giovedì 2 dicembre 2010

l’Unità 2.12.10
Se mille suicidi non dicono nulla
La scelta di Monicelli e il tema dell’eutanasia
di Carlo Troilo, associazione Luca Coscioni


Mario Monicelli ha scelto la stessa morte che mio fratello Michele, anche lui malato terminale, scelse nel marzo del 2004: un salto nel vuoto da 15 metri di altezza. Decisi allora di rendere pubblica la tragedia di mio fratello e lo feci grazie a Corrado Augias. Dopo pochi mesi “scoprii” e inviai a diversi giornali, che li pubblicarono, i dati dell’Istat da cui risulta che ogni anno mille malati terminali (tre al giorno), non potendo ottenere l’eutanasia, come avrebbe voluto Michele, trovano nel suicidio la loro “uscita di sicurezza”. Un numero pari a quello delle “morti bianche”, che suscitano il giusto sdegno degli italiani, a partire dal Presidente della Repubblica. La mia lettera del marzo 2004 finiva così: «Caro Michele, mi vergogno di vivere nel paese che ti ha costretto a questo. Ammiro il tuo coraggio e so che lo hai fatto anche per alleviare la pena di chi ti voleva bene, per altruismo, per dignità e per pudore. Rendo pubblico il tuo gesto per dargli anche valore di battaglia civile, credo ti farebbe piacere sapere che è servito a smuovere qualche coscienza».
Commentando il suicidio di Monicelli, Silvio Viale ha sintetizzato con forza il problema: «Non sarebbe morto così se l’eutanasia volontaria fosse legale nel nostro paese. Se l’eutanasia fosse legale, Mario Monicelli avrebbe potuto parlare apertamente con il proprio medico delle proprie intenzioni. Avrebbe potuto modificare la propria decisione, o rimandarla, e se alla fine avesse confermato la propria richiesta, considerando ormai insopportabile la propria condizione, sarebbe stato aiutato a morire con dignità, tra i suoi cari. In un paese civile, lo Stato dovrebbe consentire di non essere costretti a morire così».
Tutte le ricerche degli ultimi anni dimostrano che la maggioranza degli italiani (il 67% secondo il Rapporto Eurispes 2010) è favorevole alla legalizzazione della eutanasia per i malati inguaribili. E questo vale, sia pure in misura più ridotta, anche per i cattolici praticanti. Lo stesso Monicelli era ferocemente contrario alla logica della “vita a tutti i costi”: «La vicenda di Piergiorgio Welby aveva detto in un’intervista a Radio Radicale il 28 novembre del 2006 è un tema che si potrebbe trattare con una commedia, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che questo disgraziato debba rimanere a soffrire, non si sa per chi».
Ma il Vaticano non vuole l’eutanasia e tratta tutti noi che ci battiamo per introdurla in Italia alla stregua di una banda di assassini intenti a preparare la strage degli innocenti. E la nostra classe politica tace, rendendosi così corresponsabile di quei tre suicidi che ogni giorno vengono a sconvolgere la nostra coscienza.

Corriere della Sera 2.12.10
Intervista a Giovanni Reale
«La risposta la dà già Platone, la vita non è proprietà nostra»
«Male dell’anima, ma non si condanna l’uomo»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Vede, il male del nostro tempo l’aveva drammaticamente anticipato Jean-Paul Sartre più di sessant’anni fa: "L’inferno sono gli altri". L’incapacità di vedere l’altro, di capirlo, di accoglierlo. E di amarlo». Il filosofo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, l’uomo al quale Wojtyla affidò i propri scritti filosofici e poetici, ha appena curato per Bompiani la pubblicazione del Commento al Vangelo di Giovanni di Sant’Agostino. E parte da qui, per riflettere sul suicidio di Mario Monicelli e le polemiche che lo hanno seguito: «Pensi all’episodio dell’adultera. Quelli che vogliono lapidarla l’hanno pensata bene, sono sicuri che la risposta di Gesù sarà sbagliata: se dice sì, ne esce distrutta la sua figura di uomo buono; se dice no, lo condannano per aver violato la legge. Ma lui dice: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E quando tutti se ne sono andati si rivolge alla donna: va’, e non peccare più». Perché ne parla, professore? «Perché in troppi si avverte una trasformazione paradigmatica delle due posizioni, libertà di scelta e difesa a oltranza della vita. Una riduzione del problema in un senso o nell ’altro che fa cadere in errore entrambi. E crea l’impossibilità di una communicatio idiomatum, di ogni confronto».
Il presidente Napolitano ha parlato di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare».
«Sì, questo è giusto: il rispetto. Che non significa né condanna né approvazione: ma capire l’altro, la sua sofferenza, anche se l’altro non ha la fede, la prospettiva di Cristo. Capire l’altro. Soffrire con lui. Senza mai condannare: non si giudica la persona, il Vangelo dice di amare anche il tuo nemico! Semmai, si giudica il comportamento». E il suicidio? «Lo ritengo un male dell’anima. Qui tocchiamo un problema dell’uomo contemporaneo: l’irreligiosità, la perdita del legame col divino ,del senso della sacralità della vita. La risposta più bella la offre Platone, nel Fedone: la vita non è di tua proprietà, ti è stata data, solo il dio può decidere quando togliertela».
Ma alla fine del «Fedone», Socrate beve il «pharmacon», la cicuta...
«Perché scappare sarebbe una violenza: o riesco a convincere i giudici oppure, per coerenza, accetto la condanna. Platone è il primo a parlare di sacralità della vita. Più tardi, nella Repubblica, dirà che chi è molto malato non deve pesare sullo Stato: ma si mette dal punto di vista della politica, e la politica non può avere il senso della sacralità, sta in una dimensione più bassa. Di qui le contraddizioni dei Parlamenti, quando vogliono legiferare su vita e morte».
Anche fuori dal Parlamento, in verità, la confusione è tanta. Ha seguito le polemiche per la presenza della vedova Welby e di Beppino Englaro a «Vieni via con me?»
«Parlavo di riduzionismo e di errori: la tecnica cresciuta a dismisura ha inglobato anche il sacro e il religioso. Prendiamo il caso Welby: non è stata eutanasia, è chiarissimo. Parlarne è un errore di ermeneutica. Lo dissi anche allora: diverso è darsi la morte o, invece, accettare la morte inevitabile. Guai a trasferire la "sacralità" dalla vita alla tecnica! Quell’uomo era rimasto ostaggio di un macchina. Ma Dio ha creato la natura, non la tecnica: quella è un prodotto dell’uomo. E nel caso di Welby, come per Eluana, era sacrosanto dare ragione alla natura». E quelli che vanno avanti? «Non è che io neghi il diritto di chi resiste. Però non lo si può imporre a nessuna persona. Anche se qualche prelato è caduto nell’errore, vittima del paradigma scientistico-tecnologico».
La Chiesa sbagliò a negare i funerali a Welby?
«Certo che sì: l’amore doveva prevalere. Ma non è stata la Chiesa, che ha un’esperienza grandiosa. Ha sbagliato chi lo decise, e non per cattiveria: è caduto vittima del paradigma scientistico».
Il cardinale Ravasi ha ricordato come sui «temi ultimi» si debba «riproporre ininterrottamente la questione». È possibile il dialogo?
«Sì, anche se molto difficile. Occorre che le parti riconoscano anzitutto la sacralità o almeno il rispetto della vita, sapendo che la sofferenza e la morte ne sono parte e ci riguardano tutti. Camus, che si diceva ateo, dava la risposta più profonda all’"uomo in rivolta" contro il dolore e la morte: non possiamo più prendercela con Dio, perché si è fatto uomo e ha preso su di sé i nostri mali».

Corriere della Sera 2.12.10
Intervista a Emanuele Severino
«Quando tutto sarà ormai inutile chiederò di morire»
«Superare le contraddizioni della legge»
di Daniela Monti


Da pagina 1 MILANO — «Fra due giorni sarà un anno e tre mesi che mia moglie è morta. Un tumore. Ero deciso a farla morire in casa, nella sua casa, anche se a Brescia siamo fortunati: esiste la "Domus Salutis" tenuta dalle Ancelle della Carità. Mi convinsero che era nell’interesse di Esterina tenerla ricoverata per qualche tempo. Poi, considerando il suo stato di salute, avrei deciso se portarla a casa. Dopo un mese costatai che per lei era un bene rimanere lì. Mia moglie si affidava alle mie decisioni, anche perché alla "Domus" si trovava bene. Credo che la competenza di questo istituto si sia mostrata soprattutto nella capacità di dosare in modo adeguato la somministrazione della morfina. Mia moglie andava addormentandosi un poco alla volta. Quando videro che ogni alimentazione per via endovenosa sarebbe stata inutile, la sospesero. Loro, io e i miei figli le davamo un po’ d’acqua, che beveva volentieri. Esterina è morta senza soffrire — per quanto noi possiamo saperne».
Il filosofo Emanuele Severino, 81 anni, parla al telefono dalla sua casa di Brescia. «Ho già detto a suor Giusy — che con il professore Zaninetta guida la Domus ed è a sua volta docente all’Università Cattolica — che quando toccherà a me, vorrò andare da loro per morire come è morta mia moglie. Si è detta d’accordo. Ma c’è chi non sopporta di morire in questo modo. Non c’è ovunque una Domus come quella di Brescia. C’è invece una legislazione in base alla quale è possibile incriminare i medici per omicidio quando si ritiene che essi abbiano sospeso un’assistenza che ancora non era accanimento terapeutico. Chi stabilisce quando esso incomincia? Che fare quando i medici hanno paura o si adeguano in coscienza alle direttive della Chiesa o mascherano con queste direttive la loro paura per altro legittima?».
Lei condanna il gesto di Mario Monicelli?
«Condannare non fa parte della logica del mio discorso filosofico. Mi sembra d’altra parte che abbia più della nobiltà che del suo contrario. Ho sempre trovato contraddittoria una legislazione che non punisce il suicidio non riuscito, tentato da chi aveva la capacità di compierlo; e invece punisce il medico che rispetto a uno che non abbia la capacità di farlo (è il caso Welby) lo aiuta ad uccidersi. Con la conseguenza che, quando il medico non intende essere incriminato, il suicidio di questo secondo candidato alla morte è reso impossibile. Questa legislazione impedisce che i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Con una legge che invece li rendesse uguali, Monicelli non sarebbe morto in questo modo, doppiamente tragico».
Serviva un gesto così drammatico perché tornasse ad essere pronunciata nelle stanze della politica la parola eutanasia. Perché?
«Perché l’attuale legislazione è tollerata dalla Chiesa, e ci sono molti interessi a non infastidire la Chiesa. E chi, affetto da male irreversibile e ormai incosciente, ha lasciato scritto o comunicato a persone di sua fiducia che quando non fosse più in grado di alimentarsi da solo desidera che anche l’alimentazione artificiale venga sospesa e sia lasciato morire? (È quanto chiederò alla Domus). Si dice che a queste sue disposizioni non si può dar corso perché nulla assicura che nel frattempo l’interessato non abbia cambiato parere. Ma si dimentica che, d’altra parte, non c’è nemmeno nulla che assicuri che, invece, il parere l’ha cambiato. Chi lo assiste si trova quindi dinnanzi a due possibilità equivalenti, e, se non ci sono altri indizi, perché scartare e non far valere l’unico indizio che si ha a disposizione, cioè la volontà che costui ha a suo tempo espresso? Anche per questo il testamento biologico è indispensabile».
Si ha l’impressione che sia faziosa — quasi fanatica — la contrapposizione fra laici e credenti. Non può esistere un terreno che non sposi né la tesi dei primi, né quella dei secondi?
«Anch’io ho la sensazione che ci sia del fanatismo, ma quando uno si trova in mezzo a situazioni di questo tipo è difficile non lasciarsi prendere la mano. Il suicidio è immorale e, oltre che colpa, è reato? Se la maggioranza degli elettori ne fosse convinta dovrebbe però evitare la contraddizione che sopra ho indicato. Se una legge è contraddittoria è anche anticostituzionale — ammesso e non concesso che la nostra Costituzione non contenga contraddizioni».

l’Unità 2.12.10
La protesta studentesca. Cortei e occupazioni: «Si va avanti almeno fino al 9 dicembre»
Assemblea alla Sapienza. «Difendiamo i baroni? Assurdo, lottiamo per il diritto allo studio»
«Il governo non vuole ascoltarci ma noi adesso non ci fermiamo»
Assemblee nelle facoltà occupate. La mobilitazione continua. «Saremo in piazza quando il ddl andrà in discussione al Senato». «Gravissima la militarizzazione della città. Il sit in a Montecitorio era autorizzato».
di Jolanda Bufalini

Dipartimento di Fisica, palazzina Marconi, città universitaria, Roma: la lotta continua. Fra i cartelloni appesi all’ingresso ce n’è uno con il curriculum di Mariastella Gelmini e un altro che raffronta i tagli a università e ricerca con gli stanziamenti per il Ponte di Messina e per la TAV.
Gli studenti sono in assemblea nell’aula Majorana, affollatissima. Discutono su come andare avanti: «Saremo di nuovo in piazza quando il ddl Gelmini andrà in discussione al Senato». Intanto arriva l’appello di tutte le associazioni: «Per quella data occupazione simbolica di tutti i rettorati». Le decisioni di questa assemblea dovranno coordinarsi con quelle delle altre facoltà occupate, alla Sapienza sono Medicina e Giurisprudenza (fatto quasi senza precedenti), Scienze politiche e Lettere. Poi c’è Architettura a Valle Giulia e Ingegneria a San Pietro in Vincoli.
L’occupazione continua ma si fa lezione lo stesso, la biblioteca è piena di gente che studia, «interrompiamo solo nei giorni di mobilitazione in piazza», dicono. Altro tema dell’assemblea è, spiegano Alfredo, Alessia, Ornella, Francesco, «la valutazione dei fatti di martedì, la gravissima militarizzazione di Roma». «Hanno bloccato l’intera città». «Il dissenso è alla base della democrazia e protestare mentre si vota una legge che ti riguarda sotto il parlamento è la forma più normale di democrazia». «Ci hanno vietato una piazza autorizzata, per il sit in a Montecitorio la Cgil aveva chiesto l’autorizzazione». «I romani bloccati nel traffico devono ringraziare loro». «Unità cinofile, esercito, polizia, guarda di finanza, blindati e camionette a decine contro un corteo. Cosa pensavano, che stesse arrivando un esercito?». «Forse per noi è stato meglio così, abbiamo avuto molta più visibilità». Siete strumentalizzati dai baroni, conservatori dello status quo, usati dall’opposizione. Come rispondete a queste accuse? «Ma come si fa a dire queste cose si infervora Alfredo, II anno, che si è diplomato al severissimo Righi quando c’è l’evidenza delle parole scritte. La legge dà potere solo ai professori ordinari, taglia fuori i ricercatori».
CONSERVATORI
Anche Ornella è al secondo anno, viene da Molfetta in Puglia, abita alla casa dello studente. Vuole fare l’astrofisica. «Non vogliamo lasciare le cose come stanno. La cosa più grave sono i tagli che distruggono l’università pubblica, il diritto allo studio che dovrebbe garantire pari opportunità: il reddito è l’ultimo parametro, prima vengono i coefficenti di merito e la somma dei voti. Così io sono a rischio, trecentesima in graduatoria, e una mia collega che non ha avuto tutti i crediti necessari in tre giorni è stata buttata fuori dalla Casa dello Studente. La nostra è una facoltà difficile ma i nostri volti valgono quanto quelli degli altri. Sto ancora aspettando la seconda rata della borsa di studio».
Il premier dice che a manifestare sono i fuori corso. Alessia: «Io sono fuori corso, iscritta al IV anno. Ho perso un anno perché sono pendolare, vengo ogni giorno da Latina, due ore ad andare, due a tornare. Purtroppo il mio Ise (reddito familiare) non è abbastanza basso da poter avere la borsa di studio ma non è così alto da potermi permettere di stare a Roma. Quando ho lezione alle 8 devo partire alle 5 e un quarto. Dopo un anno così sei stressato, esaurito e perdi colpi. È un cane che si morde la coda, senza diritto allo studio le differenze nelle condizioni di partenza diventano gigantesche». Perché ha scelto Fisica? «È dalle elementari che ho deciso, voglio fare la fisica teorica. La ricercatrice...».
Il Pd dedicherà la sua manifestazione dell’11 all’università. Alfredo: «Cavalca l’onda ma la loro riforma era un po’ meglio di questa ma non molto. E hanno scelto di non bloccare tutto, di non fare ostruzionismo». Alessia: «Quando abbiamo fatto le lezioni in piazza a Montecitorio ci dicevano che non l’avrebbero fatta passare questa legge. Poi hanno fatto un’opposizione morbida».
Francesco è matricola, iscritto al primo anno: «Vengo dal Tasso, sono abituato alle occupazioni. Mi sembra giusto come si svolge qua, senza interrompere le lezioni e con le assemblee per organizzarsi per le manifestazioni. L’occupazione è giusta se è un’eccezione».

il Fatto 2.11.10
“Scenderemo in piazza il giorno della fiducia”
Gli studenti: il movimento non si fermerà con la riforma
di Caterina Perniconi

Un movimento estemporaneo o una rivolta generazionale? Se siamo di fronte a un nuovo ‘68 o a un altro ‘77 si capirà solo dopo il 14 dicembre. Quando si potrà misurare l’intensità della forza dei giovani scesi in piazza e saliti sui tetti in questi giorni.
Il Senato, infatti, oggi deciderà se la riforma dell’Università sarà discussa prima o dopo la richiesta di fiducia al governo. Nel primo caso, l’approvazione è quasi scontata, nel secondo sarà legata a doppio filo con le sorti dell’esecutivo. Solo allora si chiariranno le intenzioni e la forza propulsiva degli studenti mobilitati in tutta Italia.
L’ONDA, NEL 2009, si infranse nella barriera della riforma scolastica. L’eredità che è stata lasciata è il fortunato slogan “noi la crisi non la paghiamo”. Infatti quello che sembrava un tumulto generazionale si è invece spento come un fuoco di paglia in pochi mesi.
Oggi siamo di fronte a una protesta partita soprattutto per mantenere il diritto allo studio. Ma le parole d’ordine guardano lontano, e i ragazzi si definiscono una “generazione senza futuro”. Sono andati in rete, hanno dato vita alla prima protesta organizzata per via “telematica”, mettendo in contatto i siti internet e le web radio di tutte le università. Questo ha permesso di occupare le autostrade, le stazioni e i monumenti contemporaneamente, decidendolo con un clic o con una catena di sms.
“Rispetto all’Onda c’è un livello di coordinamento molto maggiore – spiega Claudio Riccio, portavoce di Link, uno dei movimenti studenteschi – c’è confronto tra tutte le realtà”. Del resto anche Claudio, che guida il coordinamento universitario da un anno e mezzo, ai tempi dell’Onda viveva a Bari, mentre da settembre si è trasferito a Roma, dove c’è il “cervello” dell’associazione.
 “NON SONO IL LEADER perché non c’è un leader – spiega Riccio – se ci capita di mettere ai voti un’iniziativa, il voto di Roma vale come quello di Viterbo, non ci sono differenze”. Ma esiste un movimento senza leader? “Si, se ci sono molte persone a rappresentarlo. Questa volta protestiamo perché siamo una generazione senza futuro e non ci esauriremo con la riforma. Saremo in piazza il 14 dicembre, perché il nostro domani dipende anche da quel voto”. Telefonando ad Andrea Aimar, uno dei leader delle proteste torinesi, si scopre che i due sono in contatto. “Si, conosco Riccio, ci coordiniamo, anche se veniamo da realtà diverse cerchiamo di essere un movimento unico, di non disperdere le energie”. A Palazzo Nuovo c’è ancora la mobilitazione, al Politecnico si discutono le prossime mosse. Se la riforma sarà calendarizzata nei rapidamente al Senato, l’ipotesi è quella di una grande manifestazione a Roma per dimostrare la reale forza del movimento.
Ma ci sono anche realtà diverse, che con la protesta nazionale non hanno contatti. A Palermo raggiungiamo Fausto Melluso, rappresentante del movimento degli Universitari: “Il nostro è un gruppo nato localmente in modo spontaneo – spiega – la riforma è una battaglia importante ma non l’unica. L’Università di Palermo ha molti problemi e noi vogliamo portarli tutti alla luce”. Anche in Sicilia promettono battaglia fino al 14 dicembre: “Questa riforma dà piene deleghe al governo su molti argomenti, come il diritto allo studio, che di pendono direttamente dal voto di fiducia e quindi da quale governo ci amministrerà. Noi vogliamo farglielo sapere”. Ancora due settimane, quindi, per capire quali saranno le proposte dei giovani del 2010. Che ieri, per tenere alta la tensione, hanno bloccato i binari della stazione di Napoli. E che nei promettono (almeno) altri 10 giorni di manifestazioni.
Bari: Scienze politiche e Giurisprudenza. Benevento: Scienze. Bologna: Lettere e Filosofia. Catania: Scienze e Fisica. Firenze: Lettere. Napoli: Lettere alla Federico II, palazzo Giusso all’Orientale. Milano: Lettere, Ingegneria. Padova: Psicologia. Palermo: Lettere. Pisa: spazi occupati in tutte le facoltà. Roma: Lettere, Scienze politiche, Fisica, Giurisprudenza, Architettura e Geologia a La Sapienza. Dams, Giurisprudenza e Scienze a Roma3. Siena: Scienze politiche, Giurisprudenza, Lettere, Economia. Siracusa: Architettura. Taranto: Giurisprudenza Torino: occupato Palazzo Nuovo.Trento: Sociologia. In molte altre città ci sono mobilitazioni e occupazioni di spazi accedemici.

il Fatto 2.12.10
Applausi dagli automobilisti in coda per ore nel centro di Roma

Applausi e abbracci. Gli automobilisti in coda da ore, martedì a Roma, sono scesi dalle auto per avvicinarsi ad applaudire il corteo degli studenti.
“È stato emozionante – racconta un testimone– la solidarietà con la quale ci hanno accolto. Erano bloccati in via del Muro Torto da ore, stremati e arrabbiati, ma nonostante questo quando ci hanno visti sono scesi dalle auto, hanno applaudito, qualcuno ci ha anche abbracciato”.
Erano stupiti gli studenti, dopo le invettive ricevute negli scorsi giorni per i blocchi nelle città, di ricevere tanta solidarietà. “Continuate così, ci gridavano – racconta lo studente – è stata un’emozione straordinaria”.
E a scendere non solo i giovani: “C’erano persone di tutte le età e di varie estrazioni sociali, noi siamo rimasti davvero stupiti. Ci guardavano con simpatia e con speranza, non solo per la protesta contro la riforma dell’Università, ma perché siamo gli unici a fare opposizione sociale nel paese e volevano dimostrarci la loro gratitudine. È stato un gesto inaspettato che ci fa continuare con maggiore forza la nostra protesta”

il Fatto 2.12.10
Ma studiare conviene?
Il paradosso italiano: nel resto d’Europa una laurea aiuta a trovare lavoro e stipendi più alti. Da noi, penalizza
di Stefano Feltri

Ci bloccano il futuro”, dicono gli striscioni degli studenti in protesta. Il problema non è un articolo preciso della riforma, non è questione di un comma da cambiare. Perché, sembra una banalità, negli atenei non si fa solo ricerca ma si insegna anche. E questa riforma non affronta il problema strutturale: in Italia studiare per prendere una laurea non conviene.
In questi giorni si stanno sovrapponendo due questioni: da una parte ci sono i ricercatori, che vedono a rischio la prospettiva di un ingresso in ruolo, magari dopo lunghi anni di anticamera (talvolta nell’illusione che bastasse questo). Dall’altra gli studenti che, almeno nel breve periodo, vengono colpiti direttamente soltanto dalla riduzione dei fondi all’Università, che si ripercuote in parte sulle borse di studio, con la prospettiva di eventuali nuovi premi al merito che per ora sono però privi di risorse. Il problema che denunciano, dai monumenti e dalle stazioni occupate, è soprattutto che nella riforma non si parla di loro.
NEL 2009 Eurostat, l'agenzia statistica dell’Unione europea, ha fatto la prima indagine complessiva sui giovani dei Paesi membri. È arrivata a queste conclusioni: “In Europa, in genere, il tasso di disoccupazione tende a diminuire con l’aumento del livello di istruzione. Grecia, Italia, Portogallo e Turchia sono eccezioni che hanno registrato il livello di disoccupazione più alto tra le persone con un’età tra i 25 e i 29 anni”. I disoccupati con una laurea, nel 2007 (cioè prima della crisi), erano in Italia il 19,3 per cento, esattamente come quelli con soltanto un diploma, 19 per cento. In Francia, per esempio, la differenza era molto più marcata: 9,7 per cento tra i laureati, 15,9 per cento tra i diplomati. A Parigi avere una laurea aiuta a trovare lavoro più che avere solo la licenza superiore, in Italia molto meno. Ma non è soltanto questo.
L'investimento di tempo e denaro negli studi universitari dovrebbe servire non soltanto a trovare un posto, ma anche ad avere un reddito superiore. Stando a uno studio recente della Banca d'Italia, nel 2004-2005 avere una laurea significava ottenere un reddito superiore del 60 per cento a quello di un diplomato per chi ha tra i 25 e i 64 anni, cioè per la popolazione attiva nel mercato del lavoro. Peccato che per i più giovani (tra i 30 e i 44) il bonus da laurea scende al 43 per cento, anche se in teoria il passaggio dall’economia industriale a quella della conoscenza dovrebbe determinare l’opposto, cioè rendere la laurea sempre più preziosa. Solo la Spagna fa peggio di noi tra i principali Paesi europei, negli Stati Uniti il bonus vale un +83 per cento (senza differenze tra i più giovani). E questo è un dato medio, perché le statistiche europee ci dicono che sono soprattutto i laureati maschi a guadagnare più dei diplomati, mentre per le donne la differenza è assai più ridotta.
MA DI QUESTO la riforma non si occupa. Eppure chi entra all’università è interessato all’offerta formativa, al tipo e numero di corsi di laurea offerti, soprattutto in funzione delle prospettive lavorative che aprono. Qui la riforma interviene in un solo modo: costringendo gli atenei a fare una prima selezione dei ricercatori dopo i primi tre anni di attività, consentendo di tenere solo chi si può permettere di poter trasformare in professori associati (o almeno comunicando il numero e poi lasciando competere i pretendenti). E gli altri? Chi si preoccupa di quelli che studiano per trovare un lavoro diverso da quello di ricercatore? La loro formazione è adeguata? Nell’ultimo anno la rassegna stampa della Camera dei deputati ha catalogato soltanto 17 articoli di giornale che includono le parole chiave “didattica”, “studenti” e “università” . Il tema sembra appassionare poco anche gli economisti che, dai siti di discussione più liberisti come Chicago Blog al centrosinistra del Lavoce.info, dibattono sempre più di governance degli atenei e ricerca che di didattica, di come valutare gli atenei invece che gli studenti. Traduzione empirica: ha davvero senso stanziare risorse per borse di studio in base al merito se poi, perfino nella (relativamente) efficientissima Bocconi i voti agli esami li decidono spesso assistenti neolaureati che magari non hanno neppure seguito le lezioni in aula? E perché all’estero si usano da anni lavori di gruppo, valutazione in itinere (che contiene l’abbandono) e progetti individuali mentre in Italia si insiste con gli stessi esami orali o scritti impostati come trent’anni fa? Di questo il ministro Mariastella Gelmini non si è occupata, esattamente come i suoi predecessori.

l’Unità 2.12.10
Immigrati e balle mediatiche. C’è un’Italia che non ha paura
Dicono che sono una decina di milioni, ma sono la metà. E che arrivano via mare, mentre è solo una minima parte. E che sono concentrati nelle regioni del centrodestra, Ma è in Emilia che sono di più
di Vittorio Emiliani

Sono ancora recenti le proteste disperate di immigrati irregolari truffati da imprenditori con molto pelo sul cuore. Immigrati sulla gru a Brescia, nelle cui fabbriche venne eletto una ventina di anni fa il primo delegato sindacale extra-comunitario, Amhed se ben ricordo. Immigrati sulla ciminiera di Bresso alle porte di Milano. Necessari alla produzione industriale, al Nord e al Centro. Ma dove si concentrano in Italia gli immigrati regolari? Ci sono “balle mediatiche”, per usare un termine berlusconiano, da sgonfiare. La prima: gli immigrati in Italia sono una decina di milioni o giù di lì. Balle: nel 2010 (dati Caritas) risultano 5 milioni, la metà di quella cifra “terroristica”. La seconda: dal mare arrivavano centinaia di migliaia di clandestini. Balle: erano meno di trentamila all’anno (il grosso arriva, tuttora, via terra, da est). Un’altra ancora: quella immigrazione si concentra essenzialmente nel Nord Est là dove cioè dove essa “fa notizia” con quei bravi cristiani di sindaci che gli extra-comunitari propongono di impallinarli «come le leprotti» o che negano ai loro figli l’asilo, la mensa scolastica, l'assistenza e così via. Ed ora propongono come sbarramento l’esame di lingua italiana (ma quanti parlamentari leghisti la conoscono a fondo?). È la terza “balla”. Vediamo come e perché.
Rispetto alla popolazione residente, secondo l’Istat, gli immigrati sono distribuiti così: il Veneto figura soltanto al 4 ̊ posto col 9,8 %, la Lombardia al terzo col 10,0, preceduta (udite, udite) dall’Umbria seconda col 10,4 % e dall’Emilia-Romagna prima assoluta col 10,5. Cioè due regioni di centrosinistra, le quali sfatano la leggenda che, se ci sono molti immigrati, per reazione vince il centrodestra. Non basta, perché subito dopo il Veneto vengono altre regioni a maggioranza di centrosinistra dove l’immigrazione non alimenta granché la cronaca nera, e sono la Toscana col 9,1 e le Marche con l'8,9 % . Dopo di loro si piazzano Lazio, Piemonte, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia tutte sopra l'8 % e la Liguria col 7,1. Che è poi, all'incirca, la media dell’Italia (nel 2010 salita all’8). Sotto la quale si collocano la Valle d’Aosta (6,4) e tutto il Mezzogiorno, con province però come Teramo oltre la media Italia.
Ma quali sono le province con la quota più elevata di immigrati? Non quelle del Veneto. In testa figura Brescia (13% circa) divenuta città-simbolo con i clandestini che reclamavano una regolarizzazione dall’alto della gru. Seguita da Prato, Chinatown d’Italia, col 12,7, e, subito dopo, da Piacenza, Reggio Emilia, Mantova e Modena, tutte sopra il 12. Quindi Treviso, Verona e Vicenza, ma vicinissime a queste province spesso al disonore della cronaca per episodi di razzismo leghista si collocano, con Pordenone, Perugia e Macerata di cui giornali e tv non si occupano quasi mai. Ha dunque ragione Giuseppe De Rita ad osservare che integrazione, o comunque coabitazione, danno problemi meno drammatici nelle città piccole e medie (di una certa Italia, aggiungerei) rispetto alle periferie delle aree metropolitane.
La comunità di gran lunga più numerosa? I romeni, 900.000 circa, il doppio degli albanesi e dei marocchini, secondi e terzi, quasi alla pari. Seguono i cinesi e gli ucraini (o meglio, le ucraine) sulle 200.000 unità. Più lontani, ma sempre oltre quota 100.000, filippini, indiani, polacchi, moldovi, tunisini. Appena più sotto i macedoni. Nell’anno passato gli incrementi più forti negli arrivi li hanno segnati moldovi (+18,1 %), pakistani (+17,1), indiani, ucraini/e.
Dove si dislocano queste comunità tanto diverse? I romeni prevalentemente a Roma, Torino, Milano e Padova. Gli albanesi a Roma, Torino e Firenze. I marocchini a Torino, Milano e Roma (ma pure a Genova e a Bologna). I cinesi a Milano, vecchia residenza tradizionale, Prato e Roma (Esquilino). Gli ucraini a Caserta, Napoli e Cusio-Ossola. Gli indiani a Roma, ma pure ovunque ci siano stalle e allevamenti: Brescia, Suzzara, Luzzara, il paese di Zavattini. Senza di loro, addio latte, addio formaggi come grana e parmigiano-reggiano. I moldovi a Roma, Padova, Venezia e Parma. I macedoni a Vicenza, Roma e Piacenza. I tunisini nelle città siciliane delle serre orticole e/o della pesca: Vittoria, Mazara del Vallo, Trapani (ma anche a Parma). I polacchi a Roma e provincia, a Napoli e Bologna. I peruviani a Milano, Roma e Torino. Mentre gli ecuadoriani prevalgono in tutta la Liguria, come a Trieste i serbi e a Gorizia gli immigrati dal Bangladesh.
In Liguria si trova, secondo l’Istat, il Comune con più immigrati rispetto alla popolazione residente. Si tratta di Airole, sulla collina imperiese: su 500 abitanti, un residente su tre è straniero. Un 31% che fa record in Italia.

il Fatto 2.12.10
“Salvateci, ci stanno ammazzand0”
Disperato appello dell’eritreo Biniam: “Siamo 250 profughi incatenati nel Sinai dai trafficanti. Sei di noi sono già stati uccisi a bastonate”
di Corrado Giustiniani

La telefonata ricevuta a Roma, alla presenza del “Fatto”, da un prete eritreo Mobilitati gli organismi internazionali Oggi il caso in commissione Esteri della Camera
L’agonia dei 250 profughi africani nelle mani dei trafficanti egiziani

Quattro minuti per avvisare il mondo. Quattro minuti per invocare aiuto. “Siamo in 250, soprattutto eritrei ma anche etiopi e sudanesi. Ci tengono incatenati da un mese, sei di noi sono già stati uccisi. Fate qualcosa, salvateci”. Sembra che reciti una litania, Biniam. Non c'è emozione né concitazione nella sua voce. Forse per non insospettire il trafficante di essere umani che gli ha prestato il satellitare. Forse perché è stanco, di più, prostrato. O magari per entrambe le ragioni. Avevano promesso di portarli per 2 mila dollari dalla Libia – ormai impenetrabile – ad Israele, attraverso l'Egitto, in modo da risalire il Libano, la Turchia e imbarcarsi per la Grecia: la nuova rotta che sostituisce Lampedusa e Malta. I trafficanti libici hanno incassato i dollari, ma quando li hanno passati in consegna ai trafficanti egiziani, questi ultimi li hanno sequestrati, avvisandoli che c'era una novità: o sborsavano altri 8 mila dollari, o avrebbero terminato la loro vita nel deserto del Sinai. La premiata ditta fornisce i cellulari per poter chiedere i soldi ai parenti ricchi (si fa per dire) che dall'Eritrea sono finiti in Europa e negli Stati Uniti. Il trafficante che l'ha passato a Biniam si fida, almeno per un po', avendo visto che veniva composto il prefisso dell'Italia.
 “DOVE SIAMO adesso, non lo sappiamo. Ma crediamo nella periferia di una città egiziana. Sì, perché la sera sentiamo il muezzin che chiama la preghiera, e il mattino i bambini che vanno a scuola”. Ha 25 anni, è di religione cristiano-copta e di nazionalità eritrea Biniam e a interrogarlo al telefono, in lingua tigrina, è don Mussi Zerai. , religioso cattolico eritreo che sta facendo di tutto per portare all'attenzione del governo e a quella internazionale questa storia drammatica, che potrebbe finire in una strage. Fino a ieri si pensava che i migranti sequestrati fossero 80, provenienti dal carcere libico di Al Braq e poi liberati a metà luglio con un permesso di soggiorno di tre mesi. O almeno, di questi era certa la presenza. La rivelazione che sono invece 250, sbalordisce don Mussi.
“Non mi posso sbagliare. Prima eravamo tutti affastellati in un unico, enorme stanzone. Poi ci hanno diviso in tante stamberghe, sistemandoci in quindici-venti ciascuna. Nella mia ci sono, proprio qui davanti a me, tre donne incinte. Ma non sono le sole. Alcune sono state violentate in Libia”. E come vi hanno incatenato? “Ai piedi. Ce le tolgono soltanto ogni due giorni, per farci andare a defecare. Adesso scuoto le caviglie, così può sentire il rumore”. Chiede ancora don Mussi: Come sono morti i vostri sei compagni? “Due sono stati uccisi con la pistola, davanti a tutti. È stata soltanto una dimostrazione, perché tutti avessimo ben chiaro cosa sarebbe successo a chi non riusciva a far arrivare i soldi. Gli altri quattro, invece, avevano tentato di fuggire. Li hanno raggiunti, riportati indietro e finiti a bastonate. È da allora che ci hanno separati in gruppi, per nazionalità”.
GLI ERITREI IN FUGA dal loro paese sono quasi tutti disertori. Biniam, dopo alcuni anni di servizio militare obbligatorio, ha deciso di andarsene per tentare di raggiungere l'Europa e costruirsi un futuro che gli consentisse, un domani, di aiutare la sua famiglia. Voleva arrivare sulla costa libica per imbarcarsi e ottenere asilo politico. È stato internato nel centro di detenzione di Misurata, nel nord della Libia. E, nella notte fra il 29 e il 30 giugno, ha partecipato alla rivolta degli eritrei, repressa violentemente dalle guardie. Ai detenuti era stato presentato un foglio, chiedendo loro di firmarlo. Gli eritrei, non capendo l'arabo, credevano che quella fosse l'autorizzazione ad essere rimpatriati e si erano rifiutati di sottoscriverla. Di lì vennero trasferiti nel carcere di Al Braq, nel sud del paese, in mezzo al deserto. Poi la liberazione e ora questa nuova avventura. I quattro minuti sono finiti, il trafficante rivuole il telefonino. E Biniam fa in tempo a dire: “Anche se riuscissi a far trasferire gli 8 mila dollari dove mi hanno detto e mi liberassero, credo che non avrei la forza di andarmene, di affrontare un altro viaggio. Non ce la faccio più”.

il Fatto 2.12.10
Noi li respingiamo e loro muoiono
Il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati: “Un piano per non far arrivare chi ha diritto all’asilo”
di C. G.

In questa brutta storia l'Italia non può chiamarsi fuori dalle sue responsabilità. “Si direbbe che c'è un piano per non far arrivare i rifugiati nella nostra penisola, siano essi eritrei, somali o sudanesi del Darfur”. Un'accusa pesante, quella di Christopher Hein, direttore del Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, una onlus che cerca di venire incontro a chi chiede asilo politico, attiva anche all'estero (ha un progetto di intervento in Libia, momentaneamente sospeso).
IL FATTO È CHE NEL TRATTATO di amicizia siglato con Gheddafi nell'agosto del 2008, e ratificato dal Parlamento italiano nel gennaio del 2009, non è stata minimamente prevista l'adesione della Libia alla Convenzione di Ginevra del 1951. “Che si decida pure di erogare 5 miliardi di dollari in venti anni come compensazione del periodo coloniale – ricorda Hein – Ma un negoziato è un negoziato e l'altra parte deve cedere qualcosa”. Nella politica dei respingimenti, negli accordi per il pattugliamento del Mediterraneo e nel progetto che ha fatto arrivare per il momento 150milioni di euro alla Finmeccanica di Guarguaglini per realizzare un sistema di radar alla frontiera sud del paese che intercetti i migranti, donando elicotteri alla Libia e formando il personale, non c'è una parola che riguardi il rispetto del diritto internazionale di chiedere asilo politico. “Un'amnesia della quale chi fugge da persecuzioni politiche o razziali, o dalle guerre, paga le conseguenze. Non possono essere marchiati con l'etichetta di clandestini, anche coloro che intendono chiedere asilo politico”.
La Libia è diventata una fortezza e i rifugiati cercano drammaticamente nuovi passaggi. La storia degli eritrei, somali e sudanesi tenuti sequestrati in Egitto si spiega anche così. Il Cir ha lanciato un appello alla comunità internazionale e al Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani, presieduto da Boutros Ghali. Anche l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu si è rivolto al governo egiziano per ricevere spiegazioni (non si sa, in alcun modo,dove siano segregati i profughi). Ma come è possibile che la polizia egiziana non si accorga di un sequestro di più di 200 persone? L'Egitto è ancora distratto dalle elezioni di domenica scorsa e il Cir ha cercato allora di coinvolgere, senza successo finora, il governo italiano perché si faccia sentire con le autorità egiziane. Oggi, su iniziativa dell’onorevole Furio Colombo, la vicenda sarà discussa dalla Commissione Affari Esteri della Camera. Di certo fra i sequestrati del Sinai ci sono almeno 80 immigrati che avevano vissuto quest'estate l'avventura prima della detenzione nel centro di Misurata, poi della galera nel carcere duro di Al Braq, per essere infine liberati ottenendo un permesso di tre mesi.
FRA LORO POTREBBE ESSERCI qualcuno che era stato respinto in mare dalle navi italiane, senza aver avuto la possibilità di presentare la domanda di asilo politico. Ecco perché l'Italia, più ancora di altri paesi, dovrebbe avvertire la responsabilità internazionale di quanto sta accadendo. Come si ricorderà, erano 205 gli eritrei deportati alla fine di giugno nel carcere di Al Braq e liberati a metà di quel mese, e molti di loro avevano fatto sapere di essere stati respinti dalle nostre motovedette, circostanza confermata anche dalle autorità libiche. Hanno ottenuto un permesso di soggiorno di tre mesi, la cosiddetta “tessera rossa”, in cui hanno auto-dichiarato le proprie generalità. Ma a metà ottobre questa è scaduta, e non si sa più che fine abbiano fatto. Chi sarebbe rimasto clandestino in Libia, chi è finito in Sudan, chi nel Sinai a tentare ancora di raggiungere l'Europa.

Repubblica 2.12.10
La nostra tolleranza zero
Il sogno occidentale di depurare "l´altro"
di Slavoj Žižek


"Accettiamo alcune cose se ci paiono ‘libere scelte´, quindi solo come esiti di processi violenti di sradicamento dalle proprie origini culturali"
"Quello che si sta affermando è la natura tossica non solo del diverso ma del prossimo stesso"
L´anticipazione/Un brano del testo che lo studioso ha scritto per il numero che "Libération" dedica alla filosofia
"Sempre più nelle nostre società va prendendo piede l´idea di avere diritto a non essere vessati o molestati: di una distanza di sicurezza"

Pubblichiamo parte di un articolo di Zizek che apparirà integralmente sul numero speciale di Libération di oggi

Dalla Francia alla Germania, dall´Austria all´Olanda, nel nuovo spirito di orgoglio nei confronti della propria identità storica e culturale, i maggiori partiti trovano ormai ammissibile rimarcare come gli immigrati siano ospiti e in quanto tali debbano adattarsi ai valori culturali che caratterizzano la società ospitante: «Questo è il nostro paese: o lo amate o ve ne andate».
I liberali progressisti, naturalmente, sono scandalizzati da questo razzismo populista. In ogni caso, uno sguardo più approfondito rivela in che modo la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto per l´altro (in termini di appartenenza etnica, di confessione religiosa, di sessualità) condivida con coloro che sono ostili agli immigrati una premessa di fondo: la paura dell´altro. Questa paura è chiaramente riconoscibile nell´ossessiva angoscia che i liberali hanno delle molestie. In sintesi, l´Altro è accetto soltanto nella misura in cui la sua presenza non è invadente, ovvero fintantoché l´Altro non è veramente Altro… Il mio dovere di mostrarmi tollerante verso l´altro significa soltanto che non dovrei mai avvicinarmi troppo a lui, non dovrei mai invaderne gli spazi. (...) Sempre più spesso nelle società tardo-capitaliste va prendendo piede il fondamentale diritto umano a non essere vessati o molestati, ovvero il diritto di restare a distanza di sicurezza dagli altri.
Ciò premesso, non stupisce affatto che in quest´ultimo periodo si vada affermando sempre più il concetto di "natura tossica". Questo concetto trae origine dalla psicologia popolare, intende metterci in guardia nei confronti dei "succhiasangue" che là fuori vivono alle nostre spalle, ma poi si espande, spingendosi ben oltre il campo delle relazioni interpersonali: l´aggettivo "tossico" si riferisce ormai a una sfilza di peculiarità appartenenti a livelli del tutto diversi tra loro (naturale, culturale, psicologico, politico). Un "individuo tossico" può essere un immigrato affetto da una patologia letale e che dovrebbe essere messo in quarantena; un terrorista, (...) un ideologo fondamentalista, che dovrebbe essere messo a tacere perché semina odio; un genitore, un insegnante o un prete che abusi e perverta i bambini. (...) A essere tossico, in ultima analisi, è il Prossimo stesso, lo straniero in quanto tale, insieme a tutta la voragine dei suoi piaceri, dei suoi principi e via dicendo, così che obiettivo ultimo di tutte le regole delle relazioni interpersonali è mettere in quarantena – o quanto meno neutralizzare e contenere – questa dimensione tossica, con lo scopo ultimo di ridurre il Prossimo a un proprio simile. (...) Il meccanismo di questa neutralizzazione fu formulato molto bene già nel 1938 da Robert Brasillach, l´intellettuale francese fascista condannato a morte e giustiziato nel 1945 che si considerava un antisemita "moderato" e che inventò la formula dell´"antisemitismo ragionevole": «Al cinema ci accordiamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin, un mezzo ebreo; tolleriamo di apprezzare Proust, un mezzo ebreo, di battere le mani a Yehudi Menuhin, un ebreo, mentre la voce di Hitler viaggia su onde radio che prendono il nome dall´ebreo Hertz. (…) Non vogliamo uccidere nessuno. Non vogliamo pianificare alcun pogrom. Nondimeno, crediamo anche che il modo migliore per ostacolare le azioni sempre imprevedibili dell´antisemitismo istintivo sia la strutturazione di un antisemitismo ragionevole». Non è forse questo l´atteggiamento già in essere che constatiamo nelle modalità con le quali i nostri governi si occupano della "minaccia dell´immigrazione"? Avendo giustamente respinto l´esplicito razzismo populista in quanto "irragionevole" e inaccettabile per i nostri parametri democratici, di fatto i nostri governi si dicono favorevoli a provvedimenti cautelari "ragionevolmente" razzisti… Ovvero, alla stregua di odierni emuli di Brasillach, alcuni di loro – talvolta nientemeno che socialdemocratici – ci dicono: «(...) Non vogliamo pianificare alcun pogrom. Nondimeno crediamo anche che il modo migliore per contenere le sempre imprevedibili e violente misure difensive contro gli immigrati sia l´organizzazione di una ragionevole protezione dagli immigrati».
Questa visione della disintossicazione del Prossimo mette in luce un passaggio evidente, ormai avvenuto, dalla barbarie assoluta alla barbarie dal volto umano; una visione che pratica una regressione dall´amore cristiano nei confronti del Prossimo all´abitudine pagana di privilegiare la nostra tribù (i Greci, i Romani) in contrapposizione all´Altro, barbarico. (...)
A questo punto, tuttavia, iniziano i veri guai: ogni pratica di universalismo non è forse radicata in uno specifico ambito culturale? È proprio questo a rendere la faccenda dell´istruzione universale obbligatoria così preoccupante. I liberali sostengono che si dovrebbe concedere ai bambini il diritto di continuare a essere parte integrante della loro particolare comunità, ma a condizione che sia loro offerta la possibilità di scegliere. Prendiamo il caso dei bambini amish che vivono negli Stati Uniti: affinché possano godere di un´effettiva libertà di scelta allorché adottano un determinato stile di vita, dovrebbero ricevere dai loro genitori o dagli "inglesi" informazioni esaurienti su tutte le opzioni a loro disposizione, ed essere istruiti su tutte. L´unico modo possibile per ottenere una cosa del genere, però, sarebbe quello di sradicarli dalla loro appartenenza alla comunità amish, e quindi in sostanza renderli "inglesi".
Tutto ciò dimostra inoltre manifestamente i limiti del tipico atteggiamento liberale nei confronti delle donne musulmane che indossano il velo: lo possono fare se è una loro libera scelta, non se è una condizione imposta loro dai mariti o dalla famiglia.
In ogni caso, nel momento stesso in cui le donne indossano il velo per loro libera e personale scelta, il significato stesso dell´indossare il velo muta completamente: il velo non è più un simbolo della loro appartenenza esplicita sostanziale alla comunità musulmana, bensì espressione della loro personalità individuale, della loro ricerca spirituale, della loro protesta contro la volgarità dell´odierna mercificazione sessuale, oppure ancora un esplicito gesto politico di contestazione nei confronti dell´Occidente. Una cosa dunque è indossare il velo per appartenenza esplicita a una tradizione sostanziale; un´altra è rifiutarsi di indossare il velo; ma un´altra cosa ancora è indossare il velo non per un´appartenenza sostanziale bensì come gesto di scelta etico-politica. Ciò spiega per quale motivo nelle nostre società laiche di appartenenza, le persone che mantengono un´appartenenza religiosa di fondo si trovino in una posizione subordinata: per quanto sia loro consentito mantenere i loro principi, questi principi sono "tollerati" come frutto di scelte/opinioni personali e individuali; nel momento in cui le manifestano apertamente per ciò che rappresentano per loro (una questione di appartenenza sostanziale) sono accusati di "fondamentalismo".
Tutto ciò sta a significare che un "soggetto di libera scelta" (nel senso multiculturale "tollerante" occidentale) può affermarsi soltanto come l´esito di un processo estremamente violento di estrapolazione dal particolare stile o contesto di vita del singolo, di uno sradicamento assoluto dalle proprie radici.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 2.12.10
Marini: se si apre la deriva a sinistra ci sarà un fronte interno molto caldo. Siamo malati di vanità
"Il Pd non può avere nostalgia del Pci se entra Vendola, il partito è finito"
Nichi e le primarie? Gli abbiamo aperto con le nostre regole un-autostrada. Il meccanismo va corretto
Ci vuole un governo di larga responsabilità anche affidato a una personalità del centrodestra
di Giovanna Casadio


ROMA - «L´aggressione speculativa all´Italia ci sarà di certo, se si va alle elezioni. Dobbiamo puntare a un governo di responsabilità nazionale, anche guidato da una personalità del centrodestra. E il Pd deve essere all´altezza della situazione. Purtroppo è ammalato del virus della vanità, dell´io che prevale sul "noi" e dell´amore sviscerato per il palcoscenico...». Franco Marini aggredisce i problemi. L´ex presidente del Senato da tempo non interviene nel dibattito politico. Ma ora, alla vigilia della sfiducia a Berlusconi, denuncia qualche «sbandamento» di troppo nelle file democratiche.
Senatore Marini, ma lei è allarmato perché torna la pace tra D´Alema e Veltroni?
«Per me si possono pure amare, a patto che nessuno cambi le scelte fatte tutti assieme. Sento parlare di "rifondare il Pd", imbarcando Vendola. È il tuffo in un passato remoto, uno sbandamento. Se qualcuno coltiva davvero questa idea la declassi a nostalgia del Pci altrimenti offre un segnale di fine dell´esperienza dei Democratici».
Minaccia di lasciare il Pd, se c´è un allargamento a sinistra?
«Io lo voglio rafforzare il Pd. Ci ho creduto molto e ci credo ancora, ritenendolo una necessità della politica italiana. Dico che si aprirebbe un fronte assai caldo all´interno del partito perché significherebbe rinnegare la scelta fondativa di centrosinistra. Non lo dico da ex dc o da popolare, ma da riformista. Un partito riformista che coniughi libertà economica e giustizia sociale e che si contrapponga a un partito conservatore è nella logica della democrazia dell´alternanza. Il "pilastro Vendola" chiude la possibilità di espansione verso i ceti moderati che, malgrado la crisi, sono per la loro estensione fondamentali per assegnare la responsabilità di governare. I nostri "nostalgici" guardino all´esperienza delle socialdemocrazie europee dove non si corre dietro ai vari radicalismi per poi allearsi con i moderati sul mercato. È nella natura del partito riformista includere direttamente ampie fasce della rappresentanza sociale».
In un momento drammatico dal punto di vista economico-sociale, con in più lo stravolgimento compiuto da WikiLeaks - il Pd guarda al proprio ombelico?
«Il Pd ha contratto un virus che si manifesta con il prevalere dell´io sul "noi". Noi siamo una forza collettiva: nessuno vuole cancellare le individualità ma una parte dei dirigenti non schioda dall´io e dall´amore sviscerato per il palcoscenico. Questo è il male dei Democratici e Bersani mi piace perché parla della ditta, in modo forse un po´ rustico ma la ditta è "noi". E parla del merito dei problemi. Un partito riformista è indispensabile perché se no i moderati sono risucchiati dalla destra e per riportare al centro il problema dell´eguaglianza».
La maggioranza si frantuma però questo Pd non ne trae vantaggio?
«Lo dice qualche sondaggio. Ma il Pd ha contribuito alla crisi del centrodestra. C´è un fallimento vero del governo che ha avuto una maggioranza mai avuta da altri».
Siamo allo showdown del berlusconismo?
«Penso che la fase di questo governo sia finita. Dobbiamo essere consapevoli dei rischi per l´economia italiana perché la Ue ci chiederà interventi drastici per ridurre il debito. Abbiamo centinaia di migliaia di cassintegrati con cassa integrazione in deroga che non è detto possano rientrare al lavoro. Ci vuole un governo di larga responsabilità anche affidato a una personalità del centrodestra».
A Tremonti, a Gianni Letta o a Pisanu?
«Non spetta a me fare nomi. Se nascerà, sarà un governo di responsabilità con pochi obiettivi: difendere il lavoro, mettere mano a questa montagna di debito pubblico, riattivare la domanda interna, riformare la legge elettorale».
C´è un´Opa ostile di Vendola sulle primarie cittadine, come scrive "Europa"?
«Naturale. Gli abbiamo aperto con le nostre regole un´autostrada. Questo meccanismo va corretto».