martedì 15 febbraio 2011

l’Unità 15.2.11
Intervista a Susanna Camusso
«La sfida è partita: più donne nella politica più politica per le donne»
La leader della Cgil: «Le piazze hanno dato una risposta trasversale, corale. Si è rotto il teorema su cui Berlusconi ha fondato il suo potere»
di Concita De Gregorio


Da oggi chiunque voglia dare una prospettiva alla straordinaria energia che ha attraversato le piazze di domenica dovrà far questo: mettere le donne al centro della politica. Più donne nella politica e più politica per le donne. Il punto fondamentale, come sempre, è l’ascolto. La comprensione: quel che è accaduto domenica è un segnale precisissimo e potente, bisogna coglierlo. La reazione patetica del presidente del Consiglio e il silenzio di chi lo circonda mi fa pensare che a destra l’abbiano capito benissimo. Alle opposizioni di centrosinistra la piazza questa piazza che non è di nessuno chiede concretezza, risposte chiare, cambiamento. Una bella sfida. Comincerei a pensare a due o tre cose da fare, fossi un leader politico, poche perché se no non sono vere. Da leader sindacale questo intendo fare, di questo abbiamo discusso stamani in segreteria Cgil: mostrare che c’eravamo e abbiamo capito, dare un segno nell’attività quotidiana. Faremo una grande campagna contro le discriminazioni sulla maternità, riprenderemo la legge sulle dimissioni in bianco, metteremo la donna al centro del discorso sul lavoro precario”.
Susanna Camusso, partiamo dalla piazza. È stata una sorpresa la dimensione del successo? «No, non è stata una sorpresa la quantità di persone. Piuttosto la diffusione, la presenza contemporanea in tutte le piazze d’Italia e in molte nel mondo. È il segno di un sentire diffuso, una novità anche per il movimento delle donne. Una richiesta corale, collettiva che giustamente gli osservatori stranieri interpretano come una grande svolta: la differenza di lettura dei giornali stranieri da quelli italiani, ieri, era impressionante. La trasversalità l’avevamo cercata. Quel che è accaduto è che la trasversalità ha portato in piazza non solo persone che si riconoscono in uno o nell’altro schieramento politico ma moltissima gente che a manifestare in strada non va mai, e che probabilmente si è nel tempo allontanata delusa dall’impegno collettivo. È stata la manifestazione meno organizzata che io abbia mai visto, non c’erano autobus né raduni, era una monumentale somma di persone singole. Molte donne mi hanno fermata per dirmi: io lo votavo. Ecco, c’erano tutte: anche quelle che al principio lo hanno votato. Si è rotto domenica il teorema su cui Berlusconi ha fondato il suo successo: il fascino che esercita ed il legame col mondo femminile. Non ha più la piazza, non ha più le donne».
Questo giustifica il nervosismo, la paura, la reazione che non coglie nel segno? «Sentirlo dire “io amo le donne” mi è sembrato patetico. Tra l’altro cerca sempre e solo di salvare se stesso. Dire che erano radical chic significa non avere occhi per vedere. La verità è che non hanno la chiave per una risposta, questa volta: era una moltitudine di popolo, gli è stata sottratta la parola popolo. Fra riempire un teatro e riempire un paese c’è differenza. Il silenzio dei suoi alleati mi pare eloquente. Loro hanno capito. Cominciano a dubitare. Hanno il problema della loro collocazione futura. Lui si arrocca, e ci sarà il rischio del veleno nella coda. Il suo mondo però si sta sfaldando. Questo potrà avere conseguenze politiche concrete».
La maggioranza si batte nelle urne. Potrà il movimento tradursi in una trasformazione dell’elettorato? «Certamente Berlusconi non si dimetterà per le piazze. Ma il movimento, se si consolida, può minare il fondamento del suo contratto. Su cosa fonda l’arroganza del non mi dimetto? Sui numeri parlamentari di cui dispone perché è in grado di mettere a disposizioni nuovi posti in futuro. Ma se il popolo non gli garantisce più il consenso, quale sarà allora la sua merce di scambio?»
Se il movimento si consolida, lei dice. Come, e scandendo quali rischi? «Dandosi appuntamenti ravvicinati e non dimenticando mai il segnale di domenica. Che è prima di tutto una richiesta di amor patrio, questo è in fondo il tema della dignità e del rispetto delle regole, della giustizia uguale per tutti dei diritti e dei doveri. Un paese che si possa
amare di sentimento ricambiato. Poi una richiesta di cittadinanza per le donne: bisogna rimettere le donne al centro della politica, questo è il vero punto. In un modo nuovo, vero, autentico, forte. L’8 marzo, il prossimo appuntamento, siail giorno della dignità del lavoro. Non a parole, in pratica: parliamo delle retribuzioni delle donne, di lavoro povero e invisibile, parliamo di conflitti in tema di maternià, di precarietà. È una linea che ci porta diritti al grande tema che abbiamo di fronte: non considerare la famiglia il fondamento della società, ma la persona. Perché finché la famiglia sarà al centro i diritti delle donne saranno subordinati a quello che si vuole sia il loro ruolo dentro le famiglie. Le donne al centro del nucleo familiare. Anche le politiche di conciliazione in questo senso possono essere una trappola che inchioda le donne a quel destino dato: ti diamo più tempo per fare tutto perché diamo per scontato che tu debba fare sia questo che quello. Il carico familiare è comunque tuo. Partiamo allora dalla paternità obbligatoria, per esempio. Donne e uomini come persone con gli stessi diritti e gli stessi doveri». Un tema che chiama all’appello anche le forze di opposizione. «Naturalmente. Un tema complesso e delicato, ma la realtà in cui viviamo lo è e dobbiamo affontarlo». Crede che sia possibile un cambio di mentalità e di passo, in chi fa politica, senza un ricambio generazionale? «Il ricambio generazionale è la risposta più semplice. Certo che la richiesta c’è, non si può ignorarla. Ma le piazze di domenica erano di nonne e nipoti, non credo il tema fosse solo quello del rinnovamento della classe politica. Della sua capacità di ascolto, piuttosto. È una piazza che vuole risposte, che pretende di essere ascoltata, che cerca chi la sappia rappresentare con gesti semplici e concreti. Chi capirà questo entrerà in un tempo nuovo. Del resto indietro ormai è impossibile andare, davvero. Indietro non si torna».

il Fatto 15.2.11
L’Italia s’è desta
di Paolo Flores d’Arcais


Per essere solo “un gruppetto di signore radical chic”, come dice la povera Gel-mini, si sono moltiplicate che neppure i pani e i pesci, visto che il loro appello ha riempito in modo straripante duecentocinquanta piazze d’Italia come da anni quelle città non ricordavano. Con centinaia di migliaia di donne e di uomini, di giovani e di anziani, numeri calcolati con pudico minimalismo, che non rendono giustizia al mare di partecipazione totalmente auto-organizzata che ha percorso la Penisola. Con una indignazione carica di entusiasmo, festosa di passione civile, colorata di allegria, solare di determinazione, che i tristi “mutandari” di Ferrara e Santanchè non possono neppure immaginare e meno che mai capire, cupi nel loro odio per tutto ciò che in Italia c’è ancora – e ogni giorno cresce – di dignità, serietà, libertà, gioia di lottare e di vivere. “Faziose”, hanno ripetuto i lanzichenecchi di regime che più che mai intasano totalitariamente il video. Se ne facciano una ragione: domenica, detto molto sobriamente e senza fanfare, l’Italia s’è desta.
Il difficile comincia ora. Quella incontenibile volontà di liberazione che ha illuminato di serena e fraterna indignazione i volti e gli animi delle italiane e degli italiani migliori, può suonare la diana della fine del regime ma può anche disperdersi nella morta gora di una politica consegnata una volta di più al monopolio inetto dei politici di mestiere.
(Sì, migliori. Facciamola questa parentesi: in piazza domenica c’era proprio l’Italia migliore, moralmente e umanamente migliore. Perché avere timore di dirlo, di fronte all’Italia del “porco è bello!”, che spaccia da libertà sessuale il servizio a pagamento per virilità posticce e da meritocrazia la nomina nei Parlamenti e nei ministeri delle epigone nostrane – ma avide – di Monica Lewinsky?).
Le animatrici di “se non ora quando?” non facciano dunque l’errore compiuto dai girotondi, e poi dai viola, e dal movimento degli studenti, e da tutti i movimenti di lotta che hanno mantenuto civile e vivo questo paese nel “quasi ventennio” cupo che abbiamo vissuto, non deleghino ai soli partiti il momento elettorale, perché quello è il pallottoliere che alla fine decide i governi e le leggi, la realizzazione o la distruzione della nostra Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Dieci anni di movimenti trovino la lucidità di discuterne seriamente adesso, tra loro, di come essere protagonisti anche il giorno delle urne. I partiti non bastano, lo hanno mostrato al di là di ogni ragionevole dubbio.

il Fatto 15.2.11
Il day after della piazza: “Non smobilitiamo”
Le organizzatrici: “Nessun politburo, a il comitato sarà permanente”
di Paola Zanca


Alla riunione di ieri erano solo in dieci. Alle altre è toccato tornare a lavorare. Domenica portano in piazza un milione di persone, lunedì le trovi di nuovo a dividersi tra l’ufficio, i figli e il cellulare che squilla in continuazione. “Mica siamo professioniste della politica!”, sorride Francesca Izzo, docente universitaria e ‘mente’ del 13 febbraio. E da brave apprendiste della piazza sanno che non ci si può fermare al trionfo di ieri. Su Facebook lo chiedono tutte: “Ecco cosa sono in grado di fare le donne – dice Carolina – scendiamo a cadenza settimanale!”. “Siamo partite, ora si va avanti”, la incoraggia Delia. “Forza ragazze, alla riscossa!”, insiste Stefania. Per ora si rivolgono a quel simbolo, l’omino con in mano la bandiera di “Se non ora, quando?”. L’obiettivo è fargli piantare quella bandiera a terra. Il Comitato, nella   riunione di ieri, ha deciso di diventare permanente. “Era nato per organizzare la manifestazione, sarebbe stato naturale scioglierlo all’indomani – racconta ancora Francesca Izzo – Invece ci siamo viste e abbiamo deciso al volo: il comitato rimane, non si scioglie”. C'è bisogno di voi? “È successa una cosa importante ieri – spiega la Izzo – dopo tanti anni in cui le donne pensavano che non fosse necessario mettersi assieme, perché tanto i diritti essenziali si erano conquistati, ci si è resi conto che con la teoria dell’ognuna si fa largo per sé, si sono fatti tanti passi indietro: se si vogliono ottenere delle cose, serve una forza collettiva. Soprattutto le giovani, ieri, lo hanno capito”.
DI ASSOCIAZIONI di donne, in realtà, è piena l’Italia, ma sono “tutte frammentate e disperse, non hanno peso, non contano”. L’idea è quella di una grande associazione nazionale. Francesca   Izzo l’ha già annunciata dal palco di Roma, insieme a una nuova manifestazione in programma per l’8 marzo. “Questo comitato non è un politburo – spiega – ma nei prossimi giorni daremo alcune indicazioni sulle priorità da mettere in agenda per l’8 marzo: è la nostra festa, la festeggeremo nel modo più adeguato alla situazione”.
Bisognerà vedere le evoluzioni della situazione politica, ma certo l’obiettivo è quello di diventare, chiunque sia al governo del Paese, “un’associazione autorevole che sia un punto di riferimento sulla scena pubblica italiana”. Non una lobby – parola dal sapore troppo “contrattuale” – ma una fucina di proposte da discutere prima possibile, negli Stati generali delle donne italiane. Quali temi? “Non ci dobbiamo inventare chissà cosa – spiega ancora la Izzo – i problemi del lavoro, la selezione della classe dirigente, non solo per quanto riguarda la rappresentanza femminile,   la rappresentazione delle donne nei media...”. Anche di quelli che domenica non le hanno degnate di uno sguardo. Per esempio, i principali tg della tv pubblica e privata. “Siamo quasi sorprese – spiega la Izzo – A questo punto va messa in discussione la professionalità di chi dirige” queste testate.
NELLA RIUNIONE di ieri ne hanno discusso, ma non è all’ordine del giorno una risposta organizzata contro la tv che si tappa le orecchie. Anche se non l’ha mandata in onda il tg, che quella di ieri sia “la più grande mobilitazione popolare della storia repubblicana” lo hanno visto tutti. Non fosse altro che per il traffico: a Roma il sindaco Gianni Alemanno ha deciso di non deviare nemmeno la circolazione delle auto, imbottigliando 200 mila persone in una piazza senza vie di fuga. “Ci ha considerate tutte talmente ‘adulte’ – gli ha scritto Francesca Schipa in una lettera   – da poter organizzare una manifestazione di tale portata senza aiuti, senza vigili, polizia, regolamentazione del traffico e avvisi luminosi. Insomma, tutta quella macchina preventiva che Lei mette in funzione per una partita di calcio all’Olimpico. Lei – aggiunge Francesca – ha compreso insomma che ce l’avremmo fatta da sole. E questo, mi creda, ci rende ancora più felici. Perché Lei non ci ha dato una sola ragione per dirLe grazie”.

Emma Bonino: «Ora c’è la parte più difficile cioè tradurre questo slancio in proposte o iniziative politiche. Ci adopereremo perchè questa grande corrispondenza di piazza poi trovi un incanalamento in proposte concrete»
La Stampa 15.2.11
“A noi il governo” Adesso le donne non si fermano più
Ecco il comitato permanente “Se non ora quando?” Prima iniziativa l’8 marzo: “Cambieremo l’Italia”
La «stratega della piazza» Francesca Izzo rivela «Saremo molto più di una lobby»
di Flavia Amabile


A chi le liquida come un fenomeno folkloristico o una carnevalata della domenica destinata a spegnersi il lunedì mattina, a Silvio Berlusconi che le ha definite «faziose», le donne che hanno portato in piazza un milione di persone rispondono con i primi passi concreti. L’attrice Angela Finocchiaro l’aveva detto alla fine della manifestazione di domenica: «Ora vogliamo andare al governo». E un’altra attrice, Valeria Solarino - ammette che l’unica strada è quella di «entrare nei partiti politici, nei sindacati, bisogna contare di più».
L’obiettivo è ambizioso: per raggiungerlo, il Comitato «Se non ora quando» da ieri è diventato permanente e si è messo a studiare nuove iniziative. La prossima uscita sarà fra meno di un mese, l’8 marzo 2011, giornata mondiale della donna. «Vogliamo fare di questa data un grande appuntamento, per tenere il punto - spiega Francesca Izzo, docente universitaria all’Orientale di Napoli e stratega della piazza di domenica - Pensiamo che per le donne, e non solo per loro, ci sia la consapevolezza che ormai bisogna far cambiare questa società che non è cambiata negli ultimi due decenni, per rispondere alla più grande rivoluzione dei nostri tempi, che è quella femminile. L’Italia non è adeguata, bisogna che cambi. Noi questo punto non lo molleremo».
Tutto bene, ma anche già sentito. Come si fa ad arrivare da queste parole al governo? «Dobbiamo intaccare il potere in tutti gli ambiti, da quello politico a quello economico, sociale, mediatico. Vogliamo costituire gli Stati Generali delle donne, una forza collettiva capace di intervenire ed essere protagonista e interlocutrice della scena pubblica».
Una lobby? «Molto di più che una lobby - risponde Francesca Izzo - è un processo che si apre e si deve sviluppare. Noi abbiamo lanciato delle proposte, poi sta a questo grande moto che si è prodotto di trovare le forme più adeguate. Abbiamo sollevato un coperchio, ed è questo che ha prodotto il risultato di ieri. Continueremo a lavorare, insieme a tante altre realtà. Tutte insieme. Questo è anche un modo diverso di affrontare i problemi della società rispetto all’immagine che fornisce il premier, non dividere ma creare collegamenti tra esperienze diverse per rendere migliore il Paese».
Insomma il bello deve ancora arrivare, promettono le donne del «Se non ora quando» che ieri erano entusiaste della risposta della piazza e decise ad andare avanti nel loro programma. Lo dice anche Giulia Bongiorno, del Fli, che domenica era sul palco: «Sono assolutamente certa che ieri è stato l’inizio di qualcosa e non l’inizio e la fine». Ma anche uno come Filippo Rossi direttore di FFwebmagazine che sulla rivista online di FareFuturo, la fondazione presieduta da Gianfranco Fini, è tornato a inneggiare alla piazza: «Non si può che scorgere in questa folla indignata il profilo di un’Italia nuova».
Entusiasmo e attesa da parte del Pd. Romano Prodi ringrazia le donne che hanno dato il via ad una nuova era. Ma anche il segretario Pierluigi Bersani e poi Walter Veltroni e Dario Franceschini. Franceschini parla di «una svolta, perchè è la prima volta che, dall’inizio della legislatura, si esprime con nettezza una opinione pubblica contraria al governo».
«Ora c’è la parte più difficile - ha avvertito invece Emma Bonino - cioè tradurre questo slancio in proposte o iniziative politiche. Ci adopereremo perchè questa grande corrispondenza di piazza poi trovi un incanalamento in proposte concrete».

Repubblica 15.2.11
Francesca Izzo, una delle promotrici di "Se non ora quando?"
"Chi ci chiama faziose non capisce il paese"
Il giudizio del premier regala alla sinistra una mobilitazione che ha raccolto gente di posizioni diversissime
di Anna Rita Cillis


ROMA - Manifestazione faziosa? Non ci sta Francesca Izzo, docente universitaria, tra le ideatrici della mobilitazione "Se non ora quando?". E al premier Silvio Berlusconi, che ieri parlando della mobilitazione l´ha definita di parte, «di una sinistra che cavalca qualsiasi mezzo per abbattermi» risponde con un´immagine nitida: «Mi sembra un modo di regalare alla cosiddetta sinistra un evento popolare che ha visto assieme figure, personalità ma anche gente comune provenienti da ambienti, culture, esperienze profondamente diverse».
Il premier è stato riduttivo dunque?
«Sicuramente, la risposta sta nelle oltre duecento piazze italiane dove si è raccolto un popolo vario, di posizioni opposte. Bollare questa marea di donne e uomini che ha invaso l´Italia come una minoranza faziosa, sobillata, vuol dire non comprendere il paese che si governa. La nostra è stata una manifestazione nuova».
Nuova perché?
«Per la prima volta sono scese in piazza un milione di persone e lo hanno fatto per le donne, non era mai accaduto prima. Come la legge Silvio Berlusconi mi sembra limitante, un modo cieco, vuol dire non aver capito il popolo che si governa, non voler capire cosa pensa».
Al centrosinistra cosa chiedete invece?
«Sarebbe meglio dire cosa chiediamo a tutti anche se un parte del centrosinistra si è dimostrata, nel corso degli anni, più sensibile verso le tematiche delle donne ma non è abbastanza, non lo è stato».
Secondo lei come mai?
«Perché nonostante alcune aperture i risultati hanno sempre stentato ad arrivare, esistono nella nostra società dei tratti maschilisti molto accentuati, ancora troppo direi e vista la partecipazione di domenica non sono l´unica a pensarla così».
Allora è meglio riformulare la domanda: a tutti cosa chiedete?
«Diciamo che alle classi dirigenti chiediamo che finalmente ci vedano come risorsa straordinaria, che si occupino di noi».
E per farlo?
«Ci vuole un mutamento culturale, politico e di prospettiva, in fondo domenica la piazza sembrava quasi urlare alla classe dirigente "ci avete costretto a farlo", "ci avete tirato per i capelli qui"».
Nel vostro futuro c´è la politica?
«Noi vogliamo contare, questo è l´unico punto certo. Per questo abbiamo costituito un´associazione nazionale, ci saranno degli stati generale delle donne, chiediamo a tutte di non tornare a chiudersi in casa ma di partecipare attivamente e di farlo anche come singole».
Il collante per tenere tutti uniti, dopo domenica 13, quale sarà ora?
«Il comitato resta in piedi, poi ci sarà l´appuntamento dell´8 marzo. Ma soprattutto stiamo lavorando alle priorità. Abbiamo detto che indietro non si torna e non lo faremo».

La Stampa 15.2.11
È stato l’unico segnale di vitalità civile e sociale che l’Italia ha saputo dare
di Irene Tinagli


Pur tra i mille distinguo e scetticismi della vigilia, la manifestazione di domenica ha mostrato una piazza pacifica, colorata, determinata ma composta, una piazza che ha riunito donne e uomini di ogni età e di varia estrazione politica e sociale. Una manifestazione di questo genere la si può criticare su vari fronti, ma non può rappresentare una vergogna per nessuno.
Perché in un Paese democratico nessuno dovrebbe vergognarsi di manifestare pacificamente un disagio, casomai dovrebbe vergognarsi chi, pur accorgendosi che qualcosa non va, non ha il coraggio di farlo. Poi naturalmente si può discutere sulle cause di tale disagio, sui modi di manifestarlo e sulle possibili soluzioni, ma resta il fatto che le infinite discussioni portate avanti negli ultimi anni all’interno di redazioni, talk show o dei salotti buoni non hanno prodotto quello che hanno prodotto domenica le piazze italiane: l’immagine chiara e cristallina di un’Italia che non si riconosce più in una società rimasta ancorata a modelli e stereotipi antiquati e consunti. Modelli che alterano non solo i rapporti tra i sessi, ma le prospettive di crescita sociale ed economica di questo Paese. Filosofeggiare o spaccare il capello in quattro sull’opportunità di una frase o di un cartello, o se era meglio farla fare agli uomini o farla prima o dopo, è certo lecito, ma non cambia una semplice realtà: che la manifestazione di domenica è stata l’unico segnale che l’Italia ha dato al mondo di una vitalità civile e sociale che sembrava aver perso, almeno agli occhi della stampa estera. Osservatori e commentatori internazionali da mesi si chiedevano: ma perché la società italiana non reagisce, in un senso o nell’altro? Ecco, le donne e gli uomini in strada domenica hanno dato una risposta a questa domanda.

La Stampa 15.2.11
Ma l’Italia è davvero berlusconiana?
d Luca Rcolfi


Da quando nella politica italiana è entrato Silvio Berlusconi, ossia dal 1994, la cultura di sinistra ha sviluppato un suo peculiare racconto dell'Italia.
Secondo questo racconto chi vota a sinistra sarebbe «la parte migliore del Paese», mentre la parte che sceglie il centrodestra sarebbe la parte peggiore, evidentemente maggioritaria.
La teoria delle due Italie scattò subito, nel 1994, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto fu inaspettatamente sconfitta dal neonato partito di Silvio Berlusconi.E da allora mise radici, costruendo pezzo dopo pezzo una narrazione della storia nazionale al centro della quale vi è l'idea di una vera e propria mutazione antropologica degli italiani, traviati fin dagli anni 80 dal consumismo e dalla tv commerciale. Una narrazione che, nel 2001, si arricchirà di un nuovo importante tassello, con la teoria di Umberto Eco secondo cui gli elettori di centrodestra rientrerebbero in due categorie: l'Elettorato Motivato, che vota in base ai propri interessi egoistici e a propri pregiudizi contro stranieri e meridionali, e l'Elettorato Affascinato, «che ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi». Due elettorati cui non avrebbe neppure senso parlare, visto che non si informano leggendo i giornali seri e «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina».
Vista da questa prospettiva, la vittoria del 1994, come tutte quelle successive, non sarebbe un incidente di percorso, ma l'amaro sbocco di processi di degenerazione del tessuto civile dell'Italia iniziati molti anni prima. Uno schema, quello dell'Italia traviata dal consumismo e dai media, apparentemente nuovo ma in realtà già allora vecchio di trent'anni. Era stato infatti Pasolini, molti anni fa, a denunciare - ma senza disprezzo, e con ben altra umanità - la «scomparsa delle lucciole», immagine con cui soleva descrivere la dissoluzione dell'umile Italia fin dai primi anni 60, con l'estinzione delle culture popolari sotto l'incalzare del benessere e delle migrazioni interne.
Insomma, voglio dire che è mezzo secolo che «alla sinistra non piacciono gli italiani», per riprendere il titolo del saggio con cui, fin dal 1994, lo storico Giovanni Belardelli (sulla rivista «il Mulino») fissò la sindrome della cultura di sinistra, incapace di darsi una ragione politica dei propri insuccessi, e perciò incline a dipingere l'Italia come un Paese abitato da una maggioranza di opportunisti, di malfattori, o di ignavi. E tuttavia ora, forse per la prima volta, qualcosa si sta muovendo. Qualcosa, molto lentamente, sta cambiando. Non già nei piani alti della politica, nelle segreterie dei partiti, nei palazzi del potere, bensì fra la gente comune, e fra le energie più giovani del Paese. Roberto Saviano, ad esempio, l'altro giorno al Palasharp, alla manifestazione per chiedere le dimissioni del premier, ha sentito il bisogno di dire: «Smettiamo di sentirci una minoranza in un Paese criminale, siamo un Paese per bene con una minoranza criminale». Se Saviano ha sentito il bisogno di esortare il popolo di sinistra a «smettere di credere» di essere una minoranza, vuol dire che quella credenza ancora c'è, sopravvive, nelle menti e nei cuori: una sorta di «pochi ma buoni», una rabbiosa riedizione del «molti nemici, molto onore» di mussoliniana memoria.
La sindrome della «minoranza virtuosa» è tuttora molto radicata nella cultura politica della sinistra. Ma anche qui, persino fra i politici di professione, qualcosa si sta muovendo. L'alibi dell'indegnità degli italiani comincia a scricchiolare. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, rimproverato da un po' tutti i suoi compagni di partito (compreso il giovane «rottamatore» Pippo Civati) per essersi contaminato incontrando Berlusconi ad Arcore, ha risposto ai suoi critici più o meno così: se vogliamo vincere non possiamo partire dall'assunto che l'altra metà degli italiani, quella che non ci vota, sia costituita da cittadini irrecuperabili, dobbiamo rispettarli e conquistarli.
Saviano e Renzi hanno ragione. Così come hanno ragione quanti, in piazza o non in piazza, non si stancano di ripetere che l'Italia non è quella che emerge dai festini di Arcore e dalle intercettazioni, o quella che la cultura di sinistra si figura ogni volta che l'esito del voto punisce i progressisti. L'Italia non è berlusconiana quanto si pensa sul piano del costume (un recente sondaggio di Mannheimer certifica che il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo attira effettivamente solo 1 ragazza su 100). Ma non lo è neppure sul piano del consenso elettorale. Contrariamente a quanto molti credono, il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi - è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20%, e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza (come alle ultime Europee), si aggira intorno al 6%. Per non parlare del trend più recente, che mostra un Pdl che attira circa il 18% del corpo elettorale, e un premier che ottiene la sufficienza da meno di un cittadino su tre.
Se questa è la realtà, occorre che la sinistra faccia un serio esame di coscienza. Che provi a inventare un altro racconto degli ultimi trent'anni. Un racconto senza alibi e autoindulgenze, un po' più rispettoso degli italiani e un po' più abrasivo su sé stessa. Perché se l'Italia non è, né è mai stata, il Paese moralmente degradato tante volte descritto in questi anni. Se il consenso al leader Berlusconi non è mai stato plebiscitario. Se i suoi fan non sono mai stati tantissimi. Se oggi 2 italiani su 3 non danno la sufficienza a Berlusconi, e appena 1 su 20 lo promuove a pieni voti. Se, a dispetto di tutto ciò, i sondaggi rivelano che il giudizio dei cittadini sull'opposizione è ancora più negativo - molto più negativo - di quello sul governo. Beh, se tutto questo è vero, allora vuol dire che i problemi politici dell'Italia non stanno solo nei comportamenti del premier e nelle insufficienze del suo governo, ma anche nella difficoltà dell'opposizione di trovare, finalmente, un'idea, un programma e un volto che convincano quella metà dell'Italia che non è berlusconiana ma, per ora, non se la sente di votare a sinistra.

Repubblica 15.2.11
La bandiera della dignità
di Stefano Rodotà


È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l´indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d´un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse.
È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l´opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui.
Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell´accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d´ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.
Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l´hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l´intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d´essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s´era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.
Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d´ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d´una lingua che sono incapaci di parlare.
Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall´homo hierarchicus all´homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l´homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l´inizio del millennio, costituisce il punto d´avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell´ultima fase. Se la "rivoluzione dell´eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l´era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all´innovazione scientifica e tecnologica.
"Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un´identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell´umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell´identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell´"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l´articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell´altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.
Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un´esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell´articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l´articolo 41 esclude che l´iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell´articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile".
Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all´interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.
Viene così rovesciato le schema dell´antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell´agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.
Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.

Corriere della Sera 15.2.11
Hessel, la forza dell’indignazione
«Lavoro, istruzione, solidarietà: rilanciamo le idee della Resistenza»
di Stéphane Hessel


93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è più molto lontana. Che fortuna poterne approfittare per ricordare ciò che ha fatto da fondamento al mio impegno politico: gli anni di Resistenza e il programma elaborato sessantasei anni fa dal Consiglio Nazionale della Resistenza! Nell’ambito del Consiglio, e per merito di Jean Moulin, tutte le componenti della Francia occupata— i movimenti, i partiti, i sindacati— si sono riunite per proclamare la loro adesione alla Francia combattente e all’unico capo che essa riconosceva: il generale De Gaulle. Da Londra, dove nel marzo del 1941 avevo raggiunto il generale, apprendevo che questo Consiglio aveva messo a punto un programma, adottato il 15 marzo 1944, che proponeva alla Francia liberata un insieme di princìpi e valori sui quali fondare la democrazia moderna del nostro Paese. di quei princìpi e di quei valori, oggi abbiamo più che mai bisogno. Spetta a noi, tutti insieme, vigilare perché la nostra società sia una società di cui andare fieri. Non questa società dei sans papiers, delle espulsioni, del sospetto nei confronti degli immigrati, non questa società che rimette in discussione le pensioni e le conquiste della Sécurité sociale (lo Stato sociale), non questa società in cui i media sono monopolio dei ricchi: tutte cose che, se davvero fossimo stati gli eredi del Consiglio Nazionale della Resistenza, ci saremmo rifiutati di avallare. A partire dal 1945, dopo una spaventosa tragedia, le forze in seno al Consiglio della Resistenza si votano a un’ambiziosa risurrezione. È allora, rammentiamolo, che nasce la Sécurité sociale così come la Resistenza l’auspicava, come il suo programma prevedeva: «Un progetto completo di Sécurité sociale, volto ad assicurare mezzi di sostentamento a tutti i cittadini, qualora fossero inabili a procurarseli con il lavoro» ; «una pensione che consenta ai lavoratori anziani di avere una vecchiaia dignitosa» . Le fonti di energia, l’elettricità e il gas, le miniere di carbone, le grandi banche vengono statalizzate. Come indicava il programma, «il ritorno alla nazione dei grandi mezzi di produzione monopolizzati — frutto del lavoro collettivo —, delle fonti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie d’assicurazione e delle grandi banche» ; «l’insediamento di una vera e propria democrazia economica e sociale, che comporti l’evizione dei grandi gruppi di potere economico e finanziario dal controllo dell’economia» . L’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze prodotte dal mondo del lavoro deve prevalere sul potere del denaro. La Resistenza propone «un’organizzazione razionale dell’economia che garantisca la subordinazione degli interessi particolari all’interesse generale e sia affrancata dalla dittatura professionale fondata sull’esempio degli Stati fascisti» , e il governo provvisorio della Repubblica se ne fa carico. Una vera democrazia ha bisogno di una stampa indipendente; la Resistenza lo sa, lo esige, difendendo «la libertà della stampa, il suo onore e la sua indipendenza rispetto allo Stato, al potere del denaro e alle influenze estere» . È ciò che ribadiscono le ordinanze sulla stampa, fin dal 1944. Ed è questo che oggi è in pericolo. La Resistenza chiedeva la «possibilità effettiva per tutti i ragazzi francesi di beneficiare dell’istruzione più progredita» , senza discriminazioni; mentre le riforme proposte nel 2008 vanno contro questo progetto. Alcuni giovani insegnanti, dei quali sostengo l’azione, sono arrivati a rifiutare di applicarle e si sono visti decurtare lo stipendio come punizione. Si sono indignati, hanno «disubbidito» , giudicando tali riforme troppo lontane dall’ideale della scuola repubblicana, troppo al servizio di una società del denaro e troppo poco attente allo sviluppo della creatività e dello spirito critico. È il complesso dei fondamenti delle conquiste sociali della Resistenza che viene rimesso in discussione oggi. ***Hanno il coraggio di raccontarci che lo Stato non è più in grado di sostenere i costi di queste misure per i cittadini. Ma com’è possibile che oggi manchi il denaro necessario a salvaguardare e garantire nel tempo tali conquiste, quando dalla Liberazione, periodo che ha visto l’Europa in ginocchio, la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? Forse perché il potere dei soldi, tanto combattuto dalla Resistenza, non è mai stato così grande, arrogante, egoista con i suoi stessi servitori, fin nelle più alte sfere dello Stato. Le banche, ormai privatizzate, dimostrano di preoccuparsi anzitutto dei loro dividendi e degli stipendi vertiginosi dei loro dirigenti, non certo dell’interesse generale. Il divario tra i più poveri e i più ricchi non è mai stato così significativo; e mai la corsa al denaro, la competizione, erano state a tal punto incoraggiate. Il motore della Resistenza era l’indignazione. Noi veterani dei movimenti di resistenza e delle forze combattenti della Francia libera, ci appelliamo alle nuove generazioni perché mantengano in vita e tramandino l’eredità e gli ideali della Resistenza. Diciamo loro: ora tocca a voi, indignatevi! I responsabili politici, economici, intellettuali e la società non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dalla dittatura dei mercati finanziari che minaccia la pace e la ricchezza. Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un motivo per indignarvi. È fondamentale. Quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti e impegnati. Abbracciamo un’evoluzione storica e il grande corso della storia continua grazie a ciascuno di noi. Ed è un corso orientato verso una maggiore giustizia, una maggiore libertà, ma non la libertà incontrollata della volpe nel pollaio. Questi diritti, promulgati nella Dichiarazione nel 1948, sono universali. Se incontrate qualcuno che non ne beneficia abbiatene pietà, aiutatelo a conquistarli.

Corriere della Sera 15.2.11
Hessel
L’ultranovantenne che umilia il marketing
di Stefano Montefiori


PARIGI— Indignez vous! è arrivato in poche librerie francesi lo scorso 20 ottobre, duemila copie stampate dalla piccola Indigène editions di Montpellier. «L’editrice Sylvie Crossman ha raccolto le mie idee e le mie parole, convincendomi a pubblicarle in un libriccino» , raccontava umile al «Corriere» , qualche giorno dopo, Stéphane Hessel. Quelle 30 paginette nel frattempo sono state ristampate undici volte, vendute in un milione di copie e oggi in Francia spuntano ovunque, dalle edicole ai megastore, in posizione strategica vicino alle casse. Indignatevi! è diventato un caso internazionale, con imminenti traduzioni dal galiziano all’estone, dall’ebraico al russo (probabile prefazione di Mikhail Khodorkovskij). Nella storia dell’editoria pochi successi si sono fondati così poco— cioè zero — sulla potenza del marketing. Merito soprattutto della figura di Stéphane Hessel, straordinario 93enne che ha vissuto tante vite in una. Nato a Berlino da padre ebreo, francese di adozione (i suoi genitori furono immortalati da Truffaut in Jules e Jim), combattente nella Resistenza francese, torturato dai nazisti e poi scampato al lager di Buchenwald, fu tra i redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, prima di intraprendere una grande carriera di diplomatico. Il suo attuale impegno pro-palestinese gli vale accuse di antisemitismo e «indignazione a senso unico» , l’École Normale Supérieure di Parigi ha cancellato un suo dibattito su Gaza. Con il diffondersi della «moda Hessel» aumentano le voci critiche, come quella del grande psichiatra Boris Cyrulnik: «Ho molta tenerezza e ammirazione per Stéphane Hessel, però mi indigno che ci chieda di indignarci perché l’indignazione è il primo passo della militanza cieca. Bisogna chiederci di ragionare, e non di indignarci» . Ma Hessel, mite e testardo, insiste.

Repubblica 15.2.11
Chi ha paura dell’azionismo?
Da Gobetti a Parri, cosa resta di una minoranza
di Giovanni De Luna


Si riaccende la polemica sull´esperienza storica del Partito d´azione e la sua eredità politica Così la lezione di quegli intellettuali attivi, poi ripresa da Bobbio, oggi è diventata scomoda
Nella guerra di Resistenza PdA e Giustizia e Libertà persero più dirigenti di quanto non accadde a Pci e Brigata Garibaldi
Settant´anni fa per la prima volta i pensatori hanno scelto di lasciare il loro riparo e riscattarsi da anni di passività

Le polemiche sull´azionismo si riaccendono a intermittenza e in questo senso costituiscono una sorta di sismografo pronto a registrare le fibrillazioni del nostro sistema politico, come dimostra il dibattito che ha fatto seguito alla manifestazione del Palasharp. Non a caso gli attacchi più virulenti contro Bobbio e i suoi amici si registrarono negli anni ´90 nel passaggio alla Seconda repubblica. Più passa il tempo, però, e più labili si fanno i riferimenti alla concretezza storica dell´esperienza del Partito d´Azione, la cui vicenda - è il caso di ricordarlo - fu brevissima e si consumò in soli cinque anni, dal maggio-giugno del 1942 all´ottobre del 1947.
I "sette punti" in cui era articolato il suo programma di fondazione prevedevano obbiettivi istituzionali (repubblica, decentramento amministrativo, autonomie locali, autorità e stabilità del potere esecutivo), economici (nazionalizzazione dei monopoli e dei grandi complessi industriali, finanziari, assicurativi; libertà «di iniziativa economica per le imprese minori individuali ed associative»; un´economia a due settori, uno pubblico l´altro privato, anche per l´agricoltura), sindacali, rivendicando anche una più accentuata separazione tra Stato e Chiesa e, in politica internazionale, una federazione europea «comunità giuridica tra stati». Nel nuovo partito confluirono almeno tre significativi filoni politico-culturali, liberalsocialista (Capitini-Calogero), liberaldemocratico (Parri-La Malfa) e gobettiano-giellista (Ginzburg, Garosci, Lussu) che trovarono una loro sintesi unitaria nella scelta di un ruolo di opposizione frontale al governo Badoglio dei "45 giorni", seguiti al colpo di stato del 25 luglio 1943. Dopo l´8 settembre, soprattutto nel Regno del Sud, la linea politica dell´intransigenza si rivelò inizialmente vincente. La radicalità della lotta contro la monarchia condotta dal PdA, e condivisa da socialisti e comunisti, registrò un primo importante successo con la risoluzione del Cln centrale del 16 ottobre 1943 che proclamava il diritto del Cln stesso di costituirsi in «governo straordinario dotato di tutti i poteri costituzionali dello stato». Anche a Bari, al convegno dei partiti antifascisti del 28-29 gennaio 1944, fu l´"estremismo" delle proposte azioniste (la messa in stato d´accusa del re e la proclamazione di una costituente rivoluzionaria) a spianare la strada per il varo della Giunta esecutiva, «un organismo permanente equivalente al Cln centrale romano che poteva sostenere davanti agli alleati e all´opinione pubblica la lotta contro il re». E, a Roma, la crisi del Cln culminata nelle dimissioni di Bonomi il 24 marzo 1944 avrebbe potuto evolvere nel senso di una più accentuata rottura con il re e Badoglio se, agli inizi di aprile, non fosse intervenuta la scelta improvvisa di Togliatti di entrare nel governo filomonarchico.
Per il PdA, gli effetti più disastrosi di quella che fu allora definita la "svolta di Salerno" furono un improvviso isolamento politico e la sconfitta di tutte le sue speranze che le ragioni della "rottura" fossero in grado di prevalere su quelle della "continuità" con il vecchio Stato monarchico. Il dibattito che si aprì nelle sue file fu acceso e destinato a concludersi soltanto con la scissione del febbraio 1946. Al Nord, grazie soprattutto alla leadership di Valiani, prevalse una scelta tesa alla valorizzazione della politica dei Cln, «organismi popolari e rivoluzionari da cui doveva nascere, nel corso della guerra partigiana, il nuovo stato democratico». Il 20 novembre 1944, una lettera aperta del PdA a «tutti i partiti aderenti al Cln», tentava di rilanciarne il ruolo chiedendo di allargarne «la base di massa» e costituendo il Clnai in «governo segreto dell´Italia occupata». Ma la tendenza a ridimensionare i Cln era ormai irreversibile e presente anche all´interno dello stesso PdA.
Nell´ottobre del 1944, a Roma, La Malfa aveva infatti avviato un´iniziativa per sostituire all´unità dei sei partiti del Cln, «una grande concentrazione democratica repubblicana», come «nucleo di una nuova politica nazionale»; elementi salienti dell´impostazione lamalfiana erano il pragmatismo del programma politico, la scelta dei ceti medi come interlocutori sociali privilegiati, la tendenza ad occupare il "centro" della scena politica senza indulgere verso le formule frontiste particolarmente care a Lussu. Ma "destra" e "sinistra", Lussu e La Malfa, si scontrarono per tutto l´arco cronologico della vicenda del partito fino a che a Roma, nel febbraio del 1946, nel primo vero Congresso nazionale del PdA, il gruppo Parri-La Malfa se ne allontanò costituendosi in un autonomo «movimento per la democrazia repubblicana». Erano allora già falliti - prima ancora che il disastroso esito delle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946 ne ridimensionasse definitivamente le ambizioni parlamentari - i suoi tentativi di inserirsi stabilmente nella vita politica italiana. Nel novembre 1945, la "caduta" di Parri anticipò, col varo del primo governo tripartito (Dc, Pci e socialisti), una dislocazione per "blocchi" che svuotava dall´interno le ipotesi di "rivoluzione democratica" auspicata dagli azionisti. Di fatto, già allora la stagione politica del PdA poteva dirsi finita; due anni dopo, nell´ottobre 1947, la confluenza della sua ala maggioritaria nel Psi di Nenni e della minoranza nel nuovo Psli di Saragat fu solo la sanzione burocratico-organizzativa di un fatto compiuto.
Tutto qui? No. Non è concepibile l´esistenza del PdA senza l´apporto delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà ispirate dalla sua linea politica. Furono 35.000 i partigiani combattenti giellisti, il 20% del totale (i comunisti erano il 50%, con il restante 30% suddiviso tra autonomi, socialisti e democristiani). L´esiguità delle dimensioni del PdA risultò evidente quando si trattò di diventare "partito delle tessere", non certo nei venti mesi, dal ´43 al ´45, quando fu il "partito dei fucili". Nella lotta partigiana, tra le sue fila caddero Galimberti, Braccini, Jervis, Delmastro, Ferreira, Artom in Piemonte; Lanfranco, Astengo, Negri in Liguria; Gasparotto, Mario Damiani, Kasman in Lombardia; Luigi Cosattini, Pighin, Tedesco in Veneto; Allegretti, Colagrande, Jacchia, Masia, Quadri, Zoboli, Bastia, Giuriolo, in Emilia; Foschiatti, Felluga, Maovaz a Trieste; Manci a Trento; Bocci a Firenze; Ginzburg e Albertelli a Roma; alla fine le perdite delle Gl ammontarono a 4.500 uomini. Si trattò di un sacrificio che sottrasse al PdA e alle Gl insostituibili energie intellettuali e giovanili (il numero dei caduti tra i quadri medio-alti fu molto superiore a quello dei "pari grado" del Pci e delle Garibaldi). Ed è forse proprio in questo elenco il segreto delle polemiche che si scatenano oggi contro il PdA, nonostante siano passati settant´anni dalla sua estinzione. In quei nomi è racchiuso l´impegno di una minoranza, di intellettuali che, per una volta nella nostra storia, scelsero di abbandonare i comodi ripari del privilegio e del conformismo, per riscattare anni di ignavia e di passività. Di quella lezione Bobbio e l´azionismo torinese raccolsero l´eredità più significativa, così da diventare insopportabili per tutti quelli che amano compiacersi delle derive plebiscitarie che, periodicamente, riaffiorano nel nostro paese.

l’Unità 15.2.11
Bersani chiama le opposizioni: «Mobilitiamoci per l’informazione. La Rai azzoppa se stessa»
«Lapiazza delle donne ci ha riabilitato nel mondo. Ora parli anche la classe dirigente»
La nuova battaglia del Pd è contro il bavaglio alla Rai
Il leader Pd chiama alla mobilitazione delle opposizioni sul sistema dell’informazione. Perchè, lo ribadisce, «il voto ormai è il male minore». La manifestazione delle donne «ci ha riabilitato davanti al mondo»
di Lura Matteucci


«A fronte dell’emergenza che si propone, è indispensabile che tutte le opposizioni si coordinino ed organizzino una funzione di osservazione, di denuncia ed eventualmente di mobilitazione sulla questione dell’informazione radio e televisiva, in particolare del sistema dei tg». Se Berlusconi non accenna a dimettersi, l’opposizione è decisa a voltare pagina. Anche sull’informazione. L’affondo del segretario Pd Pierluigi Bersani arriva il giorno dei dati di un Tg1 superato in ascolti dal Tg5, e alla vigilia di una nuova riunione della Commissione di vigilanza Rai, che domani torna a discutere dell’atto di indirizzo del pluralismo del centrodestra per i talk show politici. Una «direttiva del bavaglio», la definisce Bersani, un’«assurdità totale» che «mostra un impazzimento del centrodestra su cui mi aspetto una reazione dell’azienda, perché la Rai non può essere azzoppata da iniziative di questo genere». La situazione è paradossale: «C’è un’azienda che lavora contro se stessa, contro l’audience, la raccolta pubblicitaria e le sue stesse prospettive industriali. Mi aspetto quindi che reagisca». «Deve essere ribadita aggiunge l’assoluta esigenza di terzietà dell’informazione». Il segretario è a Milano per un incontro del Forum Pd per la riforma radio-tv, presieduto da Carlo Rognoni, che si propone di ripensare il servizio pubblico nell’era digitale, con un futuro che disegna una tv sempre più interattiva mentre permane l’antico problema mai risolto del conflitto di interessi.
RIABILITAZIONE
Problema che riporta immediatamente al quotidiano. «Spero si sia colta la voce che è arrivata domenica,
centinaia di migliaia di persone in piazza senza nessuno sforzo organizzativo», riprende Bersani. «Una giornata che ci ha riabilitato davanti al mondo. Stava passando l’idea che l’Italia fosse tutta così. Domenica il mondo ha visto che l’Italia non è tutta così». E se l’indignazione, da sola, non basta a far cadere il governo, per Bersani «se più coralmente anche pezzi di classe dirigente che sino ad ora hanno taciuto, parlassero, credo che il risultato ci sarebbe». Perchè, il segretario lo ribadisce ancora una volta, «a questo punto le elezioni sono il male minore».
Il voto come unica alternativa, dunque, tanto più dopo che Berlusconi ha bocciato anche l’ultima proposta di Fini, quella delle dimissioni congiunte. «Non mi è parsa una provocazione, ma una proposta utile al Paese», dice Bersani. «Fare un passo indietro e poi andare a votare spiega Credo sia questa ormai la soluzione. Continuare come fa Berlusconi a rimanere testardamente abbarbicato ad una sedia che traballa senza riuscire ad affrontare i problemi reali dell’Italia, ci porta ad un passaggio cruciale e drammatico». Problemi economici, culturali, di conflitti istituzionali, i problemi dell’informazione di cui sopra, e quelli di un «federalismo delle chiacchiere, l’unico che si può portare a casa con questo governo», perché «il federalismo è una cosa seria: noi abbiamo la nostra piattaforma e la vogliamo confrontare ma in un quadro politico che lo consenta». Del resto, quando chiede di abbassare i toni ed evitare lo scontro tra le istituzioni pena la sopravvivenza della legislatura, «il presidente Napolitano segnala un’evidenza, perché uno stato quale quello che abbiamo, cioè di impotenza legislativa e di forte contrasto politico ed istituzionale, può portare a quella esigenza».
Nel pomeriggio, Bersani ha poi incontrato, a sorpresa, i consiglieri comunali del Pd, impegnati nella campagna per le amministrative di primavera. E a loro ha ribadito le parole dell’assemblea Pd di sabato scorso: «Il berlusconismo se non riusciamo a sradicarlo qui a Milano sarà difficile sradicarlo dalla coscienza del Paese. Bisogna superarlo qui».

il Fato 15.2.11
La guerriglia degli Anonymous
di Federico Mello


A gennaio, annunciando la loro “Operazione Italia” avevano promesso: “Vogliamo mettere Berlusconi su un aereo come Ben Ali”. E gli Anonymous italiani, gli hacker che fanno capo al gruppo informale (e internazionale) schierato in difesa di Julian Assange e Wikileaks, hanno cominciato a fare sul serio anche da noi. Domenica 6 febbraio è partito il loro primo attacco che ha messo ko per alcune ore il sito del governo. Due giorni fa, sempre di domenica, sono tornati alla carica. Prima tornando sullo stesso obiettivo: il sito dell’esecutivo ha accusato “momenti di criticità” per attacchi incrociati contrastati dalla polizia postale (che ha impedito agli hacker di bloccare completamente il portale). Ma poi sono partiti anche contro altri   siti istituzionali tra cui quelli di Camera e Senato. “Sapevamo dell’attacco e abbiamo predisposto delle contromisure che ci hanno consentito di rispondere in maniera adeguata”, fanno sapere i responsabili tecnici   dei server, sottolineando che in alcuni casi sono state proprio le difese alzate a bloccare per brevi periodi i siti web (come contromisura, ad esempio, nel corso della giornata è stato deciso di bloccare l’accesso al sito del governo). Gli Anonymous hanno festeggiato ugualmente: “Abbiamo attaccato e resi inaccessibili per diverso tempo i siti del governo e di  camera.it  ” hanno fatto sapere con tanto di rivendicazione: “Non accettiamo che alla Camera durante un dibattito ci siano politici che si addormentano o peggio iniziano a usare un linguaggio scorretto, con cori da stadio o addirittura venendo alle mani”. 
Di loro si sa poco: si incontrano a grappoli, su reti criptate, e per parlare all’esterno hanno instaurato un canale di comunicazione con l’Ansa. A.B., portavoce del gruppo in Italia, ha dichiarato all’agenzia di stampa che domenica “hanno partecipato in almeno 1.400 alle nostre operazioni, e la decisione è stata frutto di un lungo dibattito   che ha coinvolto anche i non-italiani”. Le motivazioni non si discostano molto da quanto viene urlato in questi giorni in alcune piazze: “Mentre i politici litigano, fuori da quelle sedi istituzionali centinaia di migliaia di famiglie non arrivano a fine mese: non è rispettoso per nessuno offrire uno spettacolo del genere. L’Italia – aggiungono – ha un capitale di storia, cultura, tradizione e grandi personaggi: non possiamo farlo cadere nel baratro”.   Questi informatici, spesso giovanissimi cresciuti a pane e Wikileaks, non hanno struttura o sedi: si accordano in modo informale su Internet e chi vuole può partecipare agli attachi con le proprie competenze, magari solo per una volta. La loro “guerriglia digitale” finora è riuscita più a far parlare di sé che a causare danni. Ma loro non hanno intenzione di fermarsi: “Anonymous non dimentica – annunciano – Anonymous non perdona le ingiustizie, aspettateci sempre! Ci fermeremo solo quando anche in Italia ci saranno dei cambiamenti radicali”.

l’Unità 15.2.11
La sinistra Pd si rimette in marcia
Aspettando il Cinese
Parole d’ordine: apertura e Sel e stop ai “marchionnisti” Due convegni a Roma nelle prossime settimane Vita: stiamo rinascendo, ma non chiamateci «Correntone»
di A.C.


Grande fermento nell’ala sinistra del Pd. La vicenda Fiat, il tramonto del berlusconismo e il successo delle posizioni vendoliane stanno rianimando l’area dei “gauchisti” che negli ultimi mesi si era un po’ dispersa, a partire dal congresso del 2009, in cui c’era stata una diaspora nelle tre mozioni guidate da Bersani, Franceschini e Marino. «Ora si riparte, c’è aria di rinascita», spiega Vincenzo Vita, che ha sempre creduto al ruolo di una sinistra interna capace di dialogare con Sel e con i movimenti della società civile. Si parte il 21 a febbraio a Roma, con un seminario cui parteciperanno, oltre a Vita, Vannino Chiti, Giorgio Ruffolo, Lanfranco Turci, l’ex Cgil e ora senatore Pd Paolo Nerozzi. E ancora: Beppe Giulietti, Giulia Rodano, Gianni Borgna, Renato Nicolini, Cecilia D’Elia di Sel, l’ex ministro Alessandro Bianchi, il segretario del Pd romano Marco Miccoli. Il titolo è evocativo: «Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo». Tutto nasce, spiega Vita, dal recente congresso del Pd romano, e da un documento che alcuni esponenti della sinistra Pd hanno firmato per sostenere la candidatura di Miccoli.
Non ci sarà, invece, Sergio Cofferati, l’ex leader Cgil del Circo Massimo, che è già un punto di riferimento centrale per la sinistra che si rimette in moto. Dopo l’esperienza da sindaco securitario a Bologna, il Cinese sulla vicenda Fiat ha assunto posizioni di netto sostegno alla Fiom, e all’ultima assemblea nazionale Pd a Roma ha ritrovato gli argomenti e lo smalto dei tempi dell’articolo 18, criticando tra gli applausi la deriva «liberale» del Pd, criticando i “marchionnisti” e invitando a rimettere al centro il lavoro e i diritti. Logico quindi che la nuova area guardi al carisma dell’ex leader Cgil come suo possibile leader. Ma l’appuntamento del 21 sarà solo l’antipasto, e in chiave molto romana. Ne seguirà un altro ai primi di marzo, lanciato da una serie di dirigenti romani che al congresso si erano divisi tra le varie mozioni, e che intendono ritrovarsi nelle parole d’ordine della sinistra. «Vogliamo costruire un’area vasta e trasversale», spiega Francesco Simoni, che lavora all’Organizzazione al Nazareno. «Vogliamo essere un’area di confine che favorisce la costruzione di ponti», dice Vita.
Sulle agenzie di stampa la nuova area è stata subito ribattezzata il «correntone» del Pd, in riferimento all’area dei Ds guidata da Veltroni e Cofferati ai tempi del congresso del 2001. Ma il paragone ha fatto subito arrabbiare alcuni dei promotori: «Sarebbe opportuno evitare voli di fantasia e ritorni al passato», dice Paolo Nerozzi, che annuncia forfait. «Il 21 sarò a Bologna a una iniziativa sul lavoro». La preoccupazione degli uomini più vicini a Cofferati, infatti, è di non bruciare i tempi. E di non caricare l’iniziativa del 21 di significati che non ha. «È un’iniziativa romana», minimizza Vita. «Assurdo parlare di un nuovo correntone». Prudenze che dimostrano quanto sia in salita il percorso della nuova area. Entusiasta invece l’ex deputato della Rosa nel Pugno Lanfranco Turci: «Auspichiamo da tempo un rimescolamento delle carte che porti alla nascita di una grande soggetto della sinistra italiana, con un collegamento chiaro e forte al partito del socialismo europeo». «Per farlo concludeoccorre che le diverse anime della sinistra italiana, riformista e radicale, riprendano un percorso unitario».

il Riformista 15.2.11
Nicola Latorre
«Lasciamo stare Fini piuttosto lavoriamo a una fase 2 con Nichi»
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/48861173

La Stampa 15.2.11
La Cina si compra il suo Panama
Imprese titaniche. I cinesi vogliono costruire in Colombia una linea ferroviaria alternativa al Canale e in Asia pensano di tagliare il Sud della Thailandia per farci passare le navi. Ridisegneranno gli equilibri commerciali?
di Francesco Semprini, Fabio Pozzo


A Bogotà Il presidente Santos spera così di sbloccare il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti

Pechino punta su Bogotà per spostare a suo favore gli equilibri commerciali delle Americhe. La Cina è in trattative per costruire una rete ferroviaria in grado di collegare la costa atlantica a quella pacifica della Colombia e rimettere in discussione così lo strapotere del canale di Panama.
Il «dry canal», o «corridoio a rotaia» è un’ulteriore prova dell’aggressiva politica di penetrazione con cui, ad Est come ad Ovest, Pechino vuole imporre la propria egemonia commerciale. Ne è parte integrante ad esempio, il progetto di ricavare nell’Istmo di Kra, in Thailandia, un nuovo sbocco tra Oceano Indiano e Pacifico. «E’ una proposta reale e la trattativa è in fase avanzata - spiega al Financial Times il presidente colombiano Manuel Santos - Gli studi si basano principalmente sui costi per tonnellata del trasporto delle merci, e sino ad ora l’investimento appare conveniente».
Il «dry canal» (canale asciutto) si estenderà per 220 chilometri unendo la costa del Pacifico a una nuova cittadina nei pressi di Cartagena, dove le merci cinesi verranno riassemblate e faranno rotta verso le diverse destinazioni del continente americano. Le materie prime colombiane invece seguiranno la direzione opposta verso la Cina. «Non voglio creare attese esagerate ma il progetto ha un significato importante - prosegue Santos -. La Cina del resto è il nuovo motore dell’economia globale».
La Colombia auspica da tempo la creazione di una via di comunicazione alternativa al canale che si estende per 81,1 km sull’istmo di Panama. Sebbene Bogotà sia il principale alleato degli Stati Uniti in America Latina, dove ora svolge il ruolo di bastione contro le derive socialiste del vicino Venezuela, negli ultimi tempi ha lamentato lo stallo del trattato di libero scambio a Washington. L’accordo è stato infatti siglato da entrambi i governi quattro anni fa ma ancora deve essere ratificato dal Congresso Usa.
Il progetto del corridoio a rotaia è usato come leva sull’alleato americano, anche se il nuovo asse con Pechino è un dato di fatto visto che negli ultimi anni le relazioni commerciali tra Cina e Colombia si sono più che rafforzate. Il valore complessivo degli scambi è cresciuto dai 10 milioni di dollari del 1998 ai 5 miliardi del 2010, e il Paese del Dragone è divenuto il secondo partner commerciale della nazione latino-americana, alle spalle degli Usa.
Il «dry canal» del resto è solo il progetto di punta di un vasto programma con il quale la Cina è pronta a finanziarie il rafforzamento della rete infrastrutturale e dei trasporti col partner latino-americano. Tra gli altri ad esempio c’è la realizzazione una nuova rete ferroviaria di 791 km e l’ampliamento del porto di Bonaventura sul Pacifico. Si tratta di progetti del valore di 7,6 miliardi di dollari che saranno finanziati dalla Chinese Development Bank e gestiti dalla China Railway Group. In cambio Pechino punta a mettere una seria ipoteca sui giacimenti di carbone di cui la Colombia è il quinto produttore mondiale, ma che sino ad oggi veniva esportato passando attraverso i porti dell’Atlantico.
Alcuni dubitano della reale competitività del «Dry canal», specie alla luce del progetto da 5,25 miliardi di dollari per l’ampliamento del canale di Panama, che sarà completato in occasione del centenario nel 2014. Tuttavia il «corridoio a rotaia» conferma le ambizioni di Pechino nei confronti delle economie in via di sviluppo alle quali negli ultimi due anni le banche cinesi hanno concesso prestiti superiori a quelli erogati dalla Banca mondiale. La conferma giunge da «Monsoon: L’Oceano Indiano e il futuro del potere americano », un recente libro dello scrittore e giornalista Robert Kaplan. Nel capitolo sulla « Strategia cinese dei due Oceani », Kaplan racconta di un monumentale progetto da 20 miliardi di dollari con il quale i cinesi vogliono scavare l’istmo di Kra nella Thailandia meridionale per creare una via navigabile «rivale al canale di Panama» (Pechino ha reso pubbliche tali sue intenzioni nel 2005: aveva parlato di dieci anni di lavori con l’impiego di 30 mila operai). In questo modo i mercantili eviterebbero di attraversare lo stretto di Malacca, tra Malesia e Indonesia, un tratto di mare pericoloso e infestato dai pirati, consentendo al Paese del Dragone - risparmiando giorni di navigazione per le sue merci sulla rotta Est/ Ovest di diventare la potenza marittima dei due oceani, e di rafforzare la sua influenza anche nel Sud-Est asiatico.
"In America progetti per oltre 7 miliardi finanziati dalla Chinese Development Bank Nel Sud-Est asiatico l’opera dell’istmo di Kra consentirà di bypassare lo Stretto di Malacca"

La Stampa 15.2.11
Intervista
Messina: “Vogliono controllare il ciclo dei trasporti”


I cinesi stanno cercando di controllare sempre di più il ciclo dei trasporti». Stefano Messina è amministratore delegato della Ignazio Messina, la compagnia di navigazione genovese che opera da 80 anni nel trasporto merci via mare, spingendosi oltre Suez nel 1935 e oggi con linee che toccano prevalentemente Mediterraneo, Africa, Medio Oriente e sub-continente indiano. Uno dei tanti armatori europei col fiato sul collo di Pechino.
Panama-bis, ma su rotaia. E il Canale di Kra: che gliene pare? «Non conosco nel dettaglio i progetti del “canale secco” in alternativa a Panama e del canale di Kra in Thailandia e dunque non posso esprimere un giudizio approfondito sulle ricadute economiche e di traffici. Penso comunque che, se realizzati, questi progetti aumenteranno sicuramente la capacità della Cina quale Paese esportatore di semi-lavorati e prodotti finiti. Soprattutto sulle Americhe: il flusso di traffico Cina-Usa non potrà che beneficiare della riduzione di giorni di navigazione e di costi».
Ci guadagneranno tutti? «Queste opere sono essenzialmente pensate per agevolare i flussi di traffico cinesi. Vale a dire l’importazione di materie prima dal resto del mondo (nel caso del “canale secco” interoceanico sul piatto c’è soprattutto il carbone colombiano, ndr) e l’esportazione dei loro prodotti. Poi, non è detto che queste nuove vie di trasporto potranno essere utilizzate anche da terzi. Ma questo non certo è il loro obiettivo primario».
Vogliono controllare i mari? «Hanno cominciato a costruire navi porta rinfuse per importare materie prime. Poi, le portacontainer, per esportare le loro merci. La loro flotta è aumentata e nel contempo si è sviluppata la loro cantieristica navale, che successivamente è stata aperta anche a commesse esterne e che oggi è molto, molto competitiva». Per non parlare poi del Risiko dei porti, che vede l’ex Impero di Mezzo acquisire il controllo di moli e terminal ogni dove: il Pireo, ormai è una propaggine della Grande Muraglia. «Tutto ciò, inclusi i progetti del Panama secco e del canale di Kra, è una conferma della partita globale che sta giocando Pechino. E della sua aggressività, che si accompagna a una enorme capacità finanziaria». Lei opera in Africa. I cinesi sono in prima fila anche qui? «Negli ultimi cinque anni i flussi di traffico Cina-Africa sono aumentati di dieci volte. Il loro premier nel 2010 ha visitato quattro volte questo continente: l’ultima sua visita è durata 12 giorni e ha toccato otto Paesi. Ormai in Africa i cinesi sono ovunque. Comprano materie prime, esportano merci, forniscono tecnici, gestiscono le infrastrutture: costruiscono porti, strade, dighe, edifici pubblici, case. Stanno realizzando un nuovo terminal petrolifero in Kenya, per collegare la costa di Lamu con i giacimenti del Sudan. In Nigeria stanno costruendo tre raffinerie per fornire benzina a prezzo politico...». Un’invasione. Si sente anche sui trasporti marittimi? «La loro concorrenza sulle rotte per l’Africa è spietata. Le loro compagnie di Stato, Cosco e China Shipping, oltre a trasportare le merci da/per la Cina, sono entrate anche sul resto del mercato a gamba tesa, abbattendo noli, condizioni, prezzi».

La Stampa 15.2.11
La bomba demografica è pronta a riesplodere
L’Onu: aiuti alla pianificazione o arriveremo a 18 miliardi
di Giordano Stabile


La Bomba, demografica, è ancora sospesa sopra le nostre teste. Meno visibile, offuscata dai progressi dei Paesi in via di sviluppo, come il Brasile, la Turchia o persino l’Iran, dove la discesa del tasso di crescita della popolazione ha sorpreso tutti, compresi gli studiosi. Tanto che sui mezzi di comunicazione si è imposto quello «scenario medio», elaborato dall’Onu alla metà dello scorso decennio, che prevedeva un aumento degli abitanti sulla Terra fino a nove miliardi entro il 2050 e poi una stabilizzazione attorno a quella cifra. Enorme, se consideriamo che un secolo fa gli umani era poco più di un miliardo e mezzo, ma comunque gestibile. Rassicurante.
Ora la stessa Onu mette in guardia da questo facile ottimismo. Lo «scenario sostenibile» non è affatto acquisito, non è un trend automatico. Ha bisogno di politiche di controllo demografico attive. E pure costose, soprattutto nei Paesi più arretrati, Africa in testa. L’ultimo rapporto del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite (Ecosoc) delinea un futuro sul filo del rasoio, dove un minimo discostamento dalle previsioni più favorevoli porta all’esplosione della Bomba, a un Pianeta con 14, a18 miliardi di uomini, più poveri, affamati e assetati di ora. Un futuro da incubo, con l’Africa che ne ospiterebbe quasi la metà, su un territorio desertificato, disossato.
«La riduzione della fecondità - spiega Thomas Buettner, demografo dell’Onu - è data per scontata. Troppi leader politici si sono convinti che le cose andranno per il meglio anche senza nessun intervento. Ma la transizione demografica è in un momento delicato. E alla fine gli abitanti sul Pianeta potrebbero rivelarsi molti di più del previsto». Con lo sviluppo, la modernità, e gli antibiotici, il tasso di mortalità è calato, o sta calando, con estrema rapidità. Ma la riduzione delle nascite, legata a dinamiche culturali, allo status delle donne, non tiene lo stesso passo. È la «transizione demografica». La natalità si deve adattare alla mortalità per ripristinare l’equilibrio. In Europa, nel Nordamerica e anche nella Cina del figlio unico, si è già conclusa. In alcuni Paesi, come Giappone, Russia, si è andati oltre, e la popolazione diminuisce.
Poi ci sono una serie di Paesi «sorprendenti», dove lo sviluppo economico non è ai livelli occidentali ma la transizione è andato in porto. Su tutti il Brasile, che ha già raggiunto la fatidica soglia dei due figli per donna. Merito delle telenovelas che hanno proposto un modello familiare moderno anche nelle favelas. E alla rapida urbanizzazione. Avere cinque o sei figli può far comodo in campagna: puoi metterli a badare ai polli o a raccogliere legna. Ma se ti sei trasferito in un monolocale di San Paolo, è poco pratico.
In Africa e nell’Asia meridionale la transizione è pieno corso, o appena cominciata. Lì si gioca il futuro del Pianeta. Se si mettono a confronto i dati globali con quelli di un Paese come il Mali, si capisce il problema. Nel mondo siamo oggi a 6,9 miliardi, alla fine quest’anno si arriverà a 7 o quasi. Ci sono 19,68 nati e 8,37 morti per ogni mille abitanti. Vale a dire una crescita dell’1,1% circa, 75-80 milioni in più ogni anno. Il tasso di fecondità, cioè quanti figli mette al mondo in media ogni donna, è 2,56. In Mali, il tasso di natalità è del 46,09 per mille, quello di mortalità del 14,64. I figli per donna 6,54. La crescita è del 3,1% all’anno, vale a dire raddoppio in meno di trent’anni. Tutta l'Africa, di questo passo, crescerebbe e si moltiplicherebbe da 1 a 8 miliardi.
Il numero magico per la stabilizzazione è 2,1 figli per donna, abbastanza vicino a livello mondiale. Ma potrebbe non bastare «La crescita demografica ha una forte inerzia - spiega ancora Buettner -. È come una petroliera lanciata a piena velocità. Anche se spegne i motori va avanti per chilometri». In Europa, per esempio, la popolazione diminuisce in Germania (1,43 figli per donna) ma continua ad aumentare in Francia (1,98). In Italia siamo a 1,41. Per questo, per ottenere risultati, «bisognerebbe portare il numero di figli per donna a 1,85». Traguardo alla portata della maggior parte dei Paesi del mondo, ma non di quelli africani. O di Paesi asiatici come il Pakistan.
La crisi finanziaria globale rischia di tagliare le gambe anche alla pianificazione familiare, che si regge soprattutto sugli aiuti delle nazioni più ricche. In caduta libera. I finanziamenti di sono dimezzati negli ultimi dieci anni e «l’offerta di anticoncenzionali - rincara Gilles Pillon, dell’Istituto demografico nazionale di Parigi - non solo è insufficiente e mal organizzata, ma anche in mano a funzionari locali poco convinti, che non credono nella loro missione». In Africa solo il 12 per cento delle famiglia applica qualche forma di pianificazione. Eppure, calcola l’Onu, ogni dollaro investito in metodi anticoncezionali ne fa risparmiare 6 in spese mediche o sociali dovute alla crescita troppo rapida. Bisogna investire per garantirci un futuro. Sostenibile.

Corriere della Sera 15.2.11
Corsa al riarmo
Tutti dietro Pechino
di Marco Del Corona


A ciascuno la sua Cina. Taiwan è alle prese con il peggior caso di spionaggio da mezzo secolo, il generale Lo Hsien-che ha passato informazioni a Pechino forse compromettendo la capacità di difesa dell’isola, e— rivelazioni di ieri— ci sarebbero «una decina» di infiltrati. A gennaio i media indiani, poi smentiti da quelli cinesi, hanno denunciato lo sconfinamento in Kashmir dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il Giappone in dicembre ha rivisto la sua strategia di difesa, forzando i limiti della sua legislazione pacifista, perché teme Corea del Nord e, appunto, Cina. A ciascuno la sua Cina, ansiosa di abbinare allo status di seconda economia del mondo un’adeguata importanza militare, e proprio per questo destinata a pesare sui nervi scoperti dell’Asia. Osservata con preoccupazione dagli Usa e dai loro alleati nell’area, la Repubblica Popolare sta potenziando la propria capacità militare. Ciclicamente i leader, Hu Jintao incluso, affermano che la Cina non minaccia nessuno, e che i suoi oltre 80 miliardi di dollari (ufficiali) di budget militare hanno fini esclusivamente difensivi. Tuttavia affannarsi a giustificare la corsa alle armi non fa che confermarla. Non che Pechino sia sola. In un decennio l’India ha incrementato le sue spese militari del 150%e, ad esempio, ricorre a tecnologia francese per ammodernare e ampliare la sua flotta sottomarina. La Corea del Sud ritocca il piano del 2006 che stanziava 550 miliardi di dollari. Non si sottraggono al trend Paesi più defilati ((la Malaysia) o piccolissimi (Singapore: 9 miliardi di dollari di bilancio nel 2010, più dell’Indonesia). L’Australia in vent’anni spenderà circa 280 miliardi di dollari. Tanto attivismo fa da sinistro contrappunto all’attenzione di Barack Obama per il Pacifico. Dal canto suo, la Cina ha triplicato il suo budget militare in 10 anni. Possiede 160 testate nucleari e oltre 60 sottomarini. Il mese scorso, mentre il segretario alla Difesa statunitense Robert Gates era a colloquio con Hu Jintao, è stato annunciato il primo volo del jet invisibile da combattimento J-20. A dicembre erano usciti i piani per la prima portaerei cinese, forse pronta nel 2014 se non prima. Lo stesso mese, il comandante delle forze americane nel Pacifico, Robert Willard, ammetteva che il missile balistico antinave Dongfeng 21D aveva raggiunto una «capacità operativa iniziale» avviando un cambiamento degli equilibri regionali. Chi a Pechino teme un accerchiamento da parte degli Usa, tra il Pacifico e l’Asia centrale, spiega: «Ci dobbiamo preoccupare, è naturale» , come ha dichiarato Xu Qinhua dell’Università del Popolo. Alcuni degli exploit cinesi vengono valutati con scetticismo, Washington li studia. E la propaganda gioca la sua parte: vedi il caso della Avic (Aviation Industry Corporation of China, azienda statale) che nei giorni scorsi faceva sapere di voler concorrere, insieme con la statunitense Us Aerospace, alla realizzazione del futuro elicottero presidenziale americano. Nel frattempo, Pechino preme sull’Europa perché venga abolito l’embargo sugli armamenti e la tecnologia ad uso anche militare varato nel 1989 dopo Tienanmen: un bando che la Cina giudica iniquo e antistorico e che ha offerto campo libero alla Russia. Dietro all’escalation del riarmo sta la geografia dell’Asia. Un reticolo di rivendicazioni e focolai di crisi. Cina e India hanno una regione (l’Arunachal Pradesh) e pezzi di confine ancora contesi. Pechino costruisce porti e infrastrutture tra Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Birmania, allarmando l’India. La Corea resta una mina innescata. Taiwan e Cina flirtano ma una faglia politica le divide. Le isole sono un labirinto di tensioni: dalle Kurili (Russia-Giappone) alle Senkaku/Diaoyu (Giappone-Cina) fino alle Spratly e le Parecel (Cina-Vietnam, e altri). I nuovi interessi sparigliano legami consolidati. Così, gli Stati Uniti trovano nel Vietnam, antico nemico, un partner interessato, anche se attento a non irritare troppo Pechino. Il Wall Street Journal, intransigente con la Cina, considera una mossa formidabile la disponibilità vietnamita ad aprire la base navale di Cam Ranh a marine straniere utili così a contenere Pechino. Un risiko. Avvertiva all’inizio dell’anno sul New York Times Abraham M. Denmark, già esperto di Cina nello staff di Gates: «Una minaccia è la combinazione di capacità e intenzioni. Le capacità si stanno definendo sempre meglio, e sono mirate a limitare la possibilità americane di proiettare la sua forza militare nel Pacifico occidentale. È il loro intendimento che non ci è ancora chiaro» .

il Fatto 15.2.11
Un’internazionale antimafia
di Nicola Tranfaglia


Uno scrittore italiano, che oggi definiremmo di centrodestra e che, durante la dittatura fascista, mantenne una posizione dura contro la sinistra e benevola con gli altri, Giuseppe Prezzolini, fondatore e direttore della rivista La Voce che raccolse intorno a sé alcuni tra i grandi e piccoli intellettuali del tempo, scrisse nel 1910, pressappoco un secolo fa, parole che a me sembrano adeguate ai tempi di oggi: “La democrazia presente non contenta più gli onesti. Essa non rappresenta ormai che un abbassamento di ogni limite, per far credere di aver innalzato gli individui: mentre non si è fatto che l’interesse dei più avidi e più prepotenti. Da per tutto è lo stesso fenomeno. Si veda, ad esempio, nel campo degli studi, la minore severità di criteri intellettuali... La severità per il minimo necessario di coerenza e di onestà in   politica è pure decresciuta. Nelle elezioni trionfa il danaro, il favore, l’imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità imperdonabile... Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal Parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel Paese. Ogni partito è scisso... Tutto si frantuma”.
PAROLE VALIDE per il passato ma, a quanto pare anche per il futuro, e dette da uno scrittore molto moderato e naturalmente vicino alla destra e non alla sinistra, per chi dia importanza a queste etichette in campo storico e letterario.   Questo, dopo un secolo di storia, è dunque l’interrogativo che dobbiamo porci oggi, nel 2011, e che il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia con lo storico Carlo Marino dell’Università di Enna, ci pongono in un libro che uscirà la settimana prossima, edito da Bompiani, e che vorrei tanto che i giovani leggessero perché si stanno affacciando   al lavoro e alla propria vita. I due saggi che compongono il volume Manifesto per un’Internazionale Antimafia (Bompiani editore, pp. 415, 22 euro) disegnano con chiarezza qual è il problema che abbiamo oggi di fronte nell’Italia di Berlusconi e del suo populismo autoritario.
FORNIAMO ai lettori alcuni dati impressionanti sul peso economico delle mafie nel mondo. “Secondo le stime della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale – scrive Carlo Marino nel suo ampio saggio – l’economia sommersa ha raggiunto già nel 2001, dieci anni fa, il 20-25 per cento del Pil globale, mentre si stima che le transazioni finanziarie legate al riciclaggio si attestino   oggi al livello impressionante tra il 2 e il 5 per cento del Pil globale, circa 1,5 milioni di miliardi di dollari”. Quanto al potere attuale delle mafie (parliamo, come nel libro di Marino e Ingroia, delle associazioni mafiose Cosa nostra siciliana, ’Ndrangheta calabrese, Camorra campana, Sacra corona unita pugliese, e di tutte le loro diramazioni internazionali citate da Antonio Forgione, ex presidente della commissione Antimafia durante il secondo governo Prodi).
Ma, prima di concludere l’articolo, vorrei ricordare quel che dice con grande chiarezza il procuratore aggiunto della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, che è autore del secondo saggio di questo libro: “A vent’anni dalle strage di Capaci (Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta) il 19 maggio 1992 e di via D’Amelio (Paolo Borsellino e la sua scorta) nel luglio 1992,   due mesi dopo, è maturata la nuova fase evolutiva della mafia, entrata in un processo di spiccata finanziarizzazione. Il che reca con sé almeno due conseguenze. In primo luogo, la “delocalizzazione” di Cosa nostra (e delle altre organizzazioni mafiose), non più padrona assoluta del territorio, comporta una sua maggiore mobilità sul territorio nazionale e internazionale, una sua maggiore competitività sui mercati illeciti internazionali. È la consapevolezza di ciò che ha probabilmente ispirato i più recenti progetti della direzione strategica di Cosa nostra di riaprire i canali di collegamento Oltreoceano, soprattutto con la mafia italo-americana, per cercare di riconquistare un ruolo di protagonista   nei grandi traffici illeciti, oggi saldamente in mano alla ‘Ndrangheta calabrese. In secondo luogo, il diminuire complessivo delle entrate degli ultimi anni ha fatto sì che nell’economia mafiosa abbia acquisito sempre maggior peso il ruolo dei “colletti bianchi”, quel ceto di professionisti della finanza, di consulenti del riciclaggio, dai quali dipende la buona riuscita del reimpiego degli investimenti e del denaro sporco introitato dalla mafia negli anni d’oro della grande accumulazione illecita soprattutto proveniente dai traffici di stupefacenti, quando la mafia vi aveva un ruolo leader a livello mondiale”. 
E L’APPELLO dei due autori per un’iniziativa culturale che può avere successo soltanto se ha il sostegno dell’opinione pubblica nazionale e internazionale: “Un sistema mafioso sempre più internazionale può essere fronteggiato soltanto con un movimento antimafia internazionale, un movimento antimafia che si traduca in iniziative internazionali per ottenere dalle Istituzioni internazionali precisi impegni e atti concreti. Un’antimafia internazionale che, prima ancora che istituzionale, sia sociale”. Escludiamo l’Italia che è nelle condizioni peggiori per farlo, e l’Europa che, precisa Marino, è piuttosto un’araba fenice. E allora? Almeno discutiamone e poi si vedrà.

l’Unità 15.2.11
Capitalisti e giornali: la scalata di Della Valle al Corriere della Sera
L’imprenditore della Tod’s attacca di nuovo Geronzi e punta a creare nuovi equilibri in via Solferino. «Sono pronto a crescere moltissimo...» Rotelli, Tronchetti Provera, Fiat, Merloni sarebbero disposti ad aiutarlo
di Rinaldo Gianola


Non ci sono dubbi: Diego Della Valle vuole conquistare il Corriere della Sera. Che l’imprenditore della Tod’s possa diventare il primo azionista, il socio di riferimento, il punto di convergenza di altri interessi presenti nel gruppo editoriale è naturalmente un progetto importante e denso di incognite. Ma ormai le carte sono sul tavolo e Della Valle, con uno stile forse poco educato per i salotti finanziari ma certo efficace per catturare l’attenzione dell’opinione pubblica, vuole presentarsi come un possibile leader del malmesso capitalismo tricolore, con l’ambizione naturalmente di rinnovarlo e cambiarlo.
E come spesso è accaduto in passato, ogni volta che si profilano scontri di potere o avanzano personaggi che vogliono fare il grande balzo a scapito di altri uomini potenti, ecco che il Corriere della Sera diventa il campo di battaglia. Il vecchio giornale milanese, protagonista e testimone della storia italiana di cui ha condiviso le pagine più belle e pure quelle più vergognose, diventa anche questa volta territorio di conquista, con il solito corollario di conseguenze politiche ed economiche. Dopo aver definito «arzilli vecchietti» personaggi come il presidente delle Assicurazioni Generali, Cesare Geronzi e il presidente di Banca Intesa SanPaolo, Giovanni Bazoli, dopo aver chiesto sorprendentemente al consiglio di amministrazione delle Generali di vendere la partecipazione in Rcs Mediagroup (la società editrice del Corriere), ieri Della Valle è tornato alla carica, proprio alla vigilia del patto di sindacato che domani si riunisce a Milano. L’industriale marchigiano è stato ospite ieri sera dall’infedele Gad Lerner e ha aggiunto qualche dettaglio al suo disegno. «Geronzi è il grande vecchio, ma il mondo ormai è cambiato» ha detto Della Valle che, impavido, ha promesso:«Se fossi libero di scegliere sarei pronto a salire, ma moltissimo, in Rizzoli», un’azienda con «un grande futuro».
Parole chiare, esplicite. Chi si chiedeva, nei giorni scorsi, quali fossero le reali intenzioni di Della Valle con la sua offensiva ha trovato un prima risposta. L’industriale del Made in Italy vuole cambiare gli equilibri azionari di Rcs Mediagroup e presentarsi come il catalizzatore di un nuovo gruppo di comando. Che questo sia un progetto realizzabile subito, nel tempo, o destinato a schiantarsi sul muro è tutto da vedere. Ma la partita è iniziata e già domani ci potrebbero essere reazioni traumatiche tra i grandi azionisti. Il patto del Corriere vincola 13 soci (tra cui Mediobanca, Generali, Fiat, Pirelli, Italmobiliare, Merloni, Mittel, Edison, cioè i bei nomi del capitalismo italiano) e detiene il 63% del capitale con diritto di voto. Si tratta di una struttura di controllo di ispirazione “sovietica”, largamente superata, ma che ben rappresenta i ritardi, le paure, la debolezza del capitalismo nazionale che nelle relazioni anche incestuose e negli accordi dei salotti, più o meno frequentabili, trova la momentanea compensazione alla mancanza di capitali e di idee. Il patto di sindacato è stato rinnovato lo scorso anno: fuori sono rimasti il milanese Giuseppe Rotelli, imprenditore della Sanità (guai a chiamarlo “re delle cliniche”...), titolare di circa l’11% rilevato dall’ex popolare di Lodi di Fiorani, i Benetton con il 5% e ci dovrebbe essere ancora il costruttore Toti con un altro 5%. Il patto venne rafforzato nel 2005, all’epoca dell’improbabile e ridicola scalata di Ricucci, dal presidente, il notaio Gaetano Marchetti, custode di molti segreti della Milano degli affari: i vincoli sono così stretti che oggi un socio del patto non può disporre liberamente delle sue azioni, a meno che non ci sia una denuncia, una rottura degli accordi parasociali. Della Valle vuole arrivare a questo? È pronto allo scontro, a rovesciare le scrivanie in via Solferino? E Geronzi, un combattente nato che ne ha viste di tutti i colori, resterà in silenzio, senza reagire alle battute del proprietario della Fiorentina?
La sensazione è che Della Valle possa già contare su alcuni alleati dentro il capitale della Rcs, si fanno i nomi di Rotelli, di Marco Tronchetti Provera, di Francesco Merloni, forse anche della Fiat rappresentata da Luca di Montezemolo nella Rcs Quotidiani e da John Elkann nel patto degli azionisti. Ma se Della Valle vuole emanciparsi dal patto e diventare il padrone, o qualcosa di simile, del Corriere deve rompere la cristalleria, correndo anche qualche rischio, magari proponendo un forte aumento di capitale. D’altra parte l’imprenditore che definì i Romiti «la famiglia Addams», l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio «lo stregone di Alvito», che oggi ironizza su Geronzi e i suoi collaboratori (Bazoli ora sarebbe stato salvato...), che è uscito dalla Bnl del suo amico Luigi Abete con 250 milioni di plusvalenza non dovrebbe temere la sfida.
L’offensiva di Della Valle, che producendo scarpe non si capisce quale interesse strategico dovrebbe nutrire per l’editoria, testimonia che in Italia il potere si gioca ancora tra i giornali, pur in difficoltà, e gli sportelli delle banche. Il Corriere è una preda ambiziosa per molti, anche se Rcs Mediagroup non ha prodotto grandi soddisfazioni in questi anni per i suoi azionisti. Della Valle, proprietario di una quota del 5%, avrebbe patito una minusvalenza superiore ai 50 milioni di euro. L’indice europeo di settore “DjStoxx media” segnala un calo del 50% dei titoli editoriali nell’ultimo decennio, ma Rcs ha fatto meglio: è crollata del 70%. Toccherà a Della Valle cambiare il destino del Corriere della Sera? È davvero il modernizzatore del capitalismo, quest’uomo che ha la finanziaria di famiglia nel paradiso fiscale del Lussemburgo e che non ama trattare con i sindacati nelle sue fabbriche? Si vedrà.

Corriere della Sera 15.2.11
Verso la vita artificiale Ecco le proteine sintetiche
Assenti in natura, sono in grado di far crescere la cellula
di Edoardo Boncinelli


Si parla sempre più spesso di «vita sintetica» o di «vita artificiale» . Lo scopo di tali ricerche è quello di vedere fino a che punto siamo in grado di progettare e produrre in laboratorio cellule viventi, del tipo di quelle già esistenti in natura, ma anche di altre che in natura non si trovano. Fino adesso si era lavorato sui geni e sui genomi, soprattutto a opera del biologo statunitense Craig Venter e del suo gruppo. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Princeton guidati dal chimico Michael Hecht hanno scelto ora di lavorare direttamente sulle proteine, che rappresentano in ogni caso la materia e la forma delle diverse funzioni della cellula. In un lavoro appena pubblicato su PLOS-One, un'importante rivista del campo della biologia d'avanguardia, i nostri autori riportano i risultati di un loro avveniristico esperimento che è consistito nel sintetizzare proteine che non esistono in natura, inserirle in una cellula batterica in difficoltà e ricuperarne la piena funzionalità, anche agendo per così dire «alla cieca» . L'idea è semplice. In teoria possono esistere un'infinità di proteine diverse, ma in natura se ne trovano solo alcune centinaia di migliaia. Come mai? E'un problema di continuità storica o alcune non sono proprio adatte alla vita? Oggi siamo in grado di progettare a tavolino milioni di nuove forme di proteine e di produrle direttamente o di farle produrre da appositi geni anch'essi progettati alla bisogna. I ricercatori dell’Università di Princeton ne hanno così progettate e prodotte molte, che avessero il requisito minimo di assumere forme stabili all'interno delle cellule, e le hanno introdotte in mutanti batterici che non erano in grado di crescere e moltiplicarsi perché vi erano stati distrutti geni vitali. Così operando hanno ottenuto la sopravvivenza e la crescita delle cellule che hanno ricevuto le nuove proteine sintetiche. Ciò significa che alcune di esse sono altrettanto «buone» delle proteine naturali e si dimostrano capaci di sostenere la crescita della cellula batterica in questione. E'stata la cellula batterica stessa che «ha scelto» le proteine giuste, selezionandole tra tutte quelle che vi sono state inserite. Non si tratta di una selezione consapevole, ovviamente, ma solo del risultato del fatto che quelle che non hanno fatto la scelta giusta muoiono, mentre quelle che hanno favorito la moltiplicazione delle proteine giuste sopravvivono e si moltiplicano. Per ora questo dimostra soltanto che le proteine naturali non sono indispensabili e che possono essere surrogate da proteine interamente sintetiche, ma è sicuro che in un prossimo futuro si potrà anche determinare quali sono esattamente queste proteine «salvavita» e che proprietà possiedono in queste cellule o in altre ancora. Il pensiero corre subito al morbo di Alzheimer che è il risultato di una precipitazione anomala di certe proteine naturali nei neuroni del cervello delle persone affette. Qualche mese fa si parlò molto degli ultimi esperimenti del gruppo di Craig Venter, che ha «trasformato» una cellula batterica in un'altra, inserendoci il Dna del genoma di un diverso ceppo. A chi ha parlato in quella occasione di vita sintetica è stato obbiettato che il Dna era sì sintetico, ma la cellula era preesistente e «naturale» . Il passo successivo è rappresentato quindi dalla produzione di una cellula anch'essa sintetica. Poiché la cellula è fatta essenzialmente di proteine, l'esperimento di Hecht e collaboratori potrebbe rappresentare il preludio a questa nuova avventura. Ne vedremo delle belle, quindi, in un prossimo futuro. Quello che è certo è che così facendo potremo comprendere sempre meglio qual è la vera essenza della vita, almeno di quella biologica.

l’Unità 15.2.11
La testimonianza di Joumana Haddad, che racconta la sua storia e quella di molte altre
«Ho ucciso Sherazad» sarà in libreria a partire da oggi. Vi anticipiamo alcuni stralci
L’altra donna araba... Libera, ribelle indipendente
Anticipiamo ampi stralci dal libro «Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata» di Joumana Haddad (Oscar Mondadori, traduzione di Oriana Capezio, pagine 154, euro 10.00).
di Joumana Haddad


Autoritratto. Contro ogni tabù e restrizione

«L’essere umano arabo soffre di schizofrenia: una schizofrenia collettiva che tutti noi viviamo, divisi tra ciò in cui è stato detto di credere e ciò in cui crediamo, tra quello che diciamo e quello che facciamo. Ma è giunto il tempo di cominciare a chiamare le cose con i loro nomi e assumerne la responsabilità» scrive Jalila Bakkar, attrice di teatro e autrice tunisina. Dopo aver tentato di descrivere brevemente che cosa significa essere arabo oggi (la schizofrenia, la sindrome del gregge e la situazione di stallo: tre cupi aspetti condivisi da uomini e donne), cercherò con questo testo ibrido di spiegare cosa significa da una parte essere una donna araba (ossia tutti i pregiudizi erronei legati a questa connotazione) e dall’altra che tipo di responsabilità ciò comporta e cosa potrebbe significare realmente (ossia la potenziale realtà positiva e realizzabile, nonostante le sfide e le difficoltà attuali). Prima di chiederci: «Cos’è una donna araba», abbiamo bisogno di porci un’altra domanda: «Come è percepita una tipica donna araba agli occhi di un non-arabo?». Non è forse una percezione creata nella coscienza collettiva occidentale da una serie di formule e generalizzazioni? E queste non sono determinate da una visione “orientalista” ed esotica persistente o da un atteggiamento ostile, post 11 Settembre, formato da risentimento, angoscia e accondiscendenza? Non è forse una donna spesso vista come un essere povero e indifeso, condannato dalla nascita alla morte a obbedire incondizionatamente agli uomini della propria famiglia: padre, fratello, marito, figlio? Non è forse vista come un’anima impotente senza alcun controllo sul proprio destino?
Come un corpo inerme cui viene detto quando vivere, morire, generare, nascondersi e svanire? Come un volto invisibile mascherato da strati di paura, vulnerabilità e ignoranza, completamente cancellato dall’hijab islamico? O peggio, dal burqa sunnita e dallo chador sciita? Una donna che non è autorizzata a pensare, parlare o lavorare per se stessa. Una donna in grado di esprimersi solo quando le viene detto di farlo e che quando lo fa viene spesso ignorata e umiliata. Una donna, in sintesi, che non ha un posto né una dignità nell’umanità.
Certo, non tutti i cliché sono completamente errati, e non tutti gli stereotipi sono interamente falsi. La donna araba descritta qui sopra esiste. Non solo esiste ma, a essere sincera e precisa, devo purtroppo ammettere che è il modello sempre più diffuso di donna araba contemporanea. Dovunque tu vada, dallo Yemen all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Bahrein, ti accorgerai di quanto i poteri religiosi, gli indifferenti, corrotti e/o complici sistemi politici, le società patriarcali e anche la stessa donna araba (che è quasi sempre una co-cospiratrice contro il suo sesso) eccellano nel trovare nuovi modi per umiliare la donna, frustrarla e annullarne il ruolo e l’identità. Però tutto ciò non rende meno scandaloso, triste e ingiusto constatare che quasi nessun’altra immagine della donna araba sia presente nello sguardo e nelle percezioni comuni occidentali. Non vorrei generalizzare. Al contrario, sono perfettamente cosciente che esistono occidentali consapevoli della natura composita, complessa ed eterogenea delle nostre società e culture arabe. Il problema è che questi sono solo l’eccezione che conferma la regola.
(...)Bisogna essere onesti però: l’Occidente non è l’unico responsabile di queste idee sbagliate. Noi arabi siamo più che “colpevoli” per la distorsione della nostra immagine. Intrappolati in un circolo vizioso di difesa/ offesa, abbiamo fatto, e continuiamo a fare, di tutto per fomentare l’intolleranza nei nostri confronti e promuovere le immagini false e i cliché sulla nostra società e sulla nostra cultura. In poche parole: siamo bravissimi nell’essere il nostro peggior nemico.
Ciò che segue indubbiamente sorprenderà qualcuno: malgrado quanto ho scritto in precedenza, le donne arabe non sono tutte vittime. Non sono tutte sfruttate. Non sono tutte passive. Né maltrattate, né deboli. Non tutte le donne arabe cristiane sono emancipate e libere dai pregiudizi. Non tutte le donne arabe portano il velo, il burqa o lo chador. Non tutte le donne arabe subiscono aborti selettivi, né mutilazioni e matrimoni combinati. E, cosa più importante: non tutte le donne arabe piegano la schiena.«Per la maggior parte della Storia, l’Anonimo era Donna» (Virginia Woolf). Questo vale certamente per le donne arabe. Però la “non-anonima” donna araba non è un mito. L’altra donna, quella atipica, libera, ribelle, indipendente, moderna, aperta, anticonformista, colta, autosufficiente esiste accanto alla prima, e non è, come si pensa, tanto difficile trovarla. E questa è la sfida della mia testimonianza, solo un piccolo anello di una lunga catena di saggi sull’argomento. La vera sfida non sta nel provare che l’immagine prevalente della donna araba sia sbagliata, piuttosto nel dimostrare che è incompleta, e che occorre affiancarle l’altra immagine, quella luminosa, così che la seconda diventi parte integrante della prima nella percezione occidentale (e non solo).
Sì, un’altra donna araba esiste. Ha bisogno di essere notata, merita di essere riconosciuta. E io sono qui per raccontarti la sua storia. Tra molte altre: la mia.
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. Milano

Chi è Una donna araba arrabbiata racconta cosa significhi appartenere all’altra metà del cielo nel mondo islamico. In queste pagine Joumana Haddad, protagonista della cultura libanese contemporanea, sconfigge tabù e restrizioni per svelarci la sua vita: dalla lettura del marchese de Sade a dodici anni alle sue prime poesie erotiche, alla fondazione della rivista «Jasad».

Repubblica 15.2.11
Erika, dieci anni dopo "Ora voglio un figlio"
di Maurizio Crosetti


Omar, il fidanzato insieme al quale massacrò la madre e il fratellino, è uscito un anno fa e fa il giardiniere Lei si è laureata in filosofia
Dicono che oggi, a 27 anni, sia una donna pacificata Secondo giudici però non si è mai ravveduta. E il movente resta un mistero

Sono passati dieci anni. Ancora uno, e lei sarà libera. Libera? Dieci anni, ma è come se fossero dieci minuti. La villetta è rimasta com´era, il padre ha ritinteggiato le stanze con gli identici colori pastello, dopo avere lavato il sangue da solo. Non è mai andato via da lì.
Sulle due tombe ci sono fiori freschi, la mamma accanto al bambino, è così che si dovrebbe stare sempre. Vicini, però vivi.
Anche i muri del corridoio nel carcere di Verziano, sobborgo di Brescia, sono chiari. Erika li percorre con passo leggero. Adesso ha quasi 27 anni. Ne aveva sedici quando scannò sua madre Susanna e il suo fratellino Gianluca, 97 coltellate in tutto, insieme al fidanzato Omar. Erika e Omar, il male assoluto. Era il 21 febbraio 2001: dieci anni senza un perché. Omar è già fuori. In galera è diventato giardiniere. Quand´è uscito, ha detto: «Erika mi è indifferente, non esiste più», poi ha chiesto di vedere il mare.
Chi l´ha incontrata, è rimasto colpito dalle mani. Esili, delicate. Quasi bianche. Difficile pensare a quelle, le stesse, che tentarono prima di avvelenare, poi di affogare un bambino nella vasca da bagno. Quando le dita stringono forte qualcosa, per esempio il manico di un coltello, diventano più chiare nello sforzo.
Chi l´ha incontrata, in questi giorni, si è sentito ripetere: «Voglio una vita normale, devo ricostruire, devo recuperare il tempo. E quando sarò fuori, voglio una famiglia e dei figli». Due anni fa si è laureata in filosofia, 110 e lode, discutendo una tesi dal titolo "Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici". La ricerca della verità, un argomento interessante. Il padre, l´ingegner Francesco De Nardo, c´era come sempre, come dal primo giorno dopo la mattanza. Aveva un mazzo di rose per lei. E c´era la zia, c´era la nonna Giuliana, la mamma di Susy: «Erika è cambiata, è più tranquilla. È migliore. Una bellissima ragazza, e mio genero è un uomo eccezionale».
Eccezionale anche nel silenzio, mai una crepa, mai una mezza parola in tivù o sui giornali. Un esempio, un modello, l´ingegnere che lavora nella fabbrica di cioccolato. Le uniche sue parole su Erika le leggiamo nello stralcio dei verbali. «Devo proteggerla, al limite anche da se stessa. Una ragazza della sua età deve per forza avere un futuro. Ma quando la guardo, a volte penso: dove ho sbagliato?»
Dicono che Erika sia oggi una donna pacificata, per quanto possibile. Lavora in prigione alla cooperativa interna, specializzata in imballaggi. Nel 2006 il giudice le ha rifiutato la libertà condizionale «perché non appare ravveduta». Cinque anni fa, quando uscì per la prima e unica volta di cella, la portarono a un torneo di pallavolo nell´oratorio di Buffalora, nel bresciano. I fotografi se ne accorsero. Molto si discusse su quelle immagini, sul diritto a un sorriso, ai lunghi capelli sciolti, agli occhiali da sole, alla felpa rossa. Ma da allora, sempre e solo quel corridoio avanti e indietro.
Omar l´ha rimosso subito. Dopo un anno già mandava lettere con cuori trafitti da spade a Manuel, giovane rapinatore straniero visto alla messa nel carcere Beccaria. Gli parlava d´amore, gli chiedeva se tifasse Ferrari o Mc Laren («Io, Mc Laren!»), lo implorava di aspettarla. «Mi piacciono i ragni, i serpenti e gli scarafaggi, adesso non mi fanno più paura». Poi s´innamorò di Mario, il dj veronese che non aveva mai visto e che le aveva scritto una lunga lettera. Divenne, costui, "il fidanzato ufficiale" con inevitabili comparsate in televisione e davanti ai taccuini. Finché non finì con l´auto in un canale e morì, affogato. È la maledizione di Erika, si disse.
Nei primi anni al riformatorio Beccaria, lei non legava con nessuno. «Curatemi, ho male dentro, ho paura». Temeva aggressioni delle altre detenute. Tutti i mercoledì, il padre la andava a trovare. Poi si assestò, prese il diploma da geometra. A un amico, Marco, scrisse parole in realtà per la madre e il fratellino: «Perdonatemi, la mia vita è finita, però provo emozioni e non sono pazza. Perdonami, angioletto mio, ti voglio bene, quella sera dovevo bere io il veleno nel succo di frutta che maledettamente avevo preparato per te». Gianluca, 11 anni, nell´ultimo tema in classe alle medie aveva scritto: «Il mio migliore amico è mia sorella».
Dieci anni, e neppure un minuto senza il sangue attorno. «Sono invecchiata, quell´orrore ha cambiato la mia vita», spiega Livia Locci, il magistrato che fece condannare Erika e Omar. Quell´orrore: il maresciallo dei carabinieri che per primo entrò nella villetta, dopo non la smetteva più di vomitare. E dire che ne aveva viste. «È pura macelleria», ripeteva il medico legale.
L´hanno curata, ascoltata, seguita, accompagnata. Hanno cercato di intervenire su un disturbo della personalità, così si legge negli atti, e aiutata «a elaborare i vissuti». Ma nelle parole dei giudici c´è anche scritto: «Due omicidi che per efferatezza, per il contesto, per la personalità degli autori e per l´apparente assenza di un comprensibile movente, si pongono come uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria del nostro Paese».
Non erano stati gli albanesi, ma due ragazzini innamorati. Li scoprirono grazie ai microfoni nascosti in questura, filmarono Erika che mimava le coltellate, «li ho colpiti così». Omar le diceva «vieni qui, assassina», poi l´abbracciava. Dieci anni, ed è come se fossero niente. Nella campagna di Novi c´è la stessa luce opaca. Oltre le sbarre di Erika, una lunga fila di pioppi. Chi cerca un senso, trova solo silenzio.

Terra 15.2.11
Rinnovabili. Quante bugie dal Corsera
Luca Bonaccorsi Enrico Fontana


Terra 15.2.11
Tognazzi, il mio film sulla paura
di di Alessia Mazzenga


Terra 15.2.11
Lo straordinario viaggio del “trenino rosso”
di Federico Tulli

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