Roma zona-rossa:
«Mai così dagli anni del terrorismo»
di Claudia Fusani
Chiamata «area di rispetto per le istituzioni», la blindatura ha mandato in tilt tutta la città. Il ministro: «Evitato l’assedio di Montecitorio». Vendola: «Il Cile». Pd e Idv: «Maroni in aula»
L’hanno chiamata «zona di rispetto per le istituzioni». E’ stata pensata dal prefetto e dal questore Francesco Tagliente e supervisionata da Capo della polizia e ministro. E’ stata dispiegata sul campo ieri mattina. Si è rivelata la più grande zona rossa mai vista in Italia. Se non più grande di quella di Genova ai tempi del G8, sicuramente più simbolica. Ugualmente angosciosa anche se al posto dei container che calarono all’improvviso lungo le strade nella notte più buai di Genova, ieri mattina Roma si è svegliata con gli autoblindo di polizia e carabinieri allineati, in fila o a cuneo, per bloccare l’accesso alle strade. Meno dannosa perché i focolai di scontro sono stati solo due e perché i 25 mila studenti non hanno avuto il tempo, l’arco di una giornata tempestata dalla pioggia, per organizzarsi. Infinitamente più triste perchè dieci anni dopo siamo sempre lì, in una democrazia che alza possenti muri di lamiera per ricacciare indietro parole e idee.
Le zone rosse alzano sempre la tensione, creano alibi per gli infiltrati, per chi scambia i sampietrini (ne sono stati lanciati da qualcuno tra i ragazzi) con le parole. E infatti non se n’erano più viste in giro. Almeno non così imponenti. Non così disperate perchè il messaggio ieri è stato quello di una democrazia sotto assedio. Incapace di decidere se non protetta in un fortino di blindati e lacrimogeni.
Maroni è stato categorico. «Dopo quello che è successo mercoledì scorso quando gli studenti riuscirono ad entrare al Senato si spiega in questura doveva essere impedito in ogni modo il contatto tra i palazzi e i gruppi di manifestanti e con le forze dell’ordine». Così è nata la cintura di mezzi blindati che, in parte fissa, in
parte movente, si è adeguata per tutto il giorno alle mosse degli studenti che, spiati da agenti in borghese sguinzagliati per tutta la città (forse più quelli in borghese di quelli in divisa), hanno scatenato una guerriglia continua con la tattica del mordi e fuggi. Nascono così le uniche due cariche della giornata, verso le due in piazza Capranica, a due passi da Montecitorio, e verso le quattro tra via del Corso e via della Vite.
«In giro c’è molta tensione, Maroni faccia attenzione, serve prudenza» alza la voce verso le due il segretario del Pd Pierluigi Bersani che con Di Pietro poi chiederà al ministro dell’Interno di riferire in aula. «Questa militarizzazione è un pessimo segnale» dice Massimo Donadi (Idv). L’attacco più duro arriva da Nichi Vendola che si trova faccia a faccia con il ministro per la presentazione del libro dell’inviato del Tg1 Antonio Caprarica. «Ma che roba è questa?» attacca il governatore tra lo sgomento e l’arrabbiato dopo aver attraversato la città militarizzata per arrivare in piazza di Montecitorio. «Sembra il Cile, questa è una gestione criminale dell’ordine pubblico. Mai così dagli anni del terrorismo». Sono quasi le sette di sera. Si può guardare alla giornata con un po’ di ottimismo. Maroni replica: «Misure adeguate. Abbiamo evitato l’assedio a Montecitorio e consentito all’aula di lavorare. Chi voleva manifestare democraticamente lo ha potuto fare». Missione compiuta, quindi.
Se si guarda alla giornata, forse è andata anche bene così, grazie ai nervis saldi degli aganeti, con buona pace di cittadini, commercianti, persone comuni che hanno vissuto una giornata surreale all’interno della zona rossa. L’inferno subito fuori. Ma se invece che un primo piano la giornata è vista in campo lungo, quello che resta è l’immagine di una democrazia bunkerizzata. Incapace, ormai, di parlare con i suoi elettori.
Repubblica 1.12.10
L’istruzione precaria
di Carlo Galli
La via crucis della riforma Gelmini è terminata, con la sua approvazione alla Camera. Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l´ha varata, contro la protesta – questa sì nuova, per l´imponenza della mobilitazione giovanile, macchiata da qualche violenza dei centri sociali – che ha pesantemente interessato le città del nord, del centro, del sud. Una riforma che passa con i voti in aula e, nelle piazze, con i colpi di manganello e di lacrimogeni, reali e simbolici. Altro non è, infatti, l´affermazione di Berlusconi che i giovani per bene sono quelli che stanno a casa a studiare, uno stereotipo reazionario dei tempi del Sessantotto, per di più sulla bocca di chi pare frequentare abitualmente non la gioventù studiosa, quanto piuttosto quella avvenente e compiacente.
è una riforma contrabbandata come rivoluzionaria, poiché sarebbe in grado di sconfiggere le "baronie", il mostro che a sentire la destra è responsabile di ogni male dell´Università – della corruzione, del clientelismo, del nepotismo, dell´inerzia, della proliferazione delle sedi, dei fuoricorso, delle ingiustizie concorsuali. Un mostro abilissimo, che avrebbe plagiato i giovani, spingendoli, nella loro ingenuità, a contrastare la legge che invece sconfiggerà il malaffare dei professori universitari.
Ebbene, i baroni grazie a questa legge potranno continuare a decidere indisturbati chi insegnerà nelle università. L´abilitazione nazionale, che avrebbe dovuto sanare gli scandali degli attuali concorsi locali, potrà essere concessa indiscriminatamente, senza limiti numerici, e le università potranno così scegliere, fra la massa degli abilitati, i docenti più graditi ai vari potentati.
La valutazione della ricerca, che dovrebbe far emergere e sanzionare i docenti inattivi, non decolla neppure con le istituzioni che già esistono: e la riforma l´affida a un nuovo carrozzone di Stato, che esiste solo sulla carta.
L´autonomia universitaria è di fatto cancellata sia perché, nonostante siano state eliminate in extremis alcune norme che prefiguravano un vero commissariamento da parte del ministero dell´Economia, questo resta in ogni caso il grande guardiano del sistema universitario; sia perché la riforma, per diventare effettiva, ha bisogno di più di cento nuovi regolamenti, che dovranno essere tutti approvati dal ministero della Pubblica Istruzione.
Per i giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria, poi, c´è solo la prospettiva di un lungo precariato, fino a dieci anni, che si snoderà tra assegni di ricerca e posti da ricercatore a termine; ma non c´è alcuna garanzia che apra, ad almeno una parte di loro, uno sviluppo di carriera verso la stabilizzazione. La via dell´emigrazione resta lo sbocco per i talenti che l´Italia prepara, per regalarli poi ad altri Paesi.
Se nelle sue finalità positive la riforma fa acqua da tutte le parti, in quelle negative è più efficace. Il peso dei professori (del Senato Accademico) nella gestione complessiva degli atenei cala molto, a favore soprattutto dei rettori, del Consiglio d´amministrazione (infarcito di esterni, sul modello delle Asl), e del direttore generale.
Anche se l´autoritarismo aziendalistico che informava il testo originale è in parte attutito, l´intento punitivo verso una delle poche élites non compattamente schierata con la destra è piuttosto evidente. Tra breve, toccherà anche alla magistratura, che però è ben più potentemente attrezzata per resistere. I professori in futuro saranno meno numerosi, per effetto della valanga di pensionamenti in atto e del mancato rimpiazzo; ma saranno anche meno autonomi, più simili a impiegati che a quella magistratura scientifica della nazione che in passato aspiravano a essere. E ciò avviene per indiscutibili colpe di alcuni di loro, e anche per preciso indirizzo politico di questo governo, che con la cultura e la ricerca certamente non si trova a proprio agio, e che ha cavalcato spregiudicatamente un generalizzato sfavore dell´opinione pubblica – solo parzialmente giustificato – verso l´Università.
Soprattutto, per questa riforma non ci sono stanziamenti aggiuntivi. A differenza di quanto avviene nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, in Italia l´università è un costo, e non un investimento. è un problema, e non una risorsa. La società della conoscenza è un orizzonte non condiviso dalla destra al governo. Non ci sono soldi per incentivare il merito dei professori, e non ci sono – anzi, sono quasi del tutto spariti i pochi che c´erano – per le borse di studio per gli studenti; e questi hanno capito ben presto (altro che sprovvedutezza!) che nel loro futuro ci sono più tasse ma non una politica di miglioramento reale del sistema universitario in termini di servizi e di qualificazione della docenza.
Baronie appena scalfite, centralismo normativo, riproduzione del precariato, degrado complessivo dell´immagine dell´Università e sua possibile ‘aslizzazione´, compressione del ruolo dei docenti e degli studenti, ulteriore frustrazione dei giovani, nessun investimento. Queste sono le cattive notizie, dovute al fatto che questa destra, oscillante fra il populismo e il gattopardismo, non ha un´idea di università, come non ha un´idea di Paese. La buona notizia è che la riforma resterà probabilmente inapplicata, perché la crisi di governo la spazzerà via. La corsa contro il tempo per approvarla, infatti, ha verosimilmente il solo scopo di munire la destra di almeno una riforma da sbandierare in campagna elettorale.
A questo – a propaganda – si è ridotta l´università, al tempo del governo Berlusconi.
l’Unità 1.12.10
Il leader del Pd derubrica come «chiacchiere» il presunto asse Veltroni-D’Alema
Ieri incontro con i segretari regionali. Per l’11 dicembre già pronti 18 treni e 1200 pullman
Bersani blinda il partito e lancia la mobilitazione: «Occupiamoci del Paese»
D’Alema e Veltroni smentiscono l’asse «contro» Bersani. Il segretario chiama il partito ad essere unito e responsabile «per voltare pagina» e mandare a casa il governo. Intanto al Nazareno si lavora all’11 dicembre.
di Maria Zegarelli
Al Nazareno raccontano di un segretario «irritato» per questa smania che c’è nel Pd di «guardarsi sempre la punta delle scarpe». Raccontano anche di una certa «amarezza» per le dichiarazioni di questi ultimi giorni di Nicola Latorre, dalemiano doc, che vorrebbe un Pd rifondato insieme a Nichi Vendola e per i retroscena che annunciano un asse tra D’Alema e Veltroni che punterebbe ad una leadership alternativa a Bersani. «Chiacchiere», risponde il segretario liquidando la vicenda in Transatlantico, «un sacco di chiacchiere sul Pd: mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro». Aggiunge anche di averne parlato con i diretti interessati, che ieri a dire il vero hanno smentito tutto. «Irritato» si è detto anche D’Alema per la «fantasiosa ricostruzione» che altro non sarebbe se non «una scemenza». Per Veltroni parla il suo braccio destro, Valter Verini: più le distanze che le assonanze tra i due.
Vero è che in politica tutto muta velocemente, ma è difficile credere in un asse che possa saldarsi su una ruggine di così lunga data.
RESPONSABILITÀ E UNITÀ
Ieri Bersani inxcontrando i segretari regionali si è soffermato alungo sulla crisi economica, alla luce dei dati Istat sulla disoccupazione e quelli della Commissione Ue che prevede la crescita del debito nel 2011 addirittura al 120%. Ne ha parlato con Tremonti, ricevendo «rassicurazioni», ma secondo il segretario è chiaro che spetta al dp lavorare per «garantire stabilità». Per questo ha chiesto a tutte le componenti del partito di dare «visibile prova di responsabilità e unità» per raggiungere l’obiettivo primario: le dimissioni del governo, che sta creando «instabilità» e mette a rischio il sistema economico e finanziario.
Fatto inusuale alla fine dell’incontro viene diffusa anche una nota, di tutta la segreteria, che ricorda tanto il suono della «campanella». «Di fronte ai gravissimi problemi con i quali gli italiani devono fare i conti si legge a cominciare dal lavoro che viene meno, dalla scuola, dall’università, dalla crisi di tante imprese, dalla situazione di numerose famiglie, la segreteria nazionale e i segretari regionali del Pd hanno ribadito la necessità di proseguire con fermezza e determinazione nella battaglia per aprire una nuova fase e garantire all’italia un futuro di ripresa e rilancio». Maggioranza e governo vengono definiti «un fattore pericoloso di instabilità e di discredito». Motivo per cui spetta al Pd «essere in campo», tenendo «ferma la barra della propria linea politica per ottenere che si avvii una fase di transizione». Un governo a tempo, per la legge elettorale e le riforme, allargato a chi ci vuole stare e poi nuove elezioni politiche, con un’alleanza che veda il Pd come perno della coalizione.
LA PIAZZA
Ma intanto l’oggi è l appuntamento con la piazza l’11 dicembre a cui sta lavorando il responsabile organizzazione del partito, Nico Stumpo, il quale ieri ha chiesto ai segretari regionali il massimo della mobilitazione. La manifestazione a tre giorni dal voto di fiducia al governo può essere un’occasione, anche se nessuno ne parla esplicitamente, per dare la «spallata» ad un esecutivo ormai paralizzato dalle spaccature interne.
Manifestazione
Oltre 75mila persone hanno prenotato il posto per S. Giovanni
A dieci giorni di distanza ci sono già 18 treni e 1200 pullman, oltre 75mila persone che da diverse regioni hanno prenotato il posto a San Giovanni. «Ci dicono che la mobilitazione è in crescendo dice Stumpo perché c’è una grande voglia di partecipazione del popolo democratico ma anche di chi non è del Pd». Dal territorio è arrivato anche l’ invito ai dirigenti nazionali a mettere da parte le prove di forza interna. Che pure ci sono. In Modem, l’area che fa capo a Veltroni, Fioroni, Gentiloni, l’asse che si è creato, questo sì, tra Franceschini e Bersani desta preoccupazione, soprattutto in vista delle liste elettorali in caso di elezioni se non cambia la legge.
Repubblica 1.12.10
Bersani: "Nuovo asse? Basta chiacchiere"
D’Alema e Veltroni negano intese. Follini: ma sarebbe una cosa di buon senso
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere
di Goffredo De Marchis
ROMA - Pier Luigi Bersani non nasconde un certo fastidio per il riavvicinamento tra D´Alema e Veltroni che avrebbe alla base i dubbi sul ruolo del segretario. Naturalmente, il Pd, impegnato nella tornata della fiducia il 14 e prima nella manifestazione di Piazza San Giovanni l´11, cerca di tenere ferma la barra dell´unità. «Sento un sacco di chiacchiere sul partito. Mi entrano da un orecchio e mi escono dall´altro», dice Bersani. «Adesso siamo concentrati sui problemi del Paese e tutti, nel Pd, sentono questa responsabilità».
Anche il capogruppo democratico alla Camera Dario Franceschini preferisce guardare alle scadenze dell´opposizione più che agli affari interni del partito. «Mi occupo del centrodestra e del 14 dicembre perché la maggioranza non sta in piedi». Ma c´è chi sponsorizza la ritrovata sintonia tra D´Alema e Veltroni. Dice Marco Follini: «Se loro due facessero una grande coalizione all´interno del Pd sarebbe una cosa di buonsenso. Se poi il Pd concorresse a una grande coalizione nazionale sarei ancora più felice». Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si occupa di smentire l´asse: «Rimangono notevoli differenze politiche». Aggiunge un "ma": «Ciò non toglie che in questo momento delicato per il Paese possa esservi nel gruppo dirigente del Pd una preoccupazione comune».
Massimo D´Alema sottoscrive la reazione di Bersani: «Chiacchiere, anzi scemenze». Adesso, spiega, il Pd «è unito, sulle scelte fondamentali, intorno al segretario». Ma Beppe Fioroni fa notare che «una fetta della maggioranza interna, da D´Alema a Enrico Letta, si pone il tema di come non regalare l´Italia a Berlusconi. Direi che il vero asse è questo: riprendere l´orgoglio del Pd e fare scelte chiare». L´ipotesi di un avvicinamento D´Alema-Veltroni allarma i "rottamatori", il gruppo guidato da Matteo Renzi e Pippo Civati che chiede in modo brusco il rinnovamento dei leader. «Contro un simile asse davvero potremmo riempire uno stadio», commenta sarcastico il consigliere regionale della Lombardia Civati. Che si schiera dalla parte del segretario: «Di fronte a ipotesi simili tocca a Bersani prendere un´iniziativa. Si candidi alla premiership e detti parole d´ordine e contorni delle alleanze con cui vincere e governare. Altrimenti sarà travolto l´intero Pd. A Torino, Bologna e poi nel Paese». Torino è la prima città dove i democratici stanno cercando una soluzione per le comunali. Piero Fassino è in pista. Ma Vendola annuncia: «Non lo appoggeremo. Correremo alle primarie con un nostro candidato».
Repubblica 1.12.10
Tonini: Bersani rilanci il profilo riformista e maggioritario del Pd
"Non c´è nessuna alleanza contro il segretario ma partito in calo costante"
"Il timore di scendere sotto la soglia di sopravvivenza unisce tutti"
ROMA - «Nella preoccupazione sulla situazione italiana e nel sostegno a un governo di responsabilità nazionale sono uniti non solo Veltroni e D´Alema, ma l´intero partito». Giorgio Tonini, dirigente di Movimento democratico, senatore molto vicino a Walter Veltroni, nega l´esistenza di un´asse tra l´ex segretario del Pd e il presidente del Copasir. «Tantomeno esiste un´alleanza di questo tipo contro Bersani. Oggi siamo tutti con il segretario, impegnati nella preparazione di Piazza San Giovanni, l´11 dicembre».
Significa che Modem considera Bersani adatto anche al ruolo di candidato premier in caso di elezioni anticipate?
«Significa che noi oggi chiediamo al segretario di rilanciare il profilo riformista e maggioritario del Pd. Se il partito continua a scendere nei sondaggi goccia a goccia, settimana dopo settimana, altro che candidato premier. Ci dovremo chiedere da chi farci guidare. Il Pd oggi è un progetto a rischio e su questa consapevolezza può essere unito. Altrimenti sono guai seri. Il resto viene di conseguenza».
Anche di questo hanno parlato D´Alema e Veltroni venerdì scorso?
«È stato un saluto alla buvette, niente di più. Dal punto di vista strategico rimangono le differenze, che non sono nuove. Risalgono ai tempi del primo Ulivo. Ma né i duelli più o meno romanzati tra i due né gli ipotetici patti devono nascondere il merito del problema. Modem crede ancora in un Pd riformista, che assuma la cultura democratica perché in questo aggettivo si riassume il suo dna e si superano gli steccati del ‘900, con la vocazione maggioritaria, nato per cambiare e non per difendere. Se si abbandona la via maestra privilegiando il tema delle alleanze, ci troveremo a discutere chi rincorrere invece che essere rincorsi. Questa per noi è pura follia e due anni fa succedeva esattamente il contrario. Erano tutti gli altri a voler venire con noi».
Nessuna intesa con Vendola e nessuna con Fini?
«Vendola, da una parte, pensa all´unità della sinistra mentre noi abbiamo creato il Pd per l´unità dei riformisti che è cosa ben diversa. Dall´altra, Fini, con grande onestà ed correttezza, ha detto in tutte le salse che lui vuole fare una nuova destra. Ecco perché noi dobbiamo essere pronti come Pd, senza inseguire alleati. Un Pd grande e aperto».
Ma prima viene il governo di responsabilità nazionale, un´idea in sintonia con D´Alema.
«Un´idea che appartiene a tutto il Partito democratico. Abbiamo detto che l´Italia ha bisogno di un governo vero. Capace di affrontare l´impresa di ridurre il debito con un piano straordinario. E di fronteggiare la crisi dell´economia e la disoccupazione che galoppa. È una strada che non contraddice l´obiettivo di un Pd grande. Un Pd, cioè, che rilancia la sua prospettiva e definisce chi siamo. Mi pare ci sia una consapevolezza comune sul rischio di un partito che scende sotto la soglia minima di sopravvivenza».
(g.d.m.)
Corriere della Sera 1.12.10
Vendola cerca l’asse con Bersani: vogliono farci fuori
Il presidente pugliese accusa D’Alema e Veltroni. Letta rilancia Chiamparino. Fioroni parla con Casini. E il Pd scende ancora
di Maria Teresa Meli
ROMA — Prologo: Transatlantico di Montecitorio, pomeriggio di un giorno qualsiasi (è successo anche ieri), Nichi Vendola passa di lì non per caso e un bel po’ di deputati del Pd si mettono in fila per il bacio della pantofola. Epilogo: ore 19 e 30 di ieri, buvette di Montecitorio, di fronte a un analcolico il presidente della Regione Puglia spiega: «Latorre ha detto una verità che è passata quasi inosservata: ha aperto a me e ha ammesso che il progetto del Pd è fallito. Ora ci saranno delle contromosse: D’Alema e Veltroni, per esempio, che sono lontanissimi, hanno però due obiettivi identici: fare fuori me e Bersani. Ma l’importante è restare tranquilli, non farsi prendere da questi giochi del ceto politico».
Leadership Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Walter Veltroni a Montecitorio
In mezzo, tra un Vendola che riceve gli omaggi dei deputati del Partito democratico e un Vendola (sempre lui) che certifica la fine del progetto politico del Pd, ci sono tutte le scene di vita quotidiana di un centrosinistra che si interroga sui propri errori e le proprie paure. Prima scena, l’altro ieri: Pier Luigi Bersani chiama Massimo D’Alema per capire se l’intervista al Corriere in cui Nicola Latorre chiede di rifondare il Pd è un atto autonomo del vice capogruppo al Senato o se invece c’è lo zampino del presidente del Copasir. Il colloquio è alquanto teso. Seconda scena, sempre l’altro ieri: Enrico Letta va a Torino e tesse gli elogi di quel Sergio Chiamparino che il giorno prima ha usato la clava contro l’attuale leadership del Pd e si è candidato alla guida del centrosinistra. Ecco le parole testuali del vicesegretario: «Credo che tutto il centrosinistra abbia bisogno di Chiamparino, a livello nazionale, nella sfida per chiudere il berlusconismo. Sergio avrà un ruolo fondamentale e penso che tutti dobbiamo spingerlo ed aiutarlo». Terza scena, ieri: Beppe Fioroni, reduce da un vis-à-vis con D’Alema che gli ha chiesto conto del suo attacco a Latorre, sostiene che la maggioranza interna finalmente ha capito che c’è qualche problemino nel partito: «Oggi finalmente c’è una fetta del Pd, penso a D’Alema e Letta, che si pone il tema di non regalare l’Italia a Berlusconi e per questo non dice più che tutto va bene».
Quarta scena, sempre ieri, sempre Fioroni: il responsabile Welfare si apparta in un corridoio con Casini. Quinta scena: qualche deputato del Pd insinua che Letta potrebbe andare a finire nel cosiddetto terzo polo. Non è vero, ma se ne parla ugualmente. Sesta scena, arriva il sondaggio Ipsos, il Partito democratico è al 23,4. È sceso dello 0,2. Il Pdl, invece, per la prima volta da giorni, guadagna punti. È al 27,1 per cento, lo 0,5 in più rispetto all’ultima rilevazione Ipsos.
È sera, i riflettori sono di nuovo puntati su quel Vendola che fa tanto penare i Democrats. Il governatore della Puglia è sicuro che le primarie, nonostante D’Alema, si faranno: «Bersani è una persona perbene e le ha promesse». Lo sostiene anche in un libro-intervista a Cosimo Rossi, ex giornalista del manifesto («La sfida di Nichi Dalla Puglia all’Italia»), che esce domani : «Le primarie si faranno: questa è un’acquisizione fondamentale, penso che non ci sia più modo di impedire e anche di pilotare questo strumento». Ma Vendola non è un ingenuo, non fa finta di non sapere che nel Pd molti vorrebbero che la legislatura proseguisse per riassestare il partito, cambiare candidato alla premiership e andare al confronto con il governatore pugliese da una posizione di forza. Lo dice anche nel libro di Rossi: «Immaginare che ci sia una destra buona con cui allearsi transitoriamente contro la destra cattiva mi pare un’ennesima manifestazione di vocazione al suicidio». Già, ma nel Pd si torna a parlare di un possibile governo Draghi che affronti l’emergenza economica: «Sarebbe ugualmente devastante» taglia corto Vendola. La serataèfinita . Veltronis cappaa «Ballarò». D’Alema chiacchiera con Marianna Madia. Bersani cela a fatica il fastidio per le voci sulla solidità della sua segreteria: «Non mi occupo di chiacchiere». Ma nel Pd e dintorni le chiacchiere continuano.
il Riformista 1.12.10
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere
qui
il Riformista 1.12.10
Intervista a Achille Occhetto
«Vendola può essere l’uomo giusto per rompere i vetri in casa Pd»
«È ridotta a una coperta di Arlecchino. Grazie alla Bolognina, gli ex comunisti vanno al governo e al Quirinale. La “gioiosa macchina da guerra”? Stavo per dire “Armata Brancaleone”, poi...».
di Anna Mazzone
qui
il Riformista 1.12.10
Caro Pd,Vendola farà esplodere tutta la sinistra
La forza di Nichi non può essere ingabbiata in un accordo politico
di Ritanna Armeni
qui
http://www.scribd.com/doc/44444769
Repubblica 1.12.10
La libera scelta di chi non vuole più soffrire
Risponde Corrado Augias
Caro Augias, ho letto che Bruno Vespa farà l'anti-Fazio per confutare le testimonianze sull'eutanasia. Il noto giornalista ci racconterà storie terribili e vere di persone che preferiscono soffrire per malattie inguaribili, offrendo quelle sofferenze a Dio. Un modo curioso di onorare il Creatore. A me pare che il problema sia "la libertà individuale di scelta tra il vivere un male dolorosissimo, lungo e lesivo della propria dignità, e una morte indolore di cui non ci si accorge". è questo di cui si dovrebbe discutere, accettando una scelta tra due decisioni del malato con pari serietà. La scelta individuale può manifestarsi o al momento del dolore, o facendo un Testamento Biologico. Quando la Chiesa cattolica rifiuta queste libertà, e mette in atto una campagna affinché la Repubblica Italiana vieti la dolce morte appare agli occhi del mondo come un'istituzione dittatoriale, cancellando di fatto quell'immagine di bontà che tiene a crearsi da secoli.
Arturo Martinoli arturo.martinoli@alice.it
Bruno Vespa ha ogni diritto di organizzare un programma nel quale far presente i punti di vista di chi sceglie di sopportare il dolore, oppure di vegetare in una semi-vita, o dei familiari che questi malati senza speranza accudiscono con ogni cura così alleviando in qualche modo la sofferenza o la prigionia all'interno di corpi ridotti a carcasse. Non si dovrebbero però dimenticare che si parla di due situazioni non confrontabili. Da una parte c'è chi opera la scelta del dolore (o altri che la praticano in sua vece); dall'altra c'è chi preferisce metter fine ad una vita considerata insopportabile. I primi hanno i loro diritti. Gli altri non ne hanno. La legge tutela gli uni, mentre lascia gli altri nella disperazione o nell'illegalità. Questa tragica differenza si basa sul presupposto religioso che la vita è "un dono di Dio", dunque indisponibile per l'individuo che ne è solo (Catechismo) "l'amministratore". Ci sarebbe da dire (mi fa notare Maria Luisa Gnarro) che: «Se io faccio un dono ad un amico, il dono appartiene a lui, non più a me, lo può usare come crede ed eventualmente liberarsene». La Fede però ignora la logica e va accettata così. Per chi ce l'ha. Nessuno comunque dovrebbe appropriarsi del titolo 'Movimento per la vita' relegando così tutti gli altri in un ipotetico movimento 'per la morte'. C'è poi una domanda che vorrebbe finalmente una parola di chiarimento, ammesso che sia possibile dirla: che cosa significa in concreto la sempre invocata "fine naturale della vita"? Siamo in un'epoca in cui le macchine possono mantenere quasi indefinitamente il battito cardiaco. Dove finisce la naturalezza? Anche un'ipotetica entità divina deve adeguarsi ai progressi della tecnologia medica?
Repubblica 1.12.10
Marco Revelli "La vita precaria ci fa diventare un Paese cattivo"
intervista di Luciana Sica
L´intervista/ Marco Revelli racconta il suo nuovo saggio È un´analisi sullo stato di sofferenza economica che mina il tessuto sociale
"L´impoverimento riguarda anche il ceto medio e i giovani senza più prospettive"
"Tra frustrazioni risentimenti e crisi d´identità ormai dilaga l´invidia sociale"
Sono i lavoratori del ceto medio e i giovani, i nuovi poveri in Italia. La situazione è peggiorata per tutti, più grave che all´inizio degli anni Ottanta quando si contavano sei milioni di persone in condizioni di indigenza. Oggi non soltanto sono almeno due milioni in più ma – secondo i dati Istat del 2008 – gli italiani messi ko da una spesa imprevista di settecento euro sono diciannove milioni, più di un terzo della popolazione. Proprio noi messi così male, noi che apparteniamo al "club dei grandi"?
È un ritratto dell´Italia reale, stridente nell´asprezza dei numeri con il racconto "apologetico" del potere, Poveri, noi, il breve saggio di Marco Revelli in uscita oggi da Einaudi (pagg. 128, euro 10). Il politologo, alla guida negli ultimi tre anni della Commissione d´indagine sull´esclusione sociale, racconta un Bel Paese più povero e molto più cattivo. Usa una metafora: come Gregor Samsa, il protagonista del celebre racconto di Kafka, anche noi un giorno ci siamo svegliati e ci siamo ritrovati irriconoscibili. Non solo delle canaglie con gli "ultimi" della piramide sociale che è meglio spingere sempre più in basso, meglio ancora se "fuori". Ormai con un´inedita ferocia trattiamo un po´ tutti gli "altri", quelli che per le ragioni più svariate stanno peggio di noi –negli ambienti di lavoro come anche in famiglia.
Professor Revelli, lei fa dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" di questo Paese così pieno di simboli di un´opulenza anche ostentata. Non sarà un catastrofista?
«Sono i numeri e i fatti, le statistiche e le storie di cronaca che denunciano vistosamente l´estrema fragilità della nostra struttura economica, sociale e anche morale. Non solo non siamo in crescita, ma su un piano che inclina pericolosamente verso l´arretratezza. Viviamo una condizione generalizzata di malessere che disgrega il tessuto sociale, producendo una rottura a catena delle relazioni, dei legami, dei meccanismi più elementari della solidarietà. Gli effetti sono gravissimi sulla qualità e sulle prospettive della nostra democrazia».
La crisi morde anche sulle fasce finora considerate relativamente "forti" del mercato del lavoro: sul ceto medio. Chi sono questi nuovi poveri?
«Sono figure sociali estranee alla "cultura della povertà" che – per stile di vita, interessi, amicizie, rapporti professionali, modelli famigliari – appartengono a tutti gli effetti a una middle class che si considerava "garantita" contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell´impoverimento».
Faccia degli esempi.
«C´è l´ingegnere dell´Eutelia (ex Olivetti) ad altissimo livello di professionalità che contava su un reddito medio-alto e si ritrova "messo in mobilità". Ci sono i tanti impiegati delle industrie, i "quadri" tecnici d´improvviso privi di consulenze, i piccoli e medi commercianti schiacciati dalla grande distribuzione. Tutti fino all´altro giorno sicuri del proprio tenore di vita, e ora in grave affanno. E poi ci sono le donne, anche laureate e con una posizione professionale di tutto rispetto, costrette a cambiare radicalmente vita se si ritrovano sole – dopo una separazione, il che è molto frequente. Sono donne che spesso hanno figli, pagano una baby sitter, e magari anche il mutuo o le rate dell´auto... Non saranno "tecnicamente" povere, ma la loro è una condizione difficile, per quanto in genere dissimulata».
Sono invece tutt´altro che poveri "occulti" i giovani, derubati del presente e del futuro. Lei scrive che sono stati "massacrati". Non teme che l´espressione sia troppo forte?
«No, perché sono proprio loro le vittime sacrificali del declino del nostro Paese. Qui parlano i numeri: l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. La scelta di puntare esclusivamente sulla cassa integrazione ha aperto un ombrello sui padri, ma lasciando fuori i figli, licenziabili con facilità e a costo zero. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
C´è poi lo scandalo della povertà delle famiglie numerose, il 40 per cento concentrate nel Sud. Quanti sono in Italia i bambini che oggi non hanno niente e domani saranno degli adulti a rischio?
«Il Paese del Family Day ha il triste privilegio di avere il tasso più alto di povertà minorile dell´Unione europea. A inchiodarci a un 25 per cento è Eurostat: come dire che un minorenne su quattro vive in una famiglia molto disagiata, e che in questo Paese fare più di due figli è una maledizione».
Cosa ci sbattono in faccia – sgradevolmente – le statistiche dei poveri?
«La realtà di un Paese che arranca e l´illusionismo allucinatorio di un Paese virtuale da piani alti. In mezzo, tra le punte della forbice, trovano terreno fertile le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali, le solitudini e le crisi d´identità che hanno sfregiato l´antropologia sociale italiana. L´indurimento del carattere nazionale e la diffusione dell´invidia come sentimento collettivo. L´intolleranza per le fragilità dei deboli, la tolleranza per i vizi dei potenti. Tutto il repertorio d´ingredienti che hanno nutrito le fiammate populiste, il "tribalismo territoriale" come forma di risarcimento, ma anche le più silenziose ondate di "esodo" dalla politica e dallo spazio pubblico».
Con quali effetti sulla qualità della democrazia italiana?
«I principi democratici vengono profondamente corrosi in un Paese dove cade la speranza nei meccanismi di redistribuzione del reddito e sembra impossibile attingere alla ricchezza dei pochi fortunati, dove chi è povero è destinato a rimanere povero e una parte consistente della popolazione cessa di considerare pubblicamente garantita la propria aspirazione a una vita degna. L´individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà. Oggi questo scambio perverso riempie il vuoto lasciato dai diritti, ma né la discrezionalità dei diversi titolari dei poteri né la dedizione dei servi appartengono allo statuto della democrazia. Senza un segnale netto di alt a questa deriva, che implica un confronto duro con le attuali classi dirigenti, si rischia l´abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito».
l’Unità 1.12.10
Usa, l’illusione di essere i primi
Dalle carte non più segrete emerge come Washington sia ancora prigioniera del mito della propria preminenza. Ma sembra che nel mondo questa prerogativa sia riconosciuta loro sempre di meno
di Giuseppe Arlacchi
L’impatto politico di Wikileaks c’è, ma non sta nel “gossip” diplomatico sulle magagne e sui tic dei potenti. I rapporti tra gli Stati Uniti e l’Onu, per esempio, saranno influenzati negativamente dalla conferma dello spionaggio sistematico effettuato per ordine della signora Clinton contro i dirigenti dell’organizzazione.
Spionaggio anomalo, perchè fatto non solo dai professionisti ma anche dai diplomatici Usa accreditati presso il Palazzo di Vetro, e richiesti di rilevare dati biometrici, numeri di carte di credito e di conti bancari, e quant’altro possa essere utile per ricattare, imbarazzare, minacciare chiunque voglia deviare dalle linee tracciate dal Grande Fratello.
È una vecchia storia, che si sperava fosse morta, e invece è lì, mantenuta in vita dall’amministrazione Obama. Chi scrive è stato una vittima delle attenzioni dell’intelligence anglo-americana, come del resto Kofi Annan e vari altri esponenti di vertice non disposti ad allinearsi sempre e comunque alle politiche Usa.
Molti avevano pensato che i tempi nei quali un neo-con tra i più arroganti, Paul Wolfowitz, osava ordinare alla Cia un’indagine illegale contro Hans Blix e Mohammad ElBaradei –gli ispettori Onu sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, che si erano rifiutati di mettersi al servizio dei piani di invasione dell’Iraq– fossero finiti.
E dobbiamo ringraziare Wikileaks per avere di nuovo sollevato il coperchio di un andazzo intollerabile.
I documenti di Wikileaks confermano i cospicui finanziamenti ricevuti negli ultimi anni dai Talebani e da altri gruppi fondamentalisti da parte dei paesi della penisola arabica alleati degli Stati Uniti. Il peso politico di questo
fatto è molto grande. Esso toglie plausibilità alla motivazione principale dell’invasione e dell’occupazione militare dell’Afghanistan.
Il governo americano ha attaccato l’Afghanistan con la motivazione ufficiale della lotta al terrorismo di Al Queda e dei soci Talebani pur essendo al corrente che il loro maggior canale di finanziamento era esterno al paese. Ed ha continuato imperterrito la guerra anche dopo il dislocamento dei gruppi di Al Queda in Pakistan, senza intervenire sulle fonti saudite e simili di finanziamento.
Non è difficile allora concludere che la spinta ad invadere l’Afghanistan è nata più dalla necessità del complesso militare-industriale americano di fare la guerra a un paese debole, che dalla genuina volontà di combattere autori e complici dell’11 settembre. Quindici su diciannove dei quali –come si è presto scopertonon erano talebani né afghani ma sauditi.
È vero che i materiali Wikileaks sono opera per la maggior parte di diplomatici di rango medio basso che si soffermano talvolta su pettegolezzi e fatti di scarsa rilevanza politica. Ma dai giudizi sui paesi amici traspare comunque una visione negativa e paranoide del mondo, tipica di un impero in declino. Un impero che non crede più alla propria autorità morale, e che affida le sue chances quasi esclusivamente allo hard power: la forza militare, la minaccia, l’intimidazione e il ricatto dei suoi apparati di sicurezza contro tutti, amici inclusi.
Occorrerà un po’ di tempo per leggere bene tutti i documenti, e fare grazie ad essi la storia dell’oggi senza aspettare i 25-30 anni di prammatica. Ma balza subito agli occhi, da quanto già pubblicato, la cecità del personale diplomatico americano verso le grandi forze della distensione e della pace.
Tutto ciò che non è realpolitik, coercizione bruta, sembra non interessargli. Da qui la clamorosa incomprensione della svolta non aggressiva della politica estera della Turchia, la strategia dello “zero problems” con i vicini e dell’amicizia con le potenze asiatiche.
Da qui l’errore di considerare l’Iran come un paese da attaccare, la Russia come un’entità ancora ostile, e l’Unione europea come un mazzo di smidollati. Senza rendersi conto che Cina, India, Brasile, Unione Europea e la stessa Russia si stanno affermando (o riaffermando) sulla scena globale proprio in virtù del fatto di non seguire la strada americana dello hard power.
È questo l’aspetto più preoccupante delle carte Wikileaks. La classe dirigente americana, di cui il personale diplomatico è espressione, ha perso la fiducia nella capacità di guidare il mondo attraverso la superiorità del suo progetto etico-politico.
Questa gente crede ancora di rappresentare il governo mondiale, e non si è accorta che ormai quasi più nessuno le riconosce questa prerogativa. Governo di cosa, quando l’unico strumento che sembra rimasto nelle loro mani è la delinquenza dei loro apparati di intelligence e l’impronta del loro potere militare?
Queste carte, ed i sentimenti che le animano, significano veramente che siamo entrati nell’epoca post-americana.
il Fatto 1.12.10
Al mercato della disperazione i bimbi haitiani diventano merce
Venduti dalle famiglie, rapiti dai trafficanti
di Maurizio Chierici
Cronaca di una domenica: quando gli haitiani provavano a votare. Signori che hanno fretta attraversano il confine con due bambini per mano o un piccolo che ciondola fra le braccia. Vanno e vengono; non si fermano mai. Nessuno si incuriosisce per sapere dove li portano. Non è successo in questi giorni. È il ricordo di tre anni fa. Ma la voce sconsolata di un operatore umanitario racconta, ieri, al telefono, che “il commercio” prospera più che mai. Haiti esporta bambini destinati chissà dove e chissà a chi. Forse famiglie senza figli, ma il sospetto di una schiavitù impronunciabile accompagna le parole di chi non sa come fermare il traffico dell’infanzia.
DOMENICA HAITI ha votato. Le file erano lunghissime davanti ai seggi, scuole malandate, tettoie che non riparano dalle piogge. Cancelli di ferro chiudono il ponte che scavalca il rio Ma-sacre: segna la frontiera che divide Juanaméndez da Dajabon; Haiti da Santo Domingo. È lunga 380 chilometri e le grate appartengono a chi fa finta di fermare, ma non ferma niente. Dieci metri sotto, la gente attraversa lentamente con l’acqua alle ginocchia. E le guardie guardano, fumando. Non provano a fermarli: è il confine più poroso del mondo. Nella sponda domenicana un arco e l’enorme tettoia della dogana accolgono i viaggiatori disciplinati. Nessuno apre le borse. Poliziotti dei due paesi allargano la mano: svelti, passate. Quando gli sguardi furtivi fanno sospettare qualcosa, un dollaro e via. Lunedì e venerdì i doganieri riposano: cancelli spalancati per riunire i due mercati delle città che il fiume separa. Più o meno le stesse facce, con sfumature diverse: nero blu gli haitiani, nero latte i domenicani. L’isola che raccoglie i due paesi si divide così. Oltre la dogana si apre la superstrada che corre verso Santo Domingo, capitale delle vacanze. Ogni venti chilometri sbarramenti di polizia: adesso è la paura del colera ma da sempre è la paura dei clandestini haitiani, senza nome, senza diritti, braccia destinate alle campagne-lager del rum Bacardi o del tabacco Davidoff: un milione di anime. Ecco perché le polizie si appostano per frenare i trafficanti dell’innocenza. E le mance diventano dieci dollari a clandestino . Mani che penzolano dai finestrini, mani che si allargano nel gesto di chi lascia scappare. Dopo terremoto e uragano, 7700 bambini sono stati portatati via da mezzani senza nome. Li pescano davanti alle rovine o fra le tende degli accampamenti dove i transfughi dalle macerie aspettano che i paesi più o meno felici si ricordino di loro. Bambini venduti da madri troppo sole e con troppi figli da sfamare. Li affidano a facce sconosciute sperando nel paradiso promesso da trafficanti che hanno sempre fretta. Subito dopo l’uragano di due mesi fa 950 bambini sono stati venduti e portati via seminando ad ogni passo mance da tariffario ormai istituzionale. Soldi alle famiglie sconvolte dalla separazione, soldi al doganiere haitiano, al doganiere domenicano, ai padroni di case compiacenti dove li spogliano dagli stracci per infilare jeans o sottane colorate, nella finzione del trasformare le prede in piccoli vacanzieri con famiglia: alla sera tornano nella capitale.
ORGANIZZAZIONI umanitarie, volontari e missionari cattolici e di ogni confessione provano a fermare questa violenza, ma la rete è solida, l’omertà collaudata, la corruzione bene oliata. Bambini, uomini e ragazze sono le ultime refurtive che i contrabbandieri trafugano dal deserto di Haiti. Compra-vendita che non è un mercato improvvisato dopo le tragedie; è il mercato collaudato dalla disperazione impossibile da consolare. Adesso, anche il colera. Quando l’Organizzazione Mondiale dalla Sanità è tornata a Port au-Prince dopo essere stata espulsa da militari e uomini forti, chi dirigeva medici e infermieri non ha nascosto la disperazione. Da tempo immemorabile migliaia di baracche crescevano su immondizie mai raccolte. Impossibile stabilire quali virus erano all’origine di una mortalità che superava i numeri africani. Vita media sotto i 50 anni e il 70 per cento dei 10 milioni di abitanti vive con un euro al giorno.
QUANDO UN BAMBINO compie 5 anni è a prova di pallottola perchè la mortalità infantile resta la catastrofe impossibile da definire. Crescono senza acqua, senza elettricità, analfabeti al 70 per cento. L’Aids prolifera. E allora meglio venderli, che forse ce la fanno a diventare adulti. Nella classifiche improbabili dei paesi civilizzati, Port au-Prince è la capitale del penultimo paese del mondo. Solo il Bangladesh sembra peggio, ma da un po’ di tempo si è smesso di fare i conti oppure i conti continuano e manca il coraggio di far sapere il risultato. Bambini e adolescenti rubati non solo per rallegrare dei vecchi signori dal sangue stanco. Com’é difficile riportare i racconti di chi combatte il traffico. Non tutti finiscono nei registri delle agenzie che, a Santo Domingo, distribuiscono le immagini dei piccoli alle famiglie troppo sole del “nostro” mondo. Una parte delle bambine è subito rinchiusa in piccoli motel attorno a Dajabon, nella Repubblica Dominicana. Un missionario battista americano racconta dei loro pianti che arrivano in strada. E la polizia? Non vede e non sente. “Tutti sanno chi sono i trafficanti e dove nascondono i bambini: polizia, autorità, osservatori domenicani e haitiani. Non se la sentono o non possono parlare”. Al telefono le parole del gesuita Regino Martinez, direttore della fondazione Solidarietà lungo la Frontiera: un sussurro sconsolato. “Le autorità fanno finta di non vedere per non perdere i soldi che finiscono nelle loro tasche. Non vogliono rinunciare alla bella vita”. E il traffico dei bambini continua.
Corriere della Sera 1.12.10
Leopardi, un uomo verso l’infinito
Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
di Giorgio Montefoschi
Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
Da sempre, in tutti i suoi libri sugli scrittori, Pietro Citati è stato il «secondo» poeta o il «secondo» romanziere: il lettore che — come pensava Leopardi — legge un testo quasi lo avesse scritto lui, aggiungendo quello che manca, integrando, rendendo manifesto quello che il testo stesso nasconde. In questo suo ultimo libro, Leopardi (Mondadori, pagine 437, € 22), dedicato al poeta di Recanati (un libro che tutti quelli che amano e conoscono Leopardi dovrebbero leggere per poterlo conoscere e amare di più), Citati, con una furia, una passione e una umile dedizione difficili da trovare nei nostri giorni distratti dalle non-vicende della letteratura, ha superato se stesso. Perché, all’interno di una situazione carceraria terribile (quante volte corre nelle sue pagine questo aggettivo!), è riuscito a creare, o a portare alla luce, o a muovere, quello che di regola succede nei romanzi d’avventura. E cioè: l’avventura. E l’epos.
Il carcere è quello in cui Leopardi ha trascorso la sua breve e disgraziata vita: la famiglia ossessiva, il mondo chiuso di Recanati (che Citati non esita a definire «la peggiore incarnazione del male»), la malattia devastante, la sciagura del proprio corpo deforme ridotto a essere, negli ultimi anni tormentati dalla cecità e dalla impossibilità di leggere, un «tronco che sente e pena». L’avventura non è altro che l’avventura della meravigliosa mente di Leopardi e del suo cuore: essendo, la mente, quella che lo sospinge nella inesausta costruzione di un sistema del pensiero che ha l’ambizione di comprendere il Tutto e il mistero; laddove il cuore è il riparo nel quale l’anima precipita e si rifugia, nutrendosi delle sue «molli e morbide sensazioni», dopo lo scacco dell’Infinito, il rifugio nel quale, dopo il Vuoto e il Nulla, riappare la memoria (dolorosa, poiché perduta anche quella).
C’è un qualcosa di veramente maestoso (come nell’epos) e di veramente «tremendo», in questo conflitto inesauribile e continuamente contraddetto che Citati descrive: nella Resurrezione che è negata dal pensiero e risorge nel cuore; nella impresa impossibile di cogliere almeno «una goccia di infinito puro, senza che nulla di estraneo la contamini» (una impresa, scrive Citati, simile a quella di uno che «cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo»); nella volontà caparbia (e inevitabilmente contraddittoria) di dare esistenza solo ed esclusivamente al Nulla; nell’odio furioso che il poeta indirizza a se stesso, nel desiderio di autodistruggersi e abbandonarsi all’unica quiete possibile che è la quiete della morte, e insieme nel perduto, inconsolabile rinascere alla vita: segnalata dal tocco di un orologio, dal chiarore di neve in una stanza.
Il carcere dell’esistenza terrena, in una natura — dalla quale l’Età dell’Oro è scomparsa per sempre — che all’uomo è soltanto nemica e lo fissa muta semmai, di lontano, non garantisce altro che distruzione, infelicità e morte. Lo sforzo prodigioso del pensiero che contempla lo spettacolo tragico dell’universo e delle singole vite, e nel medesimo tempo cerca l’Infinito, è destinato al fallimento e si risolve in un fallimento. Il cuore, rappresentato dagli ondeggiamenti dell’anima che, dallo scacco dell’Infinito, precipita nel tempo — un viso, il suono di una voce, il canto di un uccello — non conosce che illusioni.
Tuttavia, nessuno di questi tre elementi del dramma (il carcere della vita, la mente, il cuore) avrebbe quella potenza dinamica che letteralmente lo schiaccia nell’anima di chi legge, se non ci fosse un quarto elemento a chiudere in modo inesorabile la prigione. Questo elemento, per dirla in parole semplici, è il limite. Il vero agente di ogni dramma che si svolge sulla terra. Ed è il limite che ci impedisce di vedere e di sapere (poiché il «culmine di ogni sapere è il riconoscere l’inutilità della ragione e di ogni filosofia»); il limite del ricordo che non si fa presente; il limite che contiene ogni parola e però ci garantisce che al di là di ogni al di là esiste un altrove.
Corriere della Sera 1.12.10
«Riconoscere i limiti della ragione umana» La lezione di Pascal
Genio della scienza, paladino della fede. La scommessa su Dio e il valore del Vangelo
di Dario Antiseri
«C’era un uomo che a dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, aveva creato le matematiche, che a sedici aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che si fosse visto dall’antichità; che a diciannove ridusse in una macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto; che a ventidue anni dimostrò i fenomeni dell’aria e debellò uno dei grandi errori dell’antica fisica; a quell’età in cui gli altri uomini incominciano appena a crescere, avendo compiuto il ciclo delle scienze umane, si avvide del loro nulla e rivolse i suoi pensieri alla religione; che da quel momento fino alla morte, giunto al trentanovesimo anno, sempre infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, diede il modello della più perfetta arguzia come del ragionamento più forte; che, infine, nei brevi intervalli dei suoi mali, risolvette per distrazione uno dei più alti problemi della geometria, e gettò sulla carta dei pensieri che hanno tanto del Dio quanto dell’uomo: quello spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal». Così René de Chateaubriand.
Dio e l’uomo. E il Dio di Pascal non è «il Dio dei filosofi e dei sapienti», ma è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Contrario a Cartesio «inutile e incerto», lontano dalla illusoria presunzione razionalistica degli Scolastici, Pascal tiene distinta la sfera della ragione da quella della fede: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento. (...) La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». D’altro canto, «perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria. (...) E chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?». La corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo: questi, dice Pascal, sono i due soli principi della fede cristiana. In Cristo scopriamo Dio e, davanti a Lui, non copriamo la nostra miseria. L’uomo non è un costruttore di senso, è un mendicante di senso: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le mani al Liberatore».
Sull’esistenza o non esistenza di Dio la ragione tace, «non può determinare nulla», e tuttavia la ragione può mostrare che scegliere Dio è tutt’altro che follia. Ed è qui che Pascal innesca il grande tema della «scommessa»: «Scommettere bisogna: non è una cosa che dipende dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? (...) Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare che Egli esiste».
Se Dio non scende nell’animo umano sulla scala dei nostri sillogismi, si dà anche che tutti i nostri «lumi» non sono in grado di farci conoscere la vera giustizia: «Nulla, in base alla pura ragione, è per sé giusto. (...) Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (...) Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Nel campo dell’etica la ragione si lascia piegare per ogni verso. E, difatti, è facile constatare che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». Ma, allora, dov’è che la morale potrà trovare il suo porto? Lo trova — dice Pascal — nella fede: la vera giustizia è quella «secondo a Dio piacque di rivelarcela». La vera giustizia è, dunque, la norma evangelica: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero né la giustizia». Una soluzione, questa, che — se da una parte spinge il non credente a riflettere, in un campo dove la logica non aiuta, su quanto l’Occidente deve al messaggio antropologico ed etico del Cristianesimo —, dall’altra pone il credente davanti ad un ineludibile interrogativo: il cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? Da quale ragione?
«Il più grande scrittore cristiano, più grande dello stesso Newman»: così T.S. Eliot ha definito Pascal. Ma intanto: Pascal è un «fideista» che umilia la ragione, o è piuttosto un «iperrazionalista» che ha messo e pone in guardia contro gli abusi della ragione?
Corriere Della Sera 1.12.10
1792, il primo appello alla parità tra i sessi
La rivolta di Mary: vita «scandalosa» di una donna libera
Wollstonecraft, uno spirito ribelle
di Maria Laura Rodotà
Mary Wollstonecraft nacque a Londra nel 1759, morì di parto nel 1798, e scrisse la Rivendicazione dei diritti della donna. Che per un secolo e mezzo fu libro trascurato — all’inizio fu deriso, lei fu a lungo nota soprattutto per la sua vita ritenuta immoralissima — ma che negli anni Sessanta del XX secolo venne rivalutato come testo precursore poi fondante del femminismo. A Vindication of the Rights of Woman, secondo molti studiosi/e, ha ancora per molti aspetti un approccio radicale; e analizza la condizione delle donne in una società governata dal mercato e dal profitto, in cui le figure femminili diventano merce di scambio e rappresentanza. E molti suoi giudizi sono abrasivi, e attuali. Uno per tutti: «Quanto è volgare l’insulto di chi ci raccomanda di diventare solo graziosi animaletti domestici?». Lo è, tuttora. Anche se il percorso esistenziale di molte donne intelligenti è un po’ più facile di quello di Wollstonecraft.
Scampata a una vita dickensiana grazie allo studio, alla scrittura, alla determinazione, all’anticonformismo. Seconda dei sette figli di un padre scialacquatore, studiò gli antichi, la Bibbia, Shakespeare e Milton con l’aiuto di un pastore amico di famiglia e di sua moglie. Priva di mezzi, lavorò come dama di compagnia, maestra, governante. Quando tornò a Londra e fondò una piccola scuola, entrò in contatto con la comunità dei Dissenzienti, pensatori radicali riuniti intorno al suo futuro editore e finanziatore Joseph Johnson. Tra loro c’erano Thomas Paine, William Blake, William Goodwin, e Heinrich Füssli: uno scrittore e artista sposato con cui Wollstonecraft ebbe una relazione. Fu l’inizio della sua vita scandalosa; pur di stare vicino a Füssli, lei propose alla di lui moglie una convivenza a tre. La giovane Mary era già un’autrice originale: dei Thoughts on the Education of Daughters, «Pensieri sull’educazione delle figlie», e di Mary, a Fiction, romanzo autobiografico che influenzò il movimento romantico. Lavorando con Johnson si appassionò agli illuministi francesi. Rousseau però non le piacque per niente. Nella Vindication lo attaccherà perchè nemico delle donne indipendenti, che vorrebbe la donna come «una schiava tutta civetteria per diventare una compagna più dolce per l’uomo ogni volta che questi desideri svagarsi. Si spinge addirittura ad affermare che… per ciò che concerne il carattere femminile, la virtù più importante è l’ubbidienza... Che sciocchezza!».
Intanto, nel 1789, iniziava la Rivoluzione francese. E il lavoro di polemista di Wollstonecraft. Rispose alle Reflections on the Revolution in France del conservatore Edmund Burke con A Vindication of the Rights of Men, uno dei pamphlet sui moderni diritti civili più letti in Inghilterra all’epoca. Tre anni dopo andò a Parigi, dove conobbe l’americano Gordon Imlay, visse con lui, in seguito ebbe una figlia, fu lasciata, tentò due volte il suicidio. Ma la trentenne appassionata, emotiva, un po’ masochista aveva già, nel 1792, pubblicato il suo capolavoro, la Rivendicazione. «Chi ha reso l’uomo unico giudice, se la donna condivide con lui il dono della ragione?», scriveva. Le donne dovevano coltivarlo. Dovevano poter studiare, ed essere considerate per il loro carattere e le loro conoscenze, non per l’aspetto fisico. Dovevano imparare dei mestieri, per potersi mantenere se rimanevano vedove e non doversi sposare o risposare per necessità. Dovevano interessarsi di politica, e chiedere piena cittadinanza. Wollostonecraft non teorizzava la totale parità tra i sessi. Scrive: «Dalla costituzione fisica, gli uomini sembrano essere stati concepiti dalla Provvidenza per raggiungere un grado più elevato di valore». Ma insisteva sull’eguaglianza morale.
Wollstonecraft consigliava poi di fondare i matrimoni più sull’amicizia che sull’attrazione fisica. E (anche per questo alcune la considerano una madre del «pensiero della differenza») di partorire con donne levatrici invece che con medici maschi. La seconda volta non ci riuscì. Il parto della figlia concepita con William Goodwin, che la sposò già incinta e fu poi il suo indiscreto biografo, fu difficile e mal seguito. Morì dopo dieci giorni di febbre puerperale. Sua figlia Mary Wollstonecraft Goodwin, moglie del poeta Shelley, scrisse il romanzo Frankenstein.
Corriere della Sera 1.12.10
Europa, Religioni e biotecnologie
Il no ai dogmi unisce tutti
Sull’alleanza tra tecnologia e scienza si gioca una partita decisiva per la crescita economica e sociale dell’Europa, per il suo progetto politico, per la leadership europea nel mondo. L’Eurobarometro misura periodicamente cosa pensano i cittadini delle nuove tecnologie dell’ambiente, dell’energia, della vita. L’ultimo Rapporto dell’Eurobarometro rileva l’ottimismo degli europei per le biotecnologie e la loro fiducia nelle decisioni pubbliche, ma anche l’ignoranza sulle nanotecnologie, le riserve sul nucleare e sull’etica della ricerca e i forti dubbi sugli Ogm.
Pensiamo spesso che un’etica pubblica condivisa sia resa impossibile dall’eterno conflitto tra verità di fede e verità scientifica. Invece, il Rapporto non attesta grandi differenze nella percezione delle biotecnologie tra chi crede e chi non crede, tra cristiani e non cristiani. Gli islamici sono i meno ottimisti, i non religiosi sono i più ottimisti, ma le distanze sono minime, come anche tra protestanti, cattolici e ortodossi. Maggiori sono gli scarti sulla ricerca su cellule staminali embrionali, con ancora ai due poli opposti i musulmani, ostili per il 65%, e i non religiosi, favorevoli per il 64%. Se poi si chiede agli europei chi debba prevalere tra scienza e religione, l’appartenenza confessionale non conta più. I musulmani si dividono (57% preferisce la scienza), come i cattolici e i non religiosi (in entrambe le fila, il 55% antepone la scienza alla fede). Si inverte la posizione tra i protestanti, non meno divisi al loro interno, per il 57% dei quali l’etica deve prevalere sulla scienza. Analogamente si dividono i credenti meno praticanti e quelli più praticanti, il quasi 50% dei quali antepone la scienza alla fede.
Sulle biotecnologie, gli europei non ubbidiscono ai dogmi, ma si interrogano e interrogano. Le chiese stesse preferiscono studiare e orientare, come ha fatto la Pontificia Accademia delle Scienze nel 2009 sugli Ogm. La fede alimenta il dibattito e rifiuta le barricate. È la forza di un’Europa che vuole discutere di biotecnologie senza guerre di religione.
Corriere della Sera
Test per immigrati e italiani somari
di Gian Antonio Stella
Più che giusto che i «foresti» conoscano la nostra lingua, però...
«Test italiano per gli immigrati», esulta la Padania. E sotto il titolone che domina la prima pagina spiega: «Al via dal 9 dicembre il decreto firmato dai ministri Maroni Gelmini: permesso di soggiorno solo a chi dimostra di conoscere la nostra lingua. Il principio è lo stesso che è contenuto nel pacchetto sicurezza».
Obiezioni? No. Certo, questo tipo di test fu usato in America e altrove «contro» i nostri nonni. Al punto che lo «scienziato» Arthur Sweeny, nel saggio Immigrati mentalmente inferiori — Test mentali per immigrati pubblicato da North American Revue nel numero di maggio 1922, se ne servì per teorizzare l’incapacità degli italiani di stare al passo con gli altri stranieri arrivati negli States: «Non abbiamo spazio in questo Paese per "l’uomo con la zappa", sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello». Nonostante il rischio che qualcuno se ne serva per prepotenze razziste, però, l’obbligo per chi viene a vivere in Italia di conoscere l’italiano non è affatto sbagliato.
Anzi, al di là della questione di principio (chi viene qua deve integrarsi: per il bene nostro, suo e dei suoi figli) perfino i più accaniti nemici di ogni regolamentazione del fenomeno immigratorio devono riconoscere che un filtro come questo può aiutare ad esempio a spezzare il cerchio infame con cui certi mariti riducono l e mogli i n schiavitù domestica o certi padroni cinesi riducono in schiavitù gli immigrati più poveri in tanti laboratori clandestini. Conoscere la lingua del Paese in cui si vive è essenziale per uscire e rompere l’isolamento.
Detto questo, una domanda: chi li preparerà, quei test per valutare l’italiano degli immigrati? Qualche burocrate di quelli che scrivono «obliterare» invece che timbrare o sostengono che «il treno non "disimpegna" servizio di prima classe»? Ne rideva già 45 anni fa Italo Calvino spiegando che il cittadino dichiarava «stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa...» e il brigadiere verbalizzava: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico...».
Li preparerà qualche funzionario locale? Di quelli come il segretario comunale di Ariano Irpino che usa parole come «meridianamente epifanica» o «devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico»? Scelga bene, il ministro Maroni. L’importante è che non affidi il compito di valutare se gli immigrati sanno l’italiano a certi amici di partito. Come il sindaco leghista di Montegrotto, Luca Claudio, che tempo fa fece scrivere polemicamente sui cartelli stradali luminosi della cittadina le seguenti parole: «Cittadini, emigrate! Vivrete meglio da immigrati in un’altro paese». Dove «un’altro» aveva l'apostrofo. Prova provata che i somari, in ortografia e grammatica, non son solo «foresti».