l’Unità 28.2.11
Sconfiggere le menzogne
di Mila Spicola
Dopo le accuse di corporativismo, di strumentalizzazione politica, di “fannullonismo” contro i docenti italiani, adesso è uscito allo scoperto: l’oggetto dell’odio del premier è la scuola statale come istituzione. Una rivoluzione ci sta tutta: è giunta l’ora di difenderci sul serio. Dobbiamo, tutti, difendere la scuola statale italiana dalle menzogne che la stanno sommergendo. Abbiamo bisogno di tutti voi. Abbiamo bisogno di un Benigni che davanti a venti milioni di italiani reciti con il suo splendido carisma: «Art. 33 L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»; «art. 34 La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Abbiamo bisogno di un’opposizione che, unita, metta la scuola in cima all’agenda politica e usi tutti gli strumenti parlamentari perché il premier ritiri (e parte le consuete smentite e i “fraintendimenti”) tutto quello che ha detto. Abbiamo bisogno di testimonial che difendano la scuola statale, che possano rompere il muro dei media: scrittori, attori, cantanti, registi, che ci raccontino il brivido di quel giorno, a scuola, nel capire con che dolcezza si può naufragare nell’infinito del pensiero e della libertà umana. Questo giornale dà lo spazio e l’opportunità per farlo. Abbiamo bisogno di tutti voi perché noi, gli insegnanti, in questi anni troppo spesso non siamo stati ascoltati. Abbiamo bisogno di donne e uomini consapevoli e informati, capaci di raccontare per intero la verità della scuola statale italiana tagliata e oltraggiata. C’è il perpetuo allarme del docente precario, ma ci sono anche masse di genitori preoccupati ai quali nessuno ha saputo dare voce.
Il nodo centrale è l’attacco alla democrazia e al libero pensiero attraverso l’attacco alla scuola pubblica. Attacco proseguito negli anni inesorabile, con troppi complici. Etiam si omnes ego non. In quanti, rispetto all’indifferenza verso la scuola, hanno saputo dire: «Io no»?
«La scuola italiana non educa», dice il premier (e detto da lui suona grottesco, surreale). Ma cosa vuol dire educare? La scuola fascista aveva come obiettivo principe l’«educazione dei giovani». La scuola statale italiana repubblicana, gioiello di una civiltà avanzatissima, la nostra, istruisce, forma e prepara i cittadini di domani attraverso la trasmissione di un bagaglio di conoscenze, di cultura, il più ampio, corretto, plurale, libero (persino di criticare i maledetti comunisti). Istruisce alla conoscenza delle regole e dei pensieri. Tutti e per tutti. Al plurale, mai al singolare. E lo fa meglio delle private. (Dati Invalsi: senza i funesti risultati delle competenze degli studenti delle scuole private la scuola italiana sarebbe più in alto nella graduatoria europea). Metteteci nelle condizioni di farlo al meglio, non al peggio. Il ministro Gelmini ha approntato una riforma che riflette l’odio e non l’amore per la scuola. Su ufficiale ammissione del suo premier, è fallita miseramente. Si dimetta, allora, e cerchiamo di realizzare una vera riforma che vada incontro alle esigenze del paese intero e dei suoi ragazzi.
l’Unità 28.2.11
La resistenza di insegnanti, studenti, sindacati, opposizioni dopo l’attacco di Berlusconi
Proposta di Franceschini: «Può diventare una grande manifestazione». Giulietti trova la data
La nuova piazza: «Il 12 marzo in difesa della scuola pubblica»
Il mondo della scuola insorto contro l’attacco rivolto da Berlusconi alla scuola pubblica: dalla Cgil all’Ugl, studenti, insegnanti. Franceschini: tutti in piazza il 12 marzo. Gelmini difende Silvio. Bersani: «Si dimetta».
di Natalia Lombardo
È rivolta fra insegnanti, studenti e sindacati, compresa l’Ugl, per l’attacco lanciato sabato da Silvio Berlusconi contro la scuola pubblica: nella sua pseudo-smentita conferma il concetto sull’«indottrinamento politico e ideologico» che farebbero i docenti. La ministra dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, invece di sentirsi colpita nel suo ruolo, difende il premier. Al punto che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ne chiede le dimissioni: «Se la Gelmini fosse un vero ministro, invece di arrampicarsi sui vetri per difendere Berlusconi, dovrebbe dimettersi». Perché «la scuola pubblica è nel cuore degli italiani. Da Berlusconi arriva uno schiaffo inaccettabile, non permetteremo che la distrugga». E Dario Franceschini, Pd, da Twitter lancia la proposta di una manifestazione per «difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi»: «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere». Il capogruppo Pd accoglie «l’importantissima» disponibilità offerta da Beppe Giulietti per il 12 marzo, allargando la protesta in difesa della Costituzione. La Cgil scuola sciopererà il 25 marzo con i lavoratori pubblici, potrebbe replicare con lo sciopero generale proposto da Susanna Camusso. Anche ItaliaFutura, fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, denuncia le «esternazioni in libertà» di Berlusconi «che i cittadini non possono sopportare» e «si attendono che faccia funzionare la scuola, non di demolirne la legittimità».
Mariastella Gelmini rispondendo a Bersani ribadisce il concetto sulla scuola dominata da postsessantottini: «Berlusconi non ha attaccato la scuola pubblica», dice come una scolaretta, «ma ha difeso la libertà di scelta delle famiglie». E rilancia: «La sinistra guarda alla scuola pubblica come a un luogo di indottrinamento ideologico. Bersani si rassegni: la scuola non è proprietà privata della sua parte politica».
La Rete degli studenti denuncia la «cancellazione» dell’istruzione pubblica da parte del governo, «altro che riforma», Gelmini e Tremonti hanno ridotto la scuola «a un cumulo di macerie». Gli insegnanti del Gilda bollano il «comportamento inaccettabile» del premier e ricordano che la situazione è opposta: «La scuola statale è un luogo di confronto pluralistico, mentre legittimamente la scuola privata è di tendenza e trasmette convinzioni religiose, politiche e filosofiche». Insomma, Berlusconi si rilegga «i saggi di Luigi Einaudi, che non era un comunista e difendeva il valore della scuola pubblica statale».
Uniti tutti i sindacati. Secondo Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, «Berlusconi non ha né l'autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica»; Giovanni Centrella, segretario dell’Ugl, ricorda «le gravi ristrettezze in cui operano i professori e le famiglie stesse». Francesco Scrima, Cisl Scuola, parla di «accuse generiche e strumentali agli insegnanti, a cui si continua a chiedere tanto e a dare troppo poco».
Dure critiche da tutta l’opposizione. Nichi Vendola, nella convention di ieri a Roma, spiega così l’attacco di Berlusconi: «È stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle sue televisioni ad aver accompagnato l’egemonia culturale di un quindicennio». Demolirla quindi è strategico, secondo il leader di Sel: «A queste classi dirigenti serve opinione pubblica narcotizzata».
Antonio Di Pietro insiste più sulla morale: «Sui valori e sull’istruzione Berlusconi non può dare lezioni, se c’è qualcuno che è stato un esempio negativo per i giovani è proprio lui». Anche Rosy Bindi è indignata sul piano morale: «Chi conclude incontri politici inneggiando alle sue indicibili abitudini notturne non è degno di pronunciare la parola famiglia», né di insegnamento, quando alla scuola ha «tagliato risorse, negato dignità agli insegnanti e impoverito i percorsi formativi». Per Italo Bocchino, Fli «sta dalla parte della scuola pubblica» nel solco di Giovanni Gentile e ricorda come alcune privare siano «un diplomicifio» o un lasciapassare per figli di ricchi.
Repubblica 28.2.11
Dal capogruppo pd la proposta, i promotori del raduno del 12 marzo dicono sì
"Ora in piazza, come le donne" l´idea di unirsi al Costituzione-day
di Marina Cavalieri
ROMA - Tra polemiche, battute, dichiarazioni, spunta anche l´idea della piazza. Circola il progetto di una grande manifestazione in difesa della scuola pubblica, senza bandiere di partito. Solo con il tricolore. «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere, a difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi». È questa la proposta lanciata su twitter da Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera. Una manifestazione trasversale che sappia mobilitare il popolo della scuola, dai professori a cui si chiede di stare in prima linea alle famiglie che vedono tagliato il tempo pieno, agli studenti a cui si nega il futuro. La proposta non è stata fatta ancora in modo formale ma subito è stata ripresa e rilanciata: l´iniziativa potrebbe coincidere con la manifestazione del 12 marzo in difesa della Costituzione.
«L´assalto di Berlusconi alla scuola pubblica è un altro colpo alla Costituzione e al principio di uguaglianza. Non vi è dubbio che la giornata unitaria del 12 marzo "A difesa della Costituzione" potrà e dovrà mettere al centro dell´attenzione la difesa della scuola pubblica che è parte essenziale della Carta», commenta Giuseppe Giulietti, a nome del Comitato promotore della manifestazione del 12 marzo. «Sulla difesa della scuola pubblica dagli ultimi attacchi del premier c´è trasversalità e volontà di difesa comune. Le dichiarazioni, da quelle di Italo Bocchino a Nichi Vendola, da Antonio Di Pietro alla Federazione della sinistra e di tante associazioni, vanno tutte nello stesso senso». L´idea di una manifestazione trova favorevoli i Verdi: «Sull´istruzione pubblica è giusto, anzi è doveroso mobilitarsi e scendere in piazza perché da questo dipende il futuro del nostro paese», ha detto il presidente nazionale Angelo Bonelli.
Sono però divisi i sindacati della scuola. Favorevole la Cgil: «È un´idea giusta, può essere un momento di mobilitazione importante, gli attacchi alla scuola pubblica di Berlusconi sono anche un attacco alla Costituzione», dice Mimmo Pantaleo, segretario Flc-Cgil. Contraria invece la Cisl: «Di tutto ha bisogno la scuola meno che di contrapposizioni politiche, la scuola non può essere terreno di scontro», ha detto Francesco Scrima. Dello stesso parere Paolo Nigi, segretario dello Snals, sindacato autonomo: «Non vedo i motivi di una manifestazione per la scuola pubblica, il governo ha cercato piuttosto di ridare serietà e credibilità alla scuola».
E gli studenti? Dopo le mobilitazioni dell´autunno preparano nuove scadenze ma sul 12 marzo ancora non si pronunciano: «Come studenti non staremo fermi ma preferiamo essere noi a decidere le nostre mobilitazioni». Intanto, domani alle 17.30 davanti a Palazzo Chigi ci sarà un sit in difesa della scuola pubblica promosso dal Pd.
l’Unità 28.2.11
E ora giù le mani dal sapere:
la scuola è di tutti, è per tutti
È paradossale e inaccettabile che un presidente del Consiglio, chiamato a incarnare e tutelare la cosa pubblica, attacchi frontalmente la scuola pubblica e quindi milioni di persone che in questa credono e alla quale quotidianamente dedicano, in condizioni spesso molto difficili, la loro personale fatica: DIFENDIAMOLA.
Silvio Berlusconi parla di principi (da che pulpito!) e insulta la scuola pubblica e gli insegnanti. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini invece di chiedergli conto e/o dimettersi, difende il premier andando ad infoltire la già nutrita pattuglia degli avvocati del premier.
Ma sono sono in tanti a indignarsi e a chiedere, non comizi, ma politiche a favore della scuola pubblica, cioè della scuola per tutti. Dal nostro giornale parte un appello e una raccolta di firme a difesa della scuola pubblica, e per dire che è inaccettabile oltre che paradossale che il capo di un governo attacchi frontalmente uno dei perni del Paese che rappresenta e che dovrebbe governare. Allo stesso tempo non si può stare zitti di fronte all’offesa portata a migliaia di insegnanti che, grazie a questo governo, hanno subito tagli alle retribuzioni e ai diritti e ogni giorno vedono deperire le loro scuole vinte dalla scarsità di risorse e avvilite da riforme inutili oltre che dannose.
L’appello (il testo è nella pagina a fianco) è stato raccolto da personalità della cultura, del sindacato, della politica. Aderiscono, tra gli altri, Don Luigi Ciotti , Marco Rossi Doria, Nicla Vassallo, Luca Formenton, Raffaele Cantone, Vittorio Lingiardi, Evelina Christillin, Chiara Valerio, Mila Spicola, Goffredo Fofi, Luigi Manconi, Fabrizio Gifuni, Moni Ovadia, Sonia Bergamasco, Pippo Del Bono, Vincenzo Consolo, Lirio Abbate, Emma Dante, Giancarlo De Cataldo, Roberta Torre, Mimmo Pantaleo, Benedetto Vertecchi, Beppe Sebaste. A questi primi firmatari (l’elenco completo su www.unita.it) si sono aggiunte in poche ore le firme di circa cinquemila lettori dell’Unità on line.
l’Unità 28.2.11
L’ultimo atto di un regime autoritario
L’offensiva contro la scuola pubblica
di Francesca Puglisi
Ora Berlusconi punta a distruggere il luogo dove si formano le coscienze, dove le menti imparano a ragionare liberamente e si sviluppa lo spirito critico. Ecco perché infanga gli insegnanti e taglia risorse e personale alle scuole dello Stato, dirottando soldi verso istituti elitari. È un regime autoritario che, anziché prendere il potere con le armi, lo afferra occupando le istituzioni. Difendere la scuola pubblica, il valore delle donne, la legalità, l'informazione libera e la Costituzione, è in realtà la medesima battaglia. È il diritto di “ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità”, come disse Calamandrei.
La pervicace e instancabile guerra di Berlusconi e dei suoi sudditi ministeriali Gelmini e Tremonti alla scuola pubblica, è la volontà precisa di chiudere il cerchio della sua azione politica: dopo aver preso possesso del 90% dei mezzi di informazione, dopo aver delegittimato in ogni modo la magistratura, dopo aver istituito un federalismo zoppo che favorirà le mafie internazionali, come già ricordava Raffaele Cantone qualche giorno fa a Napoli, ora quel che gli manca è debellare l'avversario più pericoloso: la scuola pubblica. Perché è lì che nasce il nemico di ogni dittatura, di ogni integralismo, di ogni illiberalità: il pensiero. Di recente, il presidente Oscar Luigi Scalfaro ci ha messo in guardia dal tentativo di sovversione dell’ordine democratico in atto, un tentativo che non viene fatto con i carri armati, ma con le televisioni e le leggi, entrambe asservite al potere di uno solo, mentre i cittadini sono lasciati soli, sempre più spesso in situazioni di forte disagio economico e sociale che ci riportano indietro di decenni.
Pensare dà fastidio al potere, perché, come cantava Lucio Dalla, il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare... e questo non lo possono sopportare i Gheddafi, i Putin, i Mubarak e i Berlusconi d'ogni sorta e colore. La scuola fornisce non solo nozioni, ma soprattutto gli strumenti di analisi per crescere cittadini consapevoli. La scuola fa crescere insieme, valorizza le differenze, tiene uniti i bambini nella convinzione che saranno loro i mattoni per costruire il futuro. La scuola è l'oceano dove nuota il libero pensiero.
Oggi quest'Italia, geograficamente e simbolicamente al confine fra l'Europa e l'Africa, è a un bivio: se sarà capace di difendere la scuola pubblica, sarà capace di avere un futuro, altrimenti sarà condannata a un eterno passato, quello dove non ci sono presidenti ma dittatori, non diritti ma concessioni, non cittadini ma sudditi. Torniamo in piazza, in un'alleanza di popolo, come abbiamo fatto il 13 febbraio. Se saremo uniti, anche la nostra opposizione politica nelle istituzioni sarà più forte. Salviamo la scuola pubblica, mandiamoli a casa.
Repubblica 28.2.11
Il Cavaliere pronto a tutto per l´appoggio della Chiesa
di Nadia Urbinati
QUANTO CI COSTERÀ IN TERMINI DI BENI PUBBLICI come la legge, la scuola, i diritti individuali la sopravvivenza di questo governo? La domanda non è per nulla retorica visto lo stile da riscossa ideologica con il quale un presidente del Consiglio sempre più debole, in picchiata nei sondaggi, cerca di riprendere in mano le sorti della sua carriera politica.
Alla disperata ricerca di sostegno nei settori dell´opinione pubblica a lui più tradizionalmente vicini, il premier ha messo in cantiere un sostanzioso paniere di beni pubblici da offrire alle gerarchie vaticane in cambio di un appoggio. La cronologia non inganna. Il 18 febbraio la delegazione del governo italiano, guidata da Berlusconi incontra la delegazione vaticana con Bertone e Bagnasco. Al centro del colloquio i temi di politica interna e di cosiddetta etica: l´assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri, la legge sul fine vita, la scuola paritaria e il "quoziente familiare". Il vertice è cortese ma si svolge con qualche imbarazzo: non c´è, ad esempio, il faccia a faccia con il premier. "Non era previsto", fa sapere il Vaticano. Berlusconi deve cercare di recuperare punti nei confronti della gerarchia cattolica. Ed ecco il discorso di due giorni fa: dopo solo una settimana egli rende al Vaticano ciò che aveva promesso e nel nome della libertà dell´individuo di cercare la propria felicità e "farsela" con le "proprie mani", assesta una serie di colpi durissimi ai diritti di libertà e poi al bene pubblico della scuola, un diritto di cittadinanza prioritario.
Lo scambio con le gerarchie vaticane è nel solco dell´oliatissimo e secolare guicciardinismo gesuitico: si metta una pietra tombale sul vergognoso comportamento del premier in cambio di sostanziose concessioni sui diritti e la scuola confessionale (sofisticamente detta "privata"). All´autorità che ha il dovere legittimo di sottoporre la vita e la realtà mondana al giudizio morale nel nome di principi non compromissibili, come sono quelli del Vangelo, viene proposto di patteggiare su quei principi in cambio del ridimensionamento della scuola pubblica a favore della propria scuola di indirizzo religioso e dell´opposizione del Parlamento a ogni legge che cerchi di riconoscere le coppie omosessuali e che consenta l´adozione di bimbi da parte di adulti non sposati. Alla ricerca di una benedizione curiale il più immorale degli italiani si erge a educatore e modello di moralità, di sacralità e vocazione educatrice della famiglia. E tutto questo nel nome della libertà! La libertà dei genitori "di inculcare ai loro figli quello che essi vogliono" – come se i figli fossero proprietà dei genitori alla pari di un´automobile o di un´abitazione con la quale fare "quello che si vuole". Quel che a noi cittadini preme e deve premere non è come la Chiesa si comporterà di fronte alla tentazione di un "patto diabolico". Ciò che a noi preme soprattutto è l´uso di un bene pubblico – quindi non disponibile - per ragioni private, privatissime anzi.
Il premier in bilico sa quanto sia determinante l´appoggio della Chiesa. E´ allora disposto a dileggiare gli insegnanti (da molti dei quali ha tra l´altro ricevuto il voto tre anni fa) in una strategia retorica che serve a gettare discredito sulla scuola pubblica per poi preparare il terreno ideologico che giustifichi ulteriori decurtazioni di mezzi e risorse all´istruzione. Non a caso il Giornale di famiglia, ieri puntava tutto sulla strategia seduttiva del Cavaliere nei confronti dei cattolici: intervista al cardinal Bagnasco e ampio risalto al discorso di Berlusconi in prima pagina e nelle pagine due e tre. Sulla scuola, spiega Il Giornale, "Berlusconi gioca di sponda con la Santa Sede sostenendo di fatto la scuola privata. Perché, spiega, ‘gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie´". In nome della libertà del premier – libertà dalla legge prima di tutto - tutti gli italiani dovrebbero vivere secondo le idee e le leggi che convengono al premier e a chi lo sostiene: questo è il senso della libera ricerca della felicità nell´Italia contemporanea.
La Stampa 28.2.11
Intervista al vescovo Negri: il male sono i Dico e le leggi laiciste
«La moralità del premier conta meno della famiglia»
«Il giudizio dipende dall’impegno per il bene comune»
di Giacomo Galeazzi
Da sempre alla Chiesa interessa ciò che un governante fa per il bene comune. Sul piano della condotta individuale indirizziamo a Berlusconi le stesse raccomandazioni rivolte a chiunque altro. Sui comportamenti personali il giudizio spetta solo a Dio». Il vescovo ciellino di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, esponente di primo piano della Cei e presidente della fondazione per il Magistero sociale della Chiesa, interrompe i preparativi per la visita del Papa nella sua diocesi e benedice il «clima costruttivo» tra le due sponde del Tevere: «Ci sono le condizioni per orientare cattolicamente la restante parte della legislatura verso i principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di istruzione». Il no del premier alle adozioni dei single e alle unioni gay (in contemporanea all’esortazione alla pacificazione tra i poteri contenuta nell’intervista del cardinale Bagnasco al «Giornale» della famiglia Berlusconi) sono «segnali positivi di disponibilità alla cooperazione per l’interesse generale dell’Italia». E «le incoerenze etiche di un governante non distruggono il benessere e la libertà del popolo, gli attacchi alla famiglia e alla sacralità della vita devastano la vita sociale».
Si aspetta più impegno del governo sui temi cari alla Chiesa?
«Ci sono margini per un’azione più incisiva dei cattolici nella vita pubblica. La democrazia non si fa con l’ingegneria costituzionale. Manca un rapporto equilibrato tra la politica e un apparato giudiziario autoreferenziale e indipendente nei suoi atti. Le priorità sono la salvaguardia della vita dal concepimento alla fine naturale, della famiglia eterosessuale (l’unica feconda), della possibilità per la Chiesa di svolgere l’azione formativa e culturale tra la gente».
Non imbarazzano gli scandali del premier?
«Se esistono reati tocca alla legge stabilirlo, è inammissibile condannare a priori. Un politico è più o meno apprezzabile moralmente in base a quanto si impegna a vantaggio del bene comune, cioè di un popolo che viva bene e di una Chiesa che operi in piena libertà. Non è edificante sentir evocare anche in ambienti cattolici l’indignazione, il disprezzo, l’odio verso l’avversario politico. A far male alla società sono i Dico, la legislazione laicista, la moralità teorizzata e praticata da quanti ci inondano di chiacchiere sulla rilevanza pubblica di taluni comportamenti privati».
Quale rischio teme?
«Una disarticolazione di poteri che la Costituzione vuole convergenti. La moralità personale è importante e Berlusconi va richiamato come tutti, ma nella sua storia la Chiesa interviene sulla promozione del bene comune e su ciò valuta un’autorità pubblica.In due anni e mezzo i cattolici potranno incidere di più sulla vita politica e sociale, per esempio contro i registri comunali delle coppie di fatto e il sì al farmaco abortivo Ru486: ci mostrano la moralità pubblica della mentalità laicista e anticattolica che caratterizza le “élites” ideologiche e politiche che pretendono di dominare il Paese».
Corriere della Sera 28.2.11
«Fine vita, meglio non votare questa legge»
Per Fiori si renderebbe «più profonda la spaccatura tra medici favorevoli e non» Il giurista Rescigno: su temi così laceranti c’è un’impostazione sbagliata
di Paolo Conti
ROMA — Il confronto sul Testamento biologico e sul disegno di legge Calabrò che introduce «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» si fa sempre più serrato. Il testo, approvato a palazzo Madama nel marzo 2009, arriverà in aula a Montecitorio il 7 marzo. dopo essere stato sottoposto all’esame delle commissioni parlamentari: ma sta già sta producendo i suoi effetti politici. Nel Pd, per esempio, c’è spaccatura tra laici e cattolici. Per i primi occorrerà votare comunque in funzione anti-governativa contro il disegno di legge anche se di fatto il testo introduce il principio della difesa della vita fino all’ultimo, invece per Giuseppe Fioroni e altri cattolici esistono «valori non negoziabili» e ci si dichiara pronti a presentare altri testi sui quali proporre la convergenza dei cattolici Pdl. Nel Pdl il portavoce Daniele Capezzone si chiede: «Ma davvero serve una legge?» Allineandosi così a una posizione già espressa da Giuliano Ferrara e Sandro Bondi per il Pdl e da Umberto Veronesi per il centrosinistra Oggi, su questo tema, intervengono due interlocutori di diversa radice culturale che da anni si occupano di bioetica e quindi anche di questioni legate proprio ai trattamenti del fine vita. Da una parte Angelo Fiori, emerito di Medicina legale all’università del Sacro Cuore per anni direttore con monsignor Elio Sgreccia della rivista di bioetica «Medicina e morale", » , membro del Comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità. Dall’altra Pietro Rescigno, emerito di Diritto civile a «La Sapienza» fondatore e direttore della rivista «Quaderni del pluralismo» , presidente della Commissione Bioetica dell’Accademia dei Lincei Il dibattito è apertissimo, siamo vicini alla discussione a Montecitorio. Però visto il testo, e analizzati i risultati di un lungo confronto, c’è chi sostiene che sarebbe meglio non legiferare in una materia così complessa, delicata, soprattutto piena di possibili eccezioni. Che ne pensate? Angelo Fiori: «Personalmente ritengo che a questo punto sarebbe molto meglio non votare alcuna legge. Sono convinto che la strada ottimale sia affidarsi ai medici che in certi frangenti così delicati si mostrano in gran parte ragionevoli e coscienti. Tanto più che, a mio avviso, al Testamento biologico ricorrerebbero pochi cittadini, così com’è accaduto con la donazione degli organi. Peraltro l’approvazione di una legge non farebbe che rendere più profonda la spaccatura tra medici favorevoli all’eutanasia e quelli che non lo sono» Pietro Rescigno: «Ho già scritto tempo fa che, soprattutto su temi tanto laceranti, se si teme l’approvazione di una legge sbagliata nella sua impostazione, com’è quella di cui stiamo parlando, allora è molto meglio non varare alcunché. Poi c’è un altro dato giuridico. Il Testamento biologico non contrasta con i principi del nostro sistema e quindi penso sarebbe comunque lecito e anche vincolante. Una volta polemizzai col mio amico Sabino Cassese il quale sostenne che, su materie di forte impatto, è meglio intervenire, magari male, che non farlo. Io penso il contrario...» In questa vicenda emergono diverse problematiche. Il diritto all’autodeterminazione e soprattutto la questione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata nel caso di non coscienza del soggetto, vero elemento di divisione. Di fatto per il disegno di legge Calabrò alimentare e idratare non rientrano nel concetto di terapia ma di nutrimento e quindi non possono essere sottoposte a una dichiarazione anticipata di trattamento. Qual è la vostra opinione? Angelo Fiori: «Qui non c’è da essere cattolici o non cattolici, credenti o non credenti. Togliere il nutrimento o l’idratazione significa sopprimere vite umane per fame e per sete. Come ho scritto tempo fa sulla rivista "Medicina e morale", nei casi di Terry Schiavo e di Eluana Englaro la morte è stata deliberatamente procurata con la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione. La morte non si sarebbe verificata in assenza di questa condotta volontariamente omissiva perché non si trattava di malattie terminali. In più aggiungo che molti portatori di gravissimi handicap ricoverati per esempio al Cottolengo sono alimentati e idratati artificialmente. Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, potremmo immaginare che un domani si potrebbe decidere la sospensione delle "cure"perché rappresentano, mettiamo, un peso per la società. Infine vorrei porre una questione giuridica. Nel Testamento si introduce la figura del fiduciario che dovrebbe far rispettare le volontà del paziente in caso di suo stato di incoscienza. Ma come potrebbe un non medico, per esempio, imporre scelte terapeutiche a un medico?» Pietro Rescigno: «Questo disegno di legge non rispetta il principio di autodeterminazione e, come sostiene l’appello che abbiamo sottoscritto con Stefano Rodotà e altri, si viola chiaramente l’articolo 32 della Costituzione che vieta di fatto ogni trattamento contrario al rispetto della persona umana. E poi, secondo il disegno di legge, il medico viene legittimato a sovrapporre le proprie decisioni a quelle del paziente non cosciente. In quanto al merito della domanda. Nei Paesi in cui il Testamento biologico è stato adottato, e penso alla California tra i primi, nel concetto di "terapia"vengono intesi tutti i mezzi che possono sostenere artificialmente una vita umana. E lì trovano spazio sia l’idratazione che il nutrimento artificiale. In piena onestà posso anche aggiungere che la distinzione terapia-nutrimento è artificiosa perché, nei tanti confronti avuti con i medici su questo tema, mi sembra prevalente il concetto che nell’idea di "terapia"davvero sia comprensivo tutto ciò che sia adottato per "curare". Non vedo dunque perché idratazione e nutrimento non possano trovare spazio in un ordinamento italiano che regoli il Testamento biologico» .
l’Unità 28.2.11
Vendola non ha scadenze: «Candidato anche nel 2013»
Davanti a 4mila persone, lungo comizio del leader di Sel: «Io sono pronto, ma non saremo mai al governo con i finiani»
di Andrea Carugati
Quattromila persone ad applaudire, un’ora e mezzo di comizio dei suoi, torrenziale ed emotivo, per rimettere
Piero Fassino sarà il candidato del centrosinistra alle elezioni per fare il sindaco di Torino
in campo Sinistra e libertà. Le elezioni si allontanano, le primarie anche, la sua immagine è un po’ ammaccata dalle inchieste pugliesi, e Nichi Vendola rilancia. In un teatro tenda alla periferia di Roma, il governatore chiama a raccolta il popolo di Sel: «Siamo in campo», dice ai suoi. E mette in fila le parole-chiave del programma: tanta ecologia, dall’agricoltura biologica alla cura del territoio dissestato, riforma del welfare («Tassiamo stipendi e pensioni al 12,5%»), ruolo chiave dello Stato e dell’interesse pubblico, difesa della scuola pubblica. Cita a più riprese «i giovani» come protagonisti del «patto» per ricostruire il centrosinistra e l’Italia. Insolita la virulenza delle borbate a Berlusconi, a partire dall’attacco del premier ai diritti dei gay: «Altro che liberale, sei un bigotto!», urla Vendola tra gli applausi. «Se avessi un figlio gay quante sofferenze gli provocheresti? Vai a parlare dai cattolici per farti perdonare il “bunga bunga”, ma dov’è Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio?». Al Pd un messaggio chiaro: «Proporre la Bindi alla guida della Grande coalizione non era una provocazione, se volete portare a palazzo Chigi un tecnocrate come Monti o Montezemolo noi ci opporremo con tutti i mezzi. Sul terreno del liberismo non ci avrete mai». E ribadisce: «Ok alla Grande coalizione per cambiare la legge elettorale e fare il conflitto di interessi. Ma noi in un governo politico con i finiani che vogliono privatizzare l’acqua non ci andremo mai». Solo un piccolo accenno alle inchieste pugliesi: «Lo so che lo stritolamento mediatico sarà permanente». E aggiunge: «Queste parole che stiamo dicendo sono un patrimonio collettivo, anche se questo leader si ritirasse». Significa un suo passo indietro? «Assolutamente no», risponde Vendola dietro le quinte. «Era una risposta a chi, nel Pd, mi definisce un fenomeno mediatico. Queste idee contano più della mia carriera pubblica». E se il voto si allontana? «Io sono pronto, ora, nel 2012 o nel 2013. Non ho mai scommesso su una data». Grande spazio alle «rivolte di libertà nel Mediterraneo». Vendola striglia la vecchia Europa «ipocrita e esitante», chiede di allargare l’Ue ai Balcani, alla Turchia, a Israele e Palestina, di costruire un «continente Euromediterraneo». E sull’«allarmismo» sugli sbarchi di profughi, chiude gridando alla destra: «Siete barbari, non c’è politica senza abbraccio a chi soffre. Sono fiero della mia Puglia che accolse migliaia di esseri umani dall’Albania».
l’Unità 28.2.11
Cambia il manuale diagnostico dei disturbi mentali Ed è subito polemica
Dal 2013 verranno escluse alcune patologie della personalità
di Cristiana Pulcinelli
Nel 2013 verrà pubblicata la quinta edizione del manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Il manuale, a cura
dell’American Psychiatric Association (Apa), è un punto di riferimento
per chi si occupa di salute mentale in tutto il mondo. Rispetto
all’ultima edizione, uscita 11 anni fa, ci sono modifiche importanti. In
particolare, gli psichiatri americani propongono di escludere le
diagnosi di alcuni disturbi della personalità, come quelli paranoide,
istrionico, narcisistico e dipendente. La proposta ha già suscitato
polemiche. L’ordine degli psicologi del Lazio giorni fa ha indetto una
giornata di studio in cui si è discusso di un documento da mandare
all’Apa per spiegare le ragioni del dissenso. «L’esclusione può avere
ricadute pesanti – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine
degli psicologi del Lazio – innanzitutto per la clinica: per noi queste
patologie sono pane quotidiano. E patologie per le quali non ci sono
farmaci, che richiedono la psicoterapia. Escluderle dal DSM-5 vuol dire
escludere quella che è una prassi clinica consolidata». Senza
considerare, dice Zaccaria, ricadute pratiche: eliminare il disturbo
narcisistico significa, per esempio, non riconoscere ai pazienti la
possibilità di essere rimborsati da eventuali assicurazioni per la
psicoterapia.
Perché, dunque, se ne propone l’eliminazione? «Sicuramente per
battaglie “ideologiche” tra modelli teorici – spiega Vittorio Lingiardi,
psichiatra e docente alla facoltà di medicina e psicologia alla
Sapienza di Roma in questo caso, tra sostenitori dell’approccio dei
cosiddetti “Big Five Factors” e i sostenitori degli approcci psicologici
sia dinamici sia cognitivi. Ma anche motivi legati ad aspetti economici
e culturali. Le diagnosi eliminate sono quelle meno medicalizzabili o
trattabili farmacologicamente? Oppure, per esempio, su una delle
diagnosi a rischio di scomparsa, non si ravvisano più elementi di
patologia in quello che molti di noi continuano a considerare narcisismo
patologico o maligno, che poco ha a che vedere con il narcisismo
sano?».
Corriere della Sera 28.2.11
Un despota o antico liberatore? Gheddafi imbarazza ancora la sinistra
di Paolo Franchi
Ma chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene. Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?» . Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del manifesto hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.
Repubblica 28.2.11
Il politologo Roy
"La primavera araba non si fermerà il popolo pretende la democrazia"
"Non dobbiamo intervenire con le armi a Tripoli ma sostenere le zone libere dal regime"
L´Occidente deve smettere di tifare per una transizione controllata e appoggiare questi ragazzi
di Francesca Caferri
ROMA- «È un processo irreversibile. Potrà anche vivere momenti di stop, ma ripartirà: il paragone più plausibile è quello con le rivoluzioni del 1848 in Europa». Il politologo francese Olivier Roy è fra i massimi esperti di Islam in Europa: e fra i pochi che, dal suo studio presso l´istituto universitario europeo di Fiesole, non si sia stupito quando il mondo arabo ha cominciato ad esplodere. Per questo le sue parole sul futuro di questo processo sono fra quelle da ascoltare con attenzione.
Professor Roy, scontri di piazza in Egitto e in Tunisia, incertezza e combattimenti in Libia: la primavera araba è già finita?
«No, non lo è. Siamo noi che dobbiamo capire cosa intendiamo quando parliamo di "primavera araba". Questo movimento ha due anime: è una rivolta e una rivoluzione. È una rivolta perché le manifestazioni non erano programmate e non sono ideologiche: non hanno dietro alle spalle leader, né partiti, né agende politiche. Vogliono una sola cosa: la democrazia. Ma è anche una rivoluzione perché vuole cambiare la società dal profondo e perché viene dal mondo reale: dai giovani, dall´oggi».
Quali sono le conseguenze di questa doppia anima?
«La conseguenza in questa fase è che ci troviamo di fronte a due generazioni con obiettivi diversi, a due culture opposte. In piazza sono scesi nuovi protagonisti: giovani arabi educati e non ideologici. Una generazione post-islamista che chiede cose come "dignità" e "rispetto". Ma il controllo delle leve del potere, in Tunisia e in Egitto lo hanno vecchi generali, che si ispirano a un´ideologia politica vecchia, tutta legata al concetto di autorità. Per loro lo Stato è potere e ordine: il vecchio dittatore è partito e ora è l´ora della transizione, che deve essere ordinata. Ma i manifestanti non mollano: vogliono la democrazia, ora. E non una transizione indefinita».
Quindi cosa accadrà?
«Dipende dai Paesi: sono abbastanza ottimista sulla Tunisia, perché la pressione della strada è forte. Meno sull´Egitto, perché il potere dei militari è molto più esteso. La Libia è una storia a parte, e posso solo sperare che l´Occidente non si metta in testa di intervenire militarmente: quello che sta avvenendo in quel Paese è una guerra civile. È giusto mandare aiuti alimentari e fare assistenza nelle zone liberate. Poi ci sono paesi sull´orlo, come lo Yemen. E altri, come l´Arabia Saudita, che hanno abbastanza risorse da distribuire per cercare di evitare che la bolla scoppi».
L´Occidente cosa deve fare?
«Togliersi i paraocchi con cui da 30 anni guarda al mondo arabo: quella paura del nemico Islam, quel modo di vedere ogni movimento in quella zona di mondo come frutto dell´estremismo. È uno schema vecchio, legato alla rivoluzione islamica in Iran: ma attraverso questo schema abbiamo giudicato ogni fenomeno legato a questa zona del mondo, dall´immigrazione alla politica. Oggi è tutto diverso: l´Occidente deve smettere di non credere nei giovani arabi. E deve smettere di tifare per una transizione tranquilla a scapito della democrazia, solo perché, come in Egitto, la transizione è guidata da un esercito pagato dagli Usa. Non ci sarà stabilità solo con la transizione, la stabilità arriverà con la democrazia: la gente vuole democrazia, occorre lavorare per mettere fine alla corruzione e promuovere lo sviluppo economico. Puntare a vere elezioni da cui escano parlamenti rappresentativi, che possano scrivere costituzioni vere».
Non è possibile invece che gli scontri di questi giorni dimostrino che l´Occidente ha ragione? Che i movimenti rivoluzionari siano troppo immaturi per governare il futuro?
«No. Questo è un processo irreversibile. È come il 1848 in Europa. Ci saranno degli stop, dei momenti in cui sembrerà di tornare indietro. Ci saranno reazioni violente: ma il processo che si è messo in moto è ineluttabile e non si fermerà».
l’Unità 28.2.11
Non parlate di Muro: il vento dell’Africa è come un nuovo ’48
Il paragone con il 1989 è fuorviante: le rivolte arabe ricordano quanto accadde nel XIX secolo in Europa
di Anne Applebaum
Ogni rivoluzione deve essere valutata all’interno del proprio contesto, ognuna ha un proprio impatto specifico. Le rivoluzioni si diffondono da un luogo a un altro. Interagiscono in maniera limitata. Il dramma di ogni rivoluzione si rivela separatamente. Ognuna ha i suoi eroi, le sue crisi. Per questo motivo, ognuna ha bisogno di essere narrata per conto proprio».
Potrebbe essere il primo paragrafo di una futura storia delle rivoluzioni arabe del 2011, invece è parte dell’introduzione di un libro sulle rivoluzione europee nel 1848. Nelle ultime settimane un folto numero di persone, me compresa, ha paragonato le folle di Tunisi, Bengasi, Tripoli e il Cairo alle folle di Praga e Berlino di due decenni fa. Ma c’è una differenza fondamentale. Le rivolte urbane che hanno portato alla fine del comunismo hanno seguito dinamiche simili perché scatenate da un singolo evento politico: l’improvvisa ritirata sovietica dal supporto del tiranno locale. Le rivoluzioni arabe, invece, sono prodotto di molteplici cambiamenti economici, tecnologici e demografici, e questi hanno preso forme e significati diversi in ogni nazione. In questo senso ricordano il 1848 molto più del 1989.
Per quanto siano stati ispirati generalmente da idee di liberalismo nazionale e democrazia, i dimostranti del 1848, in maggior parte provenienti dalla classe media, avevano obiettivi molto diversi da paese a paese, così come i loro contemporanei arabi. In Ungheria, chiedevano indipendenza dall’Austria degli Asburgo. In quella che oggi è la Germania, puntavano ad unire le popolazioni di lingua tedesca in uno stato singolo. In Francia, volevano far cadere la monarchia (di nuovo).
In alcune nazioni, le rivoluzioni hanno portato a macabre lotte tra diversi gruppi etnici. In altre sono state fermate da un intervento esterno.
In effetti, molte delle rivoluzioni del 1848 fallirono. Gli ungheresi cacciarono gli austriaci, ma solo per poco. La Germania non riuscì ad unificarsi. I francesi crearono una repubblica che cadde pochi anni dopo. Costituzioni furono scritte e poi gettate. Le monarchie abbattute e poi restaurate. Lo storico A.J.P. Taylor chiamò il 1848 un momento nel quale «la storia arrivò ad un punto di svolta ma non riuscì a svoltare».
Nel lungo periodo, le idee discusse nel 1848 si sono però infiltrate nella cultura e alcuni dei piani rivoluzionari del 1848 si sono alla fine realizzati. Al termine del diciannovesimo secolo, il cancelliere Otto Von Bismarck unì realmente la Germania, e la Francia diede vita alla Terza Repubblica. Le nazioni una volta dominate dagli Asburgo conquistarono l’indipendenza dopo la prima guerra mondiale. Nel 1849 molte delle rivoluzioni del 1848 vennero giudicate disastrose, ma viste da una prospettiva più lontana, quella del 1899 o del 1919, cambiarono aspetto e apparvero come l’inizio di un cambiamento di successo.
Nel mondo arabo stiamo vedendo persone diverse con obiettivi diverse prendere il controllo delle manifestazioni di piazza, ognuna delle quali deve essere certamente presa in considerazione “nel proprio contesto”, come lo storico scrisse del 1848. In Egitto, le decisioni prese dai militari possono avere un peso non minore delle azioni delle folle. In Bahrein, il conflitto tra Sunniti e Sciiti è chiaramente centrale. Il ruolo dell’Islam non è lo stesso in Paesi diversi come la Tunisia e lo Yemen.
In Libia, il regime ha già dimostrato di essere capace di usare violenza contro la popolazione, mentre altri Paesi non lo hanno fatto. Per quanto sia facile cadere nella tentazione di mettere tutte queste rivolte nello stesso calderone e trattarle come una sola “rivoluzione araba”, le differenze tra questi Paesi potrebbero finire per essere più importanti delle loro similitudini.
È altrettanto vero che, entro il 2012, alcune o forse tutte queste rivoluzioni potrebbero dimostrarsi fallimentari. Le dittature potrebbero venire reinstaurate, la democrazia potrebbe non funzionare, i conflitti etnici potrebbero trasformarsi in violenze etniche. Come nel 1848, un cambio del sistema politico potrebbe richiedere molto tempo e non avvenire attraverso rivoluzioni popolari. La negoziazione, come ho scritto qualche settimana fa, è generalmente un sistema migliore e più sicuro per trasferire i poteri. Alcuni dei dittatori di queste regioni potrebbero alla fine rendersene conto.
Inoltre, pensare al 1848 aiuta a trovare un certo equilibrio. C’è stato un momento, nei giorni più caldi della rivoluzione in Egitto, in cui mi sono trovata seduta nel mio soggiorno, a guardare in diretta Hosni Mubarak parlare agli egiziani. Potevo vederlo parlare, sentire la traduzione, e vedere le reazioni della folla: per un momento, era possibile immaginare di vedere la rivoluzione svelarsi in tempo reale. Ma potevo vedere solo quello che le macchine da presa stavano mostrando, e molte delle cose importanti erano invisibili. Ad esempio, gli uomini in divisa che negoziavano dietro le quinte.
La televisione crea l’illusione di una narrativa lineare e dà agli eventi le sembianze di una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. La vita reale non funziona così; il 1848 non ha funzionato così. È utile considerare il disordine della storia, di tanto in tanto, perché ci ricorda che il presente non è diverso.
l’Unità 28.2.11
Il futuro dell’Egitto: un’altra Turchia o un nuovo Iran?
di Stephen Kinzer
Il regime corrotto e repressivo di un dittatore diventa insopportabile quando la gente capisce che la sua famiglia intende conservare il potere per sempre. A quel punto emerge un movimento popolare che abbraccia ogni strato della società. Ed infine, quasi d’incanto, la famiglia che ha tiranneggiato una nazione per decenni, svanisce nel nulla. La gente prova un sentimento di euforia e d’improvviso scorge possibilità prima impensabili per sé e per il proprio paese. Tutti vogliono la stessa cosa: la democrazia e un posto rispettato nel consesso delle nazioni. È un momento sublime e raro della storia.
È accaduto in Nicaragua nel 1979. In quell’anno di trasformazioni violente ero inviato in quel Paese e ho potuto vedere quanto rapidamente può svanire l’euforia della vittoria. Con ogni probabilità questo mese – il febbraio del 2011 – sarà ricordato come il momento di massima unità degli egiziani. L’esempio del Nicaragua dimostra che debbono goderselo finché dura perché è probabile che possa svanire alla svelta.
Il raffronto tra le due rivoluzioni non è esattamente calzante. Il dittatore dinastico del Nicaragua, Somoza Debayle, fu deposto da un movimento di guerriglieri mentre il presidente Hosni Mubarak è stato rovesciato dal dilagare delle manifestazioni pacifiche di protesta. E ci sono scarse analogie tra un poverissimo, isolato Paese di tre milioni di abitanti e un Paese che vanta una cultura millenaria, un tradizionale potere regionale e 85 milioni di abitanti, tra cui un ceto medio di proporzioni non indifferenti. E non di meno la ribellione in Nicaragua e in Egitto è figlia delle medesime frustrazioni e dagli stessi sogni idealistici. La rivolta del Nicaragua non ha dato buoni frutti. Il Paese è in pace, ma è più povero di prima e non ha avuto alcuno sviluppo democratico.
Cosa è accaduto? Ideologie tra loro in conflitto alimentate dall’inesperienza dei nuovi leader hanno portato ad una situazione di spaccatura nel Paese. I militari alla lunga si sono rifiutati di cedere il potere ai civili. E alla fine il Nicaragua ha subito una violenta divisione. Le fazioni in guerra hanno cercato appoggi militari dall’esterno e il Paese è diventato teatro di tremendi spargimenti di sangue. A quattro anni da una rivoluzione appoggiata dal 90% dei cittadini del Nicaragua, il Paese era alle prese con la guerra civile. L’Egitto corre rischi analoghi. Il dittatore non c’è più, ma le strutture politiche ed economiche da lui costruite, restano in larga parte immutate. Non è del tutto chiaro in che misura i militari sono disposti a cedere il potere ai civili. La società civile è debole e, con l’eccezione della «Fratellanza Musulmana», ci sono pochi gruppi organizzati. Per delineare il migliore e il peggiore degli scenari possibili che attendono l’Egitto basta dare uno sguardo ai Paesi confinanti. Se tutto andrà bene, l’Egitto potrebbe diventare la Turchia del mondo arabo: una democrazia aperta ad economia capitalistica, fondamentalmente filo-occidentale anche se fortemente conraria alle politiche degli Usa in Medio Oriente e governata da musulmani osservanti che riservano alla religione uno spazio nella vita pubblica.
All’estremo opposto c’è l’Iraq. Le divisioni tra clan in Egitto non sono pronunciate come in Iraq, ma in entrambi i Paesi, un lungo periodo di stagnazione ha impedito l’emergere di una visione comune degli obiettivi e dell’identità della nazione. Ben presto gli egiziani potrebbero sentirsi frustrati dal presunto tradimento della rivoluzione. Nel caso in cui l’Egitto avviasse un processo di pacifica transizione verso la democrazia, inevitabilmente diminuirebbe il potere dell’esercito. Una pacifica transizione verso la democrazia in Egitto indurrebbe anche i popoli degli altri Paesi arabi a giungere alla conclusione che si trovano dinanzi ad un bivio: autocrazia o libertà. Tuttavia i dittatori vogliono che i popoli giungano ad una conclusione diversa, cioè a dire che la scelta è tra autocrazia e terrore. Fomentando il terrore in Egitto potrebbero conservare il potere. Tutti e tre i potenti regimi religiosi del Medio Oriente hanno interesse a non far consolidare la democrazia in Egitto. Per l’Arabia Saudita e Israele, un Egitto pacifico e democratico sarebbe un rivale pericoloso nei confronti di Washington. Per l’Iran rappresenterebbe la fine dei suoi sogni di egemonia regionale. Tutti e tre questi Paesi auspicano un Egitto instabile e potrebbero essere persino disposti ad agevolare questa instabilità. Conflitti interni che diventano vere e proprie guerre civili per conto di Paesi stranieri: questa spirale ha distrutto l’unità nazionale in Nicaragua e, più di recente, in Iraq. Ed ora la medesima spirale minaccia l’Egitto. Le polemiche sul ruolo dell’esercito metteranno presto in pericolo l’unità nazionale di cui sembra godere al momento l’Egitto. La gente capisce che l’esercito è essenziale ai fini di una transizione pacifica, ma vuole anche limitarne il potere. Gli egiziani chiedono anche lo smantellamento delle corrotte strutture economiche del regime di Mubarak, ma iniziative in tal senso colpirebbero direttamente l’esercito che ha costruito una fitta ragnatela di investimenti e interessi economici con Mubarak e i suoi sodali. Inoltre i generali egiziani hanno rapporti molto amichevoli con i loro colleghi americani e israeliani e si opporranno ad eventuali richieste di drastici cambiamenti della politica dell’Egitto nei confronti di Israele.
Nel corso della storia pochissimi sono stati gli esempi di militari che si sono ritirati tranquillamente e spontaneamente nelle loro caserme cedendo il potere ai civili. L’esempio incoraggiante è quello della Turchia dove negli ultimi dieci anni gli elettori hanno notevolmente ridotto il potere in mano ai militari e i generali hanno accettato di farsi emarginare. Ma quel processo ha richiesto una generazione.
In Egitto l’esercito ha deciso di abbandonare Mubarak perché ha capito che per salvare il sistema era necessario sacrificare il suo dittatore. Tuttavia le centinaia di migliaia di persone che hanno riempito piazza Tahrir desiderano abbattere quel sistema. Non è forse così? Gli obiettivi comuni del popolo all’indomani della rivoluzione sono vaghi e confusi. In Egitto due gruppi sono convinti di aver rovesciato Mubarak. I dimostranti pensano che sia uscito di scena a seguito della pressione morale esercitata dalla folla. I comandanti militari, tuttavia, si attribuiscono il merito della caduta di Mubarak. Dal loro punto di vista, hanno organizzato un colpo di Stato per impedire una transizione dinastica e hanno approfittato delle manifestazioni di protesta servendosene come pretesto. Questi due gruppi hanno agende contrapposte e ben presto entreranno in conflitto. Se era necessaria una rivoluzione, allora non c’è ancora stata. E i generali faranno di tutto per impedire che ci sia. Può anche darsi che i dimostranti scendano nuovamente n piazza. L’Egitto sta per affrontare un periodo di instabilità. La Turchia è il suo sogno. Il Nicaragua e l’Iraq il suo incubo.
l’Unità 28.2.11
Intervista a Predrag Matvejevic
«Mediterraneo, l’Italia crede sia un peso»
Secondo lo scrittore l’Europa e il nostro Paese in particolare non vedono i vantaggi che derivano da una maggiore integrazione con i popoli vicini
di Umberto De Giovannangeli
Al Mediterraneo, alla sua storia, ai suoi popoli, alle sue tensioni, alle sue speranze, ha dedicato tre libri di grande successo: «Breviario Mediterraneo» (Garzanti), 11 edizioni, tradotto in 23 lingue, «Il Mediterraneo e l’Europa» (Garzanti), e il recente, «profetico», «Pane Nostro» (Nuova biblioteca Garzanti), uscito due mesi fa, alla vigilia della «rivolta del pane» in Tunisia. Per la sua sensibilità culturale, e per il suo percorso di vita, Predrag Matvejevic è lo scrittore che più e meglio può cogliere il senso e le pulsioni delle rivolte che stanno scuotendo il Maghreb e il Vicino Oriente. Guardando all’Italia, Matvejevic riflette amaramente: «Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo». Nella sua ultima fatica letteraria, «Pane Nostro», Matvejevic trasforma il più umile dei prodotti in una grande metafora, un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare, ma accomunate da un retroterra culturale identico. «Una comunanza dice a l’Unità che gli eventi di questi mesi, di questi giorni, tendono a rafforzare, solo che se ne colga l’essenza più profonda». Una «essenza» di libertà.
Professor Matvejevic, qual è a suo avviso la portata degli eventi che dalla Tunisia alla Libia, dall’Egitto al Bahrein, stanno sconvolgendo la sponda Sud del Mediterraneo? «L’evento è comparabile con il grande sisma che si produsse in Europa con la caduta del Muro di Berlino nel 1989; un sisma che provocò la disgregazione dell’Urss e dell’impero sovietico. Allora assistemmo ad un effetto domino che segnò tutta l’Europa dell’Est, ed oggi lo stesso avviene in questo spazio che va dalla Tunisia all’Asia minore. Detto delle analogie, c’è però un differenza da rilevare...».
Quale?
«Sulla sponda Sud del Mediterraneo e nei Paesi arabi non abbiamo visto un Gorbaciov, né un Lech Walesa o un Vaclav Havel, vale a dire grandi personalità portatrici di una proposta concreta, di lungo respiro. A muovere le rivolte c’è stata una doppia “fame”: quella materiale, ad esempio in Tunisia – e qui c’è la coincidenza con il mio ultimo libro “Pane nostro” uscito due mesi fa – e una “fame” di diritti, di futuro. Ma questa seconda “fame” non ha ancora trovato personalità capaci di rappresentarla, di trasformarla in una visione strategica, in progetto. Vecchie nomenclature sono state spazzate via ma sulle macerie dell’”ancien régime” arabo stenta ancora a fiorire una nuova classe dirigente...».
In questo scenario, l’Europa?
«L’Europa ma più in generale l’Occidente, deve affrontare questo “sisma” prendendo atto delle sue responsabilità, della sua colpevolezza. Sappiamo che la Francia ha sostenuto Ben Ali, l’Italia Gheddafi, gli Stati Uniti soprattutto Mubarak. Scelte di comodo, miopi, che in nome della “Stabilità” sacrificavano principi e diritti che pure si sostenevano universali...».
Ed oggi?
«Oggi siamo di fronte a cambiamenti epocali. Tutti temiamo che l’islamismo radicale possa esercitare un pe-
so più grande rispetto ad altri movimenti non così ancora ben definiti, sia sul piano organizzativo che su quello identitario. In alcuni di questi Paesi, come l’Egitto, i movimenti islamici possono contare su un consenso del 30% della popolazione; un consenso che potrebbe accrescersi tra popolazioni che non hanno vissuto una sufficiente laicità. Ma questa “deriva” islamista può essere evitata non demonizzandola ma dando credito, stabilendo rapporti, riconoscendo che in questo “sisma” si muovono, sono attivi gruppi, movimenti che hanno scommesso sulla possibilità di coniugare Islam e democrazia, tradizione e modernità, e che cercano con l’altra sponda del Mediterraneo, con l’Europa un dialogo alla pari. Sta a noi non tradirli. Una cosa è certa: l’effetto domino non si fermerà. Esso potrebbe estendersi in altri Paesi dell’Asia e dell’Africa sub sahariana. Alcuni temono, e altri sperano, che si riproduca in Cina e in Corea del Nord...Sulla scacchiera mondiale, in un mondo globale, vediamo aprirsi crepe sempre più profonde ed estese che stanno cambiando la storia davanti ai nostri occhi, in tempo reale».
Di nuovo emerge il tema del ruolo
dell’Europa...
«Purtroppo l’Europa non si occupa del Mediterraneo. Abbiamo visto il fallimento della Conferenza di Barcellona dopo il naufragio della proposta del presidente francese Nicolas Sarkozy di dar vita a una Unione del Mediterraneo, proposta accolta male da diversi Paesi europei che pesano e molto, a cominciare dalla Germania. Per quanto riguarda l’Italia, il discorso si fa triste. Al di là delle belle parole, l’Italia è priva di una politica mediterranea adeguata. È nel cuore del Mediterraneo ma non sembra avere a cuore il Mediterraneo. Tutto viene vissuto in termini di minaccia e inserito in una logica emergenziale: i respingimenti in mare, le impronte digitati da prendere ai bambini rom...Sulla paura non si costruisce nulla di buono».
Un tratto caratterizzante, al di là delle specificità nazionali, del “sisma” maghrebino ed egiziano, è il protagonismo dei giovani...
«Ed è ciò che fa ben sperare. Perché i giovani coniugano valori e aspettative al futuro e non al passato. Ed è un discorso che non riguarda solo quei Paesi in cui si sono sviluppate le rivolte. Ed è un discorso che riguarda anche l’Italia. Io ho insegnato per 14 anni all’Università La Sapienza di Roma, e ho avuto modo di veder crescere, maturare, formarsi tantissimi giovani capaci, preparati, che per trovare la loro strada hanno dovuto cercarla all’estero. Questo fenomeno è ancora più grande sulla sponda Sud del Mediterraneo, dove tanti giovani hanno acquisito una cultura tecnologica moderna, anche nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione: Internet, Twitter, Facebook... Chiedono di poter realizzare le loro aspettative e si scontrano con regimi anacronistici, con gerontocrazie che hanno come ambizione quella di fermare il tempo...Lo scontento dei giovani è naturale. La loro rabbia è salutare. Come l’insopprimibile bisogno di cambiamento che li anima».