giovedì 17 febbraio 2011

l’Unità 17.2.11
Immigrazione: vere emergenze solite frasi
Accuse all’Europa e Piano Mershall
di Emma Bonino


Di fronte agli ultimi sbarchi dei tunisini sulle nostre coste il governo ricorre ad un evergreen, quello di chiamare in causa l’Europa facendo finta di non sapere che se una politica comune in materia di immigrazione non esiste ciò è dovuto alle resistenze degli Stati membri. Ma cosa si chiede esattamente all'Europa? A parte soldi e pattugliamenti dell’agenzia europea Frontex, su cui Bruxelles si è resa disponibile, anche una condivisione dei rifugiati? In questo caso occorre capire di che parliamo: nel 2010 l’Italia ha accolto meno di 7 mila richieste di asilo, mentre Germania e Francia ne hanno accolte 40 mila ciascuno, Svezia 30 mila, Belgio 20 mila. Anche di fronte all’emergenza umanitaria di questi giorni si continua ad ignorare questo diritto fondamentale, che non permetterebbe di trattare i profughi tunisini come semplici clandestini. Ma anche volendo considerare questi profughi come normali immigrati irregolari, si dovrebbe applicare lo stesso la legge europea. Infatti la direttiva rimpatri, che non è stata per ora recepita nelle Legge comunitaria a causa di un blitz della maggioranza al Senato, prevede come riconosciuto dalla circolare del ministero dell’Interno del 17 dicembre 2010 una serie di garanzie che vedono la reclusione nei Cie come una extrema ratio. Invece i primi provvedimenti per molti degli arrivati sono stati proprio il trasferimento nei Cie.
In tale difficilissimo frangente è irrinunciabile un ritorno alla legalità delle nostre istituzioni. Per questo i Radicali hanno lanciato un appello al Parlamento, che in questi giorni continua a discutere della Legge comunitaria alla Camera, perché venga recepita la direttiva rimpatri e quella altrettanto importante sul lavoro nero degli immigrati. All’appello, firmato da numerose associazioni di immigrati, è possibile aderire scrivendo a: appellomigranti@gmail.com.
Infine, poiché i sommovimenti nati dalla “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia avranno ripercussioni sull’intera regione, il ministro Frattini ha evocato un altro evergreen, quello di un Piano Marshall. A parte chiedersi da chi finanziato, siamo sicuri che questo approccio all’insegna della triade crescita-sviluppo-stabilità sia la risposta adeguata? Da parte nostra ripetiamo quello che sosteniamo da anni: la gamba economica deve essere abbinata a quella istituzionale, vale a dire ad un progetto questo sì europeo a sostegno della libertà, della democrazia e dello stato di diritto. Senza i quali non si capisce come si possa parlare di una visione a medio e lungo termine.

Corriere della Sera 17.2.11
Se il voto si allontana il Pd pensa al piano B
di Maria Teresa Meli


ROMA— Davanti alle telecamere i leader del Pd, da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, continuano a ripetere le solite parole d’ordine: sì al voto, sì alla Santa Alleanza antiberlusconiana. Ma in realtà i vertici del Partito democratico stanno preparando un aggiustamento di rotta. Le elezioni, infatti, appaiono assai improbabili (benché tuttora bramate dal centrosinistra) e, di conseguenza, sfuma anche il maxischieramento che dovrebbe andare da Gianfranco Fini a Nichi Vendola. È su questa nuova prospettiva che da qualche giorno stanno ragionando i dirigenti del Pd che non vogliono restare spiazzati di fronte a uno scenario mutato. Gli ammiccamenti di Bersani e D’Alema sul federalismo vanno proprio in questa direzione. Il Partito democratico non intende rimanere fuori dai giochi nel caso in cui la legislatura prosegua. Soprattutto se, strada facendo, Berlusconi si dovesse fare da parte per consentire la nascita di un governo del nuovo centrodestra, magari con Udc e Fli dentro. È un rischio che al Pd nessuno si sente di escludere. Lo paventava l’altro giorno Maurizio Migliavacca, capo della segreteria di Bersani: «Il premier potrebbe cadere, ma invece di andare alle elezioni il centrodestra potrebbe formare un nuovo governo» . E ieri ne parlava con alcuni compagni di partito, in pieno Transatlantico, Beppe Fioroni: «Piuttosto che andare al voto, Berlusconi si sfila e mette un altro al posto suo. A quel punto nelle opposizioni ci sarà il tana liberi tutti, ognuno si sentirà svincolato e agirà di conseguenza. Si apriranno scenari imprevisti e imprevedibili» . Anche Walter Veltroni è convinto che se l’appuntamento con le urne verrà rinviato molte cose muteranno: «Se non si va al voto la situazione, anche rispetto alla strategia dell’alleanza costituente, può cambiare» . E un veltroniano di ferro come Stefano Ceccanti continua a scommettere sulla prosecuzione della legislatura. Lo spiega da giorni ai colleghi senatori: «Fino ad aprile— è la sua tesi — non succederà niente, scavallato quel mese, quando sarà chiaro che le elezioni sono impraticabili, allora potrebbero esserci dei sommovimenti, magari la Lega potrebbe puntare ad un altro governo di centrodestra» . Persino Dario Franceschini, il primo a proporre il Cln contro Berlusconi, ieri appariva molto più cauto: «È chiaro che non è il nostro unico schema di gioco» . Anche nella Sel di Vendola si discute ormai di questa opzione, con il convincimento— e la speranza — che nel caso di un governo Maroni il Pd potrebbe dare la sua astensione: «Così avremmo una prateria a sinistra, perché tanto alle elezioni prima o poi bisognerà andarci» . Quel che per Vendola è una speranza, per Matteo Renzi è invece un incubo. Il sindaco di Firenze non solo è un fiero oppositore della Santa Alleanza, ma è anche assai diffidente nei confronti della Lega: «Noi rottamatori siamo stati i primi a dire di non inseguire Fini e ricordo che un autorevole ex premier con i baffi ci definì dei mentecatti per questo. Oggi non vorrei che il Pd si mettesse a rincorrere Bossi» . Accada quel che accada — governo Berlusconi, Maroni o Tremonti— al Pd hanno capito che non spira vento di elezioni: figuriamoci poi se tira aria di dimissioni di massa come proposto ieri dal direttore del Fatto Antonio Padellaro. I dirigenti del partito, comunque, continuano a compulsare i sondaggi. Le rilevazioni non sono entusiasmanti per nessuno. L’ultimo report mensile dell’Ipsos, quello che fornisce ai dirigenti del Pd il polso della situazione, è sconfortante per tutti i leader, attuali e futuribili del centrosinistra. Chiamparino cala di 3 punti, Vendola di 2, Bersani di 1, Veltroni di 2. L’unico stabile in quell’area è Nicola Zingaretti. Anche le possibili new entry sono mal messe: Rosy Bindi, per esempio, raccoglie su di sé il 60 per cento di giudizi negativi. Un panorama sconfortante che non lascia fuori il centrodestra e il terzo polo, dove scendono sia Berlusconi (che si posiziona sotto Bersani) che Fini. È il segno di un ulteriore allontanamento dei cittadini dalla politica. E un motivo in più per non andare a votare. Maria Teresa Meli

Repubblica 17.2.11
Un brano del saggio del filosofo dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
Dal comunismo alla community
Dal troppo poco all´appena sufficiente: non si sa più quale sia l´unità di misura se non la media che passa tra la miseria e l´opulenza
di Jean-luc Nancy


Anticipiamo parte del testo di Nancy dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
Niente è più comune del comune. Questa affermazione lapalissiana provoca in effetti una vertigine: il comune è talmente comune che non lo si vede, non se ne parla. Lo si teme un po´, sia perché è comune-volgare, sia perché è comune-comunitario. Rischia di abbassare o di soffocare. O entrambe le cose insieme.
Tuttavia, beninteso, il comune è comune; è il nostro destino comune essere in comune. Ma tutto avviene come se le culture – le politiche, le morali, le antropologie – oscillassero continuamente tra il comune dominante, inglobante – il clan, la tribù, la comunità, la famiglia, la stirpe, il gruppo, l´ordine, la classe, il villaggio, l´associazione – e il comune banale, il profanum vulgus (non sacro…) o il vulgum pecus (il gregge…), il popolo, la gente, la folla, tutti (l´inenarrabile uomo qualunque). O è il tutto che ingloba la parte, o è l´umiltà della condizione ordinaria.
Nell´idea di comunismo, una gran parte dell´Europa ha visto la somma di queste due possibili letture: la collettività obbligante e al contempo la mediocrità livellante. Di fatto, il comunismo detto "reale" ha combinato il livellamento delle condizioni con il controllo di un´autorità che si presumeva collettiva. Una forma di uguaglianza – forma ristretta, grigia, e ciononostante effettiva – combinata con un dirigismo brutale: i due fattori permettevano che a questa condizione sfuggissero i dirigenti e un apparato militare e tecnico. Ne risultava una società duale di cui si potrebbe dire che la ragione d´essere – al di là dell´accaparramento del potere e della ricchezza che in un modo o nell´altro appartengono a ogni società – era di sovrapporre un´ipertrofia dello Stato a una condizione umana decisamente limitata al suo mantenimento meccanico: quasi alla sola riproduzione della specie, ridotta quest´ultima, per un certo periodo, unicamente alla popolazione dell´impero socialista sovietico. Questo comunismo "reale" che ha tanto derealizzato le relazioni tra le persone e con il mondo (senza impedire la presenza, sorda ma intensa, del rifiuto, della protesta, dell´uomo in rivolta), non a caso ha riunito questi due grandi caratteri del comune: il Tutto e il Basso. Ha riunito ciò che restava del comune perduto. Ci sono state comuni di ogni genere. Qui è necessario fare riferimento a Marx, naturalmente, e alla sua analisi delle forme comuni anteriori al mondo moderno, ma non soltanto a Marx: le modalità dell´esistenza comune sono ciò che caratterizza, senza dubbio in maniera molto diversa, tutte le civiltà che precedono quella in cui il sociale ha sostituito il comune. (...)
Nel frattempo la democratizzazione e la socializzazione delle società industriali nelle quali – con grande disappunto di Marx – la rivoluzione comunista non aveva avuto luogo, ha portato a uno sviluppo di quelle che ancora di recente sono state chiamate le classi medie le quali sono tendenzialmente diventate l´elemento omogeneo di una società in cui la maggioranza è tutta intenta a non prendere troppo in considerazione né la miseria che scava in sé né la confisca della ricchezza che vi corrisponde. Troppo poco, abbastanza, troppo – denaro, sapere, potere, diritto, salute – abbastanza, appena sufficiente, sufficiente… non si sa neppure quale sia l´unità di misura, se non quella media che passa tra la miseria e l´opulenza. Il comune come totalità mediocre. Il valore più comunemente ammesso del comune.
Ma dell´essere insieme, nessuna notizia. Se non questa: abbiamo imparato che l´idea comunista ha tentato di erigere la verità dell´essere insieme contro tutte le forme di dominio, di individualizzazione, di socializzazione. Essa ha portato, in un mondo in cui si percepiva oscuramente la perdita di ogni comune, l´"insieme" o il "con" come condizione allo stesso tempo ontologica e pratica, ancora inaudita. (...)
L´idea comunista – che possa o debba conservare ancora questo nome – designa il meno comune del comune, la sua eccezione, la sua sorpresa. Nessuna totalità, nessuna mediocrità, ma ciò che fa sì, per esempio, che io possa scrivervi qui, a tutti e a tutte, o a ognuno e a ognuna, e senza sapere neanche in che modo condividiamo questa idea. Noi.
Traduzione di Monica Fiorini © 2010 by & Actuel MarxPer la traduzione italiana © Lettera Internazionale

Repubblica Lettere 17-2.11
Il Partito d'Azione e Riccardo Lombardi
di Carlo Patrignani


Roma. Mi sia consentito di ricordare un nome che manca nell'interessante articolo di Giovanni De Luna dedicato all'azionismo, indigesto a Giuliano Ferrara, cresciuto a 'pane e Togliatti' ed oggi 'consigliere' di Silvio Berlusconi.  Il nome dimenticato è quello di Riccardo Lombardi, il primo prefetto di Milano su indicazione del Clnai, fondatore nel 1942 con Ugo La Malfa,Vittorio Foa, Ferruccio Parri e tanti altri del Partito d'Azione. "Fu un uomo libero"- scrisse di lui Bobbio. Per questo oggi gli rendono omaggio tutti coloro che sanno quanto sia stata dura la lotta per la riconquista della libertà. Prima di passare nel 1947 al Psi dove portò la cultura dell'autonomia coniando il termine 'acomunismo', fu anche il segretario politico del Pd'A.