i giornalisti?
Il problema non sono i killer, ma i mandanti.
Facciamo scuola di giornalismo?
Va illuminato il mandante, e soprattutto il movente. Il vero voyeurismo non è il nostro. È quello di chi pubblica le intercettazioni senza spiegare il contesto e trarre le conseguenze.
Esempio?
Non è informazione il giornalismo di chi non tira mai un filo. Un grande giornale ha persino scritto: è stata spiata la residenza di Arcore. Bè, menzogna.
Le ragazze sono state intercettate.
Non a casa del premier. E la telefonata per cui tutto il mondo ci ride dietro è stata ammessa da lui stesso, nel tentativo grottesco di trasformare una menzogna in una verità di Stato.
I giornali di sinistra processano Berlusconi?
Posso citarti una frase: “Un uomo politico deve rispondere pubblicamente dei suoi comportamenti privati”. Non è un mio editoriale, è di Barbara Berlusconi. Non posso che sottoscrivere.
Questa è una piccola perfidia.
No, buonsenso. Bastano le parole della figlia. E invece lui cerca di farsi assolvere, ancora una volta dalla sua maggioranza con il voto sull’inchiesta.
I magistrati vanno avanti.
Ma la fabbrica del fango, immediatamente, colpisce. Hai visto cosa hanno fatto alla Boccassini?
Il trattamento Boffo?
Certo. Quello che ha colpito Mesiano. E poi l’avvertimento a Fini, seguito dalla campagna su Montecarlo. E parlo dei casi che ho studiato.
Cosa intendi?
L’avvertimento dei giornali del premier agli avversari del premier è: attento, ora rovistiamo nel tuo letto. La tua vita privata verrà messa a soqquadro.
Non sempre funziona.
Anche se non ci si piega il messaggio per tutti è: tieni gli occhi bassi. Tieni le orecchie chiuse.
Non è finita?
Posso raccontarti il caso di un importante giornalista sgradito al governo.
Chi?
Il nome non posso farlo. E’ stato chiamato dal direttore di uno dei giornali di presunto gossip, la cui principale attività è santificare la famiglia reale...
È facile: il “Chi” di Signorini.
Non importa. Importa il messaggio: “Ci sono delle fotografie imbarazzanti che ti riguardano, se te le vuoi ricomprare questo è il numero del fotografo”.
Stai dicendo che è un ricatto?
Peggio: ti sta dando un avvertimento. Ti dice che sei sorvegliato. Ti dice che devi rigare diritto. E anche se quest’uomo non si piega lo hai toccato. Questo è un paese in cui è un problema stare all’opposizione.
Cossiga disse: “Mauro sarà il candidato premier del centrosinistra”.
Se è per questo l’ha scritto pure Libero, e me l’ha chiesto persino un leader di centrosinistra
Nome, nome...
Non lo dico perché è una fesseria. Non salgo mai sui palchi. Non sono andato nemmeno al Palasharp.
Hai duellato con Ferrara...
Aveva scritto un articolo incredibile. Ora vedo che si è corretto. Sono d’accordo con lui su una cosa...
Questa è una notizia.
Che non siamo d’accordo su nulla. Hanno attaccato Eco perché ha detto che legge Kant. E cosa dovrebbe leggere? La Settimana Enigmistica?
Repubblica tira la volata a Saviano?
È uno scrittore, straordinario, che vuole continuare a fare lo scrittore. È uno straordinario personaggio pubblico, non credo sia un personaggio politico. Vedi?
Cosa?
È una caratteristica del populismo. Ma perché Saviano non si fa gli affari suoi? Il messaggio per tutti è fatti gli affari tuoi, a te pensa il sovrano.
Non ti senti troppo indulgente con il centrosinistra?
Assolutamente no!
Cosa gli manca?
Hanno perso il concetto di fraternità. Se discuti con Franceschini o Bersani, ti parlano 10 minuti di Berlusconi e 50 del loro avversario di partito.
Allora sei più duro di noi de Il Fatto.
Noto che non si sentono compagni. Essere moderninonsignificafareilbagnonelsenso comune. O fare il gregariato del vincente, penso alla Fiat. Uno di loro...
Chi?
Non conta. Un insospettabile. Quando nel 1994 scrissi che la parola unificante doveva essere riformismo, mi chiamò: ‘Come sei vecchio, culturalmente’. Bè, ora riformismo è l’unica cosa che hanno sulla carta di identità.
Allora sei spietato
No, ti ripeto. Ogni settimana chiedevano il dialogo sulle riforme a prescindere. Ora vedo che si sono corretti. Sai cosa mi disse Bobbio? “Si interrogano sul loro destino e non capiscono che dipende dalla loro natura, se risolvessero la loro natura risolverebbero anche il loro destino”.
Repubblica 10.2.11
Il Cavaliere in calo nei sondaggi perde con Bersani, Casini e Vendola
Pagnoncelli: per il 61% degli intervistati dovrebbe dimettersi
Il Rubygate comincia a pesare nella valutazione sul premier: gradimento a picco
In questo momento solo un elettore su 4 sceglierebbe la coalizione di centrodestra
di Mauro Favale
ROMA - Berlusconi contro Bersani? Vince Bersani. Berlusconi contro Casini? Vince Casini. Berlusconi contro Vendola? Vince Vendola. La premessa è che «si tratta di simulazioni». Ma i sondaggi effettuati da Ipsos e illustrati due giorni fa da Nando Pagnoncelli a Ballarò, raccontano una situazione in evoluzione con un presidente del Consiglio che a meno di un mese dall´esplosione del caso-Ruby, subisce, secondo le previsioni di voto, i contraccolpi dell´ennesimo scandalo. Tanto che per il 61% degli intervistati Berlusconi dovrebbe dimettersi.
Una cifra bilanciata, però, da un dato opposto: quasi la stessa percentuale (il 59%) ritiene che, alla fine, il governo continuerà la sua attività e solo il 12% pensa che si arriverà al voto anticipato. Ciò non toglie, però, «l´esistenza di un fronte largo non favorevole a Berlusconi», spiega Pagnoncelli. «Prevale una radicalizzazione delle posizioni e un ricompattarsi degli elettori contrari al premier». Si spiegano così le cifre delle simulazioni sui "confronti diretti": Bersani-Berlusconi finirebbe 43% a 33%; Casini-Berlusconi 45% a 32%; e nello scontro a tre Vendola-Berlusconi-Casini prevarrebbe il primo col 32%, poi 31% al secondo e 21% al terzo. Circa un quarto degli intervistati, però, nel caso di scelta secca preferisce non decidere. Nella simulazione sulle coalizioni, poi, il centrodestra perderebbe (fermo al 38,7%) sia se in campo ci fossero Centrosinistra (41%) e Centro (17,8%) sia in caso di una coalizione "tutti contro Berlusconi" (51,3% contro 44,2%).
«Si sono moltiplicati gli oppositori del premier - prosegue il direttore di Ipsos - fatto salvo il dato di chi dichiara che, in caso di elezioni, non andrà a votare». Una percentuale ancora vicina al 40%, tra indecisi, astenuti e delusi. Un dato che difficilmente potrà essere recuperato da Berlusconi: «Quando si avvicineranno le elezioni, la quota di non voto si assottiglierà. Non arriveremo, però, all´affluenza del 2008, vicina all´80%. In ogni caso, è difficile che chi oggi è deluso possa poi esprimere un giudizio positivo e tornare a votare per il governo uscente». È con quest´ampia fascia di indecisi che bisognerà comunque fare i conti.
Per adesso, Pagnoncelli mette in fila le cifre assolute, riscontrando per il Pdl un trend calante: «Nel 2008 raccolse 13 milioni e 800 mila voti. Alle Europee del 2009 furono 10 milioni e 800 mila. E non era ancora nato Fli né era scoppiato il caso Ruby». Inoltre, su una base elettorale che si riduce perché crescono le astensioni, «il peso reale di quel 27-30% intorno al quale viene accreditato oggi il Pdl rappresenta il 18% in termini assoluti. E se aggiungiamo anche la Lega, il 40% di consensi attribuiti dai sondaggi al centrodestra significa, in termini di elettorato complessivo, il 24%». Solo un elettore su 4, insomma, tra tutti gli aventi diritto al voto in Italia, sceglierebbe, in questo momento, la coalizione di centrodestra.
Corriere della Sera 10.2.11
L’alternativa è Vendola?
Giovedì sera vuol dire Santoro, vuol dire arena, vuol dire viale Mazzini che trema. Il giornalista che sempre più sbanca l’Auditel — soprattutto quando tratta di Berlusconi e degli scandali sessuali— anche stasera non può non parlare del governo... Come si esce da questa situazione? Vendola ha la forza politica per unire tutto il centrosinistra? Qual è la sua proposta politica, economica, sociale e culturale per sfidare Berlusconi alla guida del Paese? Ospiti oltre a Vendola, l'economista Irene Tinagli e i giornalisti Lucia Annunziata, Pierluigi Battista e Nicola Porro. Annozero Raidue, ore 21.05
l’Unità 10.2.11
Le responsabilità del Comune
I Rom, la tragedia e i tre errori di Alemanno
di Roberto Morassut
Dopo la tragedia di Tor Fiscale Alemanno ha chiesto poteri speciali per risolvere il problema dei campi rom reso, a suo parere, complicato dalle resistenze della “burocrazia”.
Tralascio il fatto che nel 2008 non la pensava così e che promise espulsioni di massa per catturare consenso elettorale pur sapendo di non avere il potere di farlo. La realtà è che nello specifico caso di Tor Fiscale il Comune è stato latitante e senza poteri speciali, ma con procedimenti del tutto ordinari, poteva risolvere da tempo il problema. Questo giudizio emerge da due fatti.
Primo. Nel maggio del 2010 un rapporto redatto dal Corpo dei Vigili Urbani segnalava direttamente agli uffici del Sindaco la rischiosa situazione di un insediamento abusivo composto da oltre venti persone di cui la metà minori alloggiati in baracche. Da allora nulla si è mosso per affrontare il problema.
Secondo. Già dal 2007 il Comune su mio indirizzo aveva avviato con un atto di Giunta una procedura di recupero urbanistico per approvare un piano particolareggiato in variante col fine di riqualificare l’area, sgombrare insediamenti abusivi, favorire la sicurezza e valorizzare l’area di proprietà del Cotral che avrebbe potuto così consolidare il proprio bilancio. Dove è finita quella delibera? Perché non è stata portata avanti?
Sono domande importanti a cui si deve dare risposta perché con il “normale” funzionamento amministrativo e senza “poteri speciali” si poteva probabilmente prevenire una situazione grave. Il Sindaco, su questo, qualche spiegazione dovrebbe darla.
Infine occorre ricordare un’altra cosa. Il Comune di Roma aveva messo allo studio tra il 2006 ed il, 2007 a cavallo della approvazione del Piano regolatore di Roma, una serie di localizzazioni per realizzare alcuni insediamenti regolari per i rom. Si trattava di aree prive di vincoli in zone semiurbanizzate tali da non creare problemi agli insediamenti esistenti e da non risultare completamente isolate e collocate grossomodo nei quattro punti cardinali di Roma. Su quelle aree avrebbero dovuto essere realizzati i cosiddetti “Villaggi della solidarietà” da gestire in collaborazione tra il Comune, associazioni di volontariato laico e cattolico e le rappresentanze delle comunità rom.
Queste scelte e questo metodo furono aspramente criticati da Alemanno che preferì usare in modo miope e strumentale l’argomento delle espulsioni. Quel lavoro complesso che non aveva alternativa come ora dimostrano i fatti fu gettato alle ortiche ed ora Alemanno invoca “poteri speciali”. Il solito alibi al quale non crede più nessuno.
l’Unità 10.2.11
Il rapporto dei carabinieri maggio 2010: «Troppi materiali infiammabili, rischio incendio»
I sopralluoghi dei vigili urbani corredati da fotografie, l’ultimo censimento il 9 dicembre
Bimbi rom, tutti gli allarmi che Alemanno ha ignorato
La veglia a Santa Maria in Trastevere, le mamme rom: «Basta campi, i nostri figli muoiono di malattia o bruciati». Il cardinale vicario Vallini: «La carità non può essere disgiunta dalla giustizia».
di Jolanda Bufalini
Si sono avvicinate alla fine della veglia di preghiera a Santa Maria in Trastevere, la basilica dove si raccolgono in preghiera gli immigrati, i bisognosi, i portatori di handicap, per la prossimità alla comunità di
sant’ Egidio. Si sono avvicinate le donne rom alle autorità presenti, il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, la presidente della Regione Renata Polverini: «Basta campi», hanno chiesto a gran voce. «I nostri figli sono tutti malati o bruciati». Incoraggiate, forse, nella tragedia, dalle parole pronunciate dal pulpito dal cardinale vicario Agostino Vallini, così come la famiglia di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul si era sentita accolta, per la prima volta nel nostro paese, dalla massima autorità civile, il presidente Napolitano. Incoraggiate anche, nel grido disperato, dalla lettura, al termine dell’ omelia, di cento nomi di bambini rom morti a Roma negli ultimi dieci anni: annegati nel fiume sul cui argine era costruita la loro baracca, morti di polmonite, bruciati nel rogo causato da un fornelletto o da una candela. Per ogni bambino una candelina è stata portata all’ altare.
La folla in chiesa si è stretta intorno Elena Moldovan e Erdei Mircea,
che non hanno mai smesso di piangere durante la cerimonia. Non c’era solo gente comune ad ascoltare le parole del cardinale, c’erano anche politici, fra gli altri Casini e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. «La carità ha sostenuto Agostino Vallini è inseparabile dalla giustizia. Viviamo in una città complessa e sarebbe un gravissimo errore ignorarlo» ma i problemi non possono far velo al punto fondamentale: «Domandarsi a quanti casi di giustizia negata dobbiamo riparare, perché gli immigrati non devono essere considerati solo come fonte di problemi ma anche come titolari di diritti», al lavoro, alla scuola, alla casa, alla salute. Ieri al Senato, la commissione straordinaria per i diritti umani ha approvato all’ unanimità il rapporto sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia. Vi si lamenta l’assenza di un piano nazionale che preclude all’Italia l’accesso ai fondi europei. E si segnala anche come il fenomeno dei campi sia solo italiano. Negli altri paesi europei «i campi sono di transito» mentre le soluzioni che la commissione suggerisce sono quelli degli alloggi popolari, delle auto-costruzioni, delle famiglie allargate. «La soluzione non può essere dice la commissione l’eterna emergenza e lo spostamento da un luogo all’ altro, andando dietro alle lamentele».
Nel frattempo emerge che la situazione della famiglia dei quattro bambini arsi vivi a Tor Fiscale era ben nota al Campidoglio. Denuncia Susi Fantino, presidente del IX municipio: «Li conoscevamo perché più volte erano stati sgomberati, e il papà lavora nell’edilizia». Il sindaco Alemanno, accusa la presidente, «non può far finta di non sapere». Ecco qui l’elenco delle azioni compiute e comunicate al gabinetto del sindaco per mettere in guardia dalle condizioni di grave insicurezza del piccolo insediamento: una segnalazione forte e dettagliata è contenuta in un rapporto dei carabinieri datato 9 maggio 2010, i militari mettono in guardia proprio dal «rischio di incendi per la presenza concentrata di materiali infiammabili dagli indumenti in acrilico alle bombolette a gas». Nello stesso mese di maggio seguono una lettera dettagliata del direttore del Municipio Di Giovine e una lettera della mini-sindaco: «Ho espresso la preoccupazione sia per una collocazione più protetta delle famiglie accampate sia per il rischio che vi fossero reazioni negative da parte dei cittadini», spiega ora Susi Fantino. Ma non è finita lì, perché si sono susseguiti puntuali i rapporti della polizia municipale, corredati di fotografie, a giugno, ottobre e dicembre. L’ultimo sopralluogo, il 9 dicembre, è stato anche occasione di un censimento. «Alemanno sostiene la presidente del Municipio non può nascondersi dietro cavilli burocratici che in questo caso non c’entrano. Quello era un piccolo gruppo e un’azione preventiva era semplice da realizzare».
Nessuna schiarita, intanto, nei rapporti fra il sindaco e il ministro dell’Interno. Alemanno, ieri mattina, aveva annunciato che, se Maroni non rispondeva, si sarebbe rivolto a Berlusconi. Il ministro non deve aver gradito e non lo ha ricevuto. «Non ero a Roma, non sono ancora andato in ufficio ha tagliato corto Lo riceverò. Prima o poi».
l’Unità 10.2.11
Conversando con...
Beppino Englaro
Dico no all’inferno di Eluana: per questo ho consegnato il mio testamento biologico
di Luca Landò
qui
Repubblica 10.2.11
Anche Bossi boccia la festa del 17 marzo, imbarazzo nel governo
Perché è giusto non lavorare nel giorno dell´Unità d´Italia
di Adriano Prosperi
Il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento e venne proclamato il Regno d´Italia. Era nata la nazione come realtà politica. Fino ad allora l´Italia era stata solo una espressione geografica. Per ricordare quella data faremo festa il prossimo 17 marzo. La faremo davvero?
La data si avvicina e le voci critiche, dubbiose, ironiche si moltiplicano. Oggi la possibilità, il pericolo che la festa venga cancellata si sono fatti tangibili. Su di un´opinione pubblica frastornata, in un paese diviso profondamente da disuguaglianze di beni, di consumi e di diritti, dove le diversità che consideravamo la ricchezza e l´originalità dell´Italia oggi appaiono improvvisamente come cesure insanabili, cala l´ombra del dubbio: un dubbio che investe la festa come simbolo e che nel simbolo ferisce in modo grave il dato reale. Perché se muoiono i simboli l´entità che essi rappresentano comincia a cessare di esistere: la morte del simbolo nella coscienza comune significherebbe che l´Italia che apparentemente continuerebbe a esistere sarebbe un fantasma privo di vita.
Ma vediamo gli argomenti. Perché questa festa non s´ha da fare? Qualcuno la mette sul serio: l´economia nazionale è così grama che non tollera il rischio del lavoro perduto. E come spesso accade l´argomento dell´economia ha dato una maschera seria a chi non la possedeva. È bastato che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, persona seria e che sa farsi ascoltare con rispetto, parlasse del danno rappresentato dalla perdita di otto ore di produzione, perché chi non aveva avuto fino ad allora il coraggio di andare al di là delle battutine e delle alzate di spalla si mettesse alla sua ombra per insidiare più decisamente l´evento festivo e provare a cancellarlo del tutto. Si sono levate voci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie.
Non con loro vale la pena di parlare. Limitiamoci all´argomento "serio" della Marcegaglia. Davvero – si chiedeva Giorgio Ruffolo su questo giornale – in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale? Perché il fatto singolare è che non stiamo progettando l´introduzione di una nuova festa nel calendario civile: quella del 17 marzo 2011 non sarebbe l´equivalente italiano del 14 luglio francese o del 4 luglio americano. Sarebbe un "una tantum", da ripetere magari solo quanto i 150 saranno diventati 200 o 300. Un ricordo del passato, un impegno per il futuro: un momento comune e pubblicamente riconosciuto per sostare e prendere atto di un accadimento storico che ci riguarda tutti in quanto italiani, non in quanto legati a questo o a quel partito, a questa o a quella ideologia, fede religiosa o identità etnica.
Quella mattina del 17 marzo gli italiani non si alzeranno per andare al loro solito posto di lavoro – quelli che ne hanno uno – o a cercare lavoro – quelli che non ne hanno, che sono tanti, soprattutto fra i giovani. Dovranno pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata.
Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare "in interiore homine". Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri. Perciò quel pensiero il 17 di marzo del 2011 lo dovremo dedicare in particolare ad alcuni nomi: quello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quelli dei suoi predecessori, in modo particolare Carlo Azeglio Ciampi.
La Stampa 10.2.11
La rivolta dei blogger “Gaza è stufa di Hamas”
Il vento del Cairo arriva nella Striscia, gli islamisti proibiscono le manifestazioni
di Francesca Paci
Come vedo la rivoluzione del Cairo? Eccola, una strada sbarrata» dice il cinquantenne Youssuf indicando la barriera che si scorge oltre i palazzi incompiuti all’estrema periferia di Rafah. Dal 25 gennaio il confine tra Gaza e l’Egitto è sigillato e l’unica via di transito corre nei tunnel sotterranei costruiti nel 2007 per aggirare l’embargo internazionale. Da lì sono tornati a casa numerosi militanti di Hamas, fuggiti dalle prigioni nei giorni convulsi della rivolta egiziana ma anche il corpo di suo cugino Ali Younis, morto d’infarto una settimana fa mentre si trovava per affari a El Arish.
L’eco della rivolta L’eco di piazza Tahrir arriva a Gaza forte ma distorta. L’instabilità ha reso più difficile attraversare il Sinai e i prezzi delle merci contrabbandate sono schizzati alle stelle. «A ogni carico che ricevo devo aggiungere 300 schekel (circa 60 euro) per la scorta del camion» calcola Abu Khalid, uno dei proprietari dei tunnel. Con il risultato che la benzina è raddoppiata e il cemento è passato da 430 a 900 schekel la tonnellata.
Tra aspirazioni abortite e difficoltà quotidiane la vita a Gaza non è cambiata, in apparenza. Per la prima volta nella leggenda della piazza araba, un’intifada vede i palestinesi spettatori. Ma la quantità di automobili della polizia agli angoli dei viali sterrati suggerisce un’altra storia. Tutti aspettano di vedere cosa accadrà domani, se si svolgerà o meno la manifestazione indetta su Facebook al grido di Revolution dal gruppo Karama. Impossibile leggere oltre la sigla per capire chi siano gli organizzatori, ma molti sospettano si tratti di uomini di Fatah.
«Non andrò perché se qualcuno scenderà in strada la sicurezza sparerà per uccidere» dichiara la giornalista ventinovenne Asmaa Alghoul, giacca di pelle anni settanta, smalto violaceo, kajal intorno agli occhi. Non ha paura, al contrario. Da cinque anni è ai ferri corti con Hamas di cui denuncia regolarmente «l’islamismo liberticida mascherato da lotta contro l’occupazione israeliana», nel 2009 è stata licenziata dal giornale di Ramallah al Ayyam perché raccontava le torture commesse da Fatah, ora che la rivolta tunisina e egiziana ha messo le ali ai desideri di milioni di ragazzi arabi il suo blog è finito sul serio nel mirino di Hamas che prima ha arrestato lei, poi il fratello e il padre.
Revolution Asmaa si affaccia al balcone e mostra l’automobile scura che la segue da giorni: «Mi hanno picchiato, mi hanno minacciato di morte, dicono che sono nemica del governo e che ho organizzato la manifestazione Revolution, ma non è vero e non andrò perché non sto con nessun partito, quando la nostra rivolta esploderà sarà popolare».
Asmaa non è sola. Da quando ha preso il potere a Gaza la popolarità di Hamas è calata a picco. Lo mormorano le mamme al mercato, i padri pescatori seduti sulle barche che non prendono il largo, il ferramenta Mahmoud che conta un cliente ogni ora e mezza. «Non ci abbiamo guadagnato niente dal cambio con Fatah», ripetono. Ma nessuno ha voglia di esporsi. I figli sì. E non solo contro Hamas. Da due mesi, prima ancora che la rivolta tunisina suonasse la carica, otto universitari tra i 20 e i 25 hanno lanciato via Facebook il «Manifesto dei Giovani di Gaza» che suona più o meno così: «Vaff... Hamas. Vaff...Israele. Vaff... Fatah. Vaff.. Onu. Vaff... Unrwa. Vaff... Usa». Rifiutano la cultura del vittimismo e chiedono che la frattura tra Hamas e Fatah venga sanata per il bene del popolo palestinese. «Il cambiamento comincia prendendosi le proprie responsabilità», sostengono. Quando hanno inziato c'era con loro Wael Ghonim, il blogger diventato simbolo della rivoluzione egiziana. I sostenitori oggi sono a quota 20 mila.
Per incontrarli in un caffè-pasticceria della zona di Alrimal, a Gaza City, bisogna passare attraverso un mediatore e accettare di tenere celati i nomi e i dettagli che potrebbero farli identificare. Dove studiano, cosa, il quartiere in cui vivono. Arrivano in tre, jeans, felpe, snikers, potrebbero essere studenti di Londra, Parigi, New York. Ascoltano i Beatles ma anche la cantante libanese Fairouz e conoscono a memoria le battute del film «Il Padrino». «È cominciato tutto per gioco, ci chiedevamo tra amici cosa volessimo fare da grandi ed è venuto fuori che non potevamo far nulla, non mettere a frutto i nostri studi, non sposarci senza un lavoro, non fuggire» spiega Abu Yaza. Interviene Abu Oun: «Il manifesto l’abbiamo scritto così, di getto, ma solo perché eravamo tra amici, siamo cresciuti con la consapevolezza che non puoi fidarti di nessuno».
Il poliziotto Entra un poliziotto in uniforme nera a comprare dei dolci e loro scartano parlando di calcio, Inter, Milan, Real Madrid. Poi riprendono: «Non vogliamo più stare in panchina. La nostra rivolta è diversa da quelle tunisina e egiziana, noi abbiamo tre nemici, Hamas e Fatah che combattendosi hanno dissanguato la nostra causa, e Israele».
La rete si allarga. Con Asmaa sono usciti allo scoperto un’altra ventina di blogger, tra cui il giovanissimo Afun. Via passaparola, amico chiama amico, il Manifesto è sulla bocca di molti, sottovoce. Sarà un caso, ma Hamas non ha rilasciato una sola dichiarazione ufficiale sulla situazione in Egitto. Nel frattempo la security ha chiuso il centro di aggregazione giovanile Sharik.
«In comune con gli altri coetanei in rivolta in tutti i Paesi del Medioriente abbiamo la volontà di non essere strumentalizzati» insiste una ragazza velata, bevendo tè sulla terrazza dell’hotel Beach. La religione conta, dice, ma non nell’arena politica: «Finora abbiamo fatto comodo a tutti, all’Iran che paga Hamas, all’America che paga Israele e Fatah, vogliamo poter cacciare via i governanti che non ci rappresentano». «Degage», via, urlano per le strade di Tunisi. «Fuori Mubarak», rispondono dal Cairo. Sono i figli a maturare la frustrazione dei genitori. Gaza inizia a mormorare.
Corriere della Sera 10.2.11
Agostino, Hugo, Nietzsche I classici che hanno fondato l’Occidente liberale
di Antonio Carioti
Ci sono autori dei quali non ci si può disfare, neppure volendolo, perché i loro dubbi, le loro riflessioni, la loro indignazione hanno lasciato un segno nella storia e continuano a risuonare intorno a noi, nonostante il frastuono dei tanti richiami effimeri con cui ci assilla l'inflazione mediatica. Per quanto sommerso da messaggi di ogni genere, spesso del tutto privi di un contenuto significativo, il pubblico sa riconoscere l’impronta di questi autori e mostra di apprezzarli. Così si spiega l’attrazione che esercitano i festival dedicati alla letteratura, alla filosofia, alla storia, al diritto, alla spiritualità. E si spiega allo stesso modo il successo della collana «I Classici del Pensiero Libero» , inaugurata in novembre dal «Corriere della Sera» con l’offerta di grandi testi al prezzo di un euro più il costo del quotidiano. L’iniziativa è partita con il Trattato sulla tolleranza di Voltaire e in questi giorni è giunta alle Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi (in uscita oggi) e al Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (in edicola dopodomani). Ora si appresta a proseguire oltre i programmi iniziali, con una nuova serie. La scelta di prolungare la collana era quasi obbligata, di fronte alla pressante richiesta dei lettori e al riscontro del mercato. Molti si sono lamentati di non aver trovato qualcuno dei «Classici» , perché era già andato a ruba. È evidente che nel nostro Paese c’è fame di cultura: si avverte l’esigenza di confrontarsi con libri che pongano e approfondiscano i grandi temi da cui ha preso le mosse la civiltà liberaldemocratica dell’Occidente. Insistere su questi argomenti appartiene del resto alla missione istituzionale di una testata come il «Corriere» . In assoluta coerenza con l’impostazione precedente, la nuova serie procederà fondamentalmente su due binari. Da una parte libri che hanno smosso l’opinione pubblica del loro tempo, determinando svolte importanti in campo politico e sociale. Dall’altra testi di approfondimento filosofico, che hanno trattato in maniera innovativa le grandi questioni della vita e della cultura. Un esempio eloquente sono le prime due nuove uscite. Giovedì 17 febbraio vanno in edicola assieme al «Corriere» Le confessioni di un peccatore, pagine in cui Sant’Agostino d’Ippona mette a nudo il tormento della sua anima: una pietra miliare del pensiero cristiano sulla condizione umana e sul male, con prefazione di Giuliano Vigini. Sabato 19 febbraio tocca invece a Victor Hugo, grande scrittore francese dell’Ottocento, e a una raccolta dei suoi scritti riguardanti la battaglia per l’abolizione del supplizio capitale, intitolata Contro la pena di morte, con prefazione di Ranieri Polese. La serie proseguirà con due pensatori tedeschi che hanno segnato in modo indelebile il loro tempo. Giovedì 24 febbraio esce Il giudizio degli altri di Arthur Schopenhauer, con prefazione di Paola Capriolo, mentre sabato 26 approda in edicola Verità e menzogna di Friedrich Nietzsche, con prefazione di Sossio Giametta. Sarà poi il turno del Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Pietro Abelardo (3 marzo), con prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e dei Pensieri di Montesquieu (5 marzo), con prefazione di Giuseppe Bedeschi. Dal tardo impero romano all’età dell’Illuminismo, dal Medioevo all’Ottocento, perché ogni epoca ha avuto i suoi spiriti forti, capaci di parlare ancora direttamente a ciascuno di noi, nonostante il trascorrere dei secoli.
Corriere della Sera 10.2.11
Per spiegare la politica di oggi lasciamo in pace l’azionismo
di Massimo Teodori
Nella polemica tra berlusconismo e antiberlusconismo sarebbe meglio lasciare in pace l’ «azionismo» , la «cifra morale azionista» e le «belle anime degli azionisti» . La categoria dell’azionismo è solo un’invenzione utilizzata sia dai laudatores, che vi proiettano l’intransigenza civile che scorre nelle vene della Repubblica, sia dai detrattori che lo bollano come l’indomabile nemico giacobino dei valori tradizionalisti. Certo, il Partito d’Azione, tra il 1942 e il 1946, ha svolto un ruolo politico decisivo nella Resistenza e nei Comitati di Liberazione fino alla Costituente. Ma, in seguito, l’azionismo scompare del tutto come movimento politico e come tendenza intellettuale coesa, mentre si sviluppano i percorsi dei singoli esponenti azionisti che imboccano strade diverse: la socialista di sinistra (Lussu, Foa), la socialista autonomista (Lombardi), la socialdemocratica (Garosci) e la liberaldemocratica (La Malfa e poi Valiani). Anche Ferruccio Parri seguì un itinerario tutto suo tendente a perpetuare il ruolo unitario di capo della Resistenza; e Norberto Bobbio non può e non deve essere caricato del fardello di interprete autentico dell’azionismo. Per comprendere la penosa crisi d’oggi, dunque, è improprio utilizzare la chiave dell’azionismo, estraendone la memoria dalle vicende di sessantacinque anni fa. Distinguere quel che va distinto in un determinato momento è la sostanza della lezione laica e liberale. A proposito della quale non corrisponde a verità l’affermazione secondo cui i liberali (anche di sinistra) hanno sempre rifiutato l’anticomunismo. La profonda anima liberale e liberaldemocratica riposa, fin dal periodo tra le due guerre, nell’antitotalitarismo, vale a dire nell’accoppiata di anticomunismo e antifascismo, in versioni democratiche e liberali. È vero che in Italia la storiografia di sinistra ha cancellato l’antinomia totalitarismo-antitotalitarismo, ma lo ha fatto non per ragioni storiche ma politiche. Discutendo di liberalismo, come si possono dimenticare, ad esempio, i contributi antitotalitari di Hannah Arendt, Raymond Aron, George Orwell e, in Italia, di Gaetano Salvemini, Ignazio Silone e Mario Pannunzio?
Repubblica 10.2.11
Multiculturalismo
Perché è andato in crisi il sogno della convivenza
di Alain Touraine
Secondo il premier inglese David Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel occorre abbandonare l´idea della coesistenza tra gruppi con tradizioni diverse. E in Europa si riapre la discussione
Senza integrazione il rispetto della diversità produce l´antagonismo di etiche e pratiche che finisce per minare la coesistenza civile
Le leggi nazionali devono sempre prevalere sui costumi dei paesi da cui provengono gli immigrati
Quando si parla dei rapporti tra culture diverse all´interno di una stessa società occorre evitare semplificazioni e schematismi, sottraendosi alla tentazione dell´aut aut tra assimilazionismo e multiculturalismo. Due atteggiamenti contrapposti che nelle loro versioni più intransigenti diventano entrambi irrealistici, e quindi fallimentari. In Francia, dove si pensava di poter integrare gli immigrati, assimilandoli all´interno di un´identità nazionale, oggi questi sono prigionieri dei quartieri ghetto, alle prese con una disoccupazione altissima e una discriminazione sempre più marcata. In Inghilterra, David Cameron - come per altro Angela Merkel in Germania - denuncia i limiti del multiculturalismo, dove la difesa delle differenze culturali alla fine ha prodotto contrapposizioni inaccettabili e il rifiuto dei diritti degli altri. Nei due casi, ha prevalso un comunitarismo intransigente che resiste ad ogni integrazione.
Il progetto di una società multiculturale è dunque in crisi. La causa va cercata soprattutto nel venir meno dei fattori d´integrazione che avrebbero dovuto accompagnare tale progetto. Senza integrazione, infatti, il rispetto della diversità culturale produce l´antagonismo di pratiche, valori e tradizioni, dove l´assenza di un terreno comune finisce per minare la coesistenza civile.
L´idea che diverse comunità culturali, etniche o religiose possano continuare a vivere all´interno di una stessa nazione conservando le loro tradizioni, i loro valori e le loro identità era nata proprio in Inghilterra, che però all´epoca pensava soprattutto alle diverse comunità provenienti dall´impero britannico e quindi unificate dalla lingua inglese. Oltretutto, il multiculturalismo si è affermato in un contesto di crescita economica e di rafforzamento dell´identità nazionale. Come per altro è avvenuto negli Stati Uniti, un paese d´immigrati che però ha immediatamente sviluppato due potenti fattori d´unità: il sistema giuridico e il mercato del lavoro. Il multiculturalismo, infatti, può esistere solo se contemporaneamente si rafforza l´unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi che fondano l´appartenenza alla cittadinanza e all´identità collettiva.
Oggi l´Inghilterra non ha più la capacità d´integrazione che aveva in passato. Lo stesso vale per la Francia e perfino - in parte - per gli Stati Uniti. Un po´ dappertutto assistiamo all´indebolimento della coscienza dell´identità nazionale. La mondializzazione, la crisi dei valori, la congiuntura economica indeboliscono gli Stati, che quindi non sono più in misura di controbilanciare con l´integrazione le rivendicazioni del comunitarismo. Rivendicazioni sempre più oltranzistiche che spesso nascono come reazione alla xenofobia e all´islamofobia in crescita in tutto l´Occidente, anche per via delle tensioni internazionali prodotte dall´11 settembre e dalla guerra in Iraq.
Riconoscere i limiti di una società multiculturale non significa però rinunciare al rispetto delle altre culture e al dialogo, che è sempre un fattore positivo. Tuttavia ciò non può ridursi semplicemente alla tolleranza, anche perché talvolta dietro di essa si cela un sentimento di superiorità. Tolleriamo infatti colui che consideriamo inferiore. Il multiculturalismo più radicale, che difende una tolleranza assoluta, nasce spesso da un sentimento di superiorità economica, culturale e sociale.
Rispettare le altre culture è un´operazione più complessa, motivo per cui la tolleranza che m´interessa è quella che difende i diritti delle minoranze in nome dei diritti universali, come è stato fatto in passato per i diritti delle donne. Chi, in nome del relativismo culturale, rimette in discussione il valore universale dei diritti dell´uomo fa un grave errore, perché tutti i nostri diritti specifici sono sempre stati conquistati in nome di tali valori universali. Non avrebbe senso abbandonarli. Dobbiamo però dimostrare che l´universalismo dei diritti dell´uomo è conciliabile con il rispetto dei diritti culturali delle diverse comunità, le quali a loro volta devono riconoscere il valore dei principi universali. Solo così è possibile vivere insieme senza conflitti. Insomma, la maggioranza deve rispettare i diritti della minoranza, a condizione che la minoranza rispetti quelli della maggioranza. E quando una comunità rifiuta di farlo, allora occorre farle rispettare la legge che incarna i diritti di tutti. Le leggi nazionali devono sempre vincere sulle tradizioni dei paesi di provenienza.
Viviamo in un mondo mobile, in cui le nostre società continueranno inevitabilmente ad accogliere i migranti, anche perché ne abbiamo bisogno. La presenza delle loro tradizioni culturali produrrà forme di meticciato che arricchiranno la nostra cultura. Per questo vanno rispettate. Ma come ho detto, la tolleranza da sola non basta, dato che non può esserci riconoscimento d´identità senza integrazione sociale e nazionale. Solo se si rinforza il senso di appartenenza all´identità collettiva, diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche d´uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti. In pratica, oltre a chiedere il rispetto delle leggi nazionali da parte di tutte le comunità, occorre combinare multiculturalismo e assimilazionismo, cercando d´integrare le altre culture, ma dando loro la possibilità di esprimersi. Solo così si combattono contemporaneamente il comunitarismo e la xenofobia.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)
il Riformista 10.2.11
Fofi: «Io, un critico arrogante»
«Il ’77 fu l’inizio della fine del movimento»
IMPEGNO. Dice il critico. «In politica è giusto ambire alla maggioranza, ma in cultura è meglio stare con la minoranza, non bisogna partecipare alla “corsa dei topi”. L’intellettuale non deve voler diventare ministro della cultura, direttore di “Repubblica”, presidente della Rai»
di Alessandro Leogrande
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il Riformista 10.2.11
Bergman, ritratto politico di un intellettuale onesto
di Ettore Colombo
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http://www.scribd.com/doc/48553523
l’Unità 10.2.11
A Roma Apre domani una mostra costruita su documenti originali dell’Archivio di Stato
La scoperta Tra le opere, il ritratto di Paolo V, attribuito al Merisi dopo il restauro
Quando l’artista arrivò nella città eterna veniva bruciato Bruno
L’oste, il pizzicagnolo e il pittore Vita quotidiana di Caravaggio
Inaugura venerdì 11 a Sant’Ivo alla Sapienza «Una vita dal vero», mostra di dipinti e documenti dedicata a Michelangelo Merisi. L’ esposizione è curata dagli Archivi di Stato di Roma per i 400 anni dalla morte.
di Jolanda Bufalini
L’aspetto non benevolo e severo dell’uomo potente. La postura ufficiale, in udienza. Il ritratto di Camillo Borghese poco dopo la sua elezione a papa con il nome di Paolo V conclude il percorso della mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, (da domani nella biblioteca Alessandrina di Sant’ Ivo alla Sapienza, all’Archivio di Stato di Roma), ideata e diretta da Eugenio Lo Sardo, curata da Michele Di Sivo e Orietta Verde.
«Rapporto complesso ci racconta Claudio Strinati, storico dell’arte e, per molti anni soprintendente del polo museale romano che avrebbe voluto essere di stima ma che fu conflittuale anche per ragioni politiche», Caravaggio orbita negli ambienti francesi, il papa è filo spagnolo. Fu sotto Paolo V che Caravaggio fu condannato e costretto a fuggire. E c’ è qualcosa di emblematico per l’ arte di Caravaggio che Strinati definisce «fortemente autobiografica» nel fatto che, dei 10 ritratti di cui parlano le fonti, gli unici arrivati con certezza sino a noi sono del Papa e del Gran maestro dell’ ordine di Malta Alof de Wignacourt (Louvre): «L’uomo d’ arme e il religioso dice Strinati due categorie implacabili. I due personaggi che hanno portato alla rovina il maestro, dopo averlo esaltato».
Il ritratto del pontefice fa parte della collezione privata dei Borghese e non veniva esposto al pub-
blico dal 1911. L’ attribuzione a Caravaggio è già nelle fonti antiche (Manilli) ma restavano i dubbi per la piattezza dell’opera. Ora i dubbi sono stati fugati dalla pulitura da poco ultimata. Prima di questa semplice rimozione dello sporco spiega Strinati il dipinto sembrava privo di volumetria. Ora è venuto fuori con il suo colore intenso e la bellezza che ha convinto me ed altri, come la soprintendente Rossella Vaudret, per il convergere di ragioni estetiche, documentali e storiche».
Quella di Sant’Ivo è una mostra pittorico-documentaria, i documenti restituiscono in modo molto vivido la vita degli artisti in quel quadrante di Roma fra la dogana del porto di Ripetta e via della Scrofa, sulla carta topografica di Maggi (1625) sono stati individuati gli indirizzi in cui abitò il pittore, l’osteria della Lupa, il rigattiere, il barbiere. Sembra di vederli artisti e madonnari, negozietti di souvenir devozionali e merci che arrivavano dall’Umbria. Che si incontrano, lavorano insieme oppure si denigrano alle spalle, prima amici e poi nemici, pronti a vedere «chi alza la berretta per primo». Spesso si tratta di carte giudiziarie. Appena arrivato a Roma Caravaggio assistette, probabilmente, al corteo che accompagnò Beatrice Cenci esposta sulla carretta dei condannati a piazza di ponte dove fu decollata; dello stesso periodo è il rogo che Bruciò Giordano Bruno, dopo un processo durato sette anni. La mostra parte da lì, con il ritratto bellissimo di Beatrice attribuito a Guido Reni, e le carte della Confraternita laica che diede assistenza a Bruno, fra i primi sottoscrittori racconta il direttore degli Archivi Eugenio Lo Sardo c’ era stato Michelangelo Buonarroti: «Cercavano di alleviare la sorte dei condannati, anche pagando il boia perché desse loro droghe».
Fra le carte più importanti per la storia dell’ arte conservate a Sant’Ivo (e restaurate grazie a un’iniziativa giornalistica di Marco Carminati che è riuscita a raccogliere fondi dai privati) ci sono i verbali del processo per diffamazione che il pittore Giovanni Baglione intentò a Caravaggio. Michele Di Sivo ne ha curato la trascrizione integrale e, con Federica Papi, ne presenta il significato. Baglione aveva dipinto una resurrezione per la chiesa del Gesù, subito dopo cominciarono a circolare feroci testi satirici: «Porta i disegni che tu ai fatto a Andrea pizzicarolo /o veramente forbetene il culo». Baglione attribuì la campagna alla cerchia di Caravaggio. Merisi, rispondendo al giudice, si tiene sul vago ma spiega quali secondo lui sono i «valent’huomini» e quali invece come Baglione, non valgono nulla: «Quella pittura è goffa... E non l’ ho
intesa lodare da nessuno». La parte centrale della mostra, dunque, si costruisce sulle opere dei pittori che, secondo Merisi, «sappi dipinger bene» e su quelle di «cattivi pittori et ignoranti». Fra esse il capolavoro, amatissimo da Caravaggio, di Annibale Carracci, Santa Margherita.
Al restauro e alla esegesi delle carte hanno partecipato giovani con borse di studio. Saranno loro a guidare i visitatori che entreranno 25 per volta. Un piccolo contributo per contrastare la catastrofe incombente. Gli archivi italiani, con pensionamenti, prepensionamenti e spoil system si stanno impoverendo dei loro maggiori esperti. E il ricambio, ovviamente, non è previsto.
l’Unità 10.2.11
Storia e memoria
Una raccolta dei suoi scritti attraverso il giellismo e l’azionismo
L’influenza di Carlo Rosselli, il carcere, il fascismo poi la Costituente
Foa e la sua idea di politica dall’antifascismo alla Carta
Si tratta di un volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa: «Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri) a cura di C. Colombino e A. Ricciardi.
di Nunzio Dell’Erba
Sul settimanale Giustizia e Libertà del 20 marzo ‘36 Carlo Rosselli deplorò la condanna di Vittorio Foa a 15 anni di carcere: «Ha osservato dal vivo, nel fatto, l’ingiustizia fatta al lavoratore. La macchina del regime egli l’ha vista funzionare nei dettagli, con quegli occhi che è così difficile, in Italia, tenere aperti». Nel volume che raccoglie gli articoli e i saggi più significativi di Foa Scritti politici. Tra giellismo e azionismo 1932-1947 (Bollati Boringhieri, pp. 284) i curatori C. Colombino e A. Ricciardi mettono in rilievo l’influenza culturale di Rosselli sul giovane antifascista torinese.
All’epoca Foa aveva 25 anni, ma già militava nel movimento di Giustizia e Libertà, costituito a Parigi nel 1929 per iniziativa di Carlo Rosselli. L’impegno «attivo» nella cospirazione antifascista fu dettato da un’adesione ideale al programma giellista e da una personale avversione alla violenza squadrista, che raggiunse il culmine con l’omicidio di Giacomo Matteotti («il discrimine politico della mia adolescenza», dirà più tardi) e con l’introduzione delle cosiddette «leggi fascistissime» come fonte di «ogni autoritarismo». Quelle leggi, volte a sopprimere la stampa e la libertà sindacale e politica, furono aspramente criticate dal giovane Foa, che denunciò il corporativismo «come ideologia (e mistificazione) dell’intervento diretto dello Stato nell’economia», mettendo in rilievo il «carattere classista della politica mussoliniana e l’aperto sostegno della grande industria e del latifondo al fascismo.
Proprio per questi articoli Foa fu arrestato per la delazione di Dino Segre (Pitigrilli), fiduciario diretto del ministero dell’Interno e scrittore infiltrato dalla polizia politica negli ambienti giellisti. Deferito al Tribunale Speciale, egli fu indicato come dirigente del nucleo cospirativo di Torino e, sulla base di una sentenza sommaria pronunciata il 28 febbraio 1936, venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, di Civitavecchia e di Castelfranco Emilia, dove scontò 3022 giorni di reclusione.
Gli anni trascorsi in carcere, già rievocati nelle sue Lettere della giovinezza (Torino 1998), documentano momenti focali del Novecento come la guerra civile spagnola, le leggi razziali, lo scoppio della seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo. Ma sono significativi sul piano umano per la conoscenza di Ernesto Rossi e di Riccardo Bauer, con i quali instaurò un sodalizio culturale, che arricchì le elaborazioni politiche proposte nei primi anni Trenta.
Scarcerato il 23 agosto 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini,
Foa intraprese l’attività politica nelle file del Partito d’Azione, partecipando 5 giorni dopo ad una importante riunione a Milano, dove fu ribadita la necessità della resistenza armata contro il nazismo e l’esclusione del movimento antifascista da ogni «controllo di organismi totalitari». L’allusione ai comunisti e alla loro struttura verticistica diventò così una mera operazione tattica nel documento (Memoria), scritto e diffuso venti giorni dopo da Giorgio Diena e da Foa. I giovani azionisti avvertirono la necessità di «mantenere stretti rapporti col Pci» ed imprimere «un’impronta rivoluzionaria all’azione» contro l’occupazione tedesca. Dall’insieme degli articoli pubbli-
cati da Foa negli anni ‘45-47 si coglie una linea diretta a caldeggiare un rapporto privilegiato con il Pci, ma si avverte anche un’analisi dei partiti e del loro ruolo nella democrazia italiana postfascista. L’enunciazione di un nuovo modello di partito, inteso non come «strumento di aristocrazie organizzate» ma come proiezione politica per il soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori, caratterizza il suo impegno politico di questi anni, come emerge per esempio dall’articolo su L’Italia Libera (29 gennaio ‘46) e riproposto nel volume: «I partiti di sinistra ? si legge sono fatalmente portati ad una concezione riformistica, ossia ad accettare gli esistenti strumenti statali per un partito che sia originariamente ed integralmente democratico».
L’evolversi degli avvenimenti, compresi tra il referendum del 2 giugno ‘46 e la nascita della Repubblica, vide Foa impegnato nella ricomposizione sindacale, nell’attività dell’Assemblea costituente come deputato e nella ricostruzione economica dell’Italia. Unità sindacale, ripresa della produzione e intervento pubblico erano così auspicati per dar vita a «una moderna democrazia» e ad un piano organico di rinascita sociale, le cui responsabilità dovevano essere assunte dai partiti della Sinistra nella costituzione di un governo omogeneo diretto dai «partiti del lavoro». Con l’apertura della Costituente e la nomina il 19 luglio del ‘46 della «commissione dei 75», Foa partecipò all’elaborazione della Carta, il cui risultato finale doveva derivare da una convergenza di tutte le forze democratiche. Le sue convinzioni furono rivolte a una nuova organizzazione dello Stato basata sulla sovranità popolare come «valore assoluto», sulle garanzie costituzionali, l’equa retribuzione ai lavoratori, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la difesa delle minoranze e l’autonomia delle regioni sul piano territoriale, funzionale e finanziaria.
l’Unità 9.2.11
Il saggio Nel suo nuovo lavoro, Michele Ciliberto analizza le ragioni profonde dell’«anomalia Italia»
Storia Il problema non è solo Berlusconi: sono troppe le comprimissioni della nostra classe dirigente
Per capire la «democrazia dispotica» italiana ci vuole più Gramsci e meno Tocqueville
È
in libreria «La democrazia dispotica» di Michele Cilberto (pp. 195,
euro 18, editore Laterza): dice lo studioso che quello italiano è un
«regime» democratico alla sua massima espressione...
di Nicola Tranfaglia
Tra
i molti libri che gli editori stanno inviando finalmente in libreria
ora che l’egemonia berlusconiana è entrata in grave crisi, l’inchiesta
di Milano incalza e a fine febbraio o poco tempo dopo, il presidente del
Consiglio sarà costretto, con molta probabilità, a comparire di
fronte ai suoi giudici ordinari (visto che il legittimo impedimento è
in gran parte crollato e lui, almeno formalmente, è tornato ad essere
cittadino italiano agli effetti giudiziari), anche l’editore Laterza è
ora presente con La democrazia dispotica di Michele Cilberto (pp. 195,
euro 18, collana I Sagittari) che è tra i migliori studiosi di Giordano
Bruno a livello internazionale e insegna Storia della filosofia moderna
e contemporanea alla Normale di Pisa.
Il libro di Ciliberto
merita molto interesse anche per chi non è del tutto d’accordo con le
categorie adottate dall’autore, specialista, peraltro, di altri secoli e
non dell’età contemporanea con cui oggi abbiamo a che fare. Secondo
Ciliberto, il regime con cui abbiamo oggi a che fare è un regime
democratico nella sua massima espressione, come Tocqueville prefigurava
come degenerazione (già nel Settecento, nel suo capolavoro, La
democrazia in America), perché sono presenti, nello stesso tempo, un
grande apparato burocratico proprio dello Stato contemporaneo e il
potere carismatico di Silvio Berlusconi che ha creato un partito a sua
immagine e somiglianza e lo governa con criteri che violano ogni giorno i
principi della costituzione repubblicana fissati nella prima parte del
testo. Quest’affermazione si può sottoscrivere interamente, ma mi
chiedo due cose da contemporaneista quale sono da quasi mezzo secolo:
tutti i regimi democratici europei sono arrivati alla democrazia
dispotica come quella italiana? O invece la Francia, la Germania, la
Gran Bretagna e gli Usa hanno ancora regimi democratici e non dispotici?
È
un interrogativo centrale sul piano storico perché l’anomalia Italia
deriva non solo dalle qualità negative di Berlusconi (sulle quali siamo
d’accordo) ma sull’incapacità complessiva che le classi dirigenti
soprattutto di centro-destra dominanti hanno avuto nella crisi del
1943-46 di rinnovare lo Stato italiano, sulle caratteristiche indicate
proprio da Gramsci che parla di ricorrente sovversivismo delle classi
dirigenti, sulla crisi della repubblica sorta con la fine del
centro-sinistra e l’assassinio di Aldo Moro e precipitata all’inizio
degli anni novanta.
Ciliberto, uno dei nostri migliori studiosi
dell’età moderna, fa molto bene a utilizzare tutti i classici della
politica europea e americana, da Tocqueville a Marx, a Max Weber e, in
piccola parte, anche Gramsci che, a mio avviso, per essere stato un
grande storico dell’Italia moderna e contemporanea, avrebbe potuto
essere citato e usato meglio di quanto avviene nel libro (ma la
giustificazione implicita è che, a settant’anni dalla nascita della
repubblica, nessuno storico, e tanto meno quelli che sono stati
comunisti, hanno scritto ancora il libro, sempre più necessario e
opportuno, sulla interpretazione che Gramsci ha dato della nostra
storia).
La situazione italiana, come sappiamo, è drammatica e ha
ragione chi afferma che Berlusconi sta declinando come pure la sua
personale egemonia, ma che il berlusconismo resiste ancora e potrebbe
continuare a dominare l’Italia, se le forze delle opposizioni non
saranno in grado, al più presto, di fare un programma preciso e
alternativo. Del resto i nostri amici europei ci dicono ogni giorno che
siamo ancora nel baratro e non siamo neppure in grado di far precipitare
la crisi in modo tale che il Capo dello stato sciolga le Camere e
proceda subito alle elezioni, per evitare la rovina totale del settore
intero della istruzione e superare la crisi economica che colpisce le
classi medie e tutti quelli che hanno difficoltà ad arrivare alla
quarta o alla terza settimana del mese. L’attuale situazione, questo è
il punto, non è qualcosa che si esprime improvvisamente con l’ascesa di
Berlusconi ma piuttosto la sua ascesa è dovuta a ragioni storiche di
breve e lunga durata.
Allora o si riscrive la storia d’Italia,
sottolineando questi aspetti e i frequenti compromessi delle classi
dirigenti italiane di ogni colore verso le associazioni mafiose, i
vertici del Vaticano e altre istituzioni dell’Italia più arretrata e
non democratica, o si dà un’immagine del nostro paese che non può
reggere al confronto internazionale, oggi necessario. Abbiamo bisogno,
perciò, di discutere le categorie di metodo, usare più Gramsci e meno
Tocqueville, ed elaborare una visione storicamente valida dell’odierno
populismo mediatico-autoritario. L’Italia, a mio avviso, non è mai
arrivata a una democrazia compiuta e ne paga ancora le conseguenze.