Repubblica 7.2.11
Donne in piazza, migliaia di adesioni
Domenica manifestazioni in tutta Italia: "Dal Palasharp nuovo entusiasmo"
"Se non ora quando?": il passaparola corre su Internet
La Cgil garantisce il supporto organizzativo, anche il Pd ha aderito
di Cinzia Sasso
MILANO - «Cerrrrtooo, che ci sarò!». «Ragazze: non dimenticate la sciarpa bianca!». «Ci vediamo, nella speranza di essere di nuovo in tanti!». Arrivano a centinaia, nello stile informale e allegro di Facebook, le adesioni al «Se non ora, quando?» di domenica prossima. Arrivano ancora di più dopo il successo della manifestazione organizzata dall´associazione Libertà e Giustizia al Palasharp di Milano, che ha visto sabato un pezzo di Italia sobria e indignata, senza bandiere di partito, chiedere le dimissioni del premier. Stavolta, dopo essere state le prime a scendere in piazza della Scala, a Milano, sabato 29 gennaio, sono di nuovo le donne a invitare tutti a manifestare. Lo avevano promesso: non ci fermeremo. E stavolta il loro appello coinvolge tutta Italia.
Non c´è solo una firma sotto questa chiamata a reagire: l´offesa del Rubygate ha unito le associazioni femminili - ma anche quelle maschili - più diverse e la Cgil si è messa in prima fila per organizzare la reazione al degrado della politica e della cultura. Sabato, a Milano, Susanna Camusso, l´aveva detto: «Questo è solo l´inizio di una mobilitazione più generale ed è il segno che le donne sono sempre in prima linea nell´impegno e nel sostegno della dignità e della libertà. Non ci fermeremo». Non sarà una piazza sola, stavolta, ad accogliere la protesta; saranno tutte le piazze d´Italia. Piazza del Popolo a Roma, piazza Castello a Milano. Ma anche, tanto per seguire l´ordine alfabetico, dalla piazza della Repubblica di Ancona, a piazza Bra a Verona.
Gira in rete il vademecum per la manifestazione, che vuole essere il più larga possibile e non avere alcuna bandiera: saranno i partiti - come, per il Pd, ha già annunciato Dario Franceschini - ad accogliere l´invito, ma non saranno loro i padroni di casa. Spiegano sul sito della manifestazione: non scendiamo in piazza per giudicare altre donne, né per dividerle in buone e cattive; quello che vogliamo è esprimere la nostra forza e la nostra determinazione; siamo fiere e orgogliose, chiediamo dignità e rispetto per noi e per tutte; siamo gelose della nostra autonomia e non ci lasceremo usare; la partecipazione di uomini è richiesta e benvenuta; cercheremo di parlare prima di tutto ai giovani e di portarli in piazza.
Ci saranno scrittrici, operaie, commesse, ricercatrici, casalinghe, studentesse, pensionate. Insomma, tutte le donne "normali" d´Italia, quelle che ogni giorno, con il loro doppio lavoro, arricchiscono il Paese. Una forza, quella delle donne, che preoccupa e spaventa, soprattutto il centrodestra: perché in piazza con la sciarpa bianca, offese da un modello culturale volgare e fasullo, ci saranno anche loro. Una maggioranza silenziosa che rischia di fare tantissimo rumore.
l’Unità 7.2.11
Nei gesti dei giorni
di Concita De Gregorio
Il pericolo dello scontro, in piazza, è sempre in agguato. Sempre, ma certe volte di più. Se si va a manifestare lungo i viali del tramonto che portano alla magione dove il premier vive ormai asserragliato è facile immaginare che la sua paura, il suo nervosismo diventino il nervosismo di chi è chiamato a difenderlo. Basta un attimo, in casi come questo, perché scattino la parola e il gesto di troppo.
La manifestazione di ieri ad Arcore è stata scandita da slogan ironici ed è stata dunque efficace fino a che non è diventata qualcos’altro: teatro di scontri, non voluti da chi la organizzava ma comunque avvenuti. È un crinale sottile. Alimentare la tensione e provocare lo scontro giova solo a chi si atteggia a vittima, ribaltando come sempre la realtà. Bisogna dunque chiedere a tutti coloro che legittimamente dovessero manifestare ancora sotto le finestre del premier di farlo moltiplicando gli sforzi, le cautele, la vigilanza perché mai, mai possa essere loro imputato un gesto ostile. È fondamentale. È necessario che l’ironia e l’intelligenza che la anima siano le sole protagoniste dei cortei. La parola, non la mano che si leva.
È la parola l’arma che temono più di ogni altra. Consapevole di poter essere facilmente contestato nei luoghi pubblici l’anziano leader vive ormai asserragliato nelle sue ville davanti ai molti schermi accesi, comunica col mondo solo per telefono o in videomessaggio registrato. Ieri lo ha fatto di nuovo. Una maschera di gomma, un Cavaliere inesistente. Bisognerà cominciare a prendere atto del fatto che l’interlocutore non esiste. Parlare agli italiani, non a lui né ai suoi scudieri. Dire delle cose da fare, iniziare a farle. Concretamente, una questione alla volta. Al Palasharp di Milano si è detto questo, anche. Proviamo, per esempio, a chiedere che siano garantiti due beni pubblici essenziali: l’istruzione e l’acqua. Non si privatizza l’acqua, non si chiude il rubinetto del sapere. È questa la lingua che parlano i giovani, questi sono i loro argomenti.
Tra le moltissime lettere arrivate ieri a commento della manifestazione di Milano pubblichiamo quella di Marta, genovese, 21 anni. «Niente di ciò che abbiamo ricevuto è da dare per scontato. Tutto ha avuto un prezzo anche molto alto. Tocca a noi fare la nostra parte, adesso», scrive. Anne Applebaum scrive oggi qualcosa che risuona con questo a proposito dell’Egitto. Dovremmo parlare con la gente e della gente, non dei loro leader. «Dovremmo sorridere e cavalcare l’instabilità ed esultare perché il cambiamento, nelle società repressive, è un bene».
Ne avrei discusso certo oggi con Carla De Toffoli, donna straordinaria acutissima interprete di questo torbido tempo. Sarebbe stata d’accordo, immagino, avremmo parlato infine della morte di Giovanni Bollea e di quanto dai bambini si debba sempre cominciare: la politica è nei gesti di ogni giorno. Senza di loro sarà più duro il nostro compito, da stamani, più salda e ostinata la nostra forza.
l’Unità 7.2.11
Intervista a Enrico Letta
«Ora che siamo uniti l’alternativa è possibile
E il premier teme il voto»
Il vicesegretario del Pd: «Pronto il nostro progetto, ora le alleanze Prepariamoci alle amministrative di primavera, risolviamo il caos di Napoli Sul federalismo alzeremo il livello della battaglia in Parlamento»
di Simone Collini
Ormai è chiaro che Berlusconi ha il terrore delle elezioni anticipate», dice Enrico Letta. E per il vicesegretario del Pd non è un caso che proprio ora che il suo partito si mostra unito, prende piede l’ipotesi di un’ampia alleanza costituente. «La nostra unità è la condizione per costruire una coalizione che può battere Berlusconi».
Come fa a essere sicuro che l’unità registrata all’Assemblea nazionale di Roma abbia basi solide e non si ripeteranno le scene dei mesi passati?
«Perché con questo appuntamento abbiamo completato un percorso che è stato sì di profonda discussione e a volte anche di divisioni, ma che ora ci consente di essere più forti. Il lavoro di Bersani e della segreteria ha recepito molte indicazioni venute in questi mesi dai diversi filoni culturali che animano il partito e tutti i contributi si sono mossi lungo una linea molto costruttiva. È questo che ci consegna ora un partito unito». Non la consapevolezza che in un momento di difficoltà per il governo come questo sarebbe incredibile che il principale partito di opposizione si divida? «Ma guardi che se parliamo di questioni concrete che interessano gli italiani, come abbiamo fatto all’Assemblea nazionale e come dobbiamo continuare a fare, evitiamo di parlare di noi stessi, delle nostre provenienze, e non c’è da fare chissà quali altri ragionamenti. E comunque non è un caso che mentre noi siamo uniti, per la prima volta prende corpo l’ipotesi della coalizione alternativa a Berlusconi, che invece le nostre divisioni renderebbero impossibile».
Dice che neanche su diritti civili e biotestamento, che si vota il 21, vi dividerete? «No, se nessuno vorrà forzare la mano e utilizzare questi temi come bandiere. Ho molta fiducia che Bindi, per le caratteristiche e il ruolo che ha, saprà guidare il comitato costituito all’Assemblea in modo da trovare le giuste soluzioni».
Da più parti si sostiene che non si andrà alle urne a breve: lei che dice?
«Che ormai è chiaro che Berlusconi ha il terrore delle elezioni. E ora abbiamo anche capito che la stessa Lega teme il voto, sta abbarbicata al potere e ai posti di governo e ogni tanto brandisce la minaccia delle urne come un’arma spuntata».
E voi?
«Noi da tempo diciamo che tutto è meglio di questo pantano, ma con la compravendita in corso i numeri per non essere sfiduciati in Parlamento li hanno. Ci aspettano ancora mesi di stallo e noi che ci stavamo attrezzando per i 100 metri dobbiamo invece prepararci per una gara di mezzo fondo».
Cosa pensa dovrete fare, in concreto?
«Intanto, continuare nel lavoro di sintesi programmatica. Alla prossima Assemblea nazionale, in primavera, tutto il lavoro sui documenti programmatici dovrà tradursi in dieci parole molto forti e facilmente comunicabili. E poi tutto deve riuscire ad arrivare nelle periferie del partito. Dobbiamo mettere in piedi venti appuntamenti regionali, interloquire con la società. E sulla base delle dieci parole, del progetto, dobbiamo ce-
10 parole per la gente
«Evitiamo di parlare di noi stessi e delle nostre provenienze. Bisogna parlare con la società. E noi andremo anche al Nord»
mentare la coalizione. Inoltre dobbiamo concentrarci con grande attenzione sulle elezioni amministrative. Ergo, risolvere rapidamente il caos di Napoli».
Bersani ha detto ai leghisti che con Berlusconi il federalismo non lo avranno mai: ne siete proprio sicuri? «Sul federalismo siamo pronti ad alzare il livello della battaglia. Deve essere chiaro che se la Lega, che aveva sostenuto che c’è bisogno del più ampio consenso, ora vuole soltanto modificare la Commissione bicamerale e procedere a colpi di maggioranza, da parte nostra ci saranno ritorsioni pesanti dal punto di vista parlamentare. Andremo anche nelle regioni del Nord a spiegare che questo non è vero federalismo, che sono norme
che aumentano le tasse, e che servono soltanto alla Lega come bandiera da sventolare». Ai suoi militanti magari va bene così... «Ai militanti della Lega bisogna far notare che la scorsa settimana si sono combattute due battaglie, una da parte di Berlusconi per gli affari suoi e una da parte della Lega per il federalismo. Sulla prima Berlusconi ha trovato la maggioranza, sulla seconda no. L’ennesima dimostrazione che a lui interessano solo i fatti suoi, non le questioni concrete».
E l’alleanza costituente? Non è che a voi interessa solo togliere di mezzo Berlusconi? «No, non c’è solo l’antiberlusconismo alla base della coalizione a cui stiamo lavorando. L’uscita dal berlusconismo comporterà una fase costituente perché sarà necessario ricostruire un patto istituzionale, ristabilire un rapporto corretto tra Parlamento, governo e potere giudiziario, servirà un ritorno al senso dello Stato, della legalità, dell’unità nazionale dopo gli smottamenti impressionanti a cui abbiamo assistito in questi anni».
Corriere della Sera 7.2.11
Il Pd sente il fascino di Saviano «La società civile va sostenuta»
Elogi allo scrittore, torna la tentazione del «Papa straniero»
di Maria Teresa Meli
ROMA— C’era un tempo in cui D’Alema amava dire, parafrasando una frase attribuita erroneamente a Goebbels, ma in realtà di un altro leader nazista: «Quando sento parlare di società civile metto mano alla pistola» . Scherzava, naturalmente... fino a un certo punto. Ora D’Alema, invece, dice: «Dobbiamo sostenere la mobilitazione della società civile» . E sabato, alla Fiera di Roma, ha dichiarato: «C’è un ponte che lega questa assemblea a Milano» . C’era un tempo in cui quando il partito faceva una manifestazione, una direzione o un congresso, l’Unità ci apriva la prima pagina. Ora invece l’Unità spara in prima pagina, con tanto di mega foto: «Il futuro comincia qui» . Ovvero al Palasharp di Milano e non alla Fiera di Roma. — che cosa sta accadendo al Partito democratico? I suoi dirigenti sembrano subire il fascino di Roberto Saviano, superstar del grande raduno anti Berlusconi. È successo con le primarie di Napoli, per esempio. Lo scrittore ha chiesto al Pd di annullarle per i brogli e il Pd gli ha dato retta. E ancora: alla manifestazione del partito dell’ 11 dicembre Pier Luigi Bersani ha citato dal palco la fortunata trasmissione del duo Fazio Saviano. «Sogno un Pd — ha detto il segretario — che possa dire all’Italia: vieni via con me» . Più indietro nel tempo: aprile 2010, Rosy Bindi ha aperto la Direzione ricordando il valore dello scrittore, che aveva appena subìto un attacco da parte di Berlusconi. Secondo un’altra scrittrice, Agatha Christie, tre indizi fanno una prova, ma a voler essere garantisti, questo non basta. Non sarà quindi Saviano il «Papa straniero» , ma una certa propensione del Pds e Ds prima e del Pd dopo ad affidarsi a un esterno c’è senz’altro. Il primo fu Ciampi. E c’era addirittura ancora il Pds. Occhetto disse che non gli sarebbe dispiaciuto come candidato premier, ma D’Alema lo bocciò. Anche Mario Segni per il Pds ha rappresentato un altro «Papa straniero» , Occhetto però alla fine si convinse a non candidarlo. Quindi è stata la volta di Prodi. E poi negli anni ve ne sono stati diversi: Antonio Fazio, Alessandro Profumo, Luca Cordero di Montezemolo e tanti altri ancora. Quindi una battuta d’arresto, per poi riprendere la ricerca, lo scorso anno: «Ci vuole un candidato premier che venga dall’esterno, come fu Prodi» , ha detto Veltroni nel settembre del 2010. E adesso, nel 2011, il Pd oscilla tra il corteggiamento di Saviano e quello di Casini. Tenerli insieme è impresa improba, se non impossibile. Lo ha fatto chiaramente intendere il leader dell’Udc ieri mattina: «Attenti alle metodologie di contestazione a Berlusconi perché sono funzionali a lui, se si parte con la contrapposizione lui ci sguazza» . Il riferimento al metodo Palasharp è più che evidente. Metodo che, invece, incanta Dario Franceschini, che l’altro ieri era a Milano in rappresentanza del partito, ad applaudire Saviano, accanto a Carlo De Benedetti. «Questa manifestazione, questo fiume di persone— è stato poi il suo commento all’Unità — ci dicono che c’è ancora voglia di reagire. Sono i primi segnali di un risveglio, bisogna andare avanti su questa strada» . Ovviamente nel partito c’è chi la pensa in modo opposto. L’onorevole Giorgio Merlo, per esempio, che dice: «Antiberlusconismo, giustizialismo e moralismo non fanno parte della nostra identità politica» . Distante da Franceschini anche Fioroni, che non ne può più «dell’attesa del "Papa straniero"» . Ma tra un Saviano e un Casini potrebbe spuntare un terzo pontefice estero: l’uomo che dovrebbe mettere insieme lo scrittore e il leader dell’Udc, un tecnico di vaglia, sul cui nome si stanno esercitando in questi giorni le meningi dei dirigenti del Pd. C’è un solo «Papa straniero» che il Partito democratico proprio non vuole. Si tratta di Vendola, che proprio ieri ha ribadito in un’intervista al Manifesto la sua intenzione di scendere in pista.
Repubblica 7.2.11
"Ricostruire il Partito comunista" l´ultima scissione di Rifondazione
ROMA - Tutti traditori del comunismo. Prima Bertinotti, che sciolse la falce e martello nell´arcobaleno della sinistra. Poi Nichi Vendola, il delfino che al congresso di Chianciano tentò di andare oltre Rifondazione. E adesso tocca pure a Paolo Ferrero, il segretario in carica del Prc che pure aveva raccolto la bandiera della lotta di classe minacciata dagli eretici bertinottiani. L´accusa è definitiva, bruciante: «Non vuole costruire il vero partito comunista, allora lo faremo noi». E in mille, guidati dall´ex senatore Fosco Giannini, passato alle cronache per l´elogio della rivoluzione d´ottobre pronunciato dai banchi di Palazzo Madama mentre il governo Prodi affondava, si lanciano nell´ultima scissione. Addio Prc. Dobbiamo rifondare Rifondazione. Fra i duri e puri che vanno via figurano tanti teorici del ritorno al marxismo "ortodosso", come il professor Mario Geymonat (figlio del filosofo Ludovico), lo storico Andrea Catone, l´economista Vladimiro Giacchè. Per avventurarsi nell´edificazione di un nuovo, autentico partito del comunismo si affidano a Oliviero Diliberto, segretario del Pdci e fervente sostenitore della rivoluzione cubana. Solo che l´ex ministro della Giustizia proprio di Ferrero è alleato, nella comune Federazione della sinistra (che imbarca anche i socialisti di Salvi e la sinistra sindacale di Patta). Come a dire: per i mille di Giannini la scissione rischia di somigliare ad una specie di gioco dell´oca. Escono dalla porta di Rifondazione e rientrano dalla finestra della Federazione. Misteri della fede comunista? No, tutto chiaro e lineare, garantiscono gli scissionisti. «Con Diliberto facciamo il nuovo partito comunista, dopo un congresso in primavera. Con Ferrero l´alleanza elettorale. Noi siamo unitari...».
La Stampa 7.1.11
In mille escono da Rifondazione
«Rifare il Partito comunista con Diliberto»
Il Manifesto pubblica a tutta pagina il documento politico di mille «dirigenti, fondatori, militanti e simpatizzanti di Rifondazione comunista» che dichiarano di «non riconoscere più in questa esperienza un fattore propulsivo per la ricostruzione del partito comunista in Italia» e si apprestano ad avviare, insieme al Pdci dell’ex ministro della giustizia, Oliviero Diliberto, un processo nuovo di «ricostruzione», che avrà un suo primo passaggio congressuale già prima dell’estate. «A questi mille ne seguiranno, nei prossimi mesi, altre migliaia: la campagna di adesioni è appena partita», dichiarano i promotori, che si ritrovano nel sito ricostruireilpartitocomunista.blogspot. com. Tra gli altri, un quadri e delegati Fiom, Cgil e del sindacalismo di base, il senatore Fosco Giannini, lo storico Andrea Catone, Mario Geymonat.
La Stampa 7.2.11
Centrodestra, la caccia ai puntelli
Pannella: io e Silvio? Sostenere le istituzioni è dovere repubblicano
“Sì che trattiamo, ma vediamo cosa ci offre”
di Jacopo Iacoboni
Le frasi del leader radicale:
«Dialogo col premier e intesa possibile Almeno lui ci incontra Bersani e Bindi ci hanno mai visto?»
«Tra un puttaniere, il casto Formigoni e la bigotta opposizione di regime inutile dire con chi posso stare»
«Senza alternative il voto sarebbe illegale Un governo Tremonti? Col cavolo! Silvio è meno peggio»
Il meeting Saviano-Eco: «Eterodiretto da De Benedetti. Proposte? Non ne ho sentita una»
Noi dialoghiamo, certo, è il comandamento lasciatoci da Pasolini quando ci spedì il suo testamento, “abbiamo dialogato anche con le meretrici, figurarsi...” . Ci siamo già visti due volte, col Cavaliere, ci rivedremo in settimana, possiamo trovare un’intesa. Trattiamo, vediamo cosa ci offre. Berlusconi almeno quando dice di volerci vedere poi mi fissa subito un incontro, Rosy Bindi e Bersani mi hanno sempre detto “ci incontriamo, ci incontriamo”, e li hai mai visti?».
Marco Pannella è in taxi, espone una visione politica che è un misto di alti ideali e crudo, brutale pragmatismo. Prima: Pasolini; dopo: trattiamo, Cavaliere, dateci qualcosa. Ordina al tassista di fermarsi poco più avanti dell’edicola al Tritone, non molti metri oltre la sede del Messaggero. Sta per raggiungere Radio Radicale, dove alle cinque inizia la torrenziale conversazione domenicale con Massimo Bordin. Ma il tema del giorno è semplice, stavolta: appoggia o no il pericolante governo del Cavaliere? «Tra il puttaniere Berlusconi e il casto Formigoni non c’è nemmeno da discutere dove stia io...», risponde di getto mentre, dice, «mi rifornisco di sigarette dal mio pusher». «Per non parlare della bigotta opposizione di regime, che si fa sostituire dalle assise di Milano dirette dall’ingegner De Benedetti. Io stimo Saviano, è una faccia pulita, ma quali sono le proposte di questa opposizione supplente? Nessuna».
La formula che usa Pannella è da prima Repubblica, ma non è oscura: «Sorreggere le istituzioni - anche istituzioni disastrose - è un dovere repubblicano. Specie se non esiste un’alternativa. O pensiamo che lo sia il governo Tremonti, con in più Formigoni? Io dico col cavolo! al peggio non c’è mai fine...».
Naturalmente, Pannella ci tiene a ricordare che finora Berlusconi è stato puntellato da altri, i Razzi e gli Scilipoti, ossia l’Idv, e poi «da due del Pd e qualcun altro, non da noi, che votammo compatti la sfiducia, e abbiamo detto sì in giunta all’autorizzazione alla richiesta di perquisizione». Ciò premesso, Marco è stufo, dei silenzi della sinistra, della solitudine politica, della vecchiaia, che lo limita; e sensibile alla sollecitudine manifestata dal premier, che ha promesso a brevissimo un terzo incontro. C’è chi parla addirittura della Giustizia in palio, ma sono favole. Pannella, dice, vorrebbe «una parola sui temi etici, o sulla grande questione sociale, amnistia o indulto, o un’accelerazione della legge Ichino-Cazzolaradicali sulle pensioni». Il popolo radicale è in rivolta, però. «Ho letto seicento email, molti mi danno del traditore, mi coprono con una marea di insulti. Rispondo così: stiamo contrattando? Evvabbè, sì, vedremo cosa avremo ottenuto, o cosa avremo tentato di ottenere e non ottenuto, e al congresso tiriamo le somme». Soprattutto - come ripeterà a Bordin a breve - «noi siamo tanto convinti che deve durare la legislatura, ma anche convinti che non esistono mai soluzioni univoche. Stiamo trattando per trovare elementi che siano utili agli uni e agli altri. Chiederemo delle cose, dei fatti, che parlino al popolo. In pochi giorni sarà difficile. Ma ho fiducia. Mi accusano di andare avanti a zig zag, una volta con la destra e una con la sinistra? Noi da trent’anni siamo per le stesse cose, divorzio, aborto, legalità. Ora si fissano sulle escort, ma è legalitario Bersani, che ha coperto la situazione lombarda, ha coperto Formigoni, al quale poteva subentrare Cappato, o il povero Penati? Qui c’è la totale incapacità politica del Pd; e allora che facciamo, nuove elezioni?».
Il Mattino 6.1.11
Pannella: «sono fermamente convinto che sia un dovere civile aiutare anche le istituzioni disastrate»
Roma. Prosegue nel centrodestra il corteggiamento nei confronti dei radicali, non senza qualche risultato. Tant’è che il leader storico Marco Pannella, mentre ribadisce un netto no di fronte al possibile ingresso nell’esecutivo, eppure sottolinea la volontà di dare un sostegno nella direzione di un prosieguo della legislatura. Spiega Pannella in una nota pubblicata sul suo profilo di Facebook: «Oggi escluderei che sia realistico immaginare che i radicali assumano responsabilità nell’attuale o altro governo Berlusconi. Ma sono fermamente convinto che sia metodologicamente necessario, democratico, un dovere civile aiutare anche le istituzioni disastrate e far durare la legislatura più in là possibile, se possibile fino alla fine». Sottolinea Pannella: «L’alternativà di elezioni anticipate non è tale, ma disastrosa e sintomatica: oltre tutto, avremmo elezioni assolutamente antidemocratiche, fuori legge, di stampo ”Cl-Pd”, di regime violentemente truffaldino, come e più di quello, ad esempio, lombardo-formigoniano, alla Bruti Liberati per intenderci. Ed è proprio quello che si vuole, istintivamente». Nella premessa alla sua lunga nota Pannella ricorda l’alleanza siglata nel ’94 con Berlusconi: «Non avendo noi accettato responsabilità di governo (pur da lui offerte), l’alleanza fu sempre basata esclusivamente sulle tante nostre grandi iniziative referendarie e specifici obiettivi politici del momento». E prosegue: «Anche oggi, come ieri, con tutti, alleanze o intese (ad esempio la Rosa nel Pugno) si sono avute con il convergere su obiettivi innanzitutto notoriamente radicali, ”nostri”. Radicale riforma anglosassone-americana, radicale riforma della giustizia, diritti umani e nonviolenza le nostre linee portanti. Su questa base, alleanze strategiche o incontri tattici, chiunque - volendolo - ci ha incontrato e ci incontrerà, per altri importantissimi obiettivi di congiunture storiche. Una volta raggiunti, arrivederci, con affetto: e nulla di più». «Oggi m’appare comunque probabile - conclude Pannella - che potrò concludere la mia già lunga esistenza, da militante e esponente storico del Partito Radicale. Ma resta certo teoricamente possibile ch’io mi trovi invece un giorno a dover ”nominare” ministri; della giustizia o d’altro; così come a Emma e anche ad altra o altro di noi, senza escludere di essere eletti o nominati ad altre congiunturali responsabilità istituzionali, ma certo non oggi». Quanto alla manifestazione organizzata per il 13 a Genova dalle donne italiane «scandalizzate» dal caso Ruby, i Radicali annunciano che non parteciperanno. Lo spiega Alessandro Rosasco, membro del comitato nazionale dei Radicali: «I Radicali non vogliono partecipare a una protesta chiaramente solo contro Berlusconi una protesta che non porta da nessuna parte, senza proposte, solo uniti dall’odio contro Berlusconi, ma questo non significa che i Radicali vogliano entrare nel governo, anzi, non è così». «I Radicali denunciano il regime partitocratico di destra e di sinistra che da vent’anni governa l’Italia - ha concluso - non scenderemo in piazza per il caso Ruby, ricordando come le proteste solo contro Berlusconi non abbiano mai risolto nulla, perché tutti quelli che vi partecipano sono divisi il giorno dopo».
Il Giornale 6.2.11
La Destra entra nel governo. Sorpresa Pannella: aiuto Silvio
di Fabrizio De Feo
Per lo storaciano Musumeci un posto da sottosegretario Il leader radicale: «Un dovere civile finire la legislatura»
Roma Una lettera a Francesco Storace. Un intervento al convegno organizzato da Domenico Scilipoti. Una telefonata alla prima assemblea regionale dell’Alleanza di Centro a Milano.
È attivo su tutti i fronti il presidente del Consiglio, nonostante una settimana non certo rilassante a causa del Rubygate. Silvio Berlusconi, questa volta, sente che il traguardo è vicino. «Ho la pelle dura, vado avanti» promette e ammonisce. Sì, perché dopo aver temuto che l’offensiva della magistratura potesse far svaporare gli sforzi per l’allargamento della maggioranza, ora la fine della stagione della precarietà e delle votazioni thriller vissute sull’altalena degli umori dei parlamentari «di confine» è davvero a pochi metri. Rinvigorito dai 315 sì incassati alla Camera, il premier festeggia l’autosufficienza e il raggiungimento della fatidica soglia dei 316, già alla portata se in aula avesse votato anche lui. Un risultato che gli restituisce la consueta ironia. «Sono ad Arcore e questa sera ho un bunga bunga da organizzare. Ho un compito improbo: fare il casting, che non è affatto spiacevole».
Il premier, però, non può e non vuole accontentarsi. Per questo da domani lavorerà duramente per alzare ulteriormente l’asticella a quota 320 deputati. Un obiettivo a cui potrebbero contribuire i lib-dem Italo Tanoni e Daniela Melchiorre. Restano vivi anche i rapporti con i Radicali. E Marco Pannella pur definendo «irrealistica» l’ipotesi di un’assunzione di responsabilità nell’attuale governo, si dice «fermamente convinto che sia un dovere civile aiutare anche le istituzioni disastrate e far durare la legislatura più in là possibile, se possibile fino alla fine». Una presa di posizione netta che punta anche a scacciare l’ipotesi di un ritorno alle urne. «L’alternativa di elezioni anticipate non è tale - sottolinea Pannella - ma disastrosa e sintomatica: oltretutto avremmo elezioni assolutamente antidemocratiche, fuori legge, di regime violentemente truffaldino, come e più di quello, ad esempio, lombardo-formigoniano, alla Bruti Liberati per intenderci. Ed è proprio quello che si vuole».
Non ci sarà, però, una accelerazione sui tempi del rimpasto. La parola d’ordine è non cedere alle pressioni. Soltanto quando quota 320 sarà stata toccata l’esecutivo potrà essere puntellato con i nuovi ingressi. Il premier ipotizza la creazione di 10-12 nuovi sottosegretari, grazie a un decreto legge che permetta di superare i vincoli della Bassanini che impone al governo un massimo di 60 componenti.
Il premier vorrebbe una compagine più numerosa per concentrare il lavoro del governo in pochi giorni e lasciare spazio alle votazioni in aula. Il decreto ad hoc dovrebbe arrivare non più tardi di un mese. Non sarebbe la prima volta che un premier si concede una deroga sulla dimensione della squadra: lo fece anche Romano Prodi nel 2006. Si tratterà di un processo graduale, mediato con le altre forze di governo. Di nomi ne circolano parecchi. Per Aurelio Misiti dell’Mpa sarebbe pronto un posto alle Infrastrutture mentre per Massimo Calearo si ipotizza un incarico allo Sviluppo Economico o all’Economia. Quasi sicura una poltrona per Francesco Pionati e una per gli ex Fli. Per questi ultimi, qualora Silvano Moffa dovesse rimanere alla Commissione Lavoro, toccherebbe o a Maria Grazia Siliquini o a Catia Polidori. Saverio Romano (Pid) è sempre in pole-position per le Politiche Europee mentre è cosa fatta l’ingresso del movimento di Francesco Storace. «La Destra sarà un alleato importante per battere definitivamente chi ha rinnegato e tradito la storia e la tradizione migliore della destra italiana» scrive Berlusconi. Un patto confermato dallo stesso Storace: «Entreremo con un sottosegretario, la mia indicazione è quella dell’onorevole Musumeci, nostro prestigioso esponente siciliano». Se poi Sandro Bondi confermasse la volontà di lasciare i Beni Culturali, la poltrona al Collegio Romano spetterebbe con ogni probabilità a Paolo Bonaiuti.
Corriere della Sera 7.2.11
Porzûs, quel patriottismo che continua a dividere
di Dino Messina
Il sette febbraio 1945, 66 anni fa, un centinaio di partigiani comunisti della Brigata Garibaldi, al comando di Mario Toffanin, detto Giacca, e di Fortunato Pagnutti, Dinamite, circondarono il gruppo di malghe a un’ora di cammino da Porzûs, a ovest di Cividale, dove si erano accampati i «fazzoletti verdi» della brigata Osoppo. Era questo un gruppo di partigiani, ma allora si autodefinivano patrioti, di ispirazione cattolica e liberale, che aveva come comandante il capitano Francesco De Gregori, omonimo e zio del cantautore. La missione ufficiale dei partigiani comunisti, almeno secondo una versione data successivamente, era di andare a prendere la «spia dei nazisti» Elda Turchetti, in realtà una umile donna senza responsabilità politiche, ma lo scopo vero era di far fuori quel gruppo che non accettava l’egemonia dei comunisti di Tito sul suolo italiano. Secondo un commissario politico della Garibaldi, Giovanni Padovan, l’ordine di eliminare tutti i componenti della Osoppo, tra cui Guido Pasolini, fratello del poeta Pier Paolo, partì direttamente dal comando sloveno. Ieri i 21 «fazzoletti verdi» uccisi sono stati ricordati in una cerimonia a Canebola di Faedis (Udine). Le Malghe Porzûs sono finalmente state dichiarate dal ministero dei Beni culturali luogo di interesse nazionale dopo che l’anno scorso le motivazioni redatte da funzionari regionali erano state ritirate perché risultavano superficiali, faziose e copiate qua e là dall’enciclopedia online Wikipedia. A denunciare il fatto era stato lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, che ieri durante la cerimonia ha polemicamente ricordato che «la nostra libertà e la nostra Costituzione sono nate dal sacrificio di quelli che combatterono il fascismo e il nazismo, ma che qui persero la vita uccisi dai comunisti» . Impostazione che non è stata condivisa dalla europarlamentare del Pd Debora Serracchiani secondo cui «il sangue versato alle Malghe Porzûs appartiene a tutti gli italiani» . Questa polemica tra chi sottolinea le differenze all’interno della Resistenza e chi cerca la memoria condivisa non intacca l’unanimità nella richiesta di far diventare le Malghe Porzûs monumento nazionale, un passo ulteriore rispetto al provvedimento ministeriale. Sarebbe bello, hanno auspicato politici locali e la medaglia d’oro al valor militare Paola Del Din, che la dichiarazione di monumento nazionale fosse contestuale alla visita a Porzûs del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Eravamo patrioti — dice Paola Del Din, partigiana osovara che nei giorni della strage era in missione al Sud per portare un messaggio agli Alleati — e non a caso avevamo scelto per la nostra formazione il nome di Osoppo, il paese che nel 1848 si era battuto contro gli austriaci» . Nel centocinquantenario dell’unità italiana, di patriottismo, in particolare del contributo al Risorgimento della comunità istriano-dalmata, si parla anche in vista del Giorno del Ricordo, che in base a una legge del 2004, dopo oltre mezzo secolo di oblio, si celebra ogni 10 febbraio. Lo scopo è tener viva la memoria degli italiani che finirono infoibati, gettati cioè nelle cavità carsiche dalle milizie di Tito tra il 1943 e il 1945, perseguitati, o che a migliaia dovettero abbandonare esuli le terre dell’Istria e della Dalmazia dopo il trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. Giovedì 10 alle ore 11 il Giorno del Ricordo sarà celebrato al Quirinale alla presenza di Giorgio Napolitano. A parlare di esilio sarà Enzo Bettiza. Ma in Val Brembana, a Camerata Cornello, un circolo Arci ha scelto di celebrare il Giorno del Ricordo con l’inaugurazione di una mostra sui crimini fascisti in Jugoslavia tra il 1941 e il ’ 45. Un’iniziativa che farà discutere.
Corriere della Sera 7.2.11
Strage degli innocenti. Non chiamiamola «Troppo amore»
di Isabella Bossi Fedrigotti
Maschio, due anni, bolognese, ammazzato a colpi di pistola (probabilmente dal papà che poi si è suicidato) assieme alla mamma, nel garage di casa, a bordo dell’automobile con la quale stavano forse cercando di mettersi in salvo. Ed è soltanto l’ultimo della serie mentre ancora si stanno cercando le gemelline portate via dal padre suicida e non ancora ritrovate. La mattanza dei bambini— perché ormai è quasi obbligatorio chiamarla così — continua, dunque. Le storie di queste tragedie si assomigliano in modo impressionante e, in genere, vengono classificate, a volte perfino giustificate, con la insensata spiegazione del «troppo amore» , quando in realtà sono il rancore, l’odio, la vendetta, la gelosia ad armare la mano dell’assassino o dell’assassina, e l’amore è, nel migliore dei casi, soltanto un ricordo sbiadito del passato. Quasi sempre c’è di mezzo una separazione, non accettata, non digerita dalla controparte, magari traumatica e con offesa per il soccombente, colei o colui che viene lasciato, per cui l’omicidio, dentro una mente sofferente, esasperata e umiliata, sembra diventare l’unico evento in grado di portare un po’ di consolazione, leggerezza per il cuore, tregua dal tormento. In una logica assurda si è costretti, se non altro dalla frequenza di questi misfatti, a prendere atto, forse, addirittura, a comprendere. Ma perché condannare anche il bambino, perché includere nel furibondo, mortifero livore anche il piccolo che, magari, fino a qualche ora prima si era tenuto in braccio, vezzeggiato, carezzato, riempito di parole dolci? Il troppo amore, del quale regolarmente poi parlano amici e parenti suona bene, ma suona vuoto. Non si ammazza un figlioletto per risparmiargli generosamente i dolori della vita, bensì per rendere la vendetta verso la moglie o verso il marito più tremenda, più totale, più definitiva. Si vorrebbe, allora, chissà, paradossalmente, che fosse istituito per questi piccoli il diritto di divorziare dai loro inadeguati genitori, di scegliersene degli altri più capaci di proteggerli dai livori e dai rancori, di amarli nella giusta misura e non pericolosamente «troppo» .
Corriere della Sera 7.2.11
La resa del ministro Brunetta
di Pietro Ichino
aro direttore, venerdì scorso il governo C ha firmato con Cisl, Uil e Ugl una Intesa che sostanzialmente azzera la riforma Brunetta delle amministrazioni. Se nell’estate scorsa Tremonti aveva abolito la «carota» prevista in quella riforma, cioè i premi per i dipendenti pubblici più meritevoli, ora questa Intesa abolisce il «bastone» : in sostanza garantisce che a nessuno, per quanto inefficiente, verrà tolto un solo euro del «salario accessorio» percepito nel 2010. Per spiegare il contenuto effettivo di questo accordo, ne propongo una traduzione dal buro sindacalese in italiano. Intesa 4 febbraio 2011: fermi tutti, abbiamo scherzato. 1. Le Parti, sostituendo questo accordo agli atti di un legislatore velleitario e di un governo inconcludente, si danno reciprocamente atto che la riforma delle amministrazioni pubbliche recata dal decreto legislativo n. 150/2009 deve considerarsi come mai emanata. In particolare, ogni funzione di valutazione della performance delle amministrazioni attribuita a organi indipendenti deve intendersi avocata a sé dalle Parti stesse, nello spirito del Memorandum governo-sindacati 23 gennaio 2007. Tutte le invettive pronunciate dal ministro Brunetta contro il detto Memorandum nel corso degli ultimi due anni e mezzo devono intendersi revocate, con formali scuse all’ex ministro Nicolais. 2. Le Parti convengono, in particolare, che deve considerarsi abrogato l’articolo 19 del decreto legislativo n. 150/2009: conseguentemente, in tutte le circolari e documenti emanati dal settembre 2009 in poi dal ministero della Funzione pubblica, la frase «mai più un solo centesimo di salario accessorio verrà erogato al dipendente inefficiente» e ogni frase che dica cosa simile devono intendersi sostituite dalla seguente: «il ministro riconosce di essere incapace di differenziare il trattamento dei dipendenti pubblici in base alla rispettiva performance individuale e pertanto garantisce a ciascuno di essi che, anche se lavorerà malissimo e qualunque nefandezza commetta, non potrà percepire meno di quanto ha percepito nel 2010, a titolo sia di stipendio sia di cosiddetto "salario accessorio"» . Siamo tutti bravi, altro che fannulloni! 3. Al ministro della Funzione pubblica sarà ancora consentito— purché soltanto per ragioni propagandistiche— sostenere nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, o nelle interviste a quotidiani e settimanali, che al 25%di dipendenti più meritevoli verranno destinati premi finanziati con le «risorse aggiuntive» . Le Parti, tuttavia, si danno reciprocamente atto che, stanti i vincoli posti con il d. lgs. n. 78/2010 (i «tagli lineari» del ministro Tremonti per la «stabilizzazione finanziaria» ), nessuna amministrazione potrà incrementare il fondo del salario accessorio con risorse aggiuntive; conseguentemente è garantito il ritorno a un trattamento rigorosamente egualitario, secondo la buona prassi consolidata prima del decreto n. 150/2009. 4. Le Parti convengono che devono considerarsi abrogate tutte le disposizioni nelle quali compaia il riferimento a organi indipendenti di valutazione della performance delle amministrazioni: ritorna in vigore la disposizione contenuta nel Memorandum governo-sindacati 23 gennaio 2007, che prevedeva l’affidamento della funzione di valutazione a commissioni paritetiche, costituite da rappresentanti delle amministrazioni oggetto di controllo e da rappresentanti sindacali dei dipendenti delle amministrazioni medesime. 5. Il governo si impegna a impartire all’Aran entro 15 giorni istruzioni affinché l’Agenzia stessa adegui il proprio operato alle disposizioni della presente Intesa e, in particolare, adegui i contenuti della contrattazione di livello nazionale ai criteri che hanno ispirato la contrattazione integrativa in tutto il periodo precedente al decreto n. 150/2009. Il ministro della Funzione pubblica ritira tutte le critiche ingiustamente rivolte a quella felice stagione della contrattazione collettiva del settore pubblico e si impegna, in generale, a non parlar più del sindacato del settore dell’impiego pubblico, se non in termini elogiativi. Dichiarazione a verbale. La Cgil-Funzione pubblica si astiene dal sottoscrivere la presente Intesa non perché sottovaluti il positivo rilievo dell’azzeramento delle perniciose velleità del ministro Brunetta in materia di valutazione della performance individuale e di struttura, ma perché dissente dalla sostanziale assoluzione che con l’Intesa stessa gli viene accordata dalle Organizzazioni sindacali firmatarie: compito di ogni sindacato degno di questo nome è battersi fino all’ultimo sangue contro tutti i governi di centrodestra e rifiutare di contribuire a qualsiasi accordo con essi, quale che ne sia il contenuto.
La Stampa 7.2.11
Le ultime 100 tribù “incontaminate”
In Brasile indios che non hanno mai visto i bianchi: “Stiamo lontani, o moriranno”
di Mattia Bernardo Bagnoli
PIÙ NUMEROSI DEL PREVISTO I ricercatori: «La foresta non è vuota come pensiamo Ce ne possono essere altri»
CONFLITTI IN VISTA Le aree inesplorate sono ricchedi petrolio e finora erano ritenute senza abitanti
Gli etnologi Survival International sta cercando gli aborigeni: le immagini hanno fatto scalpore in tutto il mondo I cercatori d’oro Battono la zona abitata dai «selvaggi»: c’è il rischio che portino epidemie devastanti nei villaggi indigeni
Neolitici Le tribù mai contattate dai bianchi sono cacciatori raccoglitori che vivono come i nostri antenati della preistoria L’impatto con la società moderna potrebbe essere devastante Già nel 1500 all’arrivo degli europei epidemie e guerre decimarono gli indigeni
Il nostro mondo è pieno come un uovo, Internet ormai raggiunge ogni dove, eppure allo scoccare del 2011 esistono ancora quasi cento popolazioni che non hanno mai visto l’uomo bianco, figuriamoci un computer o uno smartphone. E neppure una banca, una macchina, o il presidente Obama. O il concetto di Stato. Tribù, insomma, ferme a un periodo premoderno - quasi primitivo, in certi casi - grazie alla protezione offerta dalle foreste pluviali. Che però si fanno sempre più piccole a causa del disboscamento. Popolazioni che sono quindi in pericolo non tanto di restare per sempre isolate ma, al contrario, di venire a contatto con l’uomo contemporaneo: e venir dunque decimate dalle malattie, come capitò agli indios al tempo dei conquistadores.
Il caso dei popoli perduti è riemerso con forza dopo che sono state diffuse le immagini di una tribù scoperta dall’organizzazione Survival International ai confini tra il Brasile e il Perù. L’Ong ha adesso rivelato che un altro gruppo indigeno, sempre parte della popolazione degli Yanomami, vive indisturbato nella parte settentrionale dello stato brasiliano di Roraima. La tribù, i Moxateteu, vive però in un’area piagata da un’alta concentrazione di cercatori d’oro illegali. Se questi bracconieri di metalli pregiati non verranno presto espulsi, dicono gli esperti, c’è il rischio che la maledizione dell’uomo bianco possa colpire i Moxateteu, come è già capitato altre volte in passato.
«Ci sono molte popolazioni indios sperdute», ha detto a Survival International Davi Kopenawa, portavoce del popolo Yanomami - di quella parte cioè già emersa dal cuore della giungla. «Io vorrei aiutarli: hanno il nostro stesso sangue e non hanno mai visto il mondo moderno».
Il mito delle popolazioni perdute, insomma, non è una leggenda ma un fatto. «Queste persone esistono davvero», ha spiegato all’ Independent on Sunday José Carlos Meirelles, funzionario del Funai, il ministero brasiliano per gli Affari degli Indios. «Quegli spazi vuoti del parco Yanomami - ovvero la zona off-limits creata nel 1992 dopo varie campagne di pressione internazionali - non sono così vuoti come la gente pensa. Anzi mi spingo sino a dire che in quest’area possa esistere più d’una tribù ancora da scoprire».
«Queste immagini - ha commentato Fiona Watson, direttrice del settore ricerca di Survival International - ci dicono che queste popolazioni sono vive e più che sane. E contraddicono in pieno il pensiero di chi sostiene siano state inventate dagli ambientalisti impegnati nella battaglia contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Amazzonia».
Il Sudamerica, insomma, è davvero una specie di Arca di Noé dei popoli perduti. Oltre a Brasile e Perù, infatti, anche il Paraguay custodisce una tribù ancora da contattare: gli Ayoreo-Totobiegosode. Gli unici a vivere al di fuori dell’Amazzonia, nella vasta distesa di boscaglie che si estende tra Bolivia, Paraguay e Argentina. Ovvero un’altra area ad alto rischio ambientale a causa degli interessi legati all’allevamento del bestiame. La storia è sempre la stessa: giù le foreste e largo ai pascoli.
L’altra zona della Terra che potrebbe custodire molte sorprese è la Papua occidentale. Qui la presenza dei militari e il terreno particolarmente accidentato rendono infatti le esplorazioni praticamente impossibili. Detto questo, il direttore di Survival International ha sottolineato come un cambiamento di attitudini da parte dell’uomo «civilizzato» nei confronti di queste popolazioni possa essere la vera chiave per proteggere il loro stile di vita. «Spesso - ha dichiarato - questi popoli vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».
La Stampa 7.2.11
“Ma guardate bene le foto. Hanno berretti e pentole”
Gli esperti brasiliani smontano lo scoop «Si vedono coltelli e altri utensili moderni»
di Paolo Manzo
Le loro foto veicolate dalla Bbc e dall’ong britannica Survival International hanno fatto il giro del mondo e la notizia sembrava inattaccabile: scoperti gruppi di indios isolati dalla civiltà ai confini tra Brasile e Perù, in piena foresta amazzonica. «La tribù che non ha mai avuto contatti con il mondo esterno», così avevano subito titolato i giornali più importanti del pianeta di fronte alla scoperta.
Molto romantico e certamente assai affascinante. Peccato che alcuni giornalisti del settimanale brasiliano Istoé abbiano voluto vederci più chiaro e, ingrandendo gli scatti, si siano accorti di alcune evidenti incongruenze che fanno a pugni con la tesi che gli indios in questione non avrebbero mai avuto contatti con la civiltà esterna.
In una foto, infatti, nel bel mezzo di una famiglia di indios si vede poggiata a terra una casseruola in acciaio Total White, con rivestimento interno in ceramica e rivestimento esterno in smalto porcellanato di color bianco. Un oggetto persino chic, prezzo in Italia circa 30 euro. Certo, lo smalto è un po’ scrostato e dunque la pentola non deve essere nuovissima. Di sicuro però la famiglia di indios immortalata da una spedizione aerea del Funai, la Fondazione nazionale indigena brasiliana, quella casseruola non l’ha fabbricata, al massimo l’ha comprata in un negozio di stoviglie o l’ha ricevuta in regalo.
Così come deve essere successo con il coltello affilato di metallo, probabilmente inox, che impugna un altro membro dei cosiddetti «indios senza contatti col mondo». Senza poi soffermarci sul berretto in perfetto stile yankee calcato in testa dal pater familias che, con tanto di arco e frecce, sembra volere abbattere il velivolo del Funai. Altro dato su cui riflettere. Gli scatti sono del 2008 ma sono stati pubblicati online solo una settimana fa, oltre due anni dopo, dal sito Internet www.uncontactedtribes. org.
«Isolati per scelta» titola dunque il settimanale Istoé, che mette in dubbio il presunto scoop di Bbc e Survival International. Al punto che la stessa Funai, per bocca di Elias Bigio, è costretta a confermare la triste verità: «Non si può parlare di tribù isolata e incontaminata, anche se è indubbio che si tratti di indios con un passato traumatico di confronti con l’uomo bianco». Insomma il mito dell’indio che non ha mai avuto contatti con il mondo esterno è soprattutto nella testa di noi occidentali.
La Stampa 7.2.11
“Cercheremo gli alieni nel lago dei misteri”
Ore decisive per un team russo al Polo Sud Sotto i ghiacci un habitat di 15 milioni di anni fa
di Mattia Bernardo Bagnoli
NUOVE FORME DI VITA «Là sopravvivono microrganismi sconosciuti»
L’OBIETTIVO «Ancora 5 metri e perforeremo l’ultimo strato»
Mancano solo cinque metri. Ancora un colpettino e una vera e propria capsula del tempo si schiuderà davanti agli occhi dei ricercatori dopo un sonno durato 15 milioni di anni.
L’oggetto dei desideri è il lago Vostok, distesa d’acqua gigantesca - più o meno come l’Ontario, il minore dei cinque grandi laghi Usa - sepolta in Antartide da una coltre di ghiaccio spessa 4 chilometri. Dopo mesi di lavoro l’equipe di studiosi russi guidati da Alexei Turkeyev sta finalmente per scoprire l’arcano. Nessuno sa infatti che cosa possa nascondersi là sotto. L’ipotesi è che negli oscuri fondali si nascondano nuove forme di vita. «Manca solo un pezzettino», bisbiglia Turkeyev alla cornetta del suo telefono satellitare.
«Fuori c’è una temperatura di -40˚ - dice lo studioso raggiunto dai giornalisti dell’Independent on Sunday -. Ma noi lavoriamo lo stesso. Sono rimasti 5 metri di ghiaccio prima della superficie del lago: ci arriveremo presto». La breve estate antartica sta però per finire. Ed è proprio alla stazione russa di Vostok che è stata registrata la temperatura più bassa mai riscontrata sulla Terra: -89,2˚. I russi saranno quindi costretti ad abbandonare la loro postazione forse oggi stesso. Appare ormai certo che per l’esplorazione completa delle acque si dovrà aspettare ancora un anno. Tempo che, osservano molti esponenti della comunità scientifica, servirà per preparare al meglio la spedizione. «E’ come esplorare un pianeta alieno dove nessuno ha mai messo piede prima», ha commentato Valery Lukin, dell’Arctic and Antarctic Research Institute di San Pietroburgo, l’istituto che sta coordinando la missione -. Nessuno sa che cosa possiamo trovare».
Il paragone alieno non è campato per aria. Le condizioni di vita nel lago Vostok sarebbero infatti talmente proibitive da poter servire come mezzo di paragone con certi ambienti di Marte. Anche senza lasciare il pianeta Terra, le ragioni per essere impazienti sono molte: le acque del Vostok potrebbero gettare nuova luce sulle condizioni di vita precedenti all’ultima era glaciale. In realtà quello che tutti gli studiosi sperano di trovare sono specie sconosciute di microbi o di batteri che si sarebbero evoluti in un mondo privo di luce solare. «Quando si tratta dell’esplorazione del nostro pianeta e della sua comprensione - ha detto Chuck Kennicutt, oceanografo - l’Antartide è l’ultima frontiera».
I russi, ad ogni modo, non sono i soli a lavorare di trivella. Altri due team, incluso uno britannico, stanno cercando di raggiungere le acque di altri laghi più piccoli: i bacini sotterranei scoperti sino ad ora al polo sud sono 150. Martin Siegert, capo del dipartimento di geoscienze dell’università di Edimburgo, è ottimista: «Stiamo parlando di ambienti estremi che comunque potrebbero essere abitabili. Se è così ci interessa capire come sia possibile».
La prossima sfida, comunque, non sarà tanto quella di superare gli ultimi cinque metri di ghiaccio, ma di farlo senza contaminare in modo irrecuperabile le acque purissime del Vostok. «Credo che in quel lago si scoprirà un’oasi per la vita. Ma sinoa che non saremo sicuri di entrare in modo pulito, dovremo essere cauti», ha detto John Priscu della Montana State University. Opinione condivisa da Massimo Frezzotti, responsabile delle attività di Glaciologia del Programma nazionale di Ricerche in Antartide. «Al momento - spiega - non ci sono garanzie che la perforazione venga fatta nel pieno rispetto ambientale e in modo pulito, ossia evitando contaminazioni». Per questo sono vent’anni che progetti di questo tipo vengono frenati dalle cautele ambientali imposte dal Trattato Antartico, punto di riferimento per tutte le organizzazioni scientifiche che conducono qui le loro ricerche. Il progetto di perforazione del lago Vostok, sottoposto nel novembre scorso al Comitato del Trattato Antartico per la protezione ambientale, è stato quindi accolto con cautela. Un’apprensione condivisa anche dai ricercatori russi. «Sono molto emozionato - ha detto Alexei Ekaikin -: una volta toccato, il lago sarà violato per sempre».
l’Unità 7.2.11
Morto Giovanni Bollea. Scrisse
"Le madri non sbagliano mai"
qui
http://www.unita.it/culture/morto-giovanni-bollea-scrisse-br-le-madri-non-sbagliano-mai-1.270451
La Stampa 7.2.11
Bollea, tutta la vita dalla parte dei bambini
Morto a 97 anni il padre della neuropsichiatria infantile in Italia Una vocazione nata da piccolo, durante una visita al Cottolengo
di Piero Bianucci
LA SOFFERENZA PSICHICA Per curarla non basta la pediatria, serve una scienza che si occupi dell’anima"
LA TERAPIA Una rete che oltre ai medici includa genitori, insegnanti, psicologi, assistenti sociali
Se n’è andato ieri Giovanni Bollea, fondatore della neuropsichiatria infantile in Italia, grande vecchio che tanto ha fatto per i più piccoli e indifesi: bambini Down, bambini con lesioni cerebrali, bambini e adolescenti senza malanni fisici ma traumatizzati nell’anima da famiglie divise, abbandoni, violenze.
Nato a Cigliano Vercellese, aveva compiuto 97 anni il 5 dicembre in un letto del Policlinico Gemelli di Roma. Dal 12 agosto, quando una ischemia cerebrale lo trascinò nel buio del coma, lottava per strappare ancora qualche giorno, qualche mese, e quasi aveva vinto, perché dal coma era uscito, aveva ripreso a comunicare con il mondo – la moglie Marika, i sei figli – sia pure debolmente.
Sapeva di avere una missione da compiere: mettere al sicuro la disciplina scientifica che aveva fondato e portato a dignità accademica nel nostro paese. Perché oggi la neuropsichiatria infantile rischia di scomparire dal panorama medico italiano, travolta nell’alluvione di tagli più o meno indiscriminati all’Università. Sotto il governo Berlusconi, e con il cambio di colore politico alla Regione Lazio, si è fatto strada il progetto di riassorbirla nella pediatria. Mentre Giovanni Bollea ha dedicato la sua esistenza proprio a staccarla dalla medicina pediatrica, convinto com’era che la sofferenza psichica non sempre, e mai del tutto, è riconducibile a una base organica. Se la pediatria si occupa dell’organismo del bambino, pensava, altrettanto necessaria è una scienza che si occupi della sua mente e dei suoi malfunzionamenti. Perché sono malfunzionamenti che in alcuni casi hanno origini fisiologiche, genetiche, traumatiche, ma in altri casi affondano invece le radici in problemi di relazioni umane, e le relazioni umane non sono materia per il medico ma, appunto, per un neuropsichiatra che, come Bollea, abbia sviluppato una sensibilità diversa verso la mente dei bambini, conosca la psicoanalisi infantile, e quindi Anna Freud, che ne fu pioniera. Ma neppure questo è sufficiente: intorno al bambino con disagio psichico Bollea voleva tessere una rete che oltre ai medici specializzati includesse genitori, familiari, insegnanti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali.
Gli ultimi mesi della vita di Bollea sono stati segnati da un appello per tutelare l’indipendenza, e prima ancora il ruolo, della facoltà di Neuropsichiatria infantile dell’Università La Sapienza di Roma e del relativo Istituto neuropsichiatrico in via dei Sabelli che lui aveva fatto nascere. «Non distruggete la mia casa dei bambini», è stato il suo ultimo grido.
Bollea si era laureato in medicina nel 1938 a Torino e si era specializzato in malattie mentali. Constatando come nel nostro Paese fosse scarsa l’attenzione al disagio psichico nei bambini e negli adolescenti, era andato a specializzarsi in psichiatria infantile a Losanna, in Svizzera, costeggiando anche l’ambiente pedagogico di Piaget. Con quel bagaglio torna in Italia e negli Anni 50 rivoluziona la neuropsichiatria infantile introducendo per la prima volta nel nostro Paese la psicoanalisi e – soprattutto – la psicoterapia di gruppo: lo guidava l’idea che sono le relazioni umane a curare e ad aver bisogno di essere curate, anche quando la malattia ha un substrato organico o genetico. Erano tempi nei quali i Down avevano una limitatissima aspettativa di vita ed erano chiusi in un ghetto sociale. Bollea fece maturare il processo che li ha inseriti nella società e nel lavoro, triplicando nel contempo la loro esistenza.
Duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, un trattato di neuropsichiatria infantile e molti libri rivolti anche ai non addetti ai lavori sono l’eredità di Bollea, con un bestseller edito da Feltrinelli dal titolo provocatorio Le madri non sbagliano mai . Tanti riconoscimenti (laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione all’Università di Urbino, Premio Unicef, Premio alla carriera al Congresso mondiale di psichiatria e psicologia infantile che si tenne a Berlino nel 2004). Ma non erano queste le cose che gli interessavano. «La più grande mia gioia nella vita è ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto», diceva. Ed è emblematico che abbia fondato anche l’Alvi, «Alberi per la vita», associazione privata per il rimboschimento dell’Italia.
Intorno aveva una famiglia da patriarca: sei figli (Ernesto, Mariarosa e Daniele avuti nel primo matrimonio con Renata Jesi; Barbara, Arturo e Marco nati dalla seconda moglie Marika e dal suo primo marito ma cresciuti con lui), sette nipoti, tredici bisnipoti.
Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore.
La Stampa 7.2.11
“In principio è il sorriso”
di Giovanni Bollea
Pubblichiamo una riflessione di Giovanni Bollea, invitato a parlare del sorriso come capacità innata del bambino.
Dopo il primo pianto, appena uscito dall’utero, vediamo il sorriso del bambino legato a quello della madre che lo guarda a sua volta negli occhi. Il sorriso che nasce non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella sua memoria per sempre. E così al primo dentino, al primo passo, all’entrata della scuola materna.
In questo modo il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all’interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell’asilo nido, dove i primi collegamenti con l’altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il suo modo di colloquiare. Ma il dramma nasce quando il bambino non è ascoltato né seguito, o quando la madre ritarda nel riprendere il bambino alla scuola materna. Al loro incontro, perciò, ci sarà di nuovo «quel» sorriso d’intesa. Quel famoso sorriso del dopo scuola che non sarà mai più lo stesso durante tutto il suo cammino di adulto.
Ricordiamoci che anche nella gioia di aiutare la mamma nei piccoli lavori di casa il bambino manifesterà la preferenza della madre nei suoi confronti, che così lo fa sentire sempre più importante.
Il sorriso è lo stare con la madre, il ridere è la manifestazione dell’orgoglio e della soddisfazione di eseguire e conquistare qualcosa insegnatogli da lei, dalla quale gli giunge un segno di allegra approvazione. Il sorriso è quindi amore, il ridere è... «obbedire». [...]
Coinvolgerlo in modo positivo nelle realtà quotidiane: ecco che l’elemento formativo darà felicità al bambino, se non lo avrete mai fatto sentire come un ordine. Il significato di comando, infatti, non deve mai essere trasmesso come un invito obbligatorio prima dei quattro-cinque anni. Sembrerà semplicistico e forse ovvio, ma pochissimi invece capiscono l’importanza di farsi accompagnare e far partecipare il bambino alle commissioni, commentando a voce alta le cose che vedono. Questo sia con i genitori sia con i nonni.
L’infanzia sorridente in questo periodo storico non è purtroppo la normalità, ma l’amore, lo slancio impegnato e caricato di generosa attenzione quotidiana formerà un adulto più o meno maturo.
Repubblica 7.2.11
Lo psichiatra dalla parte dei bambini
È scomparso a 97 anni il pioniere degli studi dell´infanzia in Italia
Si era formato all´estero, poi rientrato a Roma aveva costruito il suo istituto d´avanguardia
Aveva grande rispetto per le madri e ne ha difeso l´immagine positiva
di Luciana Sica
«Per favore, niente retorica sulla mia persona». Aveva ragione a chiedere maggiore sobrietà sul suo conto, Giovanni Bollea, il celebre studioso dell´infanzia scomparso ieri a Roma a 97 anni (la camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio, dalle 10). Aveva ragione di temerla, la retorica, perché correva il rischio di essere ingabbiato in una serie di cliché giornalistici, inevitabilmente facili: dal "vecchio saggio" al "professore appassionato", all´"irriducibile idealista". Definizioni anche gratificanti, ma semplificatorie e riduttive di un´esperienza umana e professionale di prim´ordine.
Che Bollea fosse saggio, appassionato e idealista è fuori di dubbio, ma più importante è stato il suo ruolo nell´affermazione di una disciplina – la neuropsichiatria infantile – prima molto osteggiata, poi considerata negli ambienti accademici con qualche sussiego, infine anche un po´ enfatizzata, come del resto negli ultimi anni sono stati enfatizzati i bambini. Sempre più si tecnicizza e si idealizza la loro presunta felicità: un modo sofisticato per dissimulare l´ambivalenza dei sentimenti in un Paese dove i bambini non si fanno.
Bollea, invece, ha sempre avuto una profonda fiducia nei più piccoli, nella loro diversa modalità di guardare il mondo. Era convinto che sarebbero stati proprio loro – i bambini – a distruggere l´individualismo e il consumismo della nostra epoca. Ma, di Bollea, affascinava anche la considerazione e il rispetto che aveva per le madri, secondo una lezione umana e scientifica nel segno dei grandi innovatori negli studi sull´infanzia come Donald Winnicott e John Bowlby. Una lezione che si può sintentizzare così: la mamma sa come comportarsi con il suo bambino, e in quel suo sapere naturale deve confidare pienamente.
Tutt´altro che un´ovvietà, perché la madre oggi viene considerata, e quindi si considera, la maggiore incompetente in fatto di figli, mentre una quantità di esperti le indica perentoriamente il modo di partorire, di allattare, di fare le pappe, di cambiare i pannolini, di vestire, di sorridere, di vietare, di divertire il proprio bambino. Qualcuno – i soliti psichiatri americani – ha addirittura ipotizzato che la mamma sia facilmente sostituibile. Una specie di optional, visto che i bambini sarebbero in grado di raggiungere uno sviluppo psicologico normale con qualsiasi altra figura femminile significativa.
Pacatamente ironica l´obiezione di Bollea, in un´intervista a Repubblica per i suoi novant´anni: «Non capisco proprio – disse – perché si voglia attaccare la mistica della madre, quando l´etologia ha dimostrato che questa è una mistica delle specie viventi. Penso che le ricerche più recenti hanno fatto un enorme regalo alle donne, forse il più grande. Noi sappiamo che soltanto la madre naturale è in grado di captare i segnali del bambino e di dargli significato. È lei che inizia il neonato alle sue capacità cognitive. È dunque la donna che crea la mente dell´uomo».
Le madri non sbagliano mai (1995) e Genitori grandi maestri di felicità (2005), usciti da Feltrinelli, sono tra gli ultimi libri di Bollea – di taglio divulgativo e di gran successo (assai meno recenti i suoi saggi a carattere decisamente universitario sulla Psichiatria dell´età evolutiva, usciti da Bulzoni).
Ma dove saranno mai queste mamme perfette? Quel titolo paradossale somiglia a una dichiarazione di principio, difende l´immagine della madre positiva, «felice sintesi di istinto-tradizione-cultura». Bollea cita Bion, psicoanalista molto letterario, oltre che di genio («La madre riuscirà a trasformare con successo la fame in soddisfazione, il dolore in piacere, la solitudine in compagnia, la paura di morire in tranquillità»). E quando poi scrive che di donne imperfette e sapienti ne ha incontrate moltissime, si coglie un´ammirazione tutta speciale.
Bollea era però un uomo sobrio, meglio: un piemontese austero (di Cigliano Vercellese), che non amava dire di sé più di tanto. Si appassionava invece a rievocare gli anni in cui – giovanissimo e allievo prediletto di Ugo Ciarletti – si lanciò nell´avventura della neuropsichiatria infantile con il piglio del pioniere entusiasta. Nel ´46 venne scelto – gli italiani erano sei in tutto – per frequentare un corso di psichiatria a Losanna, e più tardi fu assistente a Parigi, facoltà di Medicina, cattedra di psichiatria infantile. Al ritorno in Italia, Bollea costruì dal niente quello che oggi è considerato un Istituto di neuropsichiatria infantile all´avanguardia in Europa: in via dei Sabelli, a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Un "centro" ora a rischio di tagli, che lui ha difeso fino allo stremo delle forze.
Anche in anni recenti Bollea ha continuato a lavorare, privatamente, e a farci sentire la sua voce, indignata e lucida, le tante volte che i bambini diventavano protagonisti di storie terribili. Ma era sempre infastidito che la normalità fosse tanto bistrattata, che non facesse notizia: implacabile il suo "j´accuse" ai media, soprattutto alla televisione, per quella che definiva «l´insana passione di rappresentare le atrocità del mondo». E l´ultima associazione – di cui è stato fondatore e presidente – ha voluto chiamarla, per ogni chiarezza, "Alberi per la vita". Era convinto che battersi contro i guasti alla natura e occuparsi del benessere dei bambini fossero attività molto simili.
Si può dire, senza retorica, che la vita di Bollea sia stata segnata da un incrollabile ottimismo – a dispetto dell´orrore che denunciava con un senso forte dell´impegno civile. «Ci ritroviamo immersi – diceva – in un´epoca piena di paure. Ma io credo che l´uomo possa ritrovare se stesso. La famiglia e la scuola costituiranno i due formidabili baluardi di una nuova rivoluzione». Si aspettava molto dal futuro, Giovanni Bollea, con quella sua aria giocosa da folletto saggio: senza nessuna simpatia per una certa arida intellettualità e i suoi narcisistici pessimismi di maniera.