l’Unità 1.3.11
Bell’Italia che non si ferma più: l’8 per le donne, il 12 per tutti
Ancora lì, piazza del Popolo Per difendere la Costituzione
Il ponte rosa: «Incontriamoci ovunque, è il nostro risorgimento»
Il 12 marzo «Costituzione Day». A Roma corteo da piazza Repubblica a piazza del Popolo per difendere i diritti sotto attacco. Sul palco studenti e precari. Adesioni da Fli a Rifondazione.
di Andrea Carugati e Mariagrazia Gerina
«Costituzione Day, l’Italia s’è desta» è il titolo della manifestazione che il 12 febbraio attraverserà le strade della Capitale per difendere la Carta e tutti i suoi principi, a partire dall’equilibrio tra i poteri, la scuola pubblica, la libertà di informazione. Grande corteo da piazza della Repubblica e traguardo a piazza del Popolo, la stessa che il 13 febbraio ha ospitato la grande manifestazione delle donne.
L’idea della manifestazione è partita da Articolo 21, e via via si è allargata di promotori e adesioni, dall’Anpi alla Tavola della Pace, il Popolo Viola, la Rete degli studenti medi e gli universitari dell’Udu, gli artisti del Movem (Movimento emergenza cultura), Libera informazione di Don Ciotti, e uno schieramento di forze politiche «mai visto prima, dai finiani a Rifondazione», spiega Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. L’attacco di Berlusconi alla scuola pubblica ha aggiunto un’altra caratterizzazione forte alla manifestazione, che sarà quindi anche una trincea in difesa dell’istruzione statale e dei suoi protagonisti, insegnanti e studenti. Ma ormai non passa giorno che il premier non attacchi qualche pilastro fondamentale della Costituzione, ieri è stata la volta del Quirinale e della Corte Costituzionale. «La nostra sarà una piazza a difesa delle istituzioni, dell’unità nazionale, dei diritti», spiega Giulietti. «C’è una convinzione, una preoccupazione condivisa che si voglia superare l’ordinamento costituzionale. Nel mirino non ci sono più solo giudici e giornalisti, ma anche il Parlamento, il Quirinale, la scuola, il mondo del lavoro. Il premier si propone di oscurare tutto ciò che non è riconducile a lui, ogni forma di controllo e garanzia. A rischio non sono solo alcuni poteri, ma i diritti di tutti i cittadini».
Hanno aderito i big del Pd, da Bersani a Franceschini e Bindi, Sinistra e libertà, Italia dei Valori, Federazione della Sinistra, parlamentari di centro come Bruno Tabacci ed esponenti di Fli come Fabio Granata, Flavia Perina e Filippo Rossi di Farefuturo. Ma non ci saranno politici sul palco. Ad aprire la manifestazione sarà una studentessa, tra gli ospiti attesi anche Roberto Vecchioni, cantautore ma anche insegnante per una vita, che ha già aderito all’appello de l’Unità a difesa della scuola. Molti i contatti in corso con artisti e intellettuali, da Roberto Benigni a Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Monica Guerritore, Marco Paolini. Sul palco, spiegano Domenico Petrolo e Giorgio Santelli, del comitato promotore (www.adifesadellacostituzione.it) «anche altri “testimoni” dei diritti negati, di una Carta ancora non applicata nella sua interezza, a partire dai lavoratori precari». I promotori propongono di andare in piazza col Tricolore e una copia della Carta. Colonna sonora l’Inno di Mameli ma anche il Va Pensiero
«che non appartiene alla Lega ma alla storia del Risorgimento, dunque a tutti gli italiani», dice Santelli.
Previste altre manifestazioni satellite in altre città italiane ed europee, come Milano, Torino, Firenze, Bari, Trieste, Catania, Palermo, Catanzaro, Lecce, Aosta. E poi Londra, Parigi, Berlino, Barcellona. Un replay in grande stile del 12 febbraio, dunque. Ma anche un ideale sequel delle piazze sindacali, degli studenti, contro il bavaglio alle intercettazioni. «È una manifestazione senza padri», chiude Giulietti. «Abbiamo solo raccolto le domande di un vastissimo arcipelago».
Con il fiocco rosa fai-da-te al posto delle mimose. Al grido «riprendiamoci l’8 marzo» il comitato Se non ora quando? rilancia la rivolta del 13 febbraio. Stavolta al centro: lavoro e diritto alla maternità per tutte.
di Mariagrazia Gerina
C’è un ponte, ideale e concreto, tra la marea che il 13 febbraio ha invaso le piazze di tutta Italia e del mondo in difesa della dignità delle donne e il moto di rabbia che spinge a far ripartire il tam tam, a riconvocarsi di nuovo in piazza, il 12 marzo, per difendere, stavolta, la dignità della scuola pubblica. Quel gruppetto di donne apripista «non chiamatelo comitato centrale, per carità» che ha dato il la alla rivolta del Se non ora quando lo spiega richiamando l’attenzione, alla vigilia dell’8 marzo, su un dato concretissimo. Che sono soprattutto le donne con la loro presenza «massiccia, in qualche caso totale» nella scuola pubblica di ogni ordine e grado, ad affrontare «con straordinario impegno e dedizione, percependo stipendi bassissimi... uno dei compiti più delicati e decisivi per la comunità nazionale: l’educazione e la formazione delle nuove generazioni». Per «noi che abbiamo rivendicato rispetto e dignità per le donne, tutte», l’«incredibile e stupefacente», aggressione verbale del presidente del consiglio alla scuola pubblica ha anche questo «particolare rilievo», spiegano le promotrici del 13 febbraio, che aderiscono all’appello de l’Unità. E lanciano una sorta di gemellaggio con le piazze dell’8 marzo: «In tutte le iniziative non si potrà non esprimere solidarietà alle insegnanti e agli insegnati della scuola pubblica italiana».
Non sarà un secondo 13 febbraio, non ci sarà un’altra prova di piazza, ma l’adesione senza precedenti a quel tam tam dal basso dice che questo sarà un 8 marzo diverso da tutti gli altri. «Incontriamoci fuori dagli asili, nei parchi, nei luoghi di lavoro, nelle unviersità...», suggeriscono le organizzatrici del 13 febbraio, che in attesa di vedere come si autorganizzerà la rete presidi, flash mob, cortei, assemblee (loro il presidio lo hanno fissato nella multietnica piazza Vittorio, a Roma, da cui partiranno i pulmini con altoparlante stile «è arrivato l’arrotino...») lanciano come simbolo di questa nuova capillare mobilitazione un fiocco rosa fai-da-te, al posto delle solite mimose. Da appuntare al cappotto, da mettere sulla borsa o sulla macchina, da appendere ai semafori, ai pali, alle statue. A suggerire una specie di nuovo «risorgimento», guidato dalle donne. Al grido: «Rimettiamo al mondo l’Italia. Se non ora quando?».
Lavoro, interventi contro la precarietà, maternità come diritto di cittadinanza, indennità garantita a tutte e a carico della fiscalità generale, congedo di paternità obbligatorio, norme che impediscano il licenziamento “preventivo” delle donne. Il risorgimento rosa passa di qui, secondo le promotrici del Se non ora quando?, che suggeriscono di mettere questi temi al centro dell’8 marzo. Certo non ci sono solo loro. «Noi, collettivi femministi romani, organizzeremo una Street Parade da Porta Maggiore, per riprenderci la notte», si alza in piedi, Cinzia, 30 anni, di Donne Da Sud. «E non sono tanto d’accordo sul vostro appello, per noi 8 marzo è anche informazione nelle scuole, aborto, Ru486, la retorica del fiocco rosa è un po’ stucchevole».
Che il tentativo del comitato organizzatore di traghettare oltre il 13 febbraio la rivolta delle donne sia un work in progress è fin troppo chiaro. Però, rivendica la “futurista” Flavia Perina, è questo il bello. Lo spirito movimentista non va imbrigliato, dice rinnovando l’appello al dialogo anche alle donne del Pdl che si riuniranno in assemblea il 5 marzo. «La manifestazione del 13 è stata così bella perché ogni donna l’ha presa nelle sue mani», dice la Sel Cecilia D’Elia. Poi verranno le assemblee. E magari anche gli Stati generali delle donne, come suggerisce qualcuna. «Non avete idea azzarda una militante di cosa ci sia fuori di qui, in questo paese».
l’Unità 1.3.11
Pubblica Istruzione
Già in ventimila con l’Unità
E oggi sit-in a Palazzo Chigi
Ventimila firme all’appello dell’Unità in difesa della scuola pubblica in poche ore. Su unita.it, il nostro sito, hanno aderito studenti, insegnanti ma anche intere famiglie, ragazzi e pensionati, operai e intellettuali. Sono indignati, arrabbiati. Perché, scrive un lettore, «questa inaudita devastazione della scuola pubblica che è anche devastazione della democrazia».
E insieme alle adesioni dei cittadini continuano ad arrivare quella degli uomini e delle donne della cultura, della politica: Raffaele Cantone, il comitato Se non ora quando, il Cidi, Luisa Mattia, Loredana Lipperini, Roberto Vecchioni, Jovanotti, Neri Marcorè, Nichi Vendola, Moni Ovadia, Mario Martone, Marco Baliani, Giuseppe Montesano, Vincenzo Cerami, Giulio Scarpati, Emma Dante e tanti altri che di ora in ora firmano la nostra petizione e la rilanciano. E in attesa della grande manifestazione del 12, per oggi alle 17.30, il Partito Democratico ha promosso un sit-in sotto Palazzo Chigi (via del Corso, lato Galleria Colonna) in difesa di una scuola pubblica garanzia della libertà. Saranno presenti tra gli altri i capigruppo Pd di Camera e Senato, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro e la presidente dell'assemblea nazionale del Pd e vicepresidente della Camera Rosy Bindi. «È inconcepibile che, nel pieno di un'emergenza economica e sociale come quella che stiamo attraversandocommenta la responsabile Scuola della segreteria Pd, Francesca Puglisiil governo, nelle persone del presidente del Consiglio e del ministro della Pubblica istruzione, taglino e smontino progressivamente il cuore del sapere e della formazione dei giovani».
l’Unità 1.3.11
Adesso basta, meritiamo rispetto
C’è una classe politica che offende e mortifica continuamente la scuola italiana. Contro la democrazia, contro la Costituzione
di Sofia Toselli
Adesso basta, basta insulti. La fatica di insegnare e apprendere, la fatica di crescere, merita rispetto, attenzione e cura.
E una classe politica che non è capace di capire questa verità elementare offende e mortifica continuamente la scuola italiana,con ogni atto e con ogni parola da quasi tre anni, fa al Paese l’offesa più grande.
Qui non si tratta solo di non investire sul futuro dei nostri figli, questo purtroppo gran parte dell’Italia lo ha capito da tempo, qui si tratta, se possibile, di vero e proprio disprezzo.
Tutti i giorni gli insegnanti sono impegnati, attraverso il confronto delle idee, nello sforzo di istruire e educare cittadini liberi, colti, capaci di pensiero autonomo.
Questo è il compito prioritario della scuola pubblica. Come si fa perciò a dire che gli insegnanti vanno contro l’interesse dei genitori?
In realtà si vuole attaccare la scuola pubblica per imporre omologazione, aggredire la Costituzione e in sostanza il futuro democratico del nostro paese.
l’Unità 1.3.11
Il 12 in piazza per il futuro di tutti
Vogliamo un Paese migliore, dove i diritti non siano privilegi e l’istruzione pubblica la base da cui costruire
di Sofia Sabatino
Siamo studenti e studentesse che vivono in un paese in cui le regole democratiche vengono continuamente messe in discussione proprio da chi invece dovrebbe difenderle. Abbiamo difficoltà a riconoscere l’Italia che ogni giorno viene narrata dai tg come qualcosa che ci appartiene, sentiamo forte il peso di un Paese che non ci considera soggetti attivi e pensanti,che si fa beffa del nostro profondo disagio e della nostra condizione di precarietà. Siamo studenti e studentesse che credono però che esista
un Paese migliore, che l’Italia non sia fatta soltanto da politici corrotti, imprenditori senza scrupoli, mafia e favoritismi. Ogni giorno ci impegniamo per cambiare questo Paese, partendo dalle scuole, dalle università e dai luoghi della formazione ed è per questo che per noi 150 anni di unità non sono una questione da poter liquidare con dibattiti sterili, sulla chiusura o apertura delle scuole e dei luoghi di lavoro il 17 marzo, su populiste questioni sulle differenze economiche e culturali tra Nord e Sud. Crediamo che 150 anni di unità vogliano dire 150 anni di diritti e di democrazia. Siamo quegli studenti che leggono, discutono e conoscono la Costituzione Italiana, che si emozionano quando sentono parlare i padri costituenti e i partigiani che hanno liberato e costruito un paese democratico. Gli stessi studenti che rabbrividiscono quando la Costituzione viene vista dai partiti e dalle forze politiche come qualcosa da osannare o calpestare a seconda dello schieramento. Crediamo che la Costituzione sia ciò che dovrebbe garantire le nostre libertà, i nostri diritti, la nostra democrazia. Assistiamo invece ad un Paese che va alla deriva, guidato da chi vede le leggi come uno strumento per garantire se stessi. Vogliamo scendere in piazza il 12 marzo come studenti, come giovani, ma soprattutto come cittadini di questo Paese per difendere i diritti, i doveri, i principi e i valori che la nostra Costituzione sancisce e che vorremmo vedere realizzati e non attaccati, smantellati, aggirati.
Scendiamo in piazza perché crediamo e vogliamo difendere la scuola e l’università pubblica, come valore fondante della nostra democrazia, come garanzia di libertà e parità per tutti. Scendiamo in piazza perché troppi ad oggi sono i diritti negati, i princìpi non rispettati. L’Italia è un Paese che dovrebbe garantire l’accesso ai saperi e il diritto allo studio per tutti e tutte, come sancito dall’articolo 34 della Costituzione. Invece viviamo un’Italia abbandonata sé stessa, dove i giovani non hanno un futuro e dove la formazione è considerata una spesa e non una risorsa.
l’Unità 1.3.11
Un paese fondato sulla scuola: così l’istruzione ha unito l’Italia
La nascita di un sistema scolastico nazionale, avvenuta dopo l’unificazione, fu la mossa decisiva per sconfiggere l’analfabetismo secolare ma anche per creare un senso nuovo di appartenenza
di Benedetto Vertecchi
L’imbarazzo che in modo sempre più evidente le forze politiche di maggioranza manifestano nei confronti delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione dello Stato unitario sta avendo come conseguenza la rinuncia a considerare la ricorrenza come un’occasione per riflettere su che cosa è cambiato nel secolo e mezzo che ci separa dal 1861. Invece di porre l’attenzione sui processi di trasformazione che hanno interessato la struttura della popolazione e le condizioni della vita quotidiana, la cultura e le attività produttive, si sta assistendo all’evocazione più o meno convinta di eventi ormai lontani, ma che sembrano ancora più lontani se si prescinde dal coglierne le implicazioni su quanto è avvenuto nel seguito. Ne deriva che l’enfasi sia posta sugli eventi che segnarono il compimento del disegno unitario, e che restino sullo sfondo, o siano del tutto ignorati,
aspetti della realtà nazionale che costituivano un problema e che anche oggi richiedono risposte complesse. E sono risposte che suppongono interpretazioni non rituali dell’identità nazionale e del modo in cui tale identità si è venuta evolvendo.
Se oggi ricordiamo il 1861 non è perché in quell’anno qualcosa si è concluso, ma perché qualche altra cosa, ben più rilevante, quell'anno ha avuto inizio. È proprio ciò che nel 1861 ha avuto inizio la ragione dell’imbarazzo che si manifesta nella Destra al governo: lo Stato unitario ha avviato processi di trasformazione e di modernizzazione che nel tempo hanno prodotto i tratti distintivi della popolazione italiana, quei tratti che si vorrebbero negare col richiamo ad una fantasiosa antropologia localista per affermare altre supposte identità. Del resto, il raggiungimento dell’Unità nazionale di per sé non risolveva alcuna delle difficoltà che segnavano la vita quotidiana in un paese arretrato, in gran parte analfabeta, toccato ancora solo marginalmente dallo sviluppo dell’industria e dei trasporti. Semmai, disporre di più ampi riferimenti faceva apparire ancora più gravi questi limiti.
In quel contesto risultò evidente che lo sviluppo dell’istruzione avrebbe rappresentato una condizione centrale per la crescita sociale ed economica. Non che da questa consapevolezza siano derivati atteggiamenti unanimi e decisioni subito coerenti. Ma, anche se in modo incerto e contraddittorio, con l’Unità si avviava la costruzione del sistema scolastico italiano. La scuola sarebbe stata alla base del diffondersi di un nuovo sentire, nel quale il superamento di una condizione secolare di ignoranza appariva strettamente associato all’affermazione di un’idea di progresso. Alla crescita della scuola corrispose il diffondersi nelle diverse classi sociali della conoscenza della lingua italiana, prima limitata a poche aree del paese o agli strati favoriti della popolazione che avevano ricevuto almeno alcuni rudimenti di istruzione.
Fu ben presto evidente che le scuole sarebbero state uno strumento essenziale di crescita non solo per ciò che riguardava la diffusione dell’alfabeto, ma anche per modificare gli stili e le pratiche della vita quotidiana. Ben presto tuttavia si manifestò il conflitto che avrebbe a lungo caratterizzato lo sviluppo dell’educazione scolastica in Italia (più che in altri paesi) fra quanti sostenevano che la popolazione destinata a svolgere attività subalterne e ripetitive non avesse bisogno di istruzione e i sostenitori della sua necessità non solo ai fini produttivi, ma anche della vita sociale e politica. Al liberismo economico, che dominava lo scenario politico nello stato unitario lasciando che bambini e ragazzi fossero avviati precocemente al lavoro e dovessero subire le conseguenze della fatica fisica e della permanenza prolungata in ambienti malsani, si andava opponendo la consapevolezza che attraverso le scuole si sarebbe potuta ottenere una migliore qualità delle condizioni di esistenza. Anche se con lentezza, fu questa consapevolezza che finì con l’affermarsi. A scuola i bambini impararono non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma ad aver cura del proprio corpo, a osservare alcune importanti norme igieniche, a eseguire esercizi fisici. Le scuole, soprattutto al livello primario, non si limitavano a incoraggiare comportamenti che avrebbero avuto ricadute positive nel seguito della vita, ma assumevano funzioni diagnostiche che sarebbe stato molto improbabile fossero svolte da altri: ai maestri si chiedeva di verificare i progressi nella dentizione, la crescita della statura, l'eventuale apparire di malformazioni nella struttura ossea, di ghiandole linfattiche, di lunette sulle unghie eccetera. Sulle cattedre comparvero le bottiglie di olio di fegato di merluzzo, che ebbero sullo sviluppo di più generazioni un ruolo altrettanto positivo dell’istruzione.
Chi consideri le caratteristiche attuali della popolazione italiana e le ponga a confronto con quelle che i documenti d'epoca indicavano come correnti negli anni attorno all'Unità non può che prendere atto che i cambiamenti intervenuti hanno mutato sostanzialmente il profilo sociale, culturale e fisico degli italiani. Certo, non tutto si deve solo alla scuola; o, meglio, non tutto si deve solo alla scuola, ma è certo che quanto oggi appare positivamente trasformato non avrebbe potuto esserlo senza la scuola.
L'imbarazzo che circonda l'anniversario del raggiungimento dell'Unità è più che mai evidente se si considera l'ostinazione con la quale i governi della Destra stanno cercando di contrastare il ruolo che la scuola, e in particolare la scuola dello stato, ha assunto nel progresso del paese e nel prodursi del profilo della popolazione italiana. La scuola ha proseguito e perfezionato il disegno unitario del Risorgimento, conferendo significato di cittadinanza all'uso della lingua e all'acquisizione della cultura tramandata dalla tradizione. Ridurre il ricordo del 1861 all'evocazione di eventi lontani, o respingere del tutto tale ricordo, non è possibile fin quando il sistema scolastico, per quanto mortificato da interventi poveri di interpretazioni e solo preoccupati di limitare la spesa, continuerà ad affermare il valore della scelta nazionale compiuta centocinquanta anni fa.
l’Unità 1.3.11
Credere, obbedire, inculcare
di Marco Simoni
Quando ho letto le dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla scuola pubblica «ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli» mi sono chiesto: ma che principi voglio “inculcare” io ai miei figli? Faccio già abbastanza fatica a spiegare che non si può guardare la Tv per più di venti minuti, e ho dalla mia la possibilità di impormi fisicamente spegnendo l’apparecchio, l’idea di poter quindi inculcare “inculcare”, non “spiegare”, “raccontare”, “suggerire” dei principi addirittura, mi sembra un impresa improba, impossibile.
In effetti, come tutti i genitori ho il desiderio che i miei figli mi seguano per alcune cose, per altre meno, e sarei gratificato nel testimoniare scelte che assomiglino alle mie; credo che il narcisismo abbia in questo un ruolo almeno pari alla convinzione che i principi che cerco di seguire siano giusti. Tuttavia, penso anche che alla fine faranno quello che vogliono. Le scelte che compiono i figli dicono qualcosa dei loro genitori e della loro scuola, ma dicono molto soprattutto di loro stessi. Non credo dunque di poter scegliere una scuola che “inculchi” alcunché, ma posso cercare di esporre i miei figli a conoscenze ed esperienze che li aiutino a dare significato alle scelte che compiranno.
Proprio in queste settimane ho conosciuto meglio i caratteri profondamente classisti della scuola pubblica inglese, in particolare nelle città come Londra, in cui le opportunità di una vita possono dipendere dalla scuola elementare che si frequenta. Le riforme del New Labour nel quindicennio passato hanno fatto molto, affrontando una situazione eccezionalmente grave, ma non sembra abbastanza. Tuttavia, così come è difficile migliorare una grande istituzione in difficoltà, è difficile affossare una istituzione forte, che dipende soprattutto dalla cultura, e dal lavoro di chi la scuola la fa.
Per questo, nonostante la mancanza delle attenzioni che meriterebbe, la scuola italiana rimane una straordinaria fonte di riflessioni sul Paese (basti pensare ai recenti libri di Paola Mastrocola e Silvia Dai Prà) e uno degli assi fondamentali su cui poter ragionevolmente basare il nostro futuro. Non si tratta di ignorare le sue sofferenze, che non dipendono come al solito solo dalla destra, ma di una considerazione fredda sulle forze dell’Italia, una delle quali secondo me è la sua scuola, pubblica, diffusa, di buona qualità e spesso eccellente. Ieri sul Sole24Ore Andrea Ichino ha spiegato il lavoro prezioso che sta compiendo l’Invalsi per capire quali scuole funzionano meglio e quali peggio: primo passo necessario per migliorare le seconde e assicurarsi che le prime continuino così.
l’Unità 1.3.11
Quanto vale una scuola
di Giancarlo De Cataldo
In Italia, l’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento. In Italia, la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi. In Italia, anche enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, purché senza spese per lo Stato. La legge fissa i diritti e gli obblighi delle scuole non statali e ha l’obbligo di assicurare la loro piena libertà e di garantire agli alunni lo stesso trattamento delle scuole statali. Sul piano operativo, in Italia la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Per questo motivo la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altri contributi assicurati per concorso.
Tutto quello che avete letto sinora proviene dagli articoli 33 e 34 della Costituzione. Era necessario, per i padri costituenti, stabilire la libertà d’insegnamento perché si usciva da una dittatura che aveva esercitato un controllo capillare sulla formazione dei giovani, vietando ogni forma di conoscenza non aderente ai canoni del regime. Se il quadro di riferimento è così chiaro, le recenti polemiche sulla scuola pubblica investono direttamente il disegno costituzionale. Un paio d’anni fa, d’altronde, autorevoli pensatori “liberali” si pronunciarono contro l’insegnamento della Costituzione nelle scuole, sostenendo che un testo “storico”, e dunque soggetto a modifiche nel tempo, non doveva diventare, attraverso l’insegnamento, oggetto di culto. C’è, insomma, una certa insofferenza per questa nostra Costituzione che è pensata per evitare, o almeno contenere al massimo, il rischio che un nuovo “pensiero unico”, imposto dall’alto, si impossessi delle coscienze, forgiandole a propria immagine e somiglianza.
Repubblica 1.3.11
La distruzione di un bene pubblico
di Salvatore Settis
È bello che l´onorevole Gelmini, nel commentare le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla scuola, abbia citato la Costituzione. Peccato che l´abbia citata a sproposito, capovolgendone il senso.
Secondo l´on. Gelmini, «Il pensiero di chi vuol leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana, la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è un´istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini». Ma la Costituzione non dice questo, dice il contrario (art. 33). Dice che «la Repubblica detta le norme generali sull´istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Dice che «la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». L´art. 34 aggiunge che «l´istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita», e prescrive che la Repubblica privilegi, con borse a aiuti economici alle famiglie, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». La Costituzione stabilisce dunque una chiarissima gerarchia. Assegna allo Stato il dovere di provvedere all´educazione dei cittadini (obbligatoria per i primi otto anni) e di garantirne l´uguaglianza con provvidenze ai «capaci e meritevoli». Fa della scuola di Stato il modello a cui le scuole private devono adeguarsi, e non ipotizza nemmeno alla lontana due modelli di educazione alternativi e concorrenti. Ma come può esser mantenuta l´efficacia del modello, se la scuola pubblica viene continuamente depotenziata tagliandone personale e risorse, e per giunta irridendo chi ci lavora? Lo smottamento in direzione della scuola privata comincia coi governi di centro-sinistra (decreti Berlinguer del 1998 e 1999, legge 62 del 2000, governo D´Alema), e coi governi Berlusconi diventa una frana: si taglia la scuola pubblica e si incrementano i contributi alla scuola privata, sia in forma diretta che con assegni alle famiglie, e senza alcun rispetto per il merito degli allievi. A meno che il merito non consista, appunto, nell´aver scelto una scuola privata. Ed è dal 1999 (riforma Bassanini) che il ministero oggi ricoperto dall´on. Gelmini non si chiama più "della Pubblica Istruzione", ma "dell´Istruzione" (senza "pubblica"). Anziché inveire contro «la scuola di Stato dove ci sono insegnanti che vogliono inculcare negli alunni principi contrari a quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli», ipotizzando una scuola pubblica dominata dalla sinistra, Berlusconi dovrebbe dunque ringraziare la sinistra per aver inaugurato con tanto successo la deriva in favore della scuola privata. Ancora una volta, l´uomo che per il suo ruolo istituzionale dovrebbe rappresentare lo Stato e il pubblico interesse agisce dunque come il leader dell´anti-Stato. A una Costituzione che assegna allo Stato il compito di dettare regole sulla scuola e di imporre ai privati il rispetto delle stesse regole (e l´onere di cercarsi i finanziamenti dove credono), si va così sostituendo, con l´applauso del ministro della già Pubblica Istruzione, una Costituzione immaginaria, nella quale "libertà" vuol dire distruzione della Scuola pubblica, vuol dire convogliare i finanziamenti pubblici sulle scuole private, vuol dire legittimare l´idea che nelle scuole pubbliche si «inculcano» principi antilibertari, mentre nelle scuole private tutto è automaticamente libero, perfetto, "costituzionale". Eppure nel riformare la scuola, uno dei pochissimi provvedimenti di un governo che ha il record dell´inazione e della paralisi, l´on. Gelmini si è fondata sull´articolo 33 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica detta le norme generali sull´istruzione». E´ lo stesso articolo che, una parola dopo, stabilisce la centralità e la priorità della scuola pubblica, disprezzata dal presidente del Consiglio. Ma la "Costituzione materiale" di cui si va favoleggiando (cioè l´arma impropria con cui si vuol demolire l´unica e sola Costituzione, quella scritta) ha ormai come principio fondamentale il cinico abuso di quanto, nella Costituzione, può esser distorto a beneficio di una "libertà", quella del premier, che consiste nell´elogiare l´evasione fiscale in un discorso alla guardia di Finanza (11 novembre 2004), nell´attaccare ogni giorno la magistratura, nel regalare al suo amico Gheddafi cinque miliardi di dollari tolti alla scuola, al teatro, all´università, alla musica, alla ricerca, alla sanità, nel consegnare il territorio del Paese alla speculazione edilizia, nel legittimare col condono chi viola le leggi, nel creare per se stesso super-condoni, usando le (sue) leggi contro la forza della Legge. «Inculcare principi»: questa la concezione dell´educazione (pubblica o privata) che Berlusconi va sbandierando. Fino a quando lasceremo che «inculchi» impunemente nell´opinione pubblica l´idea perversa che compito di un governo della Repubblica è smantellare lo Stato, sbeffeggiando chi serve il pubblico interesse?
Corriere della Sera 1.3.11
Crescono i rischi di un conflitto con Napolitano
di Massimo Franco
Registrare l’attacco di Silvio Berlusconi allo «staff troppo puntiglioso» del Quirinale, e vedere che Giorgio Napolitano ora viene difeso perfino dall’Idv, fa un certo effetto. Dimostra quanto si siano sfilacciati e capovolti i rapporti fra presidente della Repubblica e Pdl, e quanto Palazzo Chigi soffra il controllo di legittimità sulle leggi, che spetta al capo dello Stato. Ma soprattutto, lascia intravedere una tensione latente sul modo in cui Napolitano e Berlusconi interpretano questa fase della legislatura e i suoi sviluppi. L’impressione è che al Quirinale non basti la blindatura numerica della maggioranza: è garanzia non di stabilità, ma di sopravvivenza del premier. Per questo, il capo del governo mal sopporta i rilievi nei confronti di misure come il cosiddetto «Milleproroghe» . In un momento normale, avrebbe accolto i suggerimenti e magari ringraziato; sentendosi in bilico, dice «sì» , ma poi dà sfogo alla frustrazione. Il Berlusconi che lamenta impotenza decisionale, mancanza di potere, e una sorta di «laccio» istituzionale teso a frenare la sua azione, scarica sull’esterno le difficoltà del centrodestra. Rievoca lo «spirito e la passione del ’ 94» , quando la sua maggioranza vinse per la prima volta le elezioni; e la nostalgia gli fa dimenticare che allora durò appena nove mesi. Il centrodestra si ruppe per la defezione della Lega, e lui si ritrovò all’opposizione. Oggi la situazione appare diversa. Napolitano è sempre stato considerato un interprete rispettoso del voto popolare e delle sue implicazioni. E dopo la rottura tra Berlusconi e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha evitato di parteggiare per l’uno o per l’altro: con irritazione mal celata del Pdl, furioso per il modo in cui Fini interpreta il ruolo di terza carica dello Stato e per il suo rifiuto di dimettersi. Ma il viavai di parlamentari seguito alla spaccatura nel centrodestra è un fenomeno a dir poco ambiguo. Permette a Berlusconi di andare avanti, forte del patto con una Lega che concede il via libera «finché ci sono i numeri» : quindi non escludendo elezioni, che il premier però vede come una iattura con la crisi in atto nel Maghreb. Eppure manca un’agenda chiara per il resto della legislatura. L’ennesimo annuncio di una riforma istituzionale che prende di mira le prerogative degli altri poteri, solleva perplessità. Il Pd vede nella polemica «un attacco preventivo» . E Pier Ferdinando Casini dell’Udc ironizza su un Berlusconi «inseguito dai suoi processi» , che «se la prende con i magistrati e Napolitano» . È vero che il premier si definisce «disperato» . Ma continua a sospettare che esista «un patto fra Anm e Fini» per far naufragare la riforma della Giustizia. «Risibile» , reagisce il leader di Fli. Il Quirinale, invece, risponde alle accuse berlusconiane con un silenzio gelido e un «grazie» ufficioso: sentirsi dare dei puntigliosi nello sbandamento generale, viene percepito quasi come un complimento. Eppure, la distanza fra capo dello Stato e del governo è pericolosa: tanto più se diventa conflitto.
Repubblica 1.3.11
Per il costituzionalista Azzariti sono "inquietanti" le parole del capo del governo contro il presidente della Repubblica
"Si rompe l´equilibrio tra poteri dello Stato"
di Vladimiro Polchi
Queste tendenze di stampo populistico non potranno che accrescere le tensioni istituzionali già rilevate dal Colle
Il Cavaliere tenta di riversare sulla struttura istituzionale la crisi politica della sua maggioranza
ROMA - «Il premier continua nella sua opera di delegittimazione degli organi di garanzia. Ora non si salva più nessuno: Parlamento, giudici, Quirinale». Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma, lancia l´allarme: «Si sta rompendo ogni equilibrio tra i poteri dello Stato».
Il problema per Silvio Berlusconi è che lo staff del capo dello Stato «interviene puntigliosamente su tutto».
«Il presidente del Consiglio ci ha abituato alle sue insofferenze, alfiere di una visione imprenditoriale, spesso estranea alla cultura costituzionale e delle garanzie. Ora il ragionamento si fa più pericoloso: tenta di riversare sui presunti difetti della struttura costituzionale, la crisi politica della sua maggioranza».
Cosa c´è di nuovo?
«Oggi Berlusconi non si limita più a criticare i singoli atti, ma tende a negare a priori le stesse competenze del presidente della Repubblica, del Parlamento e della magistratura. Calpesta così il ruolo degli organi di garanzia e perfino del supremo garante della Costituzione. Ed è proprio quest´ultimo attacco, quello al Quirinale, il più inquietante».
Perché?
«Che ci sia un garante della Costituzione, assistito dal suo staff, è la sostanza stessa del nostro sistema costituzionale. A maggior ragione l´attacco è grave, di fronte a un presidente della Repubblica molto attento all´equilibrio dei poteri, come si è dimostrato Giorgio Napolitano nell´ultima vicenda».
Si riferisce alla lettera sul decreto Milleproroghe?
«Sì, il presidente nella lettera inviata all´esecutivo pur descrivendo analiticamente delle forzature costituzionali nel testo non ha deciso per il suo rinvio. E´ intervenuto prima, proprio per impedire una grave crisi istituzionale, che il premier sembra invece fomentare, anche con questi ultimi attacchi che aprono un nuovo fronte».
Quale?
«Sembra che Berlusconi abbia rinunciato al rigoroso rispetto delle norme che sovrintendono alla nostra civile convivenza, per abbracciare politiche di stampo populistico, che non potranno che aumentare la tensione istituzionale. Tensione per altro già rilevata dal Quirinale».
Si riferisce ad un intervento preciso?
«Dopo l´incontro con Silvio Berlusconi dell´11 febbraio scorso, Giorgio Napolitano ha avvertito che l´esplosione dei contrasti istituzionali poteva mettere a rischio la stessa continuità della legislatura e invitava tutti gli attori politici allo sforzo di contenimento delle attuali tensioni».
il Riformista 1.3.11
Caro Ferrara, due o tre verità sull’immunità
di Emanuele Macaluso
il Riformista 1.3.11
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di Luigi Manconi
il Riformista 1.3.11
Benedette primarie
Fassino le salva Bersani le riforma
La vittoria dell’ex segretario Ds a Torino rilancia lo strumento affossato dal caos napoletano. Ora però il leader democratico pensa a un ritocco delle regole. E dalle parti di Vendola già si grida all’attentato
di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/49762401
Corriere della Sera 1.3.11
Fine vita, regole ma senza ipocisia
Marino: la legge della destra è contro il buon senso
di Ignazio Marino
Caro direttore, c’è molta retorica e molta teoria da parte della politica quando affronta temi che solo nel nostro Paese si definiscono eticamente sensibili. C’è poca attenzione alla realtà, alle situazioni concrete con cui si scontrano le persone nella loro vita. Alla vigilia del voto del Parlamento sul testamento biologico, proviamo allora a partire dalla realtà, ragionando sulle situazioni che ogni medico, o chiunque abbia avuto un parente gravemente ammalato, ha sperimentato. Immaginiamo una donna di ottanta anni, con un tumore al seno e metastasi al cervello, ricoverata in coma in un reparto di terapia intensiva. Il suo corpo apparentemente continua a funzionare, i polmoni si gonfiano, l’intestino riceve nutrimento artificiale, il battito cardiaco è regolare grazie ai farmaci, ma sono le macchine e le sostanze chimiche che mantengono le funzioni dell’organismo. La medicina, nonostante gli straordinari progressi, a un certo punto si ferma, qualunque terapia diventa inefficace o inutile. Cosa fa allora un medico davanti a una situazione tragica ma molto diffusa come questa? Negli Stati Uniti, in Francia, in Australia, come in molti altri Paesi, il medico chiama i familiari, descrive la situazione, spiega, risponde, rispetta le lacrime che scorrono. Si discute, insieme, l’eventualità di interrompere tutte le terapie, lasciando che la vita si avvii alla sua fine naturale. Una decisione difficile ma assunta in piena trasparenza e rigorosamente documentata nella cartella clinica del paziente. Cosa accade invece oggi in Italia? Il medico chiama i familiari, spiega che il loro parente non riprenderà coscienza anche se le macchine continuano a mantenerlo artificialmente in vita. Fino a quando? Non si sa. Non ci sono decisioni da prendere perché nessuno, né il medico, né i familiari, né il paziente stesso può autorizzare l’interruzione delle terapie. Si piange ma si va avanti lo stesso, senza alcuna speranza. Molte volte i medici decidono ugualmente, perché vivono nella realtà. Sono costretti a compiere una scelta in solitudine, senza documentare nulla, perché se lo facessero potrebbero essere accusati di omicidio volontario. Sembra assurdo ma è così. È questa la realtà che rende necessaria una legge sul testamento biologico. E serve una legge semplice che rispetti tre principi fondamentali: le indicazioni che una persona scrive quando è nel pieno delle facoltà devono essere assolutamente vincolanti, in caso contrario non servono a nulla. Perché dovrei lasciare un testamento biologico sapendo che potrà essere disatteso? In secondo luogo è importante l’indicazione di un fiduciario, una persona che mi ama, di cui mi fido, e che in qualunque situazione prenderà le decisioni più giuste ascoltando il medico ma soprattutto rispettando la mia dignità e le mie indicazioni. Infine il ruolo del medico e degli infermieri. Certamente sono i più preparati ad affiancare e assistere ma non possono decidere in autonomia perché, anche se conoscono la medicina, tuttavia non conoscono il paziente, le sue convinzioni e potrebbero agire contro la volontà dell'ammalato. Contravvenendo così anche al loro codice etico. La legge proposta dalla destra è esattamente contraria a questi tre principi di buon senso: prevede che il biotestamento non sia vincolante, che il medico abbia la parola finale anche contro la volontà dei familiari o del fiduciario mentre obbliga i sanitari a somministrare idratazione e nutrizione artificiali sempre, senza valutazioni di merito. In fin dei conti si tratta di una legge voluta da una politica ipocrita, assolutamente lontana dalla realtà, non curante dei diritti degli individui e irrispettosa del ruolo dei medici e degli infermieri. È una legge che otterrà il peggiore dei risultati immaginabili, ovvero che sulle scelte che riguardano le fasi terminali della vita di ognuno di noi si finirà a discutere, e a decidere, in tribunale. Ignazio Marino Chirurgo, presidente commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale
Corriere della Sera 1.3.11
No all’accanimento legislativo
Rizzoli: nessun testo può decidere sul singolo caso
di Melania Rizzoli
Caro direttore, chi ha più di 50 anni non ha mai avuto, durante la propria giovinezza, un amico o un parente in stato vegetativo. È una condizione che fino a trent’anni fa non esisteva. Prima, infatti, si moriva e basta. Noi medici, invece, abbiamo imparato a rianimare i morti, e sempre più spesso li riportiamo in quella vita senz’anima che chiamiamo stato vegetativo. I morti non si dovrebbero rianimare. Se sono morti bisognerebbe lasciarli morire in pace. Il vero accanimento terapeutico avviene lì, solo in quel momento, all'arrivo in pronto soccorso del paziente acuto, in stato d'incoscienza o di coma, dove si fa di tutto per rianimarlo, senza risparmio di tecniche e di terapie, e tutto si fa in fretta, senza chiedere permessi o pareri a parenti che non ci sono quasi mai. La maggior parte delle volte infatti si tratta di incidenti stradali notturni, con traumi violenti, che spesso coinvolgono giovani estratti dalle lamiere senza documenti e genitori al seguito e gli specialisti di guardia negli ospedali eseguono egregiamente il loro lavoro, strappandoli per prima cosa alla morte imminente. In quei momenti nessun medico al mondo sa o intuisce o capisce se può esserci uno stato vegetativo in agguato. E nessuna macchina diagnostica può stabilirlo o suggerirlo. Lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello, che insorge quando l’organo è stato per troppo e lungo tempo in sofferenza, in carenza di ossigeno, a causa dell’evento traumatico che lo ha determinato, ma diventa riconoscibile solo quando si esaurisce il coma, che, sovrapponendosi, lo aveva mascherato. Su cento pazienti rianimati, uno o due non riprendono coscienza. Sono quelli già clinicamente morti o ripescati sul filo della morte e che vengono riportati in vita. Sono persone che restano vive per anni con una grave disabilità neurologica, potenzialmente reversibile, e caratterizzata dall’assenza di comportamenti associati alle attività di coscienza. Di fatto sono pazienti incoscienti, ma clinicamente vivi, esenti da altre patologie, e, se giovani, con una lunga aspettativa di vita, senz’anima certo, ma con un elettroencefalogramma che mostra sempre segni di attività elettrica. Paradossalmente lo stato vegetativo è una condizione artificiale forzata, creata da noi medici su persone rianimate, ma nel momento in cui comprendiamo che questi sfortunati sono scivolati nell’incoscienza più profonda, cosa dovremmo fare, sopprimerli? Allora sarebbe meglio non rianimarli per niente. È l’unico modo per prevenire lo stato vegetativo persistente e per evitare qualunque forma di eutanasia mascherata. Nessun testo di legge potrà imporre al medico l’interruzione artificiale dello stato vegetativo, ridurlo a semplice esecutore della volontà del paziente e del suo legislatore contro le sue convinzioni etiche, mediche, scientifiche, deontologiche. Come nessuna legge potrà ignorare la libertà di ciascuno di noi di disporre del proprio corpo e della propria vita e violare il rispetto della persona umana. E la tutela della vita, considerata un bene indisponibile e garantita dalla nostra Costituzione, non può essere affidata interamente a forme di accanimento terapeutico e legislativo, che mai saranno in grado di decidere caso per caso e quello che è meglio per ognuno di noi in quell’ultimo momento. Forse, come ha detto più volte Umberto Veronesi, «meglio nessuna legge» piuttosto che una cattiva legge o un testo che si prepara ad accendere un clima da stadio e di regolamenti di conti, che nulla hanno a che fare con il fine vita e con la vita i tutti noi.
L’autrice è medico, deputato del Pdl
l’Unità 1.3.11
I due capi dell’opposizione sarebbero rinchiusi nella superprigione di Parchin
Secondo un sito di intelligence israeliano i due sono stati picchiati al momento dell’arresto
Repressione a Teheran In carcere Mousavi e Karroubi
I due leader dell’opposizione «verde» in Iran Karroubi e Mousavi prelevati da casa insieme alle mogli, forse torturati nella tremenda prigione di Parchin, vicono Teheran. Insorgono le cancellerie di Parigi e Berlino.
di Rachele Gonnelli
C’è grande apprensione in Iran per la sorte dei due leader dell’opposizione, Mirhossein Mousavi e Mehdi Karroubi, che già da settimane erano ad arresti domiciliari strettissimi insieme alle mogli. Le ultime voci dicono che sarebbero stati trasferiti in una prigione delle più dure, il supercarcere di Parchin gestito dai Guardiani della Rivoluzione dove normalmente vengono reclusi i detenuti accusati di spionaggio e attentato alla sicurezza della Repubblica islamica. Non solo. I due candidati riformisti usciti sconfitti nelle elezioni poi contestate dai giovani dell’Onda Verde, sarebbero stati picchiati e ridotti allo stremo delle forze. A dirlo è il sito di intelligence israeliano Debka, che cita fonti iraniane secondo cui i due sono stati prelevati dalle loro abitazioni nella notte, picchiati, infilati in grandi sacchi e trasportati a bordo di blindati nel penitenziario superblindato vicino Teheran. Le mogli dei due esponenti dell'opposizione sarebbero scomparse, probabilmente trasferite di forza in una località sconosciuta. Le fonti del sito d’intelligence affermano che, una volta giunti nel cortile anteriore del carcere, Moussavi e Karroubi non riuscivano a tenersi in piedi e avevano il viso striato di sangue. Sfiniti dopo settimane di arresti domiciliari nelle quali, essendo obbligati a mangiare il vitto fornito dalle guardie, per paura di essere avvelenati, avevano rifiutato di mangiare. Fin qui le informazioni d’intelligence che provengono da Israele.
Ma anche il sito di Karroubi, Sahamnews.org, conferma che il leader dell'opposizione è stato prelevato, insieme con sua moglie, giovedì notte dalla sua casa dove viveva praticamente recluso dalla ripresa delle contestazioni ad Ahmedinejad, lo scorso 14 febbraio. È stato un figlio di Karroubi, impossibilitato a parlare con i genitori da due settimane, a raccontare al sito dei seguaci del padre di aver raccolto la testimonianza di alcuni vicini di casa dei suoi. I vicini gli hanno riferito di aver visto otto grosse auto della sicurezza arrivare verso mezzanotte nel parcheggio e davanti all’ingresso. Hanno fatto montare qualcuno in una delle auto e lasciato la casa vuota, con le luci che da allora sono rimaste spente. Secondo la versione del sito dell’opposizione Kaleme Mehdi Karroubi, 73 anni, e le due mogli Fatemeh e Zahra Rahnavard, sarebbero stati prelevati e portati, nella prigione di Heshmatiyeh. Ma non è chiaro quando.
LE PROTESTE
Sono scarse e preoccupanti anche le informazioni a proposito di Mirhossein Mousavi. Venerdì il governo di Teheran ha detto al canale televisivo americano Cnn che Mousavi e Karroubi e le rispettive consorti erano stati portati «in un luogo sicuro». E ciò proprio poco dopo che il Grande Ayatollah Bayat-Zanjani aveva unito la sua voce a quella dell’ayatollah riformista Mohammad Khatami per protestare contro la condizione di sequestrati in casa dei due politici. Ieri, alle nuove notizie di arresti e persino sevizie e nel silenzio delle autorità iraniane, anche Francia e Germania hanno espresso «preoccupazione» per l’imprigionamento dei due oppositori. Il portavoce del Quai d'Orsay Bernard Valero lancia un’appello alle autorità di Teheran perchè liberino «tutte le persone detenute in modo arbitrario» e aggiunge che per quanto riguarda il programma nucleare, «l'Iran non ha mai interrotto le sue attività di arricchimento dell'uranio».
Repubblica 1.3.11
La primavera araba
di Tahar Ben Jelloun
Questa primavera in pieno inverno non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Potrebbe far pensare alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (novembre 1974), ma è diversa.
I popoli arabi hanno subìto e sono rassegnati da molto tempo. In generale, però, il Maghreb e il Machrek hanno questo in comune: l´individuo non è riconosciuto come tale. Tutto è organizzato in modo che l´emergere dell´individuo in quanto entità singolare e unica sia impedito. È la rivoluzione francese che ha permesso ai cittadini di Francia di diventare individui dotati di diritti e doveri.
Nel mondo arabo, ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. L´individuo invece sarebbe una voce, non un soggetto da sottomettere. Un individuo è una persona che ha da dire la sua e che la dice andando a votare liberamente e senza falsificazioni. In questo sta la base della democrazia – una cultura basata sul contratto sociale; si elegge qualcuno per rappresentare un popolo in un determinato periodo e poi o lo si rinnova nelle sue funzioni o lo si rispedisce a casa. Nel mondo arabo, i presidenti della repubblica si comportano come dei monarchi assoluti al punto che restano al potere con la forza, attraverso la corruzione, la menzogna e il ricatto. Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafez al-Assad; Seif al-Islam è ritenuto il successore di suo padre Gheddafi, quando questi morirà; Mubarak ha ovviamente cercato di imporre suo figlio alla successione, ma con la rivoluzione di gennaio tutti i suoi piani sono saltati. Il principio è semplice: quando arrivano al potere, pensano di essere lì per l´eternità, che il popolo lo voglia o no. Per non indisporre troppo gli occidentali, instaurano una sorta di "democrazia formale", giusto una maschera per gli occhi di chi li osserva. Ma è tutto nelle loro mani e non tollerano alcuna contestazione, alcuna opposizione. Il resto del tempo, considerano il Paese come una loro proprietà privata, dispongono delle sue entrate, fanno affari, si arricchiscono e mettono i loro beni al sicuro in banche svizzere, americane o europee. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto è una protesta morale ed etica. È un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell´autoritarismo, della corruzione, del furto dei beni del Paese, rifiuto del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell´umiliazione e della illegittimità che è alla base dell´arrivo al potere di questi dirigenti il cui comportamento prende a prestito molti metodi dalla mafia. Una protesta per stabilire un´igiene morale in una società che è stata sfruttata e umiliata fino all´inverosimile.
È per questo che non è una rivoluzione ideologica. Non c´è un leader, non c´è un capo, non c´è un partito che porta avanti la rivolta. Milioni di persone qualunque sono scese in strada. È una rivoluzione di tipo nuovo: spontanea e improvvisata. È una pagina della storia scritta giorno per giorno, senza una pianificazione, senza premeditazione, senza intrallazzi, senza trucchi. La responsabilità dei dirigenti europei è importante nel mantenimento di questi regimi impopolari e autoritari. Essi tacciono e lasciano fare usando due scuse: 1. pensano che Mubarak, come Ben Ali, sia lì per impedire che si stabilisca una repubblica islamica in stile iraniano; 2. pensano che non dicendo loro che devono rispettare i diritti dell´uomo, si assicureranno succosi affari. Su entrambe le cose si sbagliano.
La rivoluzione iraniana è stata possibile perché lo sciismo è strutturato gerarchicamente (himam, mollah, ayatollah ecc.). Per gli sciiti, l´islam è politico o non è (è questo che aveva dichiarato Khomeini al suo arrivo a Teheran). L´islam sunnita non ha mai pensato la pratica religiosa in modo gerarchico. Nel Corano si dice che nell´islam non ci sono sacerdoti. Né preti, né rabbini, né ayatollah. Sul piano politico, la società araba è attraversata da diverse correnti islamiche; la corrente fondamentalista non è il solo movimento presente in Egitto. Non c´è ragione di pensare che i fondamentalisti arrivino al potere, a meno che non si verifichi un colpo di Stato militare, il che vorrebbe dire che tutto l´esercito è fondamentalista, cosa assurda. Se c´è una democrazia, questo vuol dire che c´è multipartitismo, che ci sono differenze e opinioni diverse che si fronteggiano in un campo politico libero.
Quanto al secondo punto, gli occidentali chiudono gli occhi ovunque possano fare affari, che sia in Cina, in Libia o in Algeria. Ma da quando Barack Obama ha invocato il rispetto dei diritti dell´uomo davanti al suo ospite cinese, nel gennaio 2011, non è più possibile anteporre gli affari ai diritti dell´uomo. Tutto ciò è avvolto da ipocrisia e accondiscendenza. Abbiamo appena saputo che alcuni ministri francesi accettavano inviti in Tunisia, in Egitto, e facevano coppia perfetta con dittatori di cui sapevano tutto, compreso il modo in cui torturavano e facevano sparire gli oppositori del governo. Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un vantaggio: più niente sarà come prima. Quanto agli altri Stati arabi in cui sussistono gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si ribelli, credo che riformeranno il loro sistema e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della persona. Il cittadino non sarà più un soggetto sottomesso ad un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo con un nome, una voce e i suoi diritti.
Il testo è tratto da «La rivoluzione dei gelsomini - Il risveglio della dignità araba»
di Tahar Ben Jelloun (Bompiani, traduzione di Anna Maria Lorusso) esce il 2 marzo
Repubblica 1.3.11
"Io, marxista-leopardista tra impegno e disincanto"
Intervista al linguista Raffaele Simone
"Il nostro è un paese dove è diventato difficile distinguere il vero dal falso"
"Siamo rimasti quelli raccontati da Manzoni, passando da Don Rodrigo a Provenzano"
ROMA. Per affrontare in profondità la questione delle credenze è bene prendere in esame anche l´aspetto linguistico. Perciò il nostro terzo interlocutore è Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all´Università di Roma Tre e autore di importanti studi che spaziano tra storia, politica e trasformazioni culturali.
«Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in – queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante. "Credere a" significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno. "Credere in" ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di una sua affermazione positiva. L´altro senso del "credere in" poggia invece con fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste distinzioni semantiche nell´Italia di oggi.
«Quanto al credere a qualcuno, gli italiani credono sin troppo. Siamo anzi un popolo di creduloni. Ovvero di persone che per una serie di motivi storici tendono a prendere per buono tutto ciò che viene loro raccontato. Anche perché abbiamo una scarsa cultura del dato di fatto. Ed è un fenomeno che si riflette poi sulle più diverse forme di "credulità": dalla magia superstiziosa al bigottismo miracolistico, per finire con il potente di turno, il quale può dichiarare ciò che vuole, tanto sa che sicuramente qualcuno gli crederà».
Passiamo al "credere in".
«Temo che non si creda in nulla, in senso proprio. I valori condivisi sono deboli e quelli forti mancano del tutto: penso all´idea di patria, storia, bene pubblico, istituzioni, memoria. Sì, ogni tanto vengono agitati in modo pretestuoso, ma senza incidere nella convinzione intima delle persone. Non sono uno storico, ma ormai tra esperienze, letture e incontri, qualche idea me la sono fatta. Tutto rimanda a quella triade diabolica, ancor oggi viva e vegeta, che fu raccontata con micidiale chiarezza nei Promessi sposi. E cioè: prima di tutto, marcata presenza straniera, che allora significava dominazione spagnola e oggi si manifesta in una colonizzazione culturale, oltre che economico- politica, dettata dalla globalizzazione. Secondo, centralità delle mafie: si è passati da don Rodrigo a Provenzano, ma la musica non cambia. Terzo, il ruolo strabordante della Chiesa. Queste tre entità hanno reso inutile credere in qualunque idea. Mentre invece si crede via via al potentato prevalente, per opportunismo, convenienza o paura. La vicenda politica degli ultimi vent´anni, in questo senso, è emblematica: è difficile pensare che la maggior parte degli italiani che dicono di credere in Berlusconi credano veramente in lui».
E dunque?
«Dunque ci deve essere qualcosa "sotto". Magari quella che nella Francia del tardo rinascimento veniva chiamata servitù volontaria, la bramosia di sottomettersi a qualcuno. Oltre, naturalmente, al desiderio di "dare una lezione a quelli lì". Che sono poi la sinistra, gli intellettuali, lo Stato».
Facciamo un passo indietro: Nicola Chiaromonte, da me eletto a nume tutelare di questo "viaggio", sostiene che nel tempo della malafede le menzogne utili sostituiscono le verità inutili.
«Una definizione che si attaglia perfettamente al nostro caso. Ormai tra ciò che si pensa, quel che si dice e come stanno effettivamente le cose, c´è una totale scissione. La percezione del reale, nel discorso pubblico italiano, si è talmente attenuata che si ha spesso l´impressione che i fatti si siano dissolti».
L´alterazione strutturale del rapporto vero, falso, fittizio, è un tema che lei tratta, su scala globale, anche nel suo libro Il Mostro Mite, edito da Garzanti. E torna quanto mai utile per indagare il tema delle credenze.
«Abbiamo vissuto contemporaneamente due curvature oppressive, che hanno avuto riflessi importanti in campo cognitivo: quella della globalizzazione e quella del berlusconismo, che ha potuto sfruttare il medium globale per eccellenza, la televisione, ormai completamente scollata dalla realtà. I molti che la mattina per prima cosa guardano i programmi di Rete Quattro o Canale Cinque non hanno più alcuna percezione della vita reale. Pensi a un programma come quello della De Filippi: un vero e proprio trionfo dell´irreale, un Truman Show dell´orrore. Quelli che ballano e si dimenano seminudi sono assolutamente irreali».
In un contesto come questo, lei a quali convincimenti si attiene? In cosa crede?
«Io mi dichiaro, solo con una sfumatura di scherzo, un marxista leopardista. Conosce questa etichetta?».
Se non sbaglio è di Sebastiano Timpanaro.
«Giusto. Filologo, storico, filosofo, tra le menti più acute che abbia avuto questo paese, Timpanaro ci ha offerto di sé questa definizione. Marxista, perché crede nei contrasti violenti della realtà sociale e cerca di combatterli; leopardista, perché accompagna la sua lotta con una forma di sostanziale scetticismo. E insieme confida in una riserva di energia mentale sufficientemente ricca da permettergli di agire. In sintesi: finché stiamo qui, sebbene sia tutto vano, diamoci da fare».
Se non altro per capire. Per riconoscere, ad esempio, le nuove forme di credenza.
«Centrali, tra queste, mi sembrano il culto del corpo e quello dell´anima. Il primo è cosa relativamente recente. L´operazione fitness, se portata alle sue estreme conseguenze, impone anch´essa quella falsificazione della realtà di cui si parlava in precedenza. Il mito dell´eterna giovinezza mi costringerà a guardarmi allo specchio, piena o pieno di silicone, riconoscendomi in una persona che non sono più io. Quanto al culto dell´anima, risale all´avvento della psicanalisi e si estende poi grazie a forme sempre più plebee di psicologismo dozzinale. La scuola occidentale odierna, e non solo quella italiana, è la più psicologizzata di tutta la storia. L´anima del bambino, la sua affettività, il suo vissuto, sono diventate preoccupazioni preminenti dell´istituzione scolastica. Del resto, anche il vago bisogno di religione e spiritualità va in questa direzione, in direzione del sincretismo. Io parlerei addirittura di "fusion": si pesca un po´ qua e un po´ là, nella speranza che qualcuno, o qualcosa, faccia stare meglio il fantolino che abita dentro di noi».
Prima parlava di scuola: tutte le credenze, buone o cattive, in teoria dovrebbero partire da lì.
«In teoria, perché oltre che del credere, bisognerebbe parlare anche del non credere. E alla scuola, struttura massimamente rappresentativa della razionalità occidentale, non crede purtroppo quasi più nessuno. Quantomeno in Italia: l´unico paese in cui chi lavora nella scuola goda di così poco credito collettivo. Cosa tanto più grave, visto che in epoca di globalizzazione, la scuola come sede propria della formazione, è stata scavalcata. Voglio dire, i ragazzi non sono interessati tanto a ciò che la scuola gli propone e impone, ma a quanto sperimentano altrove: droga, musica, ballo, sesso, viaggio, socializzazione. Se il compito della scuola occidentale era quello di offrire un sapere moderatamente razionale, ordinato e orientato a principi di spirito critico, con un minimo di formalizzazione, oggi, di fronte alla sua vertiginosa rovina, si accumulano molte esperienze, o surrogati di esperienza, ma nessun sapere. Si crede, non si crede, ma che cosa si sa?».
La Stampa 1.3.11
Nel casertano 30 minori accusano gli educatori
Villaggio dei ragazzi un inferno di abusi
di Antono Salvati
C'è chi ha raccontato di essere stato preso a calci e a pugni in testa.
Chi invece ricorda di essere finito al pronto soccorso, con un taglio
alla nuca e senza la possibilità di dire cosa fosse realmente accaduto.
C’è anche chi dice di non essere mai stato picchiato perché «si faceva i
fatti suoi» e chi pure ha preferito non dire nulla a casa perché alla
fine il padre picchia peggio degli educatori. Storie diverse con un
denominatore comune: i corridoi e le camerate del «Villaggio dei
ragazzi» di Maddaloni nel Casertano, ente benefico nato alla fine della
Seconda guerra mondiale per aiutare l’infanzia abbandonata e diventato
una Fondazione in grado di ospitare più di 1500 ragazzi. Fondatore della
struttura fu don Salvatore D’Angelo, scomparso nel 2000 e amico
d’infanzia nonché consigliere spirituale del senatore a vita Giulio
Andreotti, che dell’ente è membro del consiglio direttivo.
Se le vittime erano gli ospiti del convitto, i «carnefici» erano proprio
gli educatori, coloro che avevano il compito di garantirne la cura,
l’educazione e l’istruzione. Quattro di loro sono finiti agli arresti
domiciliari con l’accusa di maltrattamenti aggravati, altri tre invece
sono indagati a piede libero perché sospettati di abuso di mezzi di
correzione. Discorso a parte invece per un’insegnante di scuola media,
ai domiciliari con l’accusa di violenza sessuale su due ragazzini di
appena undici anni. È accusata, si legge nell’ordinanza «di aver fatto
stendere supini sul pavimento due alunni, entrambi di undici anni, e di
essersi seduta dapprima sopra l’uno e subito dopo sopra l’altro,
all’altezza dei genitali, e, quindi, aveva iniziato a prodursi in
movimenti tipici di un rapporto sessuale».
L’indagine è nata nell’agosto del 2009, quando una fonte della polizia
di Caserta raccontò delle terribili sevizie a cui erano sottoposti i
giovani ospiti del «Villaggio dei ragazzi». Una trentina i ragazzi, dai
sei ai sedici anni, ascoltati in presenza di uno psicologo, hanno
descritto nei minimi particolari l’aria da carcere borbonico che si
respirava nelle camerate del convitto. Non c’erano più nomi, ma epiteti:
i ragazzi venivano chiamati «porci» e «handicappati» e quando andava
tutto bene finiva lì. Ma bastava poco per scatenare la furia di alcuni
degli educatori pronti, stando al racconto dei ragazzi considerato
credibile dai magistrati della procura di Santa Maria Capua Vetere, a
soffocare con pugni e calci qualsiasi segnale anche minimo di
insubordinazione.
Terra 1.3.11
Primo Marzo. Siamo tutti migranti
di Luca Bonaccorsi
qui
http://www.scribd.com/doc/49762443