venerdì 3 dicembre 2010

Repubblica 3.12.10
Bersani: ora crisi evidente, il governo lasci
Ma l’esecutivo di transizione fa discutere il Pd. Votate insieme le mozioni di sfiducia
di Giovanna Casadio


I moderati del partito in fermento: dopo lo stop di Marini a Vendola l´addio di Fistarol
Letta: "Serve un super-Ciampi. Draghi o Monti? Non spetta a noi fare i nomi"

ROMA Il Pd aveva pensato di ritirare la sua mozione di sfiducia a Berlusconi (presentata con Idv il 12 novembre) per votare quella di Fini-Casini-Rutelli e Lombardo. Ma neppure ce ne sarà bisogno. Dario Franceschini, il capogruppo, ha spiegato ieri sera ai Democratici che una stessa richiesta di sfiducia sulla base dell´articolo 94 della Costituzione, produce l´unificazione. «Ci sarà un unico appello nominale ha illustrato saranno in pratica votate insieme». Quindi, la crisi del governo è ormai sotto gli occhi di tutti, la stima di 317 deputati che sfiducerebbero il premier, fatta dal finiano Bocchino è sempre per Franceschini «prudenziale, saranno di più». E il segretario Pier Luigi Bersani rilancia a sua volta il pressing affinché il premier si dimetta.
Non dovrebbe esserci bisogno di aspettare lo showdown del 14 è il ragionamento del segretario Pd: «La crisi politica del governo è ormai evidente. Davvero a questo punto non si capirebbero tatticismi, titubanze e diplomazie. Ci vuole determinazione in tutte le forze politiche che vedono con chiarezza l´emergenza italiana. Davanti ai gravi problemi che ha il Paese abbiamo già perso troppo tempo; dobbiamo uscire dall´instabilità e dalla paralisi e fare i primi passi sulla strada nuova». Insomma, in primo luogo stop a questo governo. Il vice segretario Enrico Letta rincara: «Berlusconi si dimetta prima del 14 dicembre, questo sbloccherebbe anche i lavori del Parlamento, e sono tante le cose da fare per il paese». Poi, dice, «serve un super Ciampi». Fuori di metafora, i Democratici pensano a un governo di Draghi o di Monti? «Non spetta a noi fare nomi». E su Vendola: «Smetta di lanciare un´Opa sul Pd e vediamo cosa fare insieme». Ma la questione che agita il Pd è proprio la personalità a cui affidare un governo di transizione. Per Bersani non può esserci nessun cedimento, ci vuole «discontinuità», perciò nessun consenso a un governo Tremonti.
Ma per Franco Marini è realistico, se si vuole ottenere un governo di responsabilità, prevedere che a guidarlo sia una personalità del centrodestra. Come del resto sostiene il Terzo Polo, dove ieri confluisce un altro democratico in uscita, Maurizio Fistarol, ex rutelliano. È la pattuglia dei moderati del Pd ad essere in fermento; crescono i malumori per un possibile patto con Vendola che sancirebbe lo spostamento a sinistra del partito. Sullo stesso fronte pro-elezioni si ritrovano Vendola e Di Pietro. Il leader di Idv fa un dietrofront: non parla più di governo di transizione, sia pure breve massimo di novanta giorni, aveva detto, e per fare la legge elettorale -; insiste sulle urne. «Non vogliamo tirare la giacchetta al nostro presidente della Repubblica, Napolitano, ma subito dopo la sfiducia bisogna andare alle urne. Occorre ricostruire dalle macerie con i pilastri della nostra coalizione in un progetto Pd, Sel e Idv che di per sé esclude la partecipazione del terzo polo. Deve risolversi tutto in un batter d´ali, per non fare rientrare magari Berlusconi dalla finestra».
E il Pd si prepara alla manifestazione dell´11 dicembre. Una piazza per dire che la fine del berlusconismo è segnata. Su Youdem, la tv Pd, i big (ma anche i militanti) dicono in poche battute "sarò in piazza l´11 perché...". Veltroni: «Sarò in piazza perché questo paese è stanco di ciò che ha conosciuto in questi anni, stanco di una politica lontana dalla gente e inconcludente, stanco di un governo prepotente e incapace».

il Fatto 3.12.10
Le opposizioni.Di Pietro: pronti a farlo cadere
Ora le truppe di Bersani possono contare
di Sara Nicoli


“Abbiamo già perso troppo tempo”. Alla fine di una giornata convulsa, Pier Luigi Bersani tira quasi un sospiro di sollievo: “Ormai è chiaro: ci sono le condizioni perché la crisi politica del governo Berlusconi, che da mesi segnaliamo, abbia finalmente una formalizzazione parlamentare”. È l’ora, insomma, di andare oltre i tatticismi, le trattative a distanza, quelli che Berlusconi chiamerebbe “i giochi di Palazzo” e dare modo al Paese di vedere “concretizzarsi – sono ancora parole del segretario Pd – con chiarezza l’emergenza italiana”. A parere di Bersani “davvero a questo punto ci vuole la determinazione di tutte le forze politiche per uscire dall’instabilità e dalla paralisi”. E in attesa di presentare agli elettori “la strada nuova” del Pd nella manifestazione   che si terrà a Roma l’11 dicembre in piazza San Giovanni, in contemporanea con quella del Pdl a Milano, le opposizioni stringono le fila, anche se Dario Franceschini, alla fine, rileva: “Se il Pd voterà o no il testo dei centristi è adesso l’ultimo dei problemi”. Ma è comunque “un dato positivo”. Senza dubbio, il fatto che le opposizioni abbiano trovato unità d’intenti attraverso mozioni di sfiducia sostanzialmente similari, rende più chiaro il percorso della crisi. Anche se non la sua soluzione. “Abbiamo sempre detto – ecco l’opinione di Enrico Letta – che c’era un passaggio dalle parole ai fatti, di istituzionalizzare la crisi”. Non solo. “Questa è la dimostrazione – si spinge in avanti Letta – che Fini e Casini sono persone serie che fanno seguire ai fatti le parole, come sapevamo e come eravamo sicuri che sarebbe accaduto”. È la fine naturale   di un’epoca, in fondo. Chiosa Luigi Zanda: “Se Berlusconi non fosse entrato in politica, sarebbe finito sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia; e queste cose non le dico io, ma Confalonieri. In fondo bisogna ricordarsi, ogni tanto, dell’origine delle cose”. Dettagli storici che Antonio Di Pietro ha sempre avuto ben presenti e che ieri gli hanno fatto abbandonare i consueti distinguo. “Per il solo tempo del battito d’ali di una farfalla – ha poeticamente spiegato – siamo pronti a votare qualsiasi mozione di sfiducia al governo”. “Nel Palazzo – ha avvertito il leader dell’Idv – sono partite le trattative di coloro che vogliono mantenere una poltrona; vedremo. Noi siamo pronti, vogliamo stanare coloro che il sabato annunciano il crollo dell’impero e lunedì se ne dimenticano”.
La sostanziale formalizzazione   parlamentare della crisi ha soddisfatto anche la Cgil. “Il voto di sfiducia al governo – ha detto Susanna Camusso, leader confederale – è un risultato che non possiamo non giudicare positivamente, perché così finalmente il governo la finirà di fare danni”. Forse sarà così, ma chissà. E comunque, visto che si tratterà di un passaggio politico storico, Beppe Grillo ha voluto anticiparne, a suo modo, quelli che potrebbero essere i contenuti. L’idea richiama un po’ quella dei finiani che hanno pubblicato un discorso pronunciato nel ’94 da Bossi contro Berlusconi, spacciandolo per presa di posizione della loro area politica. Grillo, invece, non ha nascosto l’intento satirico e ha pubblicato sul suo blog le “anticipazioni” del discorso del Cavaliere del 13 dicembre. Ma si tratta di una rivisitazione del discorso con il quale Mussolini si   rivolse alla Camera dopo la lunga crisi causata dall’omicidio Matteotti. Era il 3 gennaio del 1925 e il Duce parlava di secessione dell’Aventino, al pari di come – a parere di Grillo – Berlusconi parlerà “della secessione di Fini, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria!”. Il capo del fascismo, poi, si scagliava contro la questione morale? Lo farà di certo anche il Caimano. “Ora io oso dire – ecco le parole del Duce che pronuncerà Silvio – che il problema sarà risolto, perché fascismo, governo e partito sono in piena efficienza!”.

il Fatto 3.12.10
La tragedia dei profughi eritrei qui non interessa a nessuno
Ieri l’ultimatum: “Se non pagano il riscatto li uccideremo nelle prossime ore”
di Chiara Paolin e Corrado Giustiniani


“Sono molto occupato” e telefono sbattuto in faccia. Stefano Stefani, deputato leghista, presidente della commissione Affari esteri alla Camera, ci mette esattamente quattro secondi per liquidare i 250 profughi africani tenuti in ostaggio nel Sinai. Gente che ha tentato di fuggire dalla fame e dalla repressione, che ha sperato nel sogno italiano sopra un barcone trovando l'inferno dei respingimenti: prima il carcere in Libia, poi la fuga verso la Turchia nella rincorsa alla sopravvivenza.
NEL MEZZO l'incontro con gli aguzzini del deserto egiziano, che sequestrano i migranti fino a quando parenti e amici non li riscattano con somme di denaro inarrivabili: 8 mila dollari a testa. Chi tenta di scappare viene ammazzato subito: un colpo di pistola, le sprangate in testa   , lì davanti a tutti, per far capire che la pietà non esiste al confine tra Egitto e Israele, dove l'indifferenza dell'Europa diventa condanna a morte per gli africani. Clandestini o rifugiati politici conta poco. Ieri sera l'ennesima minaccia: entro tre ore dovete pagare   o sarà la fine per voi, hanno urlato i sequestratori. Sono state prese quattro persone e gli è stato detto che gli verrà prelevato un rene in cambio dei soldi che non sanno procurarsi. “Bisogna fare qualcosa, ma subito. Se l’Italia ha ancora un briciolo di   dignità deve muoversi immediatamente” dice don Mussié Zerai Yosif, sacerdote eritreo che segue da mesi l'odissea di circa 80 connazionali, rifugiati politici finiti nelle grinfie dei mercanti di uomini. Ieri don Mussié è andato alla Camera dei deputati per incontrare l’onorevole Margherita Boniver, Pdl: “Abbiamo parlato a lungo, mi ha promesso che parlerà col ministro degli Esteri, Franco Frattini – dice – Bisogna assolutamente fare pressione sull'Egitto: queste bande criminali non possono continuare ad agire così, indisturbate. Anche il sottosegretario Alfredo Mantica ha detto che vuole impegnarsi. Mi hanno invitato a spiegare la situazione davanti alla Commissione Esteri, e io non chiedevo di   meglio. Venga a metà dicembre, mi dicevano. Ma qui stanno ammazzando la gente ogni giorno, come si fa ad aspettare tranquilli? È da tre giorni che quelli non mangiano: che aspettiamo ancora ?”.
Sulla Commissione meglio non contare. Questa settimana non lavora, la prossima è già al completo. In ogni caso, a spulciare l'attività parlamentare del presidente Stefani non si trova praticamente nulla che abbia a che vedere coi migranti: dalle targhe auto al turismo subacqueo c'è di tutto, ma niente diritti umani. Livia Turco, responsabile Pd per le tematiche dell'immigrazione, ammette un forte senso di impotenza: “La situazione è imbarazzante. L'intero sistema va riorganizzato, ma non interessa a nessuno impegnarsi su questo tema tanto complesso: i respingimenti sono   disumani e inefficaci, le soluzioni vanno trovate impostando meccanismi virtuosi. Ma per l’emergenza del Sinai sono d'accordo: chiediamo subito l'intervento del governo egiziano. Però ci vorrebbe un esecutivo autorevole, credibile sullo scenario internazionale, e noi non l'abbiamo”.
Dopo la storiella sulla “nipote di Mubarak” sarà però un po' dura chiedere al presidente egiziano di parare gli effetti collaterali del Trattato di Amicizia italiano con la Libia   . Un accordo che Berlusconi ha rilanciato solo qualche giorno fa durante la sua visita a Tripoli, ma che sta causando problemi seri alla maggioranza: l’11 novembre il gruppo di Futuro e Libertà mandò sotto per la prima volta il governo proprio su una mozione relativa al trattato. “L’immigrazione clandestina è diventata materia di propaganda elettorale per chi non ha argomenti più seri – disse il finiano Benedetto Della Vedova – Ma non possiamo accettare che la Libia ignori completamente la Convenzione di Ginevra, che non esista in loco almeno un ufficio Onu per i rifugiati a verificare il rispetto dei diritti umani.   Occorre stabilire relazioni serie con Tripoli, se abbiamo un po’ di schiena dritta”.
IERI LA Farnesina è stata a lungo in contatto con le autorità libiche, perché l’ennesimo peschereccio italiano di Mazara del Vallo, il Daniela L., è stato sequestrato e ormeggiato a Bengasi. I sei marinai a bordo stanno bene, sono già iniziate le trattative per il rilascio: l’allarme è scattato immediato. Nessuna fretta invece per gli uomini, le donne e i bambini tenuti in schiavitù sotto le alture del Sinai. Racconta Seth Frantzam, ricercatore alla Hebrew University di Gerusalemme: “Vengono appesi per le braccia agli alberi con catene di metallo, un sacchetto di plastica raccoglie le urine da bere quando avranno sete. Rapiti da   bande criminali, torturati con la corrente elettrica, tenuti prigionieri nel deserto. Se scappano c’è chi gli spara addosso: i rapitori beduini o i poliziotti egiziani. Dettagli sgradevoli, che tutti noi cerchiamo di ignorare”.

il Fatto 3.12.10
Il veleno della morte viaggia dall’Italia agli Usa
Esposto alla Procura di milano per fermare il mercato della sostanza letale che uccide i condannati americani
di Roberta Zunini


Può il governo, attraverso il ministro Frattini da sempre attivamente schierato contro la pena di morte, continuare a non pronunciarsi sull’affaire “Pentotal italo-americano”? Può una fabbrica che lavora in Italia, dove la Costituzione bandisce la pena di morte e tutto ciò che concorre a incentivarla, esportare un barbiturico, il Sodio Pentotale, negli Stati Uniti dove viene usato solo per giustiziare i condannati? Potrebbero i vertici della Hospira spa di Liscate, in provincia di Milano – la succursale italiana della multinazionale farmaceutica americana – essere indagati per concorso in omicidio?
LO DOMANDANO pubblicamente da ieri alle istituzioni italiane, anche attraverso un esposto alla procura di Milano, le ong Reprieve e Nessuno tocchi Caino che la scorsa settimana avevano reso nota l’intenzione della Hospira italiana di destinare la produzione di Pentotal anche al mercato americano. La risposta per essere efficace dovrà arrivare entro un mese, altrimenti le esecuzioni riprenderanno. La casa farmaceutica di Liscate dovrebbe riuscire ad attivare l’aumento della produzione di fialette e l’etichettatura   del farmaco letale non prima di gennaio. Una fialetta di Sodio Tiopentale o Pentotal costa meno di 1 euro. Negli Stati Uniti per giustiziare un condannato a morte, attraverso un’iniezione letale a base di questo potente barbiturico, non servono dunque grandi cifre. A pesare di più, paradossalmente saranno le spese di spedizione e distribuzione nei penitenziari americani. Perché negli Usa questo farmaco non si produce più da tempo, visto che non viene più utilizzato come anestetico in quanto obsoleto. E poiché businness is business, la Hospira non ha alcuna intenzione di spendere denaro per rinnovare le linee di produzione, dovendolo realizzare solo ed esclusivamente a fini letali. Non sarebbe conveniente. Ma dall’altra parte dell’Atlantico, a Liscate in provincia di Milano, la Hospira ha una succursale, con le linee di produzione adatte per superare il controllo della Food and Drug Administration, l’ente di controllo dei farmaci . Ecco come l’Italia entra nel viaggio del veleno letale. La Hospira italiana si giustifica sottolineando che il Pentotal in Europa viene ancora utilizzato come anestetico e pertanto non contribuisce al mercato della morte bensì a quello della cura. Ma le ong che hanno denunciato la fabbrica della morte sostengono che i vertici della Hospira non possono dirsi non consapevoli   di contribuire all’esercizio della pena di morte, poiché sanno che in America l’uso del Pentotal non è a scopo terapeutico. Dall’inchiesta realizzata dalla Reprieve emerge infatti che ci sono stati colloqui telefonici tra vari governatori americani e i vertici della Hospira americana in cui veniva fatta esplicita richiesta di Pentotal per riprendere le esecuzioni bloccate per mancanza di questo barbiturico.
UN MERCATO che potrà essere dunque interrotto solo dall’intervento del governo italiano, come è già accaduto la scorsa settimana in Inghilterra dove il ministro degli esteri e del commercio hanno sospeso l’esportazione di Pentotal negli Usa. Ecco perché l’Italia rimane l’unica nazione che potrà fornire il mercato americano. Se il farmaco è realizzato in Germania infatti in Italia viene raffinato, confezionato, etichettato e quindi esportato. L’unica carta di riserva per fermare l’ingranaggio potrebbe essere la Corte Costituzionale. Fu la Corte infatti a dare parere contrario all’estradizione negli Stati Uniti di un cittadino italiano, per scongiurare l’ipotesi che potesse venire condannato a morte. La Corte potrebbe, se non intervenisse il governo, bloccare l’esportazione negli Stati Uniti di Pentotal confezionato in Italia?

il Fatto 3.12.10
Morte, clero e libertà
di Bruno Tinti


Un mio amico si è ucciso. Era stanco, aveva perso gioia e interesse. Sono stato molto triste. Non per la sua morte: era stata una sua scelta da rispettare. Ma per la mia vita: perché mi sarebbe mancata la sua intelligenza e la sua cultura. E soprattutto per la sua, di vita, per la tristezza e il vuoto che l’avevano portato a decidere di liberarsene. Non sono stato capace di stargli vicino, ho pensato. Comunque sono andato a salutarlo. Lui non credeva, come me. Un laico tollerante e silente, la vita poneva ben altri problemi. Ci arrabbiavamo un po’ per l’approccio confessionale alle miserie degli uomini; e molto di più per la loro strumentalizzazione. Ma non se ne discuteva: quando la si pensa nello stesso modo c’è poco da dire. E, per fortuna, noi avevamo così tante idee diverse. Come ho detto sono andato al cimitero; alla sala delle cremazioni, così aveva deciso il mio amico. Niente cerimonia religiosa, il che mi sembrava logico visto il suo suicidio: conservavo una vaga memoria, forse errata, che ai suicidi non fosse consentito il riposo in terra consacrata; che, per un credente stanco e depresso, mi era sempre sembrato l’ultimo insulto. E poi avevo saputo da un amico che c’era un biglietto: niente cerimonie religiose, solo cremazione. All’ingresso del cimitero c’era tanta gente; il mio amico era una persona nota, molto stimato; e amato profondamente da molti, anche se aveva una personalità complessa. Proprio questo aveva attratto molti di noi. E lì siamo stati intercettati. Un prete, che avevo già notato fermo all’ingresso, intento alla predica per un funerale precedente, ha fermato la macchina con la bara, ha fermato tutti noi che la seguivamo   e ha iniziato una nuova predica. Preghiamo per lui, uomo di fede, buono, marito affettuoso, padre esemplare, Dio lo accoglierà, la vera vita, ci sarà sempre vicino, insomma tutto il repertorio. Sono rimasto perplesso, poi arrabbiato. Ho chiesto a un altro amico (che era in condizione di saperlo) “ma, non aveva lasciato un biglietto in cui aveva detto niente preghiere …”. “Questa non è preghiera, è liturgia della preghiera”, mi ha risposto. Naturalmente non ho capito quale fosse la differenza e perché il mio amico, che non voleva cerimonie religiose, avrebbe dovuto dispiacersene di meno. Ma ho taciuto. C’era la sua famiglia e non volevo aggiungere dolore a dolore. Poi ho parlato con un altro amico e gli ho fatto la stessa domanda. Intelligente, saggio, furbo come è sempre stato, mi ha detto “Sai, adesso non gliene importa più nulla”. E io sono rimasto a chiedermi se era giusto fare violenza ai morti; se era giusto non   rispettarli; se era giusto lasciare una sentinella in servizio permanente all’ingresso dei cimiteri, per intercettare bare e fare propaganda; se era giusto approfittare di un momento di minorata difesa per sottoporre tutti a una liturgia (eh, si, su questo il primo amico aveva ragione) che il morto e molti suoi amici non condividevano e non desideravano. Mi sono chiesto soprattutto se questa prevaricazione fosse coerente con il messaggio di amore (ma non di rispetto) che quel sacerdote ossessivamente ripeteva davanti a tutte le bare che gli passavano davanti e che contenevano ciò che restava di un uomo e della sua libertà. 

Corriere della Sera 3.12.10
Gli storici dell’arte: «Ecco perché Bondi deve dimettersi»


La Consulta universitaria nazionale per la storia dell’arte, riunita in assemblea a Roma il 30 novembre 2010, denuncia con forza i danni e le responsabilità di una politica che rischia seriamente di distruggere il patrimonio artistico e culturale di questo Paese, e con questo suo appello sottoscrive le analoghe mozioni di denuncia promosse da un gruppo di soprintendenti e funzionari archeologi e dall’Associazione nazionale dei tecnici per la tutela dei beni culturali e ambientali con l’appoggio di altre associazioni. Il crollo della copertura della «domus» dei gladiatori di Pompei ha messo davanti agli occhi di tutti il mondo una situazione di degrado oramai giunta al limite estremo. Tra le molte responsabilità del ministro Bondi appaiono particolarmente rilevanti l’aver trascurato la tutela in favore di una pretesa valorizzazione mediatica e commerciale; il disprezzo verso le competenze tecniche presenti all’interno del suo ministero e l’incapacità di favorirne il ricambio; il ricorso indiscriminato al discutibile istituto del «commissario»; il vagheggiamento di una figura manageriale da contrapporre a quella del soprintendente. La Consulta universitaria nazionale per la storia dell’arte si associa dunque alle richieste di dimissioni dell’attuale ministro per i Beni e le attività culturali, e ritiene indispensabile segnalare come sia allo stesso tempo necessario un forte cambiamento di rotta da parte di tutte le forze politiche e dell’intero Paese sul grande tema del ruolo dell’arte e della cultura nella nostra società e nella nostra crescita civile. Come nell’Università, nel sistema della tutela c’è molto da cambiare e da riformare: ma, proprio come per l’Università, nessun miglioramento può certo venire dal taglio indiscriminato dei fondi, dalla depressione delle competenze e dalla distruzione dell'interesse pubblico in favore di discutibili interessi privati. Consulta universitaria nazionale per la storia dell’arte

Corriere della Sera 3.12.10
Sanguineti, ovvero l’arte di criticare la realtà
«Destrutturava la forma, ma per cambiare la società»
di Vittorio Gregotti


L’editore Feltrinelli ha raccolto in un volume dal titolo Cultura e realtà (pp. 347, 28) una serie di brevi scritti di Edoardo Sanguineti, che vanno dai temi della letteratura e della politica a quelli delle arti visive, del teatro e della musica. Niente di esauriente certamente per quanto riguarda i saggi di questa personalità centrale della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo ma certo un primo doveroso omaggio a pochi mesi dalla sua scomparsa. All’amicizia e alle discussioni con Sanguineti ed ai suoi consigli anch’io devo molto e questa è una prima occasione per riconoscerlo.
All’ultimo breve saggio del volume Cultura e realtà, che ha come titolo «Per una teoria della citazione», vorrei qui dedicare una breve riflessione per ciò che concerne le questioni connesse al progetto di architettura.
Lo scritto di Sanguineti muove dalla tesi che «tutto è citazione» nel linguaggio parlato e scritto e discute del problema del significato della citazione anche in rapporto al contesto storico, ed in particolare nei confronti con quello del presente in cui essa si muove. Per quanto riguarda il mondo delle arti nel contemporaneo aggiunge, a proposito dell’uso del citazionismo, «altro che postmoderno, esso è se mai prearcaico» e più avanti afferma: «Se c’è un sistema citazionale forte, esso è quello del moderno... anche perché (il XX) è il secolo del montaggio», un secolo, quello delle avanguardie, che egli definisce più avanti come il secolo dell’assalto alla sintassi. «È tutto questo che, semmai, entra in crisi con la postmodernità», cioè con la cessazione della capacità autenticamente contestativa ed insieme anarchica della citazione come materiale volutamente estraneo alla sintassi dell’opera, in funzione di un utilizzo efficace della ragione critica intorno allo stato delle cose. La questione del montaggio in quanto citazione-collage è stata, come è noto, oggetto di appassionata discussione tra Benjamin e Adorno negli anni Trenta intorno alla perdita dell’aura ed al senso di autonoma completezza dell’opera, a partire soprattutto «dal principio costruttivistico», come scriveva Peter Bürger, come principio sintattico.
La questione è centrale anche per offrire un giudizio sullo stato di crisi della cultura architettonica dei nostri anni (non a caso coincidente con la sua estesa popolarità mercantile), anche perché in essa risulta palese come la citazione non sia oggi in nessun modo «un assalto alla sintassi» ma, con un ribaltamento del suo significato, funzionale al passaggio per la pratica artistica dell’architettura dalla costituzione di una distanza critica nei confronti della struttura della realtà (e quindi di un giudizio capace di aprire ad essa possibilità altre) al rispecchiamento conveniente dello stato delle cose come il migliore dei mondi possibili.
Ma poiché alla dialettica con la realtà sembra impossibile sottrarsi interamente, tale dialettica viene resa innocua spostandola sulla ricerca di una rottura estetica incessante dell’immagine delle cose come prodotti, soprattutto guardando alla necessità di differenziazione in funzione del loro mercato. Né è un caso che «la citazione», per quanto riguarda l’architettura sia passata da un primo momento che guardava al «revival» stilistico della storia del passato di quest’arte come materiale linguistico (contro la modernità dell’eredità delle avanguardie) ad un altro periodo di «citazione» delle figurazioni della stessa modernità, archiviate anch’esse come storia, e quindi in grado di offrire un panorama linguistico che poteva essere svuotato di senso, tanto da divenire materiale calligrafico preminente di una nuova sintassi della provvisorietà.
Sembra che proprio l’idea di provvisorietà sia diventata l’ultimo rifugio del dubbio sulle ingiustizie e le contraddizioni del nostro mondo, e soprattutto delle sue incertezze di senso (o false certezze) in quanto unici valori rappresentabili del capitalismo finanziario mondializzato.
Si tratta di un giudizio, quest’ultimo, che si riconnette al primo dei saggi (datato 2006 e scritto in occasione del compleanno di Pietro Ingrao) con cui si apre questa raccolta degli scritti di Sanguineti, un saggio dal significativo titolo «Come si diventa materialisti storic i » . Anche se è proprio la poeti c a radicalità di quest’ultimo scritto, anche per quanto riguarda l’architettura, a proporsi come messaggio per i nostri anni.

Corriere della Sera 3.12.10
L’inconscio del mondo svelato dai simboli
Massaie e dive tutte le immagini del Paese in rosa
di Angelo Aquaro


Dagli angeli alla mela fino al colore rosso, un´opera raccoglie le immagini che rappresentano gli archetipi È il frutto di una selezione durata anni e che ora offre un´iconografia che va dalle civiltà antiche ai giorni nostri
Ecco il catalogo dei simboli che svela l´inconscio del mondo

Il lavoro è stato fatto da un gruppo che raccoglie 50 studiosi e che ha sede a New York

Problema: come raccogliere in un solo libro tutto l´inconscio del mondo? La domanda da un milione di simboli ha finalmente una risposta: sorprende che ci siano voluti 14 anni per organizzarla? L´opera enciclopedica ha un nome che è tutto un programma, Il libro dei simboli, e una firma prestigiosissima, quella dell´Aras, cioè l´Archivio per la ricerca dei simbolismo archetipo: un pugno di ricercatori che ha inseguito per tutto questo tempo il sogno perfetto, a volte vero e proprio incubo, di sintetizzare per immagini gli insegnamenti del grande Carl Gustav Jung. Scordatevi le fantasie New Age: qui si vola culturalmente altissimo, siamo nel cuore della psicoanalisi, tra gli ultimi custodi dell´insegnamento del maestro prima allievo e poi grande nemico di Sigmund Freud. Un´amicizia rotta proprio sui quei concetti di archetipo e simbolo che divennero l´impalcatura del junghismo e che l´Aras un centro studi aperto fin dagli anni Trenta da un allievo del professore svizzero sbandiera oggi come il verbo.
Ma che cos´è l´archetipo e perché un simbolo dovrebbe rappresentarlo? E soprattutto: come scegliere tra innumerevoli immagini (l´Aras ha raccolto 17 mila rappresentazioni in 80 anni di vita) le 800 figure che rappresentano i 350 soggetti del Libro dei simboli?
«I contenuti dell´inconscio collettivo» scriveva Jung «sono conosciuti come archetipi» e la loro «origine può essere spiegata soltanto assumendo che si tratta di depositi di esperienze costantemente ripetute dell´umanità». Ma qual è il rapporto tra archetipo e simbolo? «Il termine archetipo viene spesso equivocato come la rappresentazione di una certa immagine mitologica. Ma, al contrario, è la tendenza ereditaria della mente umana» a creare immagini per rappresentare gli archetipi. Rappresentazioni che variano «senza perdere la loro caratteristica di base». Eccolo dunque il compito ciclopico (è una metafora, per carità, mica un archetipo) delle professoresse dell´Aras un gruppo di cinque signore spalleggiato da un esercito di una cinquantina di scrittori che il Wall Street Journal è andato a scovare in un nascondiglio così altamente simbolico: in un ufficio che più immerso nel mondo moderno non si può, nell´East Side di New York, tra un istituto di cultura, una missione religiosa e un centro benessere.
La sfida era dunque quella di raccogliere le immagini per rappresentare i simboli. «Benedizione», «Oscurità», «Angeli», «Bocca», «Scheletro», «Aria», «Profumo», «Nuoto», «Silenzio»... Un grande, dottissimo manuale che sembra la popolarissima smorfia, un capolavoro di iconologia lungo 800 pagine, una sfida che forse soltanto Taschen, la casa editrice specializzata in libri d´arte e di fotografia, poteva raccogliere (per ora è disponibile la versione inglese, ma uscirà anche quella italiana). «Non conosco particolarmente il concetto di archetipo di Jung» ha spiegato l´editore Benedikt Taschen «ma sono sempre stato interessato al linguaggio delle immagini: da dove vengono e che cosa comunicano». Che poi è quello che rende il volume prezioso e intellegibile anche per chi non voglia avventurarsi nei meandri della psicoanalisi.
«Un simbolo evidenzia qualcosa che sta al di là della semplice immagine» spiega il responsabile dell´Aras, Ami Ronnberg. «E noi abbiamo cercato di far parlare le immagini da sole». Pescando nel mare magno della cultura di tutto il mondo: nelle 4 pagine che illustrano il simbolo «Uccello», per esempio, i ricercatori hanno schierato una scultura dei nativi americani, una pittura iraniana del 17esimo secolo, una nota di Emily Dickinson e una osservazione tratta da un libro sugli animali degli anni Ottanta.
Dall´archetipo di paradiso in cui ci guarda da lassù, insomma, il vecchio Jung sarebbe finalmente soddisfatto. Nel giro di un anno ha visto realizzarsi due sogni: la pubblicazione del Libro rosso, gli appunti perduti, il Santo Graal della psicoanalisi, e ora questo Libro dei Simboli. E, via, sarà mica una coincidenza per lui che tra simboli, archetipi e inconscio lanciò quell´altro concetto che mezzo secolo dopo continua a stregare gli studiosi: la «sincronicità».

Repubblica 3.12.10
Incontro con il regista che annuncia il ritorno dietro la cinepresa sette anni dopo "The dreamers"
Bernardo Bertolucci "Torno a casa ho voglia di cinema"
"La vita è in movimento e io ho voglia di cinema"
di Maria Pia Fusco


Siamo caduti così in basso che vorrei usare in modo non religioso la parola redenzione È chiaro che con un film non cambi la situazione
In carrozzella posso fare tutto, ma a tutti dico: guai a farsi operare alla schiena per un´ernia come ho fatto io Meglio prendersi la morfina

Nella casa di Trastevere, al tavolo dell´elegante salotto di casa, Bernardo Bertolucci ha l´aspetto placido e sereno: un bel signore che si è abituato a muoversi sulla sedia a rotelle, senza più traumi né problemi. Le ragioni di un incontro con il maestro del cinema italiano sono tante: la retrospettiva completa del suo cinema in programma al Moma, a New York, dal 15 dicembre ai primi di gennaio; la manifestazione in corso "Lo sguardo dei maestri" a lui dedicata con tutti i suoi film in giro tra Pordenone, Udine e Trieste fino al 9 febbraio; l´uscita in dvd con Feltrinelli del documentario "La via del petrolio" del 1966 nell´edizione restaurata che era a Venezia 2007. «Chissà, sarà anche per questo fermento che «dopo due anni in cui credevo che non avrei fatto più niente, mi è tornato il desiderio di lavorare. Sento odore di cinema», dice. Non più l´annunciato "Gesualdo da Venosa", però. «L´ho abbandonato, è troppo costoso, non voglio fare più cose così. Penso a film a Roma delle dimensioni di "L´assedio". Non posso dire altro».
Aveva detto che nell´Italia di oggi non avrebbe lavorato.
«Ma adesso io penso, spero, sono sicuro che si possa ricominciare. Me lo dicono tante cose, per esempio questi movimenti di giovani che hanno avuto l´idea di andare in cima alla Mole Antonelliana o sui tetti dell´università. Sarà dura, ma credo che tutti insieme dobbiamo cercare di "redimerci" da questi 15 anni. Siamo caduti così in basso che vorrei usare in modo non religioso la parola redenzione. È chiaro che con un film non cambi la situazione. Erano belli i tempi in cui pensavi che con una regia facevi la rivoluzione, belli ma lontanissimi. Con il cinema facevamo politica. Il rapporto dei giovani con la politica è cambiato, non si appoggiano più ai partiti come facevamo noi, loro la politica se la reinventano».
Che ricordi ha dei tempi di "La via del petrolio"?
«Molto importanti. Non avevo mai fatto documentari, ero un giovane regista che dopo il secondo film, "Prima della rivoluzione", non riusciva a fare più nulla e quando l´Eni mi offrì di andare a perdermi in Medio Oriente non ero mai stato all´estero se non in Francia era affascinante. Era la "scoperta". Il documentario è in tre episodi, "Le origini", "Il viaggio" e "Attraverso l´Europa". Per il primo, girato tutto in Iran, volevo un tono epico e credo di esserci riuscito».
Perché ha dedicato il documentario ai bambini?
«Ero incantato dagli occhi dei bambini persiani per le strade, non sentivi dietro di loro la presenza di una famiglia, degli adulti. Ero amico di Elsa Morante, per me era come "L´Iran salvato dai ragazzini"».
Cosa le è rimasto del ragazzo di allora?
«Avevo 24 anni, ero un altro, o sono un altro adesso. Però la volontà di essere sorpreso e stupito è rimasto. Da cosa? Da quello che chiamiamo l´altro. Proprio non riesco a fare i conti con un mondo, e con il mio paese, in cui l´altro è guardato con sospetto, più spesso con odio e aggressività. Io sono dell´idea che le culture diverse sono lì per innamorarsi tra loro. La mia idea, anche se i fatti non la confortano, è quella dell´attesa del momento in cui ci sarà l´innamoramento tra culture diverse. Durante "Il tè nel deserto" eravamo nel profondo dell´Algeria Mark Peploe mi fece scoprire, dietro le dune, in mezzo al deserto, una cappella dei "Petits Frères", missionari che ancora all´inizio del 900 predicavano in Algeria. La cosa bella era il pavimento di sabbia, e la sabbia era nell´acquasantiera, ce l´avevano messa i religiosi. Fu un´emozione straordinaria, la sabbia della cultura islamica in un simbolo della cultura cattolica. Mi sembrava uno sposalizio perfetto, la messinscena dell´innamoramento tra culture».
In "La via del petrolio" colpiscono le facce degli uomini, così diverse dagli italiani di oggi.
«Erano operai, trivellatori, tecnici, elicotteristi. Sono diverse le facce perché era diversa l´anima, negli anni Sessanta era ancora l´Italia che Pasolini chiamava pre-consumistica, non era ancora avvenuto quello che Pier Paolo definisce il genocidio culturale».
Andrà a New York?
«Certo. Posso fare tutto su questa carrozzella. Mi trova patetico? Ma io posso muovermi come voglio».
C´è stato un peggioramento?
«Purtroppo quello che ho fatto negli anni 2000 è stato un accanimento terapeutico contro la mia schiena: ho fatto quattro operazioni. Partendo da una stupida ernia del disco. Mai toccarla, bisogna tenersela, tenersi il dolore, magari prendere pillolone di morfina, ma mai operarsi. Ho anche scoperto che dopo tre anni si secca da sola. Io invece posso camminare con il deambulatore, dipende anche molto da me. Vedrà che la voglia di fare un film mi aiuterà anche a muovermi meglio».
Oggi Godard compie 80 anni. Come lo ricorda?
«Mi sono innamorato di lui negli anni ‘60, mi sentivo il capo dei godardiani, ero pronto a picchiare per lui. I miei film sono molto diversi dai suoi, ma lui ha veramente sconvolto il modo di fare cinema. C´è il cinema prima di Godard e il cinema dopo Godard. Quando Rondi mi chiese di presiedere la giuria di Venezia lo ricattai: solo se posso scegliere i giurati. E feci una giuria che non poteva non dare un premio a Godard. Lui era commosso. Siamo diventati amici. Gli ultimi contatti sono stati durante le riprese di "Dreamers", ci sono due estratti dai suoi film. Gli chiesi come fare per i diritti. "Puoi fare quello che vuoi con il mio materiale. Ma ricordati, non ci sono diritti degli autori, solo doveri degli autori" mi rispose da calvinista severo. Sono parole che ho intenzione di dire ai Centoautori. E non so se saranno popolari».

Repubblica 3.12.10
Pollini: "Indignato per i tagli nessuno si interessa alla musica"
di Leonetta Bentivoglio


L´atteggiamento verso la cultura è solo uno degli errori devastanti compiuti dall´attuale governo
Il sistema europeo, che considera la cultura un bene collettivo da valorizzare, è l´unico adatto a noi

C´è qualcosa di misterioso e anche grandioso nella minuta figura di Maurizio Pollini che suona chino sull´enormità del pianoforte. A ogni concerto questo geniale anti-divo si offre al pubblico con compostezza e riserbo, come schiacciato dall´incontro con l´immensità di Bach, di cui ha appena eseguito a Roma il primo libro del "Clavicembalo ben temperato", o di Beethoven, del quale stasera, ancora per Santa Cecilia, suonerà le ultime tre Sonate. Ma la musica che ci porge sa comunicare che non è schiacciato affatto, perché è lui a guidare, tradurre, svelare tracciati. Persino Bach, nelle sue mani, diventa moderno. Nitido, essenziale, spigoloso. Se glielo si fa notare, risponde quieto: «Cerco solo la fedeltà al compositore». Come se la conquista della fedeltà non fosse un´impresa titanica.
Oggi, più che di Bach e Beethoven, parliamo dei tagli finanziari alla cultura.
«Sono indignato e preoccupato. E d´accordo con il presidente Napolitano, che ha espresso bene l´idea della valorizzazione della cultura come esigenza fondamentale della nazione. L´atteggiamento verso la cultura è solo uno degli errori devastanti compiuti dall´attuale governo. Problema inscindibile dalla situazione generale di un paese che soffre di un drammatico bisogno di rinnovamento. Vedo anche con molta diffidenza i progetti d´introdurre il federalismo che era stato bocciato in un referendum».
Non crede nella privatizzazione delle arti? In Italia non è applicabile il modello americano?
«No. Funziona negli Stati Uniti perché c´è una tradizione in tal senso ed esistono facilitazioni fiscali. Il sistema europeo, che considera la cultura un bene collettivo da valorizzare, è l´unico adatto a questo continente. I partiti della sinistra europea dovrebbero adoperarsi per mantenere i valori dello Stato sociale, che però, viste le difficoltà della situazione odierna e la forte concorrenza dei paesi emergenti, può essere difeso solo in modo nuovo rispetto al passato. Mi sembra tuttavia che la sinistra non sia sorretta da un pensiero sufficiente a una realizzazione tanto complessa».
Prendiamo lo strumento di diffusione culturale più potente e anche più assente su questo fronte: la televisione.
«Il fatto che abbia abbandonato quasi completamente l´interesse per ogni manifestazione musicale dimostra la gravità della noncuranza verso i valori culturali. Sogno invano una tivù in cui si possano ascoltare pareri espressi non solo da politici e rappresentanti di partiti, ma da voci indipendenti: economisti che commentano la situazione economica, esponenti della cultura che parlano delle necessità culturali del paese... Invece da noi lo spazio televisivo è preda di politici di colore diverso, con l´esito di opinioni prevedibili e scontate».
Non l´ha confortata l´ultimo programma di Fazio, di cui lei in passato è stato ospite?
«E´ stato un bel momento di rinnovamento e di rottura del conformismo televisivo. E ho ammirato particolarmente il coraggio di Saviano, la bravura di Benigni e le parole di Abbado».