l’Unità 26.2.11
L’avanzata delle tribù che hanno rotto il patto con il Colonnello
Quella divampata in Libia non è una cyber-rivoluzione o una rivolta centrata sull’esercito come in Egitto e TunisiaA minacciare il potere di Gheddafi sono i 140 gruppi ai quali appartengono l’85% dei libici
di Umberto De Giovannangeli
Non è la «cyber-rivoluzione» dei ragazzi di Piazza TahrirNon è la rivolta centrata sull' esercito modello Tunisia ed Egitto contro i raìs da sempre al potereIn Libia è una storia diversaLa fine per Gheddafi si chiama tribù: Warfala, Zintan, Rojahan, Orfella, Riaina, al Farjane, al Zuwayya, TuaregLe stesse che nel 1911 affrontarono gli italiani durante la guerra di LibiaSono loro il passato che non passa: le grandi tribù che hanno rotto quel «patto» che ha rappresentato uno dei pilastri fondamentali del quarantennale potere di Muammar GheddafiSono le tribù, oltre 140 alle quale appartengono l’85 per cento dei libici, a essersi sollevate in Libia, non i giovani intellettuali né le masse operaie, che nel Paese sono perlopiù composte da lavoratori stranieriSono loro che potrebbero assestare il colpo definitivo al regime del ColonnelloE con le grandi tribù la comunità internazionale dovrà fare i conti nella Libia del dopo-raìsPer evitare la polverizzazione dello StatoPer scongiurare una nuova Somalia.
Le alleanze si sono ridefiniteNuovi patti sono stati siglatiQuesto ha segnato la fine del raìsCiascuna delle principali tribù è rappresentata nell'establishment militare e nei comitati popolari e rivoluzionari costituiti da Gheddafi dopo la presa di potere nel 1969Alcuni clan sono da decenni in lotta tra di loro per il potere, ma il conflitto fino a pochi giorni fa era rimasto latente, anche grazie all'attività di mediazione dello stesso leader e ai proventi di petrolio e gasUna mediazione che è saltataDefinitivamente.
I Tuareg, che in Libia sono mezzo milione, hanno accettato la «chiamata alle armi» della tribù Warfala, che conta oltre un milione di abitanti nel PaeseInoltre uno dei leader Warfala ha dichiarato che Gheddafi «non è più un fratello» e deve lasciare la LibiaI leader della tribù Warfala sono tra i principali oppositori del governo, al punto che, secondo alcune fonti, nel 1993 organizzarono con alcuni generali dell'Aviazione un tentativo di colpo di Stato contro il Colonnello poi fallitoE il capo della tribù al Zuwayya del deserto orientale avrebbe minacciato di interrompere le esportazioni di greggio se le autorità non porranno fine alla repressioneDomenica scorsa anche la tribù degli Orfella, che conta novantamila persone, ha deciso di sostenere la rivoltaNei giorni scorsi, i leader delle tribù Warfalla e Zuwayya, concentrate nella zona orientale del Paese, hanno ritirato il loro appoggio a GheddafiGli Zuwayya hanno persino minacciato di ostacolare le esportazioni di greggioE le numerose altre tribù della Cirenaica (Zuwayah, Awaqir, Abid, Barasa, Majabrah, Awajilah, Minifah, Abaydat, Fawakhir ed altre ancora) sembrano aver seguito questa sceltaTutta la popolazione della Cirenaica, d’altronde, ha sempre considerato il golpe del 1969 contro re Idris e la monarchia Senussi alla stregua di un’egemonia dei libici «occidentali» sulle sorti del PaeseDiversa la situazione nella TripolitaniaQui l’adesione della tribù Zintan, originaria della città omonima situata a sud di Tripoli, alla protesta contro Gheddafi, ha sì portato il dissenso nella zona occidentale del Paese, ma ha confermato per rivalità tribali quelle di Rayaina, Siaan, Hawamed e Nawayel nel campo oppostoPrima leali e ora «neutrali» risultano i clan berberi della zona di MisurataAnche nel vasto Fezzan, la parte meridionale del Paese, esiste un’intricata composizione tribaleAccanto ai Mahamid arabi, troviamo le tribù non arabe dei Tabu, che popolano le zone di Qatrun e Sabha e l’oasi di KufrahContro Gheddafi si sono schierate anche la maggior parte delle tribù del sud della Libia e il clan degli al-Furjan, i cui appartenenti vivono in prevalenza nella città di Sirte.
«Nel breve termine le prospettive per la Libia sono molto cupe rileva Robert Danin, arabista del Council on Foreign Relations di New York perché non è chiaro se riuscirà a sopravvivere come nazione unita oppure se a prendere il sopravvento sarà l’identità di un Paese decentralizzato, nel quale l’identità collettiva è molto debole mentre a prevalere sono le fedeltà a tribù e clan con le radici nei secoli passati»«La tribù Magariha da una parte è grata a Gheddafi che ha ottenuto dalla Gran Bretagna la liberazione di Baset al-Megrahi» già imprigionato per il coinvolgimento nell’attentato di Lockerbie «ma dall’altra non ha dimenticato la defenestrazione di Jallud ( l’ex primo ministro che il Colonnello ebbe al fianco per quasi dieci anni prima di defenestrarlo, accusandolo di complottare contro di lui, ndr) « ancora vissuta come una grave offesaPoiché i Magariha sono stimati in quasi un milione di anime, sono bene armati ed economicamente forti risulteranno decisivi nel rovesciamento deel raìs e nella definizione dei nuovi equilibri di potere nella Libia del futuro», riflette l’accademico egiziano Faraj Abdulaziz Najam, specializzato in storia libica«La tribù (qabila) è l’unica istituzione che da secoli ha plasmato, difeso e regolato la società delle popolazioni arabe (e in minima parte berbere) che hanno abitato le regioni chiamate all’inizio del Ventesimo secolo dai colonizzatori italiani Tripolitania, Cirenaica e Fezzan», rimarca su Limes Aldo Nicosia«L’affermazione del sistema politico tribale prosegue Nicosia fortemente voluto e sostenuto da regime di Gheddafi proprio per impedire la nascita di una società civile, basata su istituzioni pluralistiche e democratiche (cui contrappone la banale demagogia dello slogan del “potere alla masse”), comincia a provocare il ripiegamento del libico verso la tribù di appartenenza, e parallelamente fa sprofondare il Paese nella corruzione, a tutti i livelli»Un’appartenenza tribale destinata a segnare il presente e il futuro della LibiaCon o senza il raìs».
il Fatto 26.2.11
Gli occhi dei media. Sul Maghreb in fiamme
Web, donne, islam: nascita di una rivolta
di Carlo Alberto Biscotto
Gli occhi del mondo sono puntati sul Maghreb dove è in corso un’insurrezione popolare dagli esiti ancora imprevedibili“Dimostrazioni e disordini dilagano in tutta la regione”, scrive il quotidiano egiziano Al Masry YoumIn Bahrein l’opposizione sciita chiede una svolta democratica e la liberazione dei prigionieri politiciNello Yemen le manifestazioni – con le donne in prima fila – vanno avanti da giorniIn Algeria i militari hanno messo in campo circa 40.000 agenti di polizia per reprimere l’ondata di protesteIn Libia si continua a combattere.
IN QUESTI GIORNI quotidiani, riviste, istituti di studio e ricerca, organizzazioni accademiche hanno tentato di fornire un quadro di riferimento e una chiave di letturaNon è facile trovarne una solaE le realtà dei paesi in rivolta sono tutt’altro che omogeneeC’è stato chi, con una certa enfasi, ha parlato di “prima rivoluzione dell’età informatica” sottolineando il ruolo svolto dalle nuove tecnologie che spesso hanno consentito agli insorti di organizzarsi, far circolare parole d’ordine, organizzare marce e diffondere informazioniSul Guardian, Eben Moglen ripercorre la storia della stampa – “che in Europa ha sempre avuto la tendenza ad allearsi con il potere” – e parla di “liberazione grazie al software”Internet – scrive Moglen – “ha distrutto o si avvia a distruggere la stampa e di conseguenza ha contribuito a togliere dalle mani del potere un potente strumento di sopraffazione: la censura”Nessuna meraviglia quindi se in Egitto, così come in Tunisia, motori della rivolta siano stati i giovani scolarizzati e abilissimi nell’usare le tecnologie informaticheForse anche per questo – come scrive su Le Monde il politologo francese Olivier Roy – “siamo in presenza di rivoluzioni post-islamisteL’islam politico ha fallitoÈ anche un fatto generazionaleGli insorti rappresentano una generazione post-islamistaNon invocano l’islam come faceva la precedente generazione negli anni Ottanta in AlgeriaSemplicemente rifiutano le dittature corrotte e chiedono più democrazia”Ma c’è chi è meno ottimista, come ad esempio Andrea Rizzi su El Pais, che agita – quanto meno sullo sfondo – “il fantasma dell’emirato mediterraneo”Negli anni ’90 “i dittatori apertamente incoraggiati dall’Occidente sbarrarono il passo al fondamentalismo islamico che minacciava di penetrare in tutto il MaghrebMa resta il fatto – e questo la gente lo sa e lo ricorda – che l’islamismo moderato ha contribuito negli ultimi dieci anni al progresso sociale delle masse”Gli fa eco sul Financial Times, Ahmed Rashid che ricorda che “la situazione di instabilità in Egitto potrebbe permettere ad al Qaeda e ad altri gruppi estremisti di espandere la loro influenza”.
UN ASPETTO CHE i commentatori non trascurano è la trasversalità dei movimenti insurrezionali: “Uomini, donne, giovani, studenti, operai, intellettuali, laici, religiosi marciano gli uni accanto agli altri”, scrive su Libération Philippe MishkowskiE sullo stesso giornale aggiunge Claude Guibal: “Alle nuove generazioni non basta aver rovesciato Ben Ali o MubarakVogliono di piùChiedono giustizia, lavoro, uguaglianza sociale, democrazia”Ma è possibile prevedere in tempi brevi uno sviluppo economico tale da soddisfare le richieste di quanti sono scesi in piazza rischiando (e talvolta perdendo) la vita? Secondo Norman Stone – Newsweek – “il tanto evocato modello turco non è utilizzabile né in Egitto né in TunisiaInsomma non mi aspetto un Atatürk egiziano”.
E quanto allo sviluppo economico bisogna prima fare i conti con la propria storia, ricorda su The New Yorker, John Cassidy: “La realtà è che è stato l’islam a impedire lo sviluppo economico del mondo arabo”E sulla stessa rivista chiosa David Landes, docente ad Harvard e autore di The Wealth and Poverty of Nations: “È impossibile capire la storia economica delle nazioni musulmane senza rivedere l’esperienza dell’islam come fede e come cultura”Ma questo in fondo lo aveva già scritto nel 1905 Max Weber nel suo celeberrimo L’etica protestante e lo spirito del capitalismoIl New York Times e molti altri quotidiani insistono sul ruolo delle donne“In Tunisia – scrive il quotidiano newyorchese – è emersa la figura di Radhia Nasraoui, avvocata e femminista, chiamata la Shirin Ebadi tunisinaDel governo provvisorio fa parte come ministra della Cultura la regista Moufida TlatlyIn Algeria i movimenti femminili fanno capo alla rivista Naqd”In Egitto Gamila Ismail, ex moglie di Ayman Nour che nel 2006 sfidò Mubarak alle elezioni presidenziali, guarda avanti: “Speriamo nei giovaniSono il futuro del nostro Paese, il nostro sognoSono tanti e vogliono costruire un Egitto migliore e democratico con l’aiuto indispensabile delle giovani egiziane”.
FORSE HA RAGIONE Bertrand Badie che su Le Monde parla di “rivincita delle società arabe” ribadendo con forza che “si tratta soprattutto di rivoluzioni sociali che nulla hanno a che fare con le opposizioni politiche inesistenti o marginaliLa realtà è che siamo entrati in maniera brutale nell’era post-leninista nella quale le mobilitazioni sono efficaci se ad animarle non ci sono né partiti né organizzazioni né leader né ideologie né programmi”.
il Fatto 26.2.11
Claudia Gazzini (European University Institute)
“Né tribù né al Qaeda: è una rivolta popolare”
di Giampiero Calapà
“Una delle ragioni che mi fanno escludere che ci sarà una divisione della Libia lungo linee tribali sta nel fatto che in questi giorni nelle provincie liberate stiamo vedendo una grande mobilitazione popolare che trascende da appartenenze alle tribù”La professoressa Claudia Gazzini, esperta di storia e società libica (studiosa del Nord Africa all’Istituto universitario europeo di Fiesole), sfata il primo tabù sul post-Gheddafi: “Molti sono i giovani, attivisti, dottori, o semplici pannettieri che si stanno organizzando in comitati per gestire il territorio liberatoÈ vero che i capitribù delle provincie orientali si sono riuniti ieri ad al-Bayda per consultarsi, ma la riorganizzazione del territorio sta avvenendo dal basso”Quindi è un’ipotesi semplicistica quella che il colonnello Gheddafi, i suoi figli, ma anche numerosi analisti occidentali, ripetono in queste ore per motivi di comodo: caduto il rais si apriranno le porte del caos SbagliatoPerché “le strutture sociali – sostiene Claudia Gazzini – che si sono create negli anni hanno portato a superare quel tipo di società primordiale rappresentata da una divisione in tribù, che pure ancora esistono e sono individuabili”Ce ne sono una trentina in Libia tra cui le più importanti sono i Warfala, a sud di Tripoli, i Tuareg, al sud del Paese, i Magarha, i Mujabra, i Maslata, i Ghaddafa, i Misurata, gli ‘Awaqir, i Zuwaya e gli ‘AbadatQuando Gheddafi prese il potere allontanò i loro capi dalle stanze dei bottoni, per poi cooptarli, assegnando loro anche incarichi di peso.
NEI PRIMI GIORNI della rivolta le tribù hanno subito preso le distanze dal colonnello, schierandosi dalla parte dei manifestanti: “Proprio per questo molti analisti e osservatori sono saltati – spiega Gazzini – alla conclusione che si sia trattato di una rivolta scatenata dalle tribùMa non è affatto cosìI leader si sono schierati in un momento in cui la rivolta popolare era già scoppiata , per chiedere il rilascio, poi concesso, dell’attivista per i diritti umani Fathi Terbil, rappresentante dei familiari delle vittime del massacro del carcere di Abu Salim, avvenuto a Tripoli nel 1996”: 1200 detenuti furono massacrati dai militari libiciQuindi, ripete Gazzini, “è una situazione che nulla ha a che fare con le alleanze tribali, perché esplosa poi definitivamente per una reazione alla decisione del governo di Gheddafi: sparare sulla follaOrdine che ha provocato l’indignazione dei capi tribù, come dei diplomatici all’estero che si sono dimessi, o di ampi settori dell’esercito che sono passati dalla parte dei manifestanti”.
L’altra grande menzogna che aleggia sulla Libia in queste ore è quella di un “islamismo radicale, sostenuto da al Qaeda, in grado di prendere il controllo del Paese e deciderne le sorti: niente di più falso, perché l’organizzazione di Bin Laden è soltanto un grande fantoccio brandito dallo stesso Gheddafi per far paura all’Occidente”Il fondamentalismo islamico sarebbe molto lontano dalla Libia, per la professoressa Gazzini: “Come per la questione tribale anche per quanto riguarda l’Islam radicale, siamo in una situazione completamente differente rispetto, ad esempio, a quella somala evocata da Gheddafi e dai suoi figli”
UN INTERVENTO internazionale per ristabilire l’ordine per Gazzini difficilmente sarebbe visto di buon occhio dai libici: “Accrediterebbe quanto dice Gheddafi sulle ancora attuali mire colonialistiche dell’Occidente: sicuramente Europa e Stati Uniti dovranno aiutare le forze di opposizione interne a guidare il cambio di regimePurtroppo la posizione dell’Italia è imbarazzante oltre ogni immaginazione, spero che i vincoli di quel trattato firmato da Gheddafi e Berlusconi saranno ignoratiQuesto insegna che forse si potevano fare affari con la Libia anche senza quel trattato, senza considerare guadagni a breve termine come più importanti e proficui di quanto poi si sono rivelati”
La Stampa 26.2.11
Le rivoluzioni che l’Occidente non ha capito
di Kurt Volker
Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamentiL’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continuerannoIl mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.
Questo rende cauti i politiciAnche nel pieno di nuovi sviluppi dimostrazioni, crisi economiche, guerre l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalitàVale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionalePerché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga?
E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadonoLa caduta del muro di BerlinoIl crollo dell’Unione SovieticaE trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costiInoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.
Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usualQuesto è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio OrientePrima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatorePoi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altroveIn Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere MubarakLa maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibileOgni volta abbiamo sbagliato l’analisiOgni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agireQuelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loroPerché abbiamo sbagliato? Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso e allora perché bruciare i ponti?
n secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratoriTerzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedenteQuarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con IsraeleQuinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democraziaE sesto e ultimo punto forse il più significativo perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione.
Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governoHanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regimiHanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativoCome risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile nonostante i nostri stessi valori.
La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su TwitterMolti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governoEppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diversoLa gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritariQuesta onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’OccidenteSi tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governantiPer quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intattaQuesto è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire.
Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nullaE poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l'Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.
Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual questo è il grande cambiamentoI nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamoE le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democraticoLe conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq.
*Ex ambasciatore americano alla Nato è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates(Traduzione di Carla Reschia)
Corriere della Sera 26.2.11
Petrolio e tecnologie militari: dossier sulle imprese italiane
La relazione degli 007 al Viminale: cento imprese coinvolte
di Fiorenza Sarzanini
Non solo petrolioSono affari da miliardi di euro, quelli che le imprese italiane hanno concluso in Libia negli ultimi anniSistemi di alta tecnologia, veicoli, elicotteri, infrastrutture, impianti, mangimi industriali: nell’elenco delle esportazioni tra il 2008 e il 2010 figurano anche i ricambi per le navi da guerra e per armamenti, i dispositivi di tiro, i materiali per bombe, razzi e missiliL’ultima relazione trasmessa dagli apparati di sicurezza al ministero dell’Interno fa il punto sulla crisi che sta travolgendo il regime di Gheddafi.
ROMA — Sistemi di alta tecnologia, veicoli, elicotteri, infrastrutture, impianti, mangimi industriali: sono affari da miliardi di euro quelli che le imprese italiane hanno concluso in Libia negli ultimi anniE nell’elenco delle esportazioni tra il 2008 e il 2010 figurano anche ricambi per navi da guerra e per armamenti, dispositivi di tiro, materiali per bombe, razzi e missiliL’ultima relazione trasmessa dagli apparati di sicurezza al ministero dell’Interno fa il punto sulla crisi che sta travolgendo il regime del colonnello GheddafiDedica un ampio capitolo alle ripercussioni che la rivolta può avere sull’economia del nostro PaeseConferma le relazioni tra il rais e le industrie bellichePoi analizza le ripercussioni che la guerra civile può avere sulla nostra economia «tenendo conto che la Libia si colloca al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell’Italia con un peso percentuale del 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore che ricopre circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro» Non soloNella relazione viene evidenziato come «la Libia risulta essere il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia» Gli investimenti di 100 aziende L’elenco delle imprese che fanno affari in Libia comprende tra l’altro Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e SaipemIl dossier evidenzia come «Impregilo ha ottenuto contratti per oltre un miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e per infrastrutture da realizzare a Tripoli e Misurata, mentre il Gruppo Trevi sta lavorando a diversi grandi progetti edilizi nel centro di Tripoli» Sono cinque i settori nei quali gli italiani sono maggiormente impegnati: impiantistica, costruzioni, trasporti, meccanica e mangimi industriali con la Martini SilosLe considerazioni degli analisti fanno ben comprendere quali possano essere le conseguenze della crisi: «L’Italia risulta essere il terzo Paese investitore tra quelli europei (escludendo il petrolio) e il quinto a livello mondialeL’importanza che il mercato libico riveste per il nostro Paese è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 impreseIl maggiore investitore è l’Eni, ma di rilievo è anche la presenza della Iveco spa presente con una società mista e un impianto di assemblaggio di veicoli industriali» Nell’elenco delle aziende «c’è la Sirti che unitamente alla francese Alcatel ha ottenuto commesse per la fornitura e la messa in opera di oltre 7.000 chilometri di cavi di fibre ottiche per un importo globale di 161 milioni di euro (di cui 68 per Sirti); la Agusta-Westland che ha ottenuto il contratto per la fornitura di dieci elicotteri con relativi corsi di formazioni e assistenza postvendita; Alenia Aermacchi ha invece ottenuto un contratto da tre milioni di euro per un programma di formazione e revisione dei sistemi di propulsione su 12 aerei sf-260» Ricambi per bombe e siluri Alla relazione sono allegate le tabelle che danno conto degli affari più remunerativi ed elencano sia le «esportazioni definitive» sia le «trattative contrattuali per le esportazioni definitive» Si scopre così che l’ 8 maggio 2009 la società Mbda Italia ha firmato un accordo da due milioni e mezzo di euro per la fornitura di «materiale per bombe, siluri, razzi e missili» , mentre nell’ottobre dello scorso anno Agusta ha ottenuto due contratti per apparecchiature di alta tecnologia a un costo complessivo di oltre 70 milioni di euroA novembre la Oto Melara ha invece avviato la negoziazione per «armi o sistemi d’arma di calibro superiore a 12,7 mm oltre a materiale, ricambi, tecnologia know-how, attrezzature» Nel 2010 la Selex Sistemi Integrati, gruppo Finmeccanica, ha siglato un contratto da oltre 13 milioni di euro per materiale e ricambi di apparecchiature elettroniche e apparecchiature per la direzione del tiro» A gennaio la Intermarine spa ha avviato un negoziato da 500 milioni di euro per la fornitura di materiale e software per le navi da guerra» E un mese dopo ha fatto partire una nuova trattativa per 100 milioni di euro, mentre la Oto Melara discuteva la stessa cifra per la fornitura di materiale di uso bellicoIl fondo d’investimento L’ultimo affare la Alenia Aermacchi l’ha siglato il 14 gennaio 2011: fornitura di ricambi per aeromobili per quasi un milione di euroSelex e Oto Melara hanno invece avviato contrattazioni per complessivi 70 milioni di euro, mentre Agusta sta negoziando un contratto da 80 milioni di euro «per apparecchiature elettroniche e materiale per l’addestramento militare o per la simulazione di scenari militari» Non si sa che futuro avranno queste «commesse» , così come ci si interroga sulla presenza del fondo «Libyan Investment Authority» in alcune aziende italianeOltre alle partecipazioni azionarie in Fiat, Finmeccanica, Eni e Unicredit, nel dossier si evidenzia il possesso del «31 per cento della società Olcese nel settore manufatturiero, il 7,5 per cento della Juventus e il 33 per cento della Triestina» .
Corriere della Sera 26.2.11
«Il candidato premier? Non c’è solo Bersani»
La Bindi su Fini e Vendola: l’alleanza tra riformisti e moderati può essere strategica
di Aldo Cazzullo
Rosy Bindi, il partito che lei presiede perde pezziE in particolare sono i cattolici ad andarsene o prepararsi a farlo«Si tratta più di annunci o indiscrezioni che di realtàNon mi pare si possa parlare di un partito in pezzi» Dall’inizio della legislatura hanno lasciato il Pd 23 parlamentari«Non è un fenomeno che riguarda l’essere cattolici nel PdSpesso sono in gioco destini personali, calcoli di potere e di convenienzaNon scomoderei la cultura cattolica e il modello politico del Pd per spiegare il caso Calearo, i passaggi al gruppo dei responsabiliSarebbe una forzatura o un modo per rendere nobili scelte che non lo sono» Allora va tutto bene? «Non dico questoSiamo un partito ancora in costruzioneAbbiamo davanti una sfida molto importante, la sintesi tra culture diverseUna fatica veraPresuppone che ciascuno si senta impegnato nel progetto comune, non solo a rivendicare la propria identitàLa sola identità cui dovremmo lavorare è quella democratica» Per i cattolici sembra essere particolarmente difficile«Riconosco che qualche volta lo èIo stessa talora ho sentito la difficoltà di essere ascoltata e di ascoltare tutti, di interpretare tutte le istanze che esistono dentro il PdSi tratta di convertirsi alla cultura vera del Pd, rinunciando a cercare le tracce del passatoOgni volta che con serenità e senza strumentalizzazioni si cerca tra noi una nuova sintesi, si trova» Fioroni sta per andarsene? «Non mi pare un tema all’ordine del giornoCredo di poter fare tutto quello che è necessario per scongiurarloLo considererei un fatto negativo per il nostro partitoE credo lo sarebbe anche per luiChi ha scommesso sul progetto può e deve far di tutto perché il progetto riesca bene, anche nell’interesse del PaeseL’Italia ha bisogno del Pd, di una forza che unisca anziché dividereAnche sui temi eticamente sensibiliIl centrodestra li strumentalizza a fini elettorali, punta a separare buoni e cattivi, partito della vita e della morteDa cattolici, anziché limitarci a rivendicare la nostra identità, dobbiamo interpretare il pluralismo reale che c’è nel Paese» Le gerarchie hanno preso un po’ le distanze da BerlusconiC’è spazio per costruire con la Chiesa quel rapporto che finora al Pd è mancato? «Non solo le gerarchie, anche moltissimi cattolici italiani hanno espresso distacco e giudizi severi su Berlusconi, per i comportamenti personali e anche per la sua politicaGiustizia, libertà, dignità stanno a cuore ai cattoliciI vescovi non possano non averlo percepitoInfatti hanno avuto parole chiare, che Berlusconi finge di non sentirePerò la delusione per la destra non significa automaticamente attenzione al PdPenso che noi ce la dobbiamo conquistare tutta, la fiducia del mondo cattolico; con la nostra capacità di ascolto, di confronto, e anche di spiegare la coerenza delle nostre scelteChe non tradiscono i valori della dottrina sociale della ChiesaLi recepiscono nella laicità e li attualizzano in un Paese plurale» Vendola l’ha messa in imbarazzo candidandola a Palazzo Chigi? «Non sarei sincera se nascondessi la mia soddisfazione nel vedere che la proposta ha avuto una buona accoglienza, anche nei sondaggiQuesto non può che far piacereNon è mia abitudine giocare con i sentimentiAnche perché la proposta di Vendola ha offerto l’occasione di verificare qualcosa che anche per me è stata sorprendente: la possibilità di una leadership femminileUn passo avanti che rende sopportabile un pizzico di strumentalità» Perché strumentalità? «Nel momento in cui ha fatto un passo indietro, Vendola forse non doveva scaraventarmi nella mischiaNon è solo un fatto formale ribadire che Bersani in questo momento è la persona più adeguata» Follini ha fatto il nome di Mario Monti«Noi dobbiamo cercare la persona capace di realizzare tre cose: l’operazione politica di un’alleanza vasta; vincere le elezioni; governare il PaeseI nomi sono moltiNon solo quello del mio segretarioMonti è un nome autorevolissimoCerto, nel momento in cui Vendola si rende disponibile ad una prospettiva più ampia perché capisce che c’è un’emergenza economica e sociale, non si possono non ascoltare le esigenze che la sua parte esprimeL’alleanza tra sinistra e moderati è una strategia di medio e lungo periodoPer strappare i moderati alla destra populista dobbiamo individuare il leader che rappresenti un punto di sintesi» Lei pensa a un’alleanza da Fini a Vendola anche nel lungo periodo? «È evidente che ragionare sulle sigle di adesso, appunto da Fini a Vendola, si giustifica solo con l’emergenza dettata dalla necessità di mandare a casa Berlusconi e di fare le riforme di cui l’Italia ha bisogno, che richiedono una coalizione molto ampiaMa, se usciamo dalle sigle di oggi, l’alleanza tra riformisti e moderati può essere strategica e non solo tattica ed emergenzialeL’Italia del dopoguerra si è costruita cosìLa grande operazione democristiana è stata questaÈ Berlusconi che servendosi del pericolo comunista ha finito per catturare i moderati, cattolici compresi, dentro il suo populismo» Casini ha già detto: o lui o Vendola«Anche Casini deve assumere le sue responsabilità e chiedersi quale idea d’Italia vuole realizzareAltrimenti le elezioni possono essere vinte da questo o quest’altro schieramento, ma difficilmente si andrà oltre il berlusconismo e non si costruirà una nuova Italia» Il candidato a Palazzo Chigi può essere proprio Casini? «Le leadership possibili sono molteNel cammino di una soluzione comune anche noi potremmo rinunciare al nostro candidato naturale, il segretario del partitoSe poi questa prospettiva non è praticabile, ognuno andrà per la sua stradaMa il giorno dopo le elezioni il vincitore dovrà comunque porsi il problema di realizzare una convergenza più ampia, tra progressisti e moderati, e aprire davvero una pagina nuova per la nostra democrazia»
il Fatto 26.2.11
Politici mutanti
di Pierfranco Pellizzetti
Giorni fa, scrivendo nel blog de Il Fatto Quotidiano sul senatore Gaetano Quagliariello, ho scoperto che molti visitatori ne ignoravano i trascorsi pannellianiSoprattutto i più giovani, i quali ora stentano a raccapezzarsi apprendendo che quel parlamentare, il bilioso megafono di imbarazzanti panzane sullo zio di Ruby Rubacuori o di raccapriccianti ignominie tipo “l’Englaro assassino”, il berlusconiano allo sbaraglio nelle reti televisive ha nientemeno un passato di inveterato laicista tra le file dei radicali; dove promuoveva progetti di testamenti biologici, arrivando perfino a farsi incarcerare per aver manifestato contro quelle centrali nucleari che ora sembrano la panacea agli Scajola, suoi attuali compagni di partito.
Ancora una volta si potrebbe chiudere la faccenda con la vecchia battuta secondo cui “lo scettico è un metafisico deluso”Ma sarebbe troppo poco, visto che la mutazione genetica nel nostro personale politico è diventata un fenomeno di massa, dopo le transumanze che hanno accompagnato la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica e relativo “liberi tutti”Migrazioni accelerate e largamente intercettate dalle campagne acquisti di Silvio Berlusconi; a partire dal momento in cui doveva allestire il pacchetto di mischia per assaltare le istituzioniCon una lista della spesa giocata in ogni direzioneA riprova che le callosità dell’anima, prodotte dalla vita quotidiana , in molti uomini pubblici si erano ormai ossificate, inducendo negli sventurati l’insensibilità alla decenzaNon pochi di quegli arciscettici erano ex comunisti, personaggi con lo stigma dello spretato e il relativo carico di risentimenti verso la chiesa che avevano abbandonato : la combriccola è capeggiata da Giuliano Ferrara, in cui spiccavano nomi di un certo pregio, come il filosofo Lucio Colletti o l’elzevirista barocco Saverio Vertone.
Più scontata la pesca della fauna che sguazzava in quella terribile scuola di cinismo e relativi brogli che furono i parlamentini universitari (l’UNURI, spazzata via dal ’68), di cui un Maurizio Sacconi o il Daniele Capezzone sono i più fedeli allievi, nella torma degli smarriti che trovarono asilo nel castello stregato su cui impera la figura del corruttore principe BerlusconiAltri avevano percorsi ancora più tortuosi, come il piduista-lombardiano Fabrizio Cicchitto o il teologo Gianni Baget Bozzo, marchiato da ferite esistenziali che lo avevano condotto all’adorazione del Potere per il Potere e le relative incarnazioni.
Va detto che una delle ragioni del successo dell’attuale premier, omarino modesto e di minima cultura, consiste proprio nella sensibilità animalesca con cui fiuta negli interlocutori questa friabilità del carattere che li rende arruolabili senza riserveNon di rado sedotti dalla barbarica ferocia dell’amorale affarista, vissuta come segno di incommensurabile vitalità a fronte delle vaghezze dei tenorini e dei chierichetti che pretendono di essere l’opposizioneDunque un fenomeno più psicologico che non politico, da portare alla luce; da mettere in evidenza, per consentire al corpo elettorale la presa d’atto dei percorsi biografici aggrovigliati di chi li rappresentaAl riguardo – tra il serio e il faceto – si potrebbe proporre una riforma in linea con le logiche aziendalistiche oggi imperanti: un kamban per ciascun rappresentante del popoloDi cosa si tratta? Il kamban è una soluzione tipica del modello Toyota e consiste nel cartellino che accompagna il montaggio di ogni vettura su cui vengono segnati i vari passaggiAd esempio, nel caso dell’aspirante viceministro Aurelio Misi-ti: Pci, Cgil, Idv, Mpa di Lombardo e ora in trattativa con Berlusconi (settimane fa era tra i 315 che gli hanno votato a favore)Il rischio in questa ipotetica politica alla giapponese è che, smascherato dal kamban, qualcuno finisca per fare harakiri
Corriere della Sera 26.2.11
La Consulta di bioetica
Anche i farmacisti possono fare obiezione di coscienza
Il ginecologo Carlo Flamigni ha lasciato la riunione, polemico
di Margherita De Bac
ROMA— Non è diritto esclusivo dei medici«Anche i farmacisti dovrebbero poter esercitare l’obiezione di coscienzaPurché la loro scelta non danneggi il cittadino» Il Comitato nazionale di bioetica ha approvato un documento rispondendo al quesito presentato nel novembre del 2010 dalla deputata udc Luisa Santolini dove si fa riferimento a «prodotti farmaceutici per i quali non si escludono meccanismi di azione che portino all’eliminazione di un embrione umano» È il caso della pillola del giorno dopo, catalogata come contraccettivo di emergenzaEntro due giorni dal rapporto sessuale che potrebbe aver determinato l’avvio di una gravidanza riduce il rischio che l’evento si verifichiAborto vero e proprio per i cattoliciDiversi iscritti agli ordini professionali (quello di Perugia ha riconosciuto ufficialmente la pratica dell’obiezione) hanno deciso di astenersi dal venderlaE ieri il Comitato ha giudicato deontologicamente corretto il loro comportamentoIl sì non è stato unanimeIl ginecologo Carlo Flamigni ha lasciato la riunione, polemicoTutti però hanno concordato su un puntoSpiega il vicepresidente, Lorenzo D’Avack: «Noi raccomandiamo che se il legislatore dovesse riconoscere l’obiezione, dovrebbe essere previsto un sistema organizzativo che consenta di ottenere la pillola del giorno dopo» «Un buon documento — commenta il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella —Una questione da regolare perché il problema potrebbe riguardare in futuro altri prodotti eticamente sensibiliPensiamo al kit per l’eutanasia venduto in certi PaesiMa i diritti dei cittadini vanno rispettatiServe una legge» Ne ha presentata una la Santolini: «Bisogna andare avantiPerché la cosiddetta clausola di coscienza deve essere esclusiva del medico?» Pesanti le criticheFlamigni spiega il suo abbandono: «Mi ha irritato il disprezzo per la scienza da parte dei filosofiNon si può sostenere che la pillola del giorno dopo inibisca l’impianto dell’embrioneL’unica ricerca cui fare riferimento, del Karolinska Institute, dimostra che la pasticca è antagonista dell’ovulazione, la ritardaÈ questa, fino a prova contraria, la veritàI filosofi dovrebbero accettarla» Secondo Marco Cappato, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, «è l’ennesimo atto del Comitato dello Stato bioetico costretto ad acrobazie semantiche e imposture ideologiche» Valutazione da tecnica di Annarosa Rocca, presidente di Federfarma: «Se c’è la ricetta la pillola va sempre dispensataÈ la nostra missioneSiamo un servizio pubblico 24 ore su 24» Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti (Fofi), è favorevole a una legge
Corriere della Sera 26.2.11
Vendola, il Gip archivia tutto
Non quella frase impronunciabile
di Antonio Macaluso
L’archiviazione dell’indagine a carico del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, da parte del gip del tribunale di Bari Sergio Di Paola nell’ambito dell’inchiesta sulle nomine in alcune Asl è una buona notiziaQuando un’indagine che chiama in causa un gestore della cosa pubblica, qualunque sia la sua carica e il suo schieramento politico, finisce in modo positivo, c’è sempre da essere soddisfattiIn un Paese dilaniato dalle polemiche e nel quale le Procure hanno un gran lavoro da svolgere per tutelare la cosa pubblica dall’intreccio tra politica e affari, quella di ieri è dunque una giornata positiva«L’onestà è la miglior politica» , si legge a un certo punto nel Don ChisciotteE verrebbe da dire: sai che scopertaMa purtroppo, lo sappiamo, molte — troppe — volte non va cosìBuon per Vendola, dunqueIl quale, però, esce da questa storia almeno con una brutta caduta di stileQuella frase — quella intercettata nella quale chiede candidamente all’allora assessore alla Sanità Alberto Tedesco se non si possa per caso cambiare la legge che impedisce ad uno dei suoi candidati di diventare direttore generale di una Asl— non avrebbe dovuto pronunciarlaE non ci convince, se lo lasci dire, la passione con la quale ieri il presidente della Regione Puglia ha difeso in tutto e per tutto il suo operato«Rivendico — ha affermato durante una conferenza stampa — ogni singolo atto, ogni singola parola o telefonata che ho fatto nell’interesse della cosa pubblica» Nessuno può certo impedire a Vendola di rivendicare ogni suo singolo atto gestionale e del resto è lo stesso gip a sostenere che nel comportamento del governatore pugliese non sono riscontrabili «minacce o costrizioni penalmente rilevanti» Per il giudice, insomma, non c’è traccia di atteggiamenti che possano paventare il reato di concussioneDi più: Vendola si è detto fiero di non aver applicato lo spoil system, previsto dalla legge, che affida ai governi regionali la selezione dei manager sanitari, con un mandato fiduciarioAnzi, ha aggiunto di aver selezionato molti manager che venivano dalla gestione del predecessore Raffaele Fitto e di aver emanato la legge più all’avanguardia in Italia per formare e selezionare per meriti nuovi managerTutto bene, dunqueNon quella frase
Corriere della Sera 26.2.11
Le sentinelle anti anoressia e il labirinto della malattia
di Pierluigi Panza
Nelle sfilate di moda in corso a Milano le cosiddette sentinelle della salute del Comune avrebbero già segnalato la presenza di due «modelle anoressiche» Il fine di questa «caccia all’anoressica» è nobile, ma cercare di normare i modelli socio-estetici attraverso il divieto — allontanando i «cattivi esempi» — è una forma di biopotere di difficile attuazioneSoprattutto quando si riconduce uno stato, la magrezza, a una malattia, l’anoressia, che non nasce dai modelli di donna oggi imposti e non è da confondersi con le dieteGià nel 1873 Ernest Charles Lasègue, professore di medicina a Parigi, pubblicò un testo intitolato De l’anorexie hystérique nel quale spiegava che la causa dell’anoressia non era il disgusto per il cibo bensì andava ricercato «in una perversione intellettuale dovuta a una forte emozione, confessata o repressa» E aggiungeva: «La famiglia è sconvoltaPreghiere e minacce ottengono una più ostinata resistenzaGli interessi dell’ammalata si esauriscono e insorgono idee ipocondriache e delirantiIl medico perde l’autorità e i farmaci risultano inutili» Prima di lui, Philippe Pinel, capo della Salpétrière, aveva inserito questo disturbo nei suoi trattati sull’isteria e sulle nevrosi genitali identificandolo come una nymphomania causata da un delirio per «esasperazione d’amore» Prima, nel 1796, in Ninfomania o trattato sul furore uterino, il dottor Bienville aveva scritto di fanciulle che «un’educazione troppo rigida ha reso vittime del bene pubblico» E nel 1689 il londinese Richard Morton, nel trattato Phthisiologia, aveva parlato di «consunzione nervosa» che portava alla morteL’anoressia confina addirittura con la misticaIn La santa anoressia l’antropologo Daniel Bell documenta come il 50%delle mistiche medioevali rifiutasse il cibo e vomitasse come le anoressiche per sentirsi pure nel loro amore assoluto verso DioIl caso più noto è quello di Caterina da SienaL’anoressia, insomma, è un male antico, misterioso, tragico… La ragazza magra, se psicologicamente sana, non è un’anoressicaL’anoressica diventa magra perché è ammalata e ricatta per colmare il suo desiderio d’amore
l’Unità 26.2.11
Non abbiamone paura e iniziamo a sollevare domande: per Schopenhauer è già un atto coraggioso, un impegno civico
Valori civili
Rivalutiamo il coraggio né maschile né femminile. Eterogeneo
Non «ha» genere ed è provocato sia dalla forza di una libera scelta che dalla spinta emotiva
di Nicla Vassallo
Vacilliamo e individuiamo nel coraggio una prerogativa dittatoriale, conservatore, liberal, a seconda delle nostre appartenenze, di una mutevole lettura delle tesi politiche, di una certa cecità rispetto alla complessità del concetto, nonché alle somiglianze di famiglia (in senso wittgensteniano) tra i tanti atti di coraggioFacile da cogliere questa complessità, specie per chi, come la sottoscritta, pur non amando Arthur Schopenhauer, conviene con lui che il coraggio filosofico consista nel sollevare domande: le azioni coraggiose vengono aizzate o paralizzate da valutazioni razionali?; emotività, inconsapevolezza, spontaneità conducono a scardinare le proprie debolezze e difficoltà?; occorre conoscenza dei pericoli che si corrono e dei successi cui si ambisce?; mostrare coraggio sul piano civile, su quello fisico, su quello psichico implica confrontarsi con più tipologie di contrarietà?; il coraggio rappresenta la spiegazione di un gesto, oppure è col gesto che si spiega il coraggio?; l’eterogeneità dei coraggi ammette amour propre, autoaffermazioni, convenienze, stupidità, vanità, ambizioni di celebrazioni, glorie, visibilità?; attribuiamo coraggio a causa dell’empatia, dell’invidia, della soggezione nei confronti del soggetto prode, e lo attribuiamo in egual misura ad azioni, costumi, pensieri?; quali avversità private, oltre che pubbliche, inducono ad azioni coraggiose?; perché il coraggio è tradizionalmente maschile, mentre la pazienza è femminile?; la leggenda vige fino al punto da trasformare il coraggio in un vizio macho e la remissività in uno da femminucce?; la pazienza non si esplica forse in una forma di coraggio, e il coraggio non si rivela al contempo nell’impeto e nell’onestà?
Queste domande generano imbarazzo intellettuale e politico: esitiamo a offrire loro una risposta cogente e definitiva, che non oscilli tra diversi poli, a seconda del preciso contesto in cui ci troviamo e dello specifico gesto che osserviamo.
Nel coraggio non si scorge solo abnegazione, come nell’abnegazione non si scorge solo coraggio, mentre non sempre l’ingiunzione di San Paolo, contra spem in spem crediti, conduce verso l’uno, o verso l’altra, sempre che sia lecito credere in qualcosa privo di speranza.
L’esempio dell’«Eran trecento, eran giovan e forti e sono morti» rimanda a un coraggio per un verso conservatore, per un altro liberal, per un altro ancora anarchico dipende dalle interpretazioni del Risorgimento, della spedizione di Carlo Pisacane, dei rapporti tra nord e sud, delle afflizioni di chi conquista e di chi è conquistato, di chi libera e di chi è liberato, dei valoriValori che non sono scomparsi dalla nostra attuale società, come non sono scomparse le avversità cui reagire, sebbene l’immaginario collettivo consideri il coraggio virtù vetusta, addirittura sovversiva: la sfera privata e pubblica ci pongono alla prova ogni giorno, costringendoci a cercare la verità, a conoscere, a riflettere su correttezze e scorrettezze, a impiegare la ragione, a costo di subire ostracismi.
Se è giusto affermare che con coraggio si supera la paura, ogni epoca, la nostra inclusa, è attraversata dalla paura di avere coraggio, un coraggio che non si pone l’obiettivo di venir premiato dalle telecamere, un coraggio che nasce da umanità e umiltà, che si concretizza in impegni civici, sociali, e il cui indennizzo rimane nella propria coscienza, intelligenza, sensibilità.
In una famosa definizione di Ernest Hemingway, il coraggio è «grace under pressure».
l’Unità 26.2.11
I «presagi» di Bobbio. Lettere inedite
Corrispondenze Nel «corso delle cose» inaugurato dal «berlusconismo», l’intellettuale vedeva nella «discesa in campo» del suo protagonista il volgare ritorno dell’«Italia barbara», ostile a ogni forma di serietà pubblica e privata
di Nunzio Dell’Erba
Le lettere riprodotte fanno parte di una corrispondenza tra Norberto Bobbio (1909-2004) e l’autore di questo articolo sulla scia di uno scambio culturale cominciato quindici anni prima del loro invioLe due lettere, datate 28 ottobre
1989 e 4 febbraio 1990, sono pubblicate per l’attualità dei temi che l’intellettuale torinese sapeva suscitare nei suoi giovani interlocutoriMa sono altresì significative per comprendere il clima culturale del momento, che sembra preannunciare un mutamento epocale caratterizzato dal crollo del comunismo nel sistema internazionale e dal tramonto del sistema partitico in quello nazionale.
La prima lettera segue di pochi giorni l’intervista di Bobbio che «L’Espresso» pubblicò il 22 ottobre per iniziativa di Peter Glotz e Otto Kallscheuer durante il suo ottantesimo compleannoL’intervista, che uscì in una versione integrale sulla rivista tedesca «Die Neue Gesellschaft», suscitò un intenso dibattito per il giudizio negativo sul Psi, su cui Bobbio ritornò per precisare – come si legge nella seconda lettera del 4 febbraio – la sua visione del riformismo («quali riforme?») e per criticare la gestione Craxi («Ah, se Craxi fosse un po’ meno sicuro di sé, e ascoltasse ogni tanto persone diverse da Berlusconi, Trussardi, e i ricchi padroni delle ville in Brianza!»).
DEMOCRAZIA MODERNA
La storia del Novecento – considerato il secolo più tragico della storia umana per gli eventi terribili delle due guerre mondiali, dei totalitarismi moderni, dei rivolgimenti nazionali e del terrorismo internazionale – fu sempre presente nell’opera di Bobbio sin dall’esordio della sua attività culturale e politicaGià nel 1946 egli, come candidato del Partito d’Azione per l’Assemblea Costituente, avanzò un progetto di «umanizzazione dello Stato», volto a un’attiva partecipazione dei cittadini e a un’organizzazione autonomistica «delle istituzioni di autogoverno»I principi della democrazia moderna, trasferiti all’organizzazione internazionale degli Stati, furono al centro della sua attività culturale: l’impegno nella «Société européenne de culture» e nella rivista «Occidente» furono i momenti preparatori del libro Politica e cultura (1955), con il quale cercò di supera re il «divorzio» tra cultura e politica, proponendosi di trovare le cause per rendere più democratica la struttura sociale e meno oppressiva l’istituzione statuale.
L’invitation au colloque, ispirato all’estensione della libertà a ogni manifestazione umana, fu raccolto da Palmiro Togliatti, da Galvano della Volpe e da Ranuccio Bianchi Bandinelli, i quali criticarono la stretta connessione tra liberalismo e reazione, rifiutando le analisi dello scrittore torinese come un persistente attaccamento alla democrazia liberaleIl dialogo, che investì altri temi come la libertà e la giustizia sociale, si protrasse fino alle soglie dei fatti d’Ungheria e del XX congresso del Pcus (1956), ma non ebbe alcun seguito nella cultura politica per i vent’anni successivi.
L’altra questione, che vide impegnato Bobbio nel dibattito culturale, fu quella relativa alla minaccia della guerra atomica per l’uso di armamenti «sempre più micidiali»Il rifiuto della guerra come «male assoluto» e delle sue tradizionali giustificazioni lo portarono ad invocare una totale obiezione di coscienza e un attivo pacifismo come vie necessarie al progresso della civiltà umana.
L’analisi del sistema internazionale e del complesso rapporto tra diritto-guerra s’ispirò alla dottrina di Kant: una pacificazione duratura dei rapporti tra gli Stati poteva derivare solo dall’adozione in ogni singolo Stato di una Costituzione liberaldemocratica, ossia da quella «costituzione repubblicana» che era considerata dal filosofo tedesco come l’unica «in grado di evitare per principio la guerra» (Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp149).
Le riflessioni sulla guerra si unirono anche alle vicende politiche della sinistra italiana, alle quali partecipò come protagonistaNel 1966 aderì al Partito socialista unificato nella speranza che esso potesse aprire uno scenario nuovo nella vita politica italianaL’unificazione segnò una delusione per Bobbio, che dopo la sua sconfitta nelle elezioni politiche del 1968 si convinse che il suo impegno doveva svolgersi non nelle aule parlamentari ma in quelle universitarie.
La protesta studentesca e il movimento extraparlamentare furono criticati da Bobbio, che riconobbe valida la contestazione di alcune «disfunzioni reali» dell’Università italiana, ma si oppose a quello «stato di esaltazione collettiva» che spinse gli studenti a richiedere «corsi autogestiti»Il rapporto tra docenti e studenti, l’ostilità verso ogni forma di potere tradizionale, le nuove relazioni fra i sessi, il valore soggettivo dell’impegno politico furono così ricondotti a «un trauma profondo della sinistra italiana», le cui cause si rispecchiavano nella contestazione studentesca come esito finale di mutamenti sociali e come conseguenza di rivolgimenti politiciIn questo ambito Bobbio incluse la crisi del Pci, l’ingresso dei socialisti nella compagine governativa, la costituzione del Psiup, l’eco della rivoluzione culturale cinese e i rivolgimenti politici in Urss come gli aspetti più appariscenti che «rappresentarono l’addio a ogni speranza di rinnovamento».
Nella prima parte del fortunato saggio Profilo ideologico del Novecento (1969), Bobbio contrappose l’antifascismo al fascismo come monito per scongiurare la «caduta» della vita pubblica italiana in un potere dispotico e in una degenerazione della democraziaLe sue tesi, sviluppate in molteplici saggi e dirette a salvaguardare il sistema rappresentativo, approdarono alle elaborazioni di Quale socialismo? (1976) e del Futuro della democrazia (1984), che trovarono una conclusione definitiva nella definizione del metodo democratico e nel rispetto delle «regole del gioco»Con questo impianto concettuale Bobbio ritornò più volte dopo l’89 sul valore della democrazia per la difesa dei suoi postulati fondamentali e per la formazione di un partito unico della sinistra.
Sull’onda degli sconvolgimenti internazionali prodotti dall’Urss, Bobbio non plaudì a quella mutazione genetica del sistema politico che va sotto il nome di «fine della Prima Repubblica»Nel nuovo «corso delle cose» inaugurato dal «berlusconismo», Bobbio vide nella «discesa in campo» del suo protagonista il volgare ritorno dell’«Italia barbara», ostile a ogni forma di serietà pubblica e privata, incapace di una vera pratica democratica, incerta tra «i luoghi comuni dei servi contenti» e le dimostrazioni oltraggiose di strapotere dei nuovi padroni.
GLI ULTIMI ANNI
In un lucido articolo apparso su La Stampa il 20 marzo 1994, Bobbio prese spunto dalla vittoria di Berlusconi per definire «eversivo» il suo «modello» di partito, considerato un «fenomeno senza precedenti» nella storia d’Italia e purtroppo «destinato a durare a lungo» nella scena politicaGli anni finali della sua vita pubblica furono rivolti ad una critica impetuosa della Lega, la cui ascesa politica gli apparve un fenomeno «folle», «insensato e grottesco» per l’auspicio di una Padania immaginaria, che era visto come «uno sgorbio storico e geografico» alla stregua dello stesso modello vigente durante il fascismo intriso «della stessa mentalità, la stessa strafottenza e la stessa volgarità».
l’Unità 26.2.11
Chi non vede il mondo
di Moni Ovadia
Una delle più celebri canzoni simbolo del grande Bob Dylan si intitolava «Oh, the times they are a-changing», i tempi cambiano, ma la stupidità del potere noIl “martire” Bettino Craxi non capì nulla di quello che stava accadendo a causa del crollo del muro di Berlino, ovvero che quel muro crollava anche per luiLa stupidità che impedì a Craxi di capire fu figlia della sua arroganzaPer il suo nipotino e sodale Berlusconi il problema di capire non si pone neppureCraxi, pur con tutte le sue magagne, era un politico e non capìBerlusconi non può capire perché lui è “nato capito” essendo il più grande statista della storia patria e quindi non si cura di ciò che accade nel mondo, recita una litania di luoghi comuni, dopo avere praticato riti di corteggiamento a tiranni e tirannelli per cui va pazzoGià la pavida e titubante Europa di fronte al rivolgimento epocale del mondo arabo mostra di coltivare preoccupazioni piccine e di non avere respiro progettuale per una seria politica estera alta e coraggiosa, figuriamoci se un governo come quello italiano può esprimere più di una caricatura del nulla sorretta solo dalle geremiadi sul pericolo immigrazione, ripetizione della stantia formuletta leghista priva di visione del futuroI nostri governanti, campioni di mediocrità, capaci solo di eccitarsi nei salotti televisivi, non possono capire quanto stanno cambiando i tempiImpegnati a servire un padrone e a raggirare i loro creduloni elettori, come possono capire i drammi e le grandezze dei popoli? Quando anche l’Italia, fanalino di coda, cambierà, quando l’alfabetizzazione di internet si diffonderà e il ciarpame delle televisioni padronali perderà significato, loro riusciranno solo a piagnucolare rivendicando i loro inesistenti meriti e a vestire il ruolo delle vittime dei fantomatici co-
munisti.
Corriere della Sera 26.2.11
Banchetti alla rovescia sotto il segno di Saturno
di Eva Cantarella
Tempo di Carnevale: si festeggia, ci si veste in modo inconsueto, si fanno degli scherzi, si mangia, si beve e ci si diverteLo facevano anche i romani, durante una festa in onore del dio Saturno chiamata appunto Saturnalia (originariamente celebrata il 17 dicembre, ma che con il tempo si estese sino a durare una intera settimana)Saturno, che presiedeva alla semina e al raccolto, era il dio della mitica età dell’oro, durante la quale si credeva che gli uomini, vivendo in comunione con gli dei, trascorressero il tempo tra banchetti e feste, senza mai invecchiare, e quando giungeva il tempo di morire si addormentassero dolcementeDurante i Saturnalia i romani ristabilivano temporaneamente le condizioni di vita di un tempo, quando non esistevano differenze tra le persone e il tempo scorreva per tutti feliceOgni licenza era permessa, in quei giorniGli schiavi indossavano gli abiti dei loro patroni e potevano permettersi di partecipare ai banchetti in occasione dei quali, d’abitudine, dovevano preparare e servire il ciboMa nei giorni di festa non c’era limite alla trasgressione, e così accadeva che essi sedessero comodamente a tavola (o meglio, secondo l’uso, stessero sdraiati sui letti tricliniari) dove non solo venivano serviti dai loro padroni ma potevano permettersi di far loro scherzi salaci e sbeffeggiarliCose che in tempi normali potevano anche costar loro la vitaIeri come oggi, con le ovvie non poche diversità, durante il carnevale si poteva e si può dimenticare per qualche ora la regola quotidiana di vita.
La Stampa 26.2.11
Il primo americano? Un bimbo di tre anni
Scoperte in Alaska ossa di 11 mila anni fa. La prova più antica delle migrazioni dall’Asia
di Marco Pivato
Nuovo mondo», si fa per direL’uomo solcò le Americhe già migliaia di anni fa, tra il tardo Pleistocene e l’inizio dell’OloceneChe fosse durante l’ultima glaciazione – chiamata «Würm» e compresa tra 110 mila e 10 mila anni fa – ad aver permesso il passaggio di migranti dalla Siberia all’Alaska, allorché l’aumento dei ghiacci prosciugò lo stretto di Bering creando un ponte di terra tra i continenti, già lo sapevamoTuttavia non v’era conferma di una data precisa, in un range temporale che ipotizzava i primi spostamenti tra i 14 e i 10 mila anni fa.
I resti di una sepoltura emersi dal sito archeologico di Upward Sun River, nel centro dell’Alaska, confermano una migrazione avvenuta 11 mila e 500 anni faAdagiato nel «caminetto» di casa, il corpo senza vita di un bimbo di appena tre anni viene cremato e la casa abbandonata per sempre dalla famiglia.
Secoli dopo il rinvenimentoL’indicazione che la tomba del piccolo fosse proprio il fondo di un largo focolaio casalingo è il contemporaneo ritrovamento di pietre focaie, utensili per la preparazione di cibi e resti di ossa di animali, parte, evidentemente, dell’alimentazione del nucleo: pesci – soprattutto salmoni – piccoli mammiferi come scoiattoli e uccelli come anitreIl metodo di datazione basato sulla misura del radiocarbonio ha permesso di stabilire l’epoca dell’insediamento mentre l’età del bimbo è stata calcolata sulla base dell’eruzione dei denti, ancora prematura.
Il peculiare cerimoniale della sepoltura – dove sono stati trovati anche oggetti come pezzi di pietre color ocra – rimanda alle usanze del vecchio continente limitrofo alle AmericheRituali simili ma non identici emergono da altri siti del Nord America: almeno altre due sepolture, ma senza cremazione del corpo oppure senza ocraMancano inoltre particolari come l’inumazione – o la deposizione delle ceneri – nella casa di famiglia poi immediatamente abbandonataRituali tipici soltanto delle usanze paleoindiane, ossia proprio dei popoli siberianiSecondo l’archeologo Ben Potter dell’Università dell’Alaska, che l’anno scorso ha guidato gli scavi e che a gennaio ha pubblicato su Science la notizia del ritrovamento e delle sue implicazioni con la storia delle migrazioni, «il sito, per le sue modalità cerimoniali è un unicum in Nord America».
Il lavoro del team di Potter proseguirà ora con le analisi all’antico Dna delle ossa del giovane, cremate solo per l’80%, e quindi probabilmente disponibile a fornire ancora materiale geneticoSi riapre così un «cold case» che potrebbe – secondo il team – portarci ancora più a fondo nella storia dei viaggi dell’uomo, a partire delle migrazioni attraverso l’Alaska e addirittura fin giù al Sud America.
Il viaggio in America di Cristoforo Colombo fu la prima esplorazione oltreoceano da parte della civiltà moderna, tuttavia soltanto l’ultima, in ordine di tempo, dell’uomo nel nuovo mondoE il primato non spetta nemmeno ai Vichinghi, che nel decimo secolo, approdarono a Terranova, il moderno CanadaIn realtà fu già l’uomo del paleolitico a varcare la porta delle Americhe.
La Stampa Tuttolibri 26.2.11
Ma l’Italia non va in biblioteca
di Giovanni Solimini
Cultura e Nazione Da luoghi di pura conservazione a centri di promozione della lettura, un cammino difficile
“Prima del 1870 erano 210, oggi se ne contano 16 mila: purtroppo le frequenta solo l’11% dei cittadini Ancora forti le differenze tra il Nord e il Sud, sempre più scarsi i fondi: Roma riceve 1,5 milioni contro i 254 di Parigi”
Si può parlare di biblioteche in occasione del centocinquantesimo compleanno dell'Italia, cercando di tenere insieme una riflessione storica e uno sguardo rivolto al futuro? Difficile farlo senza far riferimento alle condizioni culturali in cui si compì il processo di unificazione nazionaleNel 1866 Pasquale Villari invitò a prendere atto che c'era «nel seno della Nazione un nemico più potente dell'Austria, la nostra colossale ignoranza»Tre italiani su quattro erano analfabeti e bisognerà aspettare il nuovo secolo per avere un'esigua maggioranza di cittadini capaci di leggere e scrivere: solo nel 1901 la percentuale degli analfabeti scese al 48,5%.
Storia della lettura e storia della «pubblica lettura», cioè dell'organizzazione bibliotecaria nazionale, sono profondamente connesse ed è evidente che in quel contesto le biblioteche erano destinate a un ruolo marginaleSulla realtà italiana, specie a confronto dell'Europa centro-settentrionale, incidono anche altri fattori di ordine storico-culturale di più lontana origine, come la consuetudine con la lettura della Bibbia tra i protestanti (i paesi scandinavi, la Germania, l'Inghilterra hanno sconfitto prestissimo l'analfabetismo)Non è questa la sede per ricordare quanto Riforma e Controriforma abbiano inciso sui destini della cultura europea, ma dobbiamo dire che in Italia non si è fatto molto per modificare lo stato delle coseAlle debolezze e alle difficoltà di partenza si sono aggiunti nel tempo il disinteresse e l'insipienza dei decisori politici, incapaci di realizzare una rete di infrastrutture culturali che potesse far crescere unitariamente e armonicamente l'Italia e gli italiani.
L'eredità pre-unitaria era formata, prima della breccia di Porta Pia, da 210 biblioteche, di cui 164 aperte al pubblico, distribuite in 45 città (senza considerare Roma)Da lì prese le mosse l'edificazione del sistema bibliotecario del nuovo RegnoE fu in quegli anni che si consumò un grossolano equivoco: le biblioteche civiche territoriali, solitamente destinate all'intera comunità locale, in molti casi nacquero proprio allora per effetto della confisca dei beni ecclesiasticiLa decisione di affidare questi "beni nazionali" ai Comuni servì più a garantirne la custodia che a realizzare un tessuto di servizi pubblici per i cittadiniSi trattava infatti di collezioni librarie nate per altri scopi e rivolte ad altri destinatari, per cui la loro utilizzabilità in funzione dell'alfabetizzazione e della promozione della lettura fu pressoché nullaSi definì in quegli anni l'identità delle biblioteche italiane, fortemente orientate alla conservazioneTotalmente diversa l'origine della public library anglosassone, fondata sul sistema del self-government britannico e concepita per il proletariato urbano nato dalla rivoluzione industrialeQuesti istituti, fortemente impegnati nel campo dell'educazione permanente, mettevano al primo posto non la tutela del patrimonio ma la capacità di erogare serviziA questo obiettivo puntarono le biblioteche popolari, che cominciarono a diffondersi in Italia nella seconda metà dell'Ottocento per iniziativa di organizzazioni filantropiche di ispirazione religiosa o politico-sindacale, non raggiungendo mai però un forte radicamento nella collettività.
Senza proseguire oltre in questa analisi storica, possiamo prendere atto dell'assoluta marginalità delle biblioteche, di tutte le tipologie di biblioteche, che oggi ammontano sulla carta a oltre 16.000 (di cui 46 appartenenti al ministero dei Beni Culturali, 6700 agli enti locali, 2500 universitarie), frequentate secondo i dati Istat solo dall'11% degli italiani.
Permangono fortissimi squilibri territoriali: il 40% delle librerie e il 50% delle biblioteche operano nelle regioni settentrionali e meno del 30% al Sud e nelle isole.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: l'Italia della lettura è attraversata da profonde disuguaglianze territoriali, per genere, età, condizione socio-economica.
Nel 2010 circa venti punti percentuali distanziano il Sud (35% di lettori sulla popolazione) dal Nord (54%) e viene quasi da pensare che non si stia parlando della stessa nazione: il dato delle regioni settentrionali è simile a quello di Germania, Regno Unito o Francia, mentre la percentuale del Sud è grosso modo la stessa di Portogallo, Malta e Bulgaria.
Anche le caratteristiche e le dimensioni del luogo di residenza incidono molto: chi vive nelle grandi aree urbane legge di piùQuesto dato non deve sorprendere, perché sono tantissimi i comuni, anche di media grandezza, privi di librerie e di biblioteche, in cui un cittadino non ha l'opportunità di incontrare un libro sul proprio cammino.
Sensibile anche la differenza tra i due sessiIl dato medio del 46,8% di italiani che lo scorso anno ha letto almeno un libro nasce da una percentuale del 40 tra i maschi e del 53 tra le femmineFino al 1973 gli uomini leggevano più delle donne, ma da quel momento in poi, per effetto della maggiore scolarizzazione, la lettura è diventata un'attività prevalentemente femminile, e ora in tutte le fasce d'età le donne leggono più degli uomini.
La situazione andrebbe fronteggiata con un potenziamento della rete dei serviziE invece tutte le biblioteche italiane sono in una crisi profonda, acuita negli ultimi anni da drastici tagli ai bilanciQuelle messe peggio di tutte sono le biblioteche stataliSi pensi che la Nazionale di Roma ha un budget di 1,5 milioni e quella di Firenze, il maggiore istituto bibliotecario del Paese, dispone solo di 2 milioni annui, mentre quella di Parigi ha un bilancio di 254 milioni, Londra di 160 milioni, Madrid di 52 milioniE per il 2011 il ministero dei Beni Culturali annuncia tagli del 50%Di questo passo si va dritti dritti verso la chiusura.
Per guardare con fiducia al futuro occorrerebbe finalmente una politica bibliotecaria nazionale, nella consapevolezza che non si sta parlando solo di biblioteche, di libri e di lettori, ma di una funzione formativa essenziale nella società contemporanea, con ricadute importanti sulle potenzialità di crescita economica e sulla vita sociale della comunità nazionaleA causa di una scarsa consuetudine con la parola scritta, il 70% degli italiani non sa comprendere un semplice testo, compilare un modulo, seguire le istruzioni per l'uso di un elettrodomesticoAll' arretratezza che caratterizza il nostro Paese sul terreno della lettura si aggiunge ora quella relativa alla diffusione della rete a banda larga e alla presenza di Internet nelle case, col rischio di ritrovarci con una palla al piede simile a quella che centocinquanta anni fa era rappresentata dall’analfabetismo.
La Stampa Tuttolibri 26.2.11
Vittorino Andreoli scrittore
“Evviva i matti come Dostoevskij”
di Egle Santolini
Il primo in Italia a spiegare al grande pubblico i misteri della psiche: ogni anno pubblica due libri, uno di saggistica (l’ultimo sul denaro), l’altro di narrativa
«Si accomodi in quella poltroncina, vuole? È lì che si sono seduti tuttiIn quel periodo, dopo il 1992, questo studio tranquillo, in un’appartata città di provincia, pareva più protettoArrivavano da Roma per curarsi: avevano visto disgregarsi un mondoGli incontri fra psichiatra e paziente sono sempre costellati di silenzi, ma con i miei malati di Tangentopoli questi smarrimenti erano ancora più lunghi e angosciosiPer questo ho piazzato un piccolo quadro sulla parete, questo con la maschera nera di Carnevale: era lì che si andava a posare il loro sguardo nei momenti d’imbarazzo».
Lo studio del professor Vittorino Andreoli, in un bel palazzo veronese di pietra non lontano dall’Adige, ha visto queste e milioni di altre cosePsichiatra tra i più insigni in Italia, educato nella sua città ma innamorato della Scozia («Stevenson, i fari, la nascita della psicologia infantile!»), e con una lunghissima esperienza accademica tra Gran Bretagna e Stati Uniti, Andreoli è anche un divulgatore appassionato: il primo, da noi, a spiegare al grande pubblico i misteri della psicheAutore generosissimo, pubblica al ritmo di due libri l’anno: che uno dei due debba essere un saggio e l’altro un’opera di narrativa è un impegno contrattuale e anche, come vedremo, un motivo di risentimentoDopo aver analizzato i disagi familiari degli italiani, i grandi delitti, droga e sofferenze degli adolescenti, ha appena pubblicato con Rizzoli Il denaro in testa questa volta toccava al saggio -, tutto incentrato sui soldi.
Non si può dire che lei non sia sull’attualità, professore, in quest’Italia di ricatti dove pare che tutti abbiano un prezzo… «Certo gli sviluppi sono andati oltre l’immaginabile, però il libro era nato da un mio fastidio incontrollato contro lo strapotere dell’economia e della finanzaNon è possibile che una disciplina finisca per mangiarsi tutto il resto, e che ci si riduca a dipendere esclusivamente da quello che si perde o si guadagnaEro stufo di veder vanificate le arzigogolate raffinatezze della psicoanalisi da un crollo in Borsa: lo so, nelle favelas brasiliane Freud non serve a nulla, ma che noi psichiatri finissimo per essere ridicolizzati… I miei colleghi di Parma, all’epoca dello scandalo Tanzi, mi raccontavano che i pazienti arrivavano la mattina e invece di portare il solito sogno della notte scoppiavano a piangere: “Dottore ho perso tutto, dottore non posso più pagarla…”Ecco: all’inizio del libro mi chiedo se il denaro ha legittimità di entrare in psichiatriaDimostro che è così e ne analizzo le varie declinazioni: il modo in cui si fa malattia, come crea infelicità, dipendenzaE’ diventato la misura di tutte le coseQuando, per citare Protagora, la misura di tutte le cose dovrebbe essere l’uomo»C’è un autore che, qui, lei cita in modo appassionato e pertinente, ed è Aldous HuxleyHa fatto parte delle sue letture di formazione? «Ah sì, nel libro rammento gli Alfa-Plus del Mondo nuovo Huxley è stato un incontro importante della mia giovinezza: fra l’altro era fratello del biologo, e io nasco da studi di quel tipoIn quegli anni cominciava ad affacciarsi l’idea che l’uomo potesse essere reso felice addirittura attraverso un condizionamento in provettaE non era fiction, badi, ma un’ipotesi scientifica…»Quali altri scrittori hanno contato per lei, soprattutto all’inizio? «Il primo che mi viene in mente è PirandelloGrandissimo psicologo, anche se non ha mai avuto un rapporto diretto con l’analisiHa tentato il suicidio, lo sa? La sua vita era tormentata da una moglie pazza, affetta da un grande delirio di gelosiaUno, nessuno e centomila è una lettura d’obbligo per chi si voglia occupare di sofferenza psichicaMa tutta la letteratura è una mia passionePurtroppo legata a un dramma».
Nientemeno? «Ma sì, io sono una vittima della differenziazione forzata tra fiction e saggisticaVede, ho sempre scritto le storie dei miei matti, fin da quando avevo 22 anni, facevo pratica nel manicomio di San Giacomo della Tomba qui a Verona e mi portavo un grande schizofrenico, Carlo Zinelli, a casa nel fine settimanaQuando mia madre certo avrebbe preferito una ragazza, magari bruttina… La cartella clinica di questo Zinelli era così gelida e impersonale da farmi spavento: “Assume farmaci, non si nutre, accusa male al ventre…”Ma era un essere umano, quello? Non dimentichi che, all’epoca, ci si chiedeva se gli schizofrenici vedessero in bianco e nero o a colori, e neanche si metteva in conto che avessero senso morale e senso estetico… Dunque, io frequentavo quelli che erano considerati “quasi uomini” e i casi li trasferivo su carta in modo narrativoErano anche i tempi del conflitto fra le due culture, ha presente il libro di Charles Snow? Mio padre, il mio eroe, mi sgridava: “Vittorino, ma sei matto? Se sei uno scienziato mica puoi scrivere quella roba!”Per anni ho tenuto una cassaforte piena di manoscritti segreti»E quando ha iniziato a pubblicare, da dove ha cominciato? «Gli editori volevano saggi, saggi, saggi! Prima Mondadori, per cui lavoravo a una collana straordinaria, la EstPoi Valentino Bompiani, con cui intrattenevo rapporti molto amichevoli, e che credevo volesse pubblicare i miei romanziE invece no: “Andreoli, io le ho steso un tappeto rosso, ma sa che cosa voglio da lei…”Ora sono, da tanti anni, con Rizzoli, ho un ottimo rapporto con Paolo Zaninoni, ma un contratto che mi obbliga a un saggio all’annoQuando, glielo confesso, io ai saggi dedico il 20 per cento delle mie energieL’altro 80 è per le storie...»Due libri l’anno, oltre al mestiere di psichiatraCome fa a onorare un impegno così pressante? «Scrivere non mi diverte, è una fatica terribileHo le mie liturgie, i miei tempi, le penne giuste, una lunga meditazione sulla costruzione, il titolo di lavoro, l’indiceE per lavorare mi chiudo in un posto dimenticato da tutti, nel Nord della Scozia, in un monastero sull’AtlanticoNiente cellulari, niente tivù, niente scocciatoriIl fornaio è a tre miglia di distanza»Avrà letture che la sostengono nei momenti di sollievo«Non sono il tipo che legge per distrarsiI miei libri sono sempre finalizzati a un progetto: sottolineati e con i foglietti fra le pagineResto, anche quando leggo, lo psichiatra dei casi estremi, cerco i miei matti anche lì: amo Dostoevskij, che era pazzo, epilettico, gran giocatore d’azzardoE Strindberg, e PirandelloMa prima di tutto c’è la tragedia greca, soprattutto Euripide, soprattutto Medea».
Quanto alla poesia… «… se mi lascia fare, le declamo Ungaretti: “L’uomo attaccato nel vuoto / al suo filo di ragno”: c’è qualcosa di più straziante? Oppure Cardarelli, I gabbiani : “Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino paceIo son come loro in perpetuo voloLa vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il ciboE come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca”Così vivo io: in burrascaCon tutta la sofferenza psichica che c’è al mondo, difficile fare altrimenti».
"«Il mio nuovo saggio nasce da un fastidio incontrollato contro la strapotere di economia e finanza» «Per lavorare mi chiudo in un posto dimenticato da tutti, in Scozia, ospite di un monastero» «L’uomo di Ungaretti attaccato nel vuoto al suo filo di ragno: c’è qualcosa di più straziante?»"
Osservatore Romano 26.2.11
Uno studio di Harvard sulla lotta all'Aids
Il Papa ha ragione
di Emanuele Lizzardi
Un comportamento sessuale responsabile e la fedeltà al proprio coniuge sono stati i fattori che hanno determinato il fortissimo calo dell'incidenza dell'Aids nello Zimbabwe. È ciò che sostiene nella sua ultima ricerca Daniel Halperin, ricercatore del dipartimento per la Salute globale e la Popolazione dell'università di Harvard, dal 1998 impegnato a studiare le dinamiche sociali che stanno alla base della diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili nei Paesi in via di sviluppo, quelli cioè maggiormente colpiti dal flagello dell'Aids.
Halperin si è servito di dati statistici e di analisi sul campo, come interviste e focus group, che gli hanno permesso di raccogliere testimonianze fin dentro le sacche più disagiate del Paese africano. Il trend degli ultimi dieci anni è evidente: dal 1997 al 2007 il tasso di infezione tra la popolazione adulta è calato dal 29 al 16 per cento. Nella sua indagine Halperin non ha dubbi: la repentina e netta diminuzione dell'incidenza dell'Aids è andata di pari passo con la "riduzione di comportamenti a rischio, come relazioni extraconiugali, con prostitute e occasionali".
Lo studio - pubblicato questo mese su PLoSMedicine.org - è stato finanziato dall'agenzia statunitense per lo Sviluppo internazionale, di cui Halperin è stato consigliere, e dal fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione e lo Sviluppo. Con esso Halperin alimenta una seria e onesta riflessione sulle politiche finora adottate dalle principali agenzie di lotta contro l'Aids nei Paesi in via di sviluppo. Risulta evidente - sostiene lo studioso - che la drastica inversione dei comportamenti sessuali della popolazione dello Zimbabwe "è stata aiutata da programmi di prevenzione sui mass media e da progetti formativi promossi da chiese" e confessioni religiose: veri e propri interventi culturali, con risultati distanti nel tempo, ma più incisivi e duraturi delle sbrigative pratiche della distribuzione di profilattici. Questa considerazione fa il paio con un suo intervento di qualche anno fa in cui si chiedeva come mai gli interventi preventivi "più significativi siano stati finora condotti sulla base di evidenze che risultano estremamente deboli", cioè sull'inefficacia di fatto della fornitura di condom alla popolazione adulta.
Il pensiero non può dunque non andare alle polemiche aspre, pretestuose e non scientifiche - ora è possibile ribadirlo anche con il supporto di questo studio - che seguirono il commento di Benedetto XVI sulla "non soluzione" del preservativo nella lotta contro l'Aids, durante il suo viaggio pastorale in Africa del 2009: "i profilattici sono a disposizione ovunque, ma solo questo non risolve la questione", ricorda il Papa nel libro intervista Luce del mondo.
Sempre di più, quindi, la ricerca scientifica, onesta e distaccata da logiche di vantaggio economico, riconosce che le azioni più efficaci nella lotta contro l'Aids sono quelle come il metodo A, B, C (astinenza, fedeltà e, solo in ultima analisi, utilizzo dei profilattici), adottata con successo in Uganda. La stessa rivista "Science" - come Lucetta Scaraffia ha ricordato su queste colonne - aveva messo in luce che "la parte più riuscita del programma è stata il cambiamento di comportamento sessuale, con una riduzione del 60 per cento delle persone che dichiaravano di avere avuto più rapporti sessuali e l'aumento della percentuale dei giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso". L'adozione del programma ha messo l'Uganda in una posizione esemplare nella lotta all'Aids del continente africano.
In definitiva, secondo lo studio di Halperin, occorre "insegnare a evitare la promiscuità e promuovere la fedeltà", sostenendo quelle iniziative che mirano davvero a costruire nella società toccata dal flagello dell'Aids una nuova cultura. Occorre insomma - come ha detto Benedetto XVI - operare per una "umanizzazione della sessualità".