Repubblica 30.11.10
Il nuovo asse tra D’Alema e Veltroni mette un´ipoteca sulla leadership Bersani
di Goffredo De Marchis
Fassino candidato a Torino, ma rischia il bis di Milano
Nel colloquio di venerdì scorso dei due leader dubbi sulle ultime mosse del segretario
ROMA - Il ritorno della diarchia D´Alema-Veltroni sarebbe un ottimo argomento per la battaglia dei rottamatori. Un salto all´indietro di quasi quindici anni, un´alleanza tra diversi che più diversi non si può. Matteo Renzi e Pippo Civati stavolta potrebbero riempire uno stadio. L´intesa tra i due è in realtà ancora molto lontana. Ma la marcia di avvicinamento appare inesorabile, praticamente scritta nel destino di una coppia sul genere "né con te né senza di te". Il colloquio alla buvette di Montecitorio, avvenuto venerdì scorso, rappresenta una prima tappa. Si è volato alto quel giorno, affrontando la decadenza delle istituzioni impressa da Berlusconi e dalla sua maggioranza. Con un solo accenno al Partito democratico. È stato Veltroni a commentare con uno sguardo eloquente e non elogiativo la salita di Bersani sul tetto di Architettura. A quello sguardo D´Alema ha risposto con il silenzio. Ecco, le indiscrezioni dicono che sia D´Alema sia Veltroni, magari partendo da punti di vista diversi, hanno oggi dei dubbi sul ruolo e sulla forza del segretario.
Nella nuova stagione del disgelo, l´ennesima dopo altrettante di velenoso duello, possono trovare posto anche ragioni più terra terra. Dalemiani e veltroniani, cioè i gruppi dei fedelissimi, sono preoccupati dell´asse Bersani-Franceschini soprattutto per la composizione delle liste elettorali. Se si andasse alle elezioni a marzo, con i parlamentari nominati, il segretario e il capogruppo avrebbero la prima scelta sui nomi. Anzi, Bersani un mese fa ha convocato Franceschini e la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro comunicando loro che al tavolo delle candidature siederanno solo in tre: il leader e i due capigruppo. Non una buona notizia per le varie correnti del Pd. «Con Veltroni possiamo trovare un terreno comune per ridurre il peso di Franceschini», diceva qualche giorno fa il braccio destro di D´Alema, Nicola Latorre.
Un campo di azione condiviso e decisamente più importante l´ex premier e l´ex segretario del Pd lo hanno già trovato in questi giorni nell´analisi del dopo-Berlusconi. Governo di responsabilità nazionale, apertura decisa a Casini e al Terzo polo, individuazione di una premiership fuori dagli schemi partitici. Veltroni però ha insistito anche ieri sulla fumosità del tema alleanze: «Parliamo prima del partito». All´assemblea di Modem a Roma aveva anche detto che il problema del candidato premier è «l´ultima cosa». Non un´investitura per Bersani. D´Alema crede che il Pd abbia «un ottimo segretario». Ma ai suoi collaboratori ha confidato le perplessità non sulla persona ma sull´intensità con cui sta seguendo la linea di un´intesa con Casini. Latorre al Corriere, proponendo Vendola come socio fondatore del Pd, ha spiegato che «il partito deve cambiare rotta» e che le primarie di coalizione «vanno eliminate». Una critica al leader.
Sullo strumento delle primarie Bersani non ha mai nascosto i suoi dubbi. Però sono la sua fonte di legittimazione e ne difende il principio. Per tenerle ancora in piedi adesso il Pd è chiamato a organizzare bene quelle di Torino. Senza le sbavature di Milano. La candidatura di Piero Fassino è praticamente ufficiale, dopo la rinuncia di Profumo. Stavolta il rischio è mandare allo sbaraglio addirittura un fondatore del Pd. Nichi Vendola avrebbe appoggiato Profumo. Ma su Fassino non dà garanzie. Anzi, Sinistra e libertà ha pronto un candidato: Antonio Ferrentino, ex presidente della comunità montana, leader dei No Tav. Un pericolo per Fassino. E per la tenuta del Pd, per la stabilità del suo vertice.
il Fatto 30.11.10
L’incubo dei democratici: Vendola nel partito
La proposta di Latorre non piace a D’Alema e veltroniani
di Wanda Marra
“Personalmente mi piacerebbe molto diventare socio fondatore di un nuovo centrosinistra, in cui tutte le forze siano in grado di ristrutturarsi e di innovarsi profondamente anche dal punto di vista culturale”. Gentile ma deciso, alla fine arriva il no di Nichi Vendola all’invito di Nicola Latorre ad entrare nel Partito democratico. “Ho apprezzato molto il garbo e l'intelligenza della proposta, che ha il merito di rendere evidente la crisi di prospettiva del Partito democratico. Pone un problema e lo fa con coraggio”, spiega il governatore della Puglia. Che ancora una volta riesce a porsi di fronte a a quello che ancora sarebbe il maggior partito del centrosinistra da una posizione di forza.
Nichi Vendola turba i sonni dei dirigenti del Pd almeno fin da quando a luglio ha annunciato la sua candidatura alle primarie del centrosinistra ed è destinato a farlo ancora a lungo. L’ultima (provocazione?) è arrivata da Latorre che al Corriere della sera domenica ha dichiarato di pensare a un Pd non semplicemente allargato ad altri soggetti, ma addirittura rifondato, con il contributo diretto di Sel e del suo leader. Curiose dichiarazioni, per di più arrivate nello stesso giorno in cui Massimo D’Alema, scegliendo il Messaggero, proponeva di allargare le alleanze, in caso di voto, a finiani e centristi e ribadiva così la necessità di un governo di responsabilità nazionale di fronte “ad una crisi di sistema” che nessun governo “di parte” può risolvere.
DUE POSIZIONI alquanto diverse che arrivano da due dirigenti tradizionalmente molto vicini. E che ancora una volta evidenziano la mancanza di bussola dei Democratici. Al di là dei legami pugliesi tra Latorre e Vendola, il tema lanciato dal senatore democratico, almeno per come la mette lui, è quello di primarie “vere”, che non devono essere di coalizione (le quali “vanno eliminate”), ma di partito. Certo è che la proposta crea sconcerto, se non sgomento. Enrico Letta polemizza definendo una “forzatura” l’idea di allargare a Sel: “Vendola tante volte ha tentato di fare un’Opa sul Pd, ma spero che da adesso in poi abbia un atteggiamento positivo e propositivo anche perchè lui da solo, con un pezzo di Pd, non va da nessuna parte”. Stizzita e generale l’alzata di scudi nel partito. “Vogliono archiviare il Pd’', sostiene per gli ex popolari Beppe Fioroni, intervistato dal Corriere della Sera. Posizione condivisa dai veltroniani, che pensano che il Pd non debba farsi condizionare dalla sinistra radicale e, se fallisse l’intesa con l’Udc o il Terzo Polo, la soluzione migliore sarebbe la corsa solitaria dei Democratici, senza Sel né Idv. Veltroni, che venerdì durante l’assemblea all’Eliseo, aveva chiaramente collocato Vendola in una forza a sinistra del Pd, raggiunto dal Fatto quotidiano si rifiuta di fare “dichiarazioncine” ma poi parlando con le agenzie dribbla l’argomento: “La cosa peggiore che il Pd può fare è dividersi tra chi vuol fare l’alleanza con Vendola e Di Pietro chi con Fini e Casini’'. Anche i “franceschiniani” chiudono all’idea di Latorre. Per loro parla Pierluigi Castagnetti: "Una proposta intempestiva e molto estemporanea".
TRA TANTI contrari, c’è però anche chi è favorevole. “Ho già detto che bisogna andare oltre il Pd per ritrovare il Pd, che c’è bisogno di un nuovo Lingotto”, dichiara il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Mentre Ignazio Marino non da oggi ha dichiarato che Vendola dovrebbe iscriversi al Pd.
“Dialettici” rispetto al rapporto col governatore della Puglia sono i rottamatori Renzi e Civati. Il sindaco di Firenze, d’altra parte, aveva dichiarato già mesi fa: “Tra Vendola e Montezemolo tutta la vita Vendola”. D’altra parte, in qualche modo guardano nella stessa direzione.
E in mezzo a tutte queste manovre , che si giocano anche intorno alla sua leadership, cerca di mantenere una posizione di almeno simulato equilibrio Pier Luigi Bersani. Il quale d’altra parte si era spinto non più di un mese fa a proporre un gruppo unico con Sel e Idv e aveva anche accettato di andare alle primarie: “Adesso dobbiamo parlare di un governo di responsabilità istituzionale, di un governo di transizione che aggiusti rapidamente una legge elettorale disastrosa e faccia qualcosa per questa nostra economia”. Insomma per il segretario resta valido, in caso di voto, lo schema del Nuovo Ulivo, ovvero un nuovo centrosinistra, formato dal Pd, da Sel e da Idv, che si apre ad un’intesa con l’Udc.
il Riformista 30.11.10
Nel Pd si litiga sull’alleanza con Vendola
Democratici. “Nichi” declina l’offerta di entrare nel partito. C’è chi non lo vuole in coalizione
di Ettore Colombo
il Riformista 30.11.10
Pd apre a Vendola, era ora
di Peppino Caldarola
Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ Bersani: Asse Veltroni-D'Alema? Non mi occupo di chiacchiere
L'ho già detto anche ai diretti interessati
Roma, 30 nov. (Apcom) - "Sento un sacco di chiacchiere sul Pd che mi entrano da un orecchio e mi escono dall'altro". Così Pier Luigi Bersani, a Montecitorio, risponde a chi gli chiede cosa pensi dell'ipotesi che esista un asse tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni per sostituirlo alla guida del partito. "Adesso il Pd si concentra sui problemi del paese - avverte il segretario - e tutti sentiranno la responsabilità di fare questo. Io di certo non mi occupo di chiacchiere".
A chi gli chiede se convocherà un coordinamento per discutere di questi temi interni al Pd, Bersani scandisce: "Le riunioni le faccio continuamente e queste cose che ho detto a voi figuriamoci se non le ho dette ai diretti interessati...".
Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ D'Alema: Asse con Veltroni? Sono solo scemenze
"Il partito è unito dietro Bersani"
Roma, 30 nov. (Apcom) - Le voci di un 'asse' contro Pier Luigi Bersani tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni sono solo "scemenze". Lo dice il presidente del Copasir rispondendo ai cronisti in Transatlantico. Quando gli viene riferito che il segretario del Pd è parso irritato per queste voci, D'Alema replica: "Anche io lo sono, e credo anche Veltroni".
L'ex ministro degli Esteri ricorda: "Le cose che dovevo dire le ho dette in un'intervista di qualche giorno fa al Messaggero. Mi pare che sulle scelte fondamentali il nostro partito sia unito dietro a Bersani. Questo è il dato fondamentale, non c'è nessun asse".
Corriere della Sera 30.11.10
Gli adolescenti e il vuoto di regole da riempire
di Margherita De Bac
Indagine sugli studenti delle medie inferiori: il sorpasso di Internet sulla televisione
Famiglie «deboli» Le famiglie «deboli» preferiscono glissare piuttosto che dire dei no e affrontare i contrasti con i figli adolescenti
Il rischio «L’eccessivo coinvolgimento nella Rete toglie attenzione alla scuola e alle persone in carne e ossa»
ROMA — Affascina e funge da calamita nell’età dei cartoni animati e del «Mondo di Patty». Ma una volta girata la boa dell’infanzia, il piccolo schermo perde via via attrattiva, surclassato da un interesse preminente. Internet. Al primo posto tra le abitudini degli adolescenti, secondo l’ultima indagine della Società italiana di pediatria (Sip) svolta su un campione di 1.300 studenti delle scuole medie inferiori (12-14 anni).
Ne esce un’immagine nuova dei ragazzi che navigano nella fase più difficile e incompresa del ciclo vitale e familiare, come la definiscono nel bel libro «Storie di adolescenza», appena edito da Raffaello Cortina, gli psicoterapeuti Maurizio Andolfi e Anna Mascellani. Che non a caso dedicano un ampio capitolo alle addiction tecnologiche, chiamate anche dipendenze da console. La ricerca della Sip mette a fuoco inoltre esigenze e desideri dei giovani. Non è vero che amano fare il comodo loro. Anzi, vorrebbero genitori più interventisti sul piano delle scelte, dal modo di vestire al trucco, dallo sport alle amicizie, dalla dieta al tempo libero. Insomma, basta con madri e padri signorsì, con famiglie deboli che preferiscono glissare piuttosto che dire di no agli adolescenti e affrontare apertamente i contrasti con i figli in età di ribellione. «In queste situazioni si può creare un vuoto di potere pericoloso. Conquistano spazio allora modelli esterni alla famiglia che possono essere dannosi» commenta Maurizio Tucci, autore dell’indagine.
Per la prima volta si assiste al sorpasso di Internet sulla televisione. Gli intervistati che trascorrono nella rete più di tre ore al giorno sono il 17,2% contro il 15,3% dediti in egual misura alla tivù. Quest’ultima percentuale lo scorso anno era il 22%. Facebook è la protagonista incontrastata e batte sia Messenger sia i blog. Oltre il 67% degli intervistati ha un profilo sul social network, quasi il doppio rispetto all’indagine precedente. Più le ragazze dei ragazzi.
Alberto Ugazio, presidente dei pediatri italiani, lo giudica un «superamento ambiguo. Di per sé è un fenomeno positivo perché Internet è una straordinaria finestra sul mondo e contribuisce all’arricchimento culturale. Tutto dipende però dall’uso. Se le chat hanno la prevalenza allora si può scivolare verso comportamenti a rischio. Il mondo virtuale si sovrappone a quello reale».
Andolfi e Mascellani nel loro libro ricordano che la dipendenza da internet è stata riconosciuta come sindrome psichiatrica nel 1995. Il cosiddetto tech abuse: «L’eccessivo coinvolgimento nelle attività di rete — scrivono gli autori — distoglie l’attenzione da scuola e lavoro. I collegamenti prolungati anche nelle ore notturne portano allo sconvolgimento del regolare ciclo sonno-veglia. Ma ciò che è più grave è che diminuisce il tempo disponibile per le persone significative, in carne e ossa». Avvertimento alla famiglia. Non sottovalutare il pericolo web. Frequentare YouTube e le chat sono di gran lunga le attività principali mentre perde sempre più terreno la ricerca di informazioni per lo studio. Purtroppo crescono anche i comportamenti a rischio. I giovani del Sud una volta su tre comunicano il numero di telefono a sconosciuti. E sono sempre di più gli adolescenti che danno informazioni personali, si mostrano in webcam e accettano incontri con telenauti mai visti, soprattutto coetanei ma in certi casi adulti.
In compenso calano lievemente, di qualche punto, le dipendenze da sostanze. Sigarette e alcolici. Il consumo di birra (47%), vino (40%) e liquori (18%) resta comunque sostenuto e continua a costituire un allarme sociale. In crescita, e sottostimato, il consumo di canne. Il 9% del campione ammette di aver provato almeno una volta.
Corriere della Sera 30.11.10
La molecola che governa i geni
di Massimo Piattelli Palmarini
Forse si trasmette di padre in figlio: blocca o attiva il Dna
In Unione Sovietica Il discusso biologo stalinista Lyssenko si era imbattuto, senza saperlo, in queste trasformazioni
Non passa settimana senza che la principali riviste scientifiche pubblichino qualche scoperta sull’epigenetica subito ripresa dai giornali di larga diffusione. La trasmissione di caratteri ereditari non (il «non» va sottolineato) dovuti a istruzioni contenute nella sequenza del Dna fa un certo scalpore. Si va, in un certo senso «oltre» e «sopra» (in greco antico «epi») i geni, da cui il termine epigenetica. Il rischio di esagerare è forte. «Vittoria sui geni» titola la copertina di un recente numero del settimanale tedesco «Der Spiegel», aggiungendo che l’epigenetica può farci «più intelligenti, più sani e più felici».
Meno sensazionalista è il «New York Times», che esamina plausibili conseguenze sull’ereditarietà, la diagnosi e la possibile cura delle malattie psichiatriche. Il quotidiano inglese «The Guardian» nel marzo scorso parlava di rivoluzione epigenetica e suggeriva che il quadro classico dell’evoluzione neo-Darwiniana centrato sulla selezione naturale va rivisto.
Florian Maderspacher, redattore capo di «Current Biology» insorge contro queste esagerazioni e agita lo spettro di un ritorno dell’infame biologo stalinista Trofim Denisovich Lyssenko, nemico dei genetisti sovietici, che faceva tranquillamente spedire nel Gulag. Basandosi su un processo da lui chiamato «vernalizzazione», cioè un utile condizionamento del grano a climi rigidi, che sarebbe poi passato nel seme e trasmesso nelle coltivazioni successive, Lyssenko modificò l’agricoltura dell’Unione Sovietica con esiti ancora oggi discussi.
Era implacabile sostenitore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, una tesi particolarmente cara alla dottrina marxista in veste sovietica, in quanto prometteva di migliorare stabilmente l ’ umanità attraverso l’educazione e lo stile di vita del socialismo. Era un sinistro figuro, ma per certo si era imbattuto in trasformazioni epigenetiche delle piante, qualcosa che oggi viene studiata produttivamente e con ben altri metodi.
Assai meno mortifero e più spesso agitato è il timore di un ritorno del Lamarckismo, cioè della tesi (dovuta al biologo ed evoluzionista francese Jean - Baptiste de Lamarck, 1744-1829) che l’evoluzione proceda per un cumulo di tratti acquisiti in vita dagli antenati e poi trasmessi ai discendenti. Vediamo di mettere un po’ d’ordine in queste contrastanti notizie, evitando sia il trionfalismo che lo svilimento dell'epigenetica.
I cosiddetti marcatori epigenetici sono piccole molecole che si fissano mediante un normale legame chimico al Dna o alle proteine attorno alle quali il Dna si avvoltola nel nucleo delle cellule. Il Dna e tali proteine, chiamate istoni, sono molecole immense, nelle quali i marcatori epigenetici si inseriscono, un po’ come un sassolino in uno pneumatico di un autobus.
Ma, per piccolo che sia, il sassolino può far un po’ sobbalzare l'autobus ad ogni giro di ruota. Ebbene, questi piccoli gruppi chimici (detti in gergo gruppi metilici, acetilici, fosforilici, e un paio di altri) possono far traballare l'espressione dei geni ad ogni divisione della cellula. In particolare, a seconda di dove vanno a piazzarsi, possono mettere un gene a nudo, favorendone l’attivazione, o all’opposto schermarlo fisicamente, bloccandolo. La presenza dell’uno o dell’altro marcatore su questa o su quella posizione, in questo o quel gene (o nell’istone) è il risultato congiunto di interazioni con l'ambiente e della struttura chimica del gene (o dell'istone). Ora viene il bello.
È ipotizzabile che, insieme ai geni, la progenie possa ereditare anche questi marcatori, ereditando, quindi, un tipo di regolazione dell’espressione dei geni stessi, mediante un meccanismo, appunto, epigenetico. Detto un po’ sommariamente, l’ipotesi ancora da confermare è che non si ereditano solo dei geni spogli, ma dei geni corredati di marcatori epigenetici. In gergo, si erediterebbe un epi-genoma, non solo un genoma.
Dati inoppugnabili dicono che uno stesso gene, se ereditato dal padre, può avere una marcatura (imprinting) paterna, diversa da quella materna, con effetti diversi sui tratti biologici che questi geni contribuiscono a formare nella prole. Trattandosi di modifiche provenienti dall’ambiente cui è stato esposto l’uno o l’altro genitore, o perfino uno dei nonni, si ha una genuina trasmissione di caratteri acquisiti, senza alterazioni nella sequenza del Dna dei geni.
I meccanismi attraverso i quali avviene questo trasferimento da una generazione all’altra sono per ora ignoti e le ricerche fervono. La trasmissione in quanto tale è stata ben stabilita recentemente almeno in un numero di casi specifici ben accertati in specie distinte. La lista di tali casi, in continuo aumento, spazia dal colore del manto, l’appetito e la suscettibilità alle malattie in topi geneticamente identici, ma le cui madri sono state nutrite durante la gestazione con sostanze diversamente ricche in gruppi metilici, a reazioni di stress in pulcini la cui madre è stata sottoposta a shock, benché i pulcini stessi non siano stati sottoposti ad alcuno shock.
Nell’uomo, per adesso almeno, i candidati probabili, ma ancora non certi, sono collegati alla dieta, ricca o all’opposto da fame, cui sono stati soggetti i nonni, con effetti opposti tra le nonne e i nonni, rispettivamente al momento della formazione dell’ovulo (ancora nel ventre della loro madre) e degli spermatozoi (in fase di pre-pubertà). In Olanda, le nipotine delle nonne che soffersero la fame nella tremenda carestia dell’inverno di guerra 1944-1945 partoriscono oggi neonati più piccoli e gracili della norma, benché esse stesse non abbiano mai conosciuto la fame.
È veramente il ritorno del Lamarckismo, come alcuni sostengono gongolando e altri paventano? Non proprio. Innanzitutto perché l'effetto delle condizioni ambientali sui tratti epigeneticamente trasmessi è quasi sempre molto complesso e poco intuitivo. Per esempio, sembra proteggere dal diabete e dai disturbi cardiaci avere avuto un nonno che soffriva la fame da adolescente. Strano, no?
Non è certo la storia Lamarckiana tipica della giraffa cui si allunga progressivamente il collo, generazione dopo generazione, per poter mangiare i frutti degli alberi più alti. Inoltre, la trasmissione dei caratteri epigenetici, a differenza di quelli genuinamente genetici, spesso non è stabile. Infine, con buona pace di Lamarck, non c’è connessione stabilita, almeno per ora, tra trasmissione epigenetica e formazione di specie nuove. La scienza dell'epigenetica è ancora solo agli inizi, ma il dispiego di forze è imponente. Ne vedremo certo delle belle.
Corriere della Sera 30.11.10
La lettura aiuta il cervello ad attivare più neuroni
di Manuela Campanelli
L'istruzione rimodella il nostro cervello e apre in esso nuovi circuiti elettrici. Soprattutto il saper leggere arruola gruppi di neuroni di solito impegnati in altre funzioni. Ma quali? Per scoprirlo il ricercatore francese Stanislas Dehaene ha analizzato i cervelli di 63 soggetti, 31 di persone che avevano imparato a leggere da bambini, 22 di persone che hanno acquisito questa abilità da adulti e 10 di illetterati. Per ognuno è stata rilevata la risposta cerebrale alla lingua parlata e scritta e alla visione di facce, cose, strumenti e scacchi. «I risultati dimostrano che la lettura attiva aree primordiali come quelle deputate alla visione e al riconoscimento delle facce che vengono riutilizzate per lo svolgimento di questa funzione cognitiva che si è sviluppata recentemente, circa 5 mila anni fa, rispetto alla lingua parlata» spiega Gianluca Romani, professore di Fisica all'Università di Chieti. «Chi sa tuttavia leggere attiva meno le zone cerebrali adibite al riconoscimento delle facce con la visione delle facce piuttosto che con le parole scritte di chi è illetterato. Segno che la scolarizzazione le ha disabituate a svolgere un compito più prestorico».
Corriere della Sera 30.11.10
Con la forza del pensiero si sposta il cursore del pc
di Minnie Luongo
D'ora in poi i cursori si potranno controllare con dei semplici pensieri: questo l'annuncio della Society for Neuroscience di San Diego (Usa). «Un nutrito gruppo di volontari ha imparato in soli sei minuti come spostare un cursore sullo schermo grazie alla forza del pensiero» dice l'autrice della ricerca, Anna Rose Childress della University of Pennsylvania School of Medicine. Lo studio consisteva di due parti: la formazione informatica e l'effettivo controllo del cursore. Durante l'addestramento, i computer hanno riconosciuto due distinti schemi cerebrali: nel primo, i partecipanti sono stati invitati a pensare di colpire una palla da tennis; nel secondo, hanno immaginato di spostarsi da una stanza all'altra. Ogni insieme di pensieri veniva collocato, in corrispondenza con l'attività immaginata, in una specifica parte del cervello. I volontari hanno quindi ripetuto i medesimi modelli di pensiero, spostando un cursore sullo schermo. Conclusione: «Tutti sono stati capaci di spostare il cursore, alternando i pensieri e creando veri schemi cerebrali, subito riconosciuti dal computer».
Corriere della Sera 30.11.10
Grandezza dei corrotti che hanno fatto la storia
Pericle, Cesare, Napoleone: tutti tentati dal denaro
di Paolo Mieli
Il primo ministro Walpole si arricchì in modo illecito ma portò l’Inghilterra settecentesca al rango di potenza mondiale
La meschinità del bene Eichmann era un esecutore fidato mentre il nazista corrotto Becher consentì a parecchi ebrei di salvarsi
C’è una curiosa circostanza nella storia dell’umanità: alcune (molte) grandi personalità ancor oggi venerate o comunque tenute in alta considerazione, ai tempi in cui sono vissute sono state accusate di essersi lasciate tentare dal denaro. Accuse che per lo più sono sempre state corroborate da prove robuste. Nel V secolo a.C. l’«incorruttibile» Pericle fu sospettato di aver lucrato sui lavori pubblici per la costruzione del Partenone e lo scultore che su suo incarico sovraintese tra il 447 e il 432 a.C. ai lavori, Fidia, fu trascinato in giudizio con l’imputazione di aver sottratto parte dell’oro destinato alla statua di Atena. Riferisce Plutarco che un secolo dopo, nel 324 a.C., Demostene, il difensore dell’indipendenza ateniese da Filippo il macedone e da Alessandro Magno, fu pesantemente implicato nell’«affare Arpalo» (la sparizione di metà del patrimonio sottratta ad Alessandro dal suo tesoriere) e costretto all’esilio.
Racconta Svetonio che pure su Giulio Cesare gravò il sospetto di essersi procurato illecitamente grandi quantità di denaro. Un sospetto che è aleggiato anche sui suoi uomini e sui suoi rivali: «gli abiti dei suoi governatori erano fatti solo di tasche», ha scritto Bertolt Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare; e Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — estese l’accusa di malversazione a Crasso e Pompeo, rei di aver introdotto «l’uso di corrompere il popolo con i soldi». Un grande moralista dell’antichità fu Marco Porcio Catone detto «il censore». Eppure — scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio — la «corruzione a Roma non è mai stata sfacciata come ai tempi di Catone». Qualche insinuazione avrebbe poi colpito lo stesso Seneca. Pesanti sospetti si addensarono su Sallustio il quale, dopo essere stato governatore della Numidia, si ritrovò tra le mani un patrimonio che gli consentì di costruire a Roma una splendida villa nei pressi del Quirinale: «Si farebbe del moralismo», ironizza Luca Canali in Identikit dei padri antichi (Manifestolibri), «affermando che il moralismo di Sallustio deriva dalla sua presunta immoralità».
A Roma, nell’età dell’impero, l’accaparramento illecito dilagò e in alcuni casi fu sfrenato. Successivamente qualcosa cambiò. Interessante, a tal proposito, la notazione di John T. Noonan — in Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese (Sugarco) — secondo il quale il fenomeno si attenua con la diffusione della morale cristiana, nell’età dei barbari e nel primo Medioevo.
In tempi più recenti, l’uso del potere per accumulare ricchezze caratterizzò a Parigi l’attività di Richelieu che Montesquieu definì «il peggiore cittadino di Francia» (Luigi XIV, appena incoronato, istituì una corte di giustizia incaricata di esaminare la contabilità del cardinale e tale corte individuò numerosi episodi di abuso) nonché quella di Mazarino. Prima di loro c’era stato Jacques de Semblançay, tesoriere di Luigi XII e di Francesco I, impiccato per aver rubato del denaro pubblico, il quale, a dispetto delle sue malefatte, aveva ispirato a Clément Marot un poema pieno di ammirazione. Grande predatore fu anche il sovrintendente di Luigi XIV Nicolas Fouquet — protettore di Corneille, La Fontaine, Molière — che nel 1661 diede, nel suo castello di Vaux-le-Vicomte, una festa sfarzosa al punto da provocare addirittura la gelosia del re, che lo fece condannare alla prigione perpetua nella torre di Pignerol (ma il popolo di Parigi esultò alla notizia che gli era stata risparmiata la pena capitale).
In Inghilterra sir Robert Walpole, al potere dal 1721 al 1742, riuscì sì a far grande il suo Paese, ma anche a procurarsi illecitamente ingenti somme di denaro e, per questa sua debolezza, divenne il bersaglio di Jonathan Swift, oltre che di molti altri scrittori dell’epoca: Henry Fielding, Alexander Pope, John Andrews, John Gay (nel 2000 Edward Pearce ha scritto una biografia in cui lo ha del tutto rivalutato: «Forse era corrotto ma almeno si comportava da adulto»). Ai tempi della Rivoluzione francese e nei sedici anni successivi si lasciarono corrompere Danton, Sieyès, Brissot, Barère, Barras, Napoleone (assieme a quasi tutti i suoi familiari), ma soprattutto Talleyrand. Quest’ultimo operò in modo talmente sfacciato che Napoleone lo definì come «l’uomo che più ha rubato al mondo»; Chateaubriand scrisse che praticamente non c’era stato un solo atto politico che egli avesse compiuto gratuitamente; Mirabeau sostenne che per i soldi Talleyrand si sarebbe venduto anche l’anima (aggiungendo: «e avrebbe ragione perché cambierebbe la merda con l’oro», confermando la definizione che di lui aveva dato il Bonaparte: «merda in una calza di seta»). Offese alle quali Talleyrand rispose sempre con grande flemma. Allorché fu vittima di un violentissimo attacco lanciatogli dal duca di Fitz-James, il principe di Benevento reagì felicitandosi con l’oratore per l’eccellente discorso, «malgrado delle piccole cose un po’ aspre».
Per chi abbia voglia di ripercorrere la storia di questo genere di depravazione connessa al potere è adesso a disposizione un bel libro di Carlo Alberto Brioschi, Il malaffare (Longanesi), che si sofferma su innumerevoli casi di «mani sporche» dall’antichità ai giorni nostri. Ciò che impressiona maggiormente nel leggere il libro di Brioschi è la quantità di grandi personaggi ancora adesso rispettati e — come si diceva all’inizio — tenuti nel conto di benemeriti nella storia dell’umanità che non disdegnarono di barattare il loro rigore morale con danaro e potere. E qui sorge spontanea la domanda: come è possibile che, pur condannando in ogni momento la corruzione, non teniamo in alcun conto la circostanza che molti grandi della storia si siano lasciati corrompere? Per una risposta (che contiene un’analisi approfondita del fenomeno) ci giunge in aiuto Le virtù discrete della corruzione di Gaspard Koenig (pp. 228, € 16), che esce domani per Bompiani. Il libro, scrive Koenig, «non è un appello alla corruzione, ma la difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato, al quale forse siamo debitori di ciò che abbiamo di meglio». Difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato? Al quale dovremmo considerarci addirittura debitori? In che senso?
Modello di questo trattato è La favola delle api di Bernard de Mandeville (la migliore versione italiana è forse quella curata da Tito Magri per i tipi Laterza), che trecento anni fa suscitò uno scandalo destinato a durare decenni. Secondo Sergio Ricossa — in I grandi classici dell’economia (Bompiani) — quello di Mandeville è un piccolo capolavoro, tant’è che quasi tutti gli studiosi venuti dopo di lui, a cominciare da Adam Smith, hanno tratto ispirazione dal suo poemetto pur senza tributargli l’onore che avrebbe meritato (con l’eccezione di Marx che nel Capitale gli rende esplicito omaggio). Solo nel Novecento due grandi economisti, John Maynard Keynes e, sul versante opposto, Friedrich von Hayek, l’hanno rivalutato appieno. Tesi centrale in Mandeville — come si evince dal sottotitolo del libro Vizi privati, pubblici benefici —è che una società onesta è una società stagnante, mentre la corruzione genera una circolazione incessante di beni e di status. «È impossibile», scrive Mandeville, «avere tutte le dolcezze più raffinate della vita, presenti in una nazione industriosa, ricca e potente e conoscere allo stesso tempo tutta la virtù e tutta l’innocenza che ci si augura»; «quelli che vogliono rivedere un’età dell’oro, devono essere anche disposti a nutrirsi di ghiande»; «la virtù ci comanda di sottomettere i nostri appetiti, ma la buona educazione ci chiede soltanto di celarli». Scrive ancora Mandeville: «Sarei pronto a gloriare la fortezza e il disprezzo delle ricchezze come Seneca, e scrivere in difesa della povertà il doppio di quello che lui ha scritto, per un decimo delle sue proprietà».
Secondo Mandeville il grande nemico della corruzione è nient’altro che un «indolente»: «Volete metterlo alla prova? Colmatelo di onori e di ricchezze; non tarderà a conformarsi al mondo elegante, riderà di buon cuore di quella frugalità e di quel disprezzo delle ricchezze e della grandezza di cui faceva professione nel tempo in cui era povero; e ammetterà volentieri la futilità di quelle pretese ragioni». Quanto ai politici, «i ministri competenti, virtuosi, disinteressati sono i migliori; ma nell’attesa ci vogliono dei ministri». C’è da aggiungere che secondo Montesquieu (in Lo spirito delle leggi) «gli uomini furfanti al dettaglio, sono all’ingrosso gente molto onesta». E Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio spiega bene come i membri del corpo sociale, una volta corrotti, sia impossibile riformarli.
Nella storia del cristianesimo, Koenig giudica centrale la figura di Giuda Iscariota: senza Giuda niente crocifissione, senza crocifissione niente redenzione, senza redenzione niente cattolicesimo. Se la corruzione di Giuda è così determinante, è perché riflette la corruzione generale del mondo a partire dal peccato originale, corruzione che apre la possibilità di una redenzione tramite la fede e che non verrà cancellata, se non nel momento della resurrezione e del giudizio finale. Utile guida a meglio comprendere questi concetti è Le tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges. Qui Giuda sarebbe il vero figlio di Dio, di un Dio totalmente fatto uomo, con tutte le debolezze dell’uomo. Gesù l’incorruttibile sarebbe invece un impostore. L’uomo, quello vero, il solo degno, alla fine, di essere l’oggetto di una religione, è Giuda. Se ogni essere umano ha un prezzo, Giuda ha trovato il suo. Non gli si può rimproverare niente «se non forse la somma, stranamente poco elevata, per un uomo che era il tesoriere degli apostoli… con mille denari, scommettiamo che Giuda non si sarebbe suicidato e avrebbe trascorso dei giorni felici in Galilea».
Il corrotto allaccia e rompe le amicizie al ritmo degli affari. Ma deve anche fare i conti con i suoi nemici tradizionali: «I forsennati della lotta anticorruzione, i crociati della trasparenza, gli isterici della avversione al denaro sporco». Gente che traveste il proprio risentimento con l’esigenza di giustizia o di verità. Quel genere di «filosofo» che, secondo Mandeville, «si crede virtuoso solo perché le sue passioni si sono addormentate… e sentendosi inutile ai suoi concittadini, si vendica esortandoli a praticare una noiosa virtù che non è in grado di incitare a cose grandi e a imprese pericolose». Una vita temperata, vale a dire non corrotta, non procura alcun rispetto perché non produce alcun potere. La virtù è simile alle porcellane cinesi, molto belle a vedersi dal di fuori ma «guardate l’interno di ognuna, non vi troverete che polvere e ragnatele».
Il ritratto del fenomeno corruzione va fatto — secondo l’autore — mettendo in risalto i chiari e gli scuri. Nietzsche, in Al di là del bene e del male, afferma che i refrattari alla corruzione sono persone «inguaribilmente mediocri», che hanno come «unica prospettiva di riprodursi e perpetuarsi». Lo stesso filosofo, nella Gaia Scienza, descrive le epoche della corruzione come quelle in cui «la tragedia si aggira per le case e le strade, nascono il grande amore e il grande odio e la fiamma della conoscenza si alza splendente verso il cielo». Poi così prosegue: «Gli uomini della corruzione sono spiritosi e bugiardi, sanno che ci sono altri modi di assassinare, oltre al pugnale e all’agguato»; «le epoche di corruzione sono quelle in cui le mele cadono dagli alberi: voglio dire gli individui, quelli che portano il seme dell’avvenire».
Un potere non corrotto sarebbe, secondo Koenig, un potere vuoto, formale, senza efficacia, privo di qualsiasi presa reale sul mondo. Per imporre la propria volontà, bisogna aprirsi agli altri, comporre le diverse influenze, costruire delle reti offrendo favori piccoli o grandi, venire a patti con le proprie convinzioni, cambiare una parte di se stessi. Ecco perché si sentirà gridare fino alla fine dei tempi contro i governanti: «Tutti marci!» o «tutti lo stesso!»… mentre la disonestà spesso è garanzia di buona gestione. «Un potere onesto, trasparente, fermo nei principi, sarebbe debole per natura; per contro una corruzione senza potere è un non senso: perché corrompere qualcuno che non può far niente per noi? Perché farsi corrompere da chi non ci può dare niente?».
È quel che disse alla fine del XIX secolo Lord Acton: «Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente», scrisse in una lettera del 5 aprile 1887 a Mandell Creighton, «i grandi uomini sono quasi sempre dei cattivi uomini». Il nobile barone inglese, osserva Koenig, «non intendeva assolutamente fare l’elogio della corruzione; paradossalmente, il suo liberalismo, che pone l’interesse individuale sopra ogni altro movente, lo porta a una tesi così drammatica e così profondamente realista». Quanto poi a l mondo limpido dell’Utopia, George Orwell «ha ben descritto dove porta il fanatismo della trasparenza: l’individuo diventa come una medusa, traslucido e vuoto».
George Orwell in 1984 spiega come il totalitarismo sia il più feroce avversario della corruzione (e viceversa). L’eroe del suo libro, per difendersi dal Grande Fratello ripone in essa aspettative di libertà: «Tutto ciò che lasciava intravedere una corruzione», scrive, «lo riempiva sempre di una folle speranza». Di più. C’è un capitolo del famoso libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli), che raccoglie le corrispondenze della scrittrice sul processo al criminale nazista scritte per il «New Yorker», in cui si parla diffusamente di Kurt Becher. E chi era Becher? Un nazista corrotto, laddove Eichmann era stato incorruttibile. Eichmann si era presentato come un uomo ligio ai doveri di cittadino che rispetta la legge, fiero di esibire un «atteggiamento senza compromessi», dettato «non dal fanatismo, ma dalla sua stessa coscienza». Tutto il contrario di Becher, che si muoveva nei meandri della corruzione. E così mentre Eichmann arrivava a deportare in qualche mese più di 400 mila ebrei ungheresi, Becher, su incarico di Himmler, aveva come «missione speciale» l’assunzione del controllo delle principali imprese ebraiche. Con ogni mezzo. Per mettere le mani sul cartello dell’acciaio di Manfred Weiss, Becher — dietro compenso — consentì a 45 membri della famiglia Weiss di emigrare verso il Portogallo. Eichmann seppe di queste attività e le definì «porcherie». Ma Becher se ne infischiò e fissò, anzi, una tariffa di duemila dollari, pagando i quali gli ebrei potevano mettersi in salvo. Fu così che 1.684 israeliti sfuggirono alla rete di Eichmann. Poi Becher mise a punto un programma, «vita contro merci», che prevedeva lo scambio tra la vita di un milione di ebrei e 10 mila camion. Il piano fallì, ma intanto le fortune di Becher crebbero. In tempo di guerra Becher ottenne una promozione che Eichmann non riuscì ad avere e, caduto il Terzo Reich, non solo si salvò ma, grazie al tesoro che si era procacciato nei modi di cui abbiamo detto, visse il resto della sua vita come uno degli uomini più ricchi della Germania occidentale.
La Arendt ci induce a riflettere sul fatto che la virtù era certamente di casa nella coscienza di Eichmann, un cittadino «che rispetta la legge ma non la vita». La corruzione invece era al centro dell’universo mentale di Becher, «un uomo senza morale che salva delle vite». Koenig ne trae la conclusione che «il gioco degli interessi comuni produce dei risultati più ponderati che i precetti della coscienza individuale; attraverso le tentazioni, la vita oltrepassa la freddezza mortale dei principi… Trafficando in "vite contro merci", Becher rispondeva infine a una inclinazione vitale, non perché si preoccupasse della vita degli altri, ma perché pensava alla sua». Dopodiché l’autore aggiunge: «non vogliamo concludere che la corruzione si trova infallibilmente dalla parte del bene… ma, invitando a scegliere il compromesso, contro il fanatismo morale, essa quanto meno sta, per sua natura, dalla parte del male minore». Per concludere: «Alla banalità del male, che elimina ogni tentazione, rispondiamo con la meschinità del bene, che spesso consiste, lontano da ogni eroismo, nel dare ascolto ai propri interessi». E poi: «La lotta contro la corruzione in nome della sacrosanta "trasparenza", non solo rischia di avvelenare i rapporti sociali, ma minaccia anche di impoverirci; prima di intraprendere le consuete crociate contro i fondi neri, i nostri uomini politici dovrebbero calcolare quanti punti di Pil bisognerebbe sacrificare per vivere in un mondo onesto, in cui i contratti si firmassero alla luce del sole e venissero regolarmente denunciate tutte le transazioni». Una tesi ardita come del resto l’intero contenuto di questo libro. Ma meritevole di una qualche riflessione.
Corriere della Sera 30.11.10
Il mondo guarda all’Asia. Ma il declino dell’Occidente non è scontato
di Federico Fubini
Il nuovo libro di Federico Rampini sull’«epoca di transizione» che stiamo vivendo, tra storture del capitalismo e nuovi spettri
A oltre tre anni dall’inizio della grande crisi, i soli Paesi che rispettano le regole inventate dall’Occidente sono altrove: in Asia, anche incluso l’indebitatissimo Giappone, il deficit pubblico dei vari governi viaggia in media al 2,8 per cento del prodotto l ordo. L’Asia, con al centro la nuova superpotenza cinese, è in regola con Maastricht proprio mentre la zona-euro rischia il naufragio e il disavanzo americano sembra stratosferico e irriducibile.
Federico Rampini, corrispondente di «Repubblica» da New York, ricorda molti di questi dati a sostegno di una tesi di fondo: viviamo un’epoca «di trapasso da un’egemonia occidentale a qualcos’altro che ancora non sappiamo quale forma avrà». Rampini in realtà nel suo ultimo libro ( Occidente estremo, Mondadori, pp. 289, € 18) precisa subito qualche tratto essenziale di questa migrazione del potere economico e geopolitico: «Viviamo un secolo segnato dalla transizione storica, dal ritorno del centro degli eventi verso Oriente». E oggi uno dei principali protagonisti è Barack Obama, per l’autore «una figura tragica, perché il destino gli ha consegnato un compito crudele: gestire al meglio un declino secolare».
Declino americano (e europeo) contro ascesa asiatica e logica di potenza cinese. Fascino della decadenza, dai parchi di New York alle splendide università della California, contro il volto spesso respingente e la natura forse fragile del regime di Pechino. È questo il campo nel quale Rampini, come nel suo precedente Slow Economy (Mondadori) sceglie di muoversi. Occidente estremo lo fa con una galleria rapida e vivida di situazioni e personaggi. Ci sono le «balene», gli obesi americani sempre con pop-corn e maxi-bibite in mano, per i quali ormai i cinema hanno installato sedie sempre più larghe. Rampini vede in queste «creature abnormi» un «concentrato di tutte le storture dello sviluppo capitalistico», quello che per decenni in America ha spinto i consumi personali all’eccesso e a qualunque costo.
Molti degli spettri del declino che con la crisi l’America avverte acutamente, si aggirano in realtà nel sistema dell’istruzione. Si scopre che gli asiatici e i cinesi in particolare, dall’approdo alle elementari, passano a scuola molto più tempo degli americani. Misurato in ore è un margine del 30 per cento, quarantuno giorni di istruzione in più all’anno che si fanno sentire nel successo crescente degli asiatici nelle migliori università americane, dalla Columbia di New York a Stanford.
Ma se c’è una lezione dagli anni Novanta, quando l’America sembrava l’iperpotenza incontrastata, è che niente è scritto in anticipo. La tentazione di proiettare il presente nel futuro, concludere che questo è il secolo della Cina, può nascondere trappole. Rampini lo sa e non dimentica di indicare i punti nei quali il progetto egemonico di Pechino rivela già «le prime crepe». Il più evidente è il dissenso sempre meno contenibile fra le etnie minoritarie e fra gli oppressi. Non solo i tibetani, la cui gioventù a Lhasa protesta «come nell’Intifada palestinese o nelle banlieues parigine». Simili tensioni si avvertono anche fra i musulmani uiguri del Xinjiang ma anche fra gli operai sottopagati di etnia han. Il regime, impaurito, fa concessioni ai lavoratori ma reprime le rivolte etniche. Ed è proprio questa rigidità, nota Rampini, che impedisce alla Cina di esprimere la stessa creatività che rende gli Stati Uniti tutt’ora ineguagliabili. Il travaso di potere da Ovest e Est starà forse accelerando. Ma se c’è qualcosa che oggi crea tensione, è soprattutto l’incertezza sull’esito finale.
Repubblica 30.11.10
Il filosofo ha scritto un saggio sul rapporto con l’altro da noi
Curi: "Quando lo straniero misura la nostra identità"
di Marco Filoni
Chi è lo straniero? L´immigrato, l´extracomunitario, il forestiero. O anche il rom. Oppure "l´altro", "il diverso" da noi. Umberto Curi, filosofo e docente a Padova, a questo termine ha appena dedicato un libro felice e riuscito. «Sono partito da un concetto di Freud, il perturbante, perché restituisce il tratto di un´ambivalenza irriducibile e costitutiva. Il padre della psicoanalisi mostra che proprio ciò che appartiene all´ambito domestico è massimamente perturbante: la cosa a noi più vicina è in realtà carica di una forza inquietante. L´esplorazione di questa dimensione di ambivalenza mi sembra il punto di riferimento più adeguato per trattare una figura che, sia dal punto di vista concettuale che linguistico, si mostra essere inevitabilmente duplice: lo straniero».
Non a caso non esiste nessuna lingua che traduca perfettamente il concetto freudiano di perturbante. Tranne una: il greco antico, con Xenos. Che è anche il termine usato per indicare lo straniero.
«Infatti è proprio su questa originaria ambivalenza linguistica che poi se ne costruisce una più generale. Nel senso che straniero è colui che, venendo dall´esterno, pone il problema dell´accoglienza e dell´ospitalità. Ma insieme pone anche l´aspetto della minaccia. Sono due caratteristiche insolubili. Non è mai possibile ridurre l´hostis, il termine latino per indicare lo straniero, semplicemente a ospite; così come non è possibile ridurlo soltanto a nemico. È sempre ospite e nemico insieme».
La nozione dell´ospitalità chiama in causa quella del dono. Qual è il rapporto fra lo straniero e il dono?
«Sono figure simili, riflettono un´identica condizione. Come insegnano i classici greci e latini, il dono è sempre un inganno. Si presenta come qualcosa che al tempo stesso conferisce e sottrae. È qualcosa che aggiunge, ci dà qualcosa in più. Ma al tempo stesso vincola, ci mette in una condizione di subalternità. È esattamente ciò che accade con lo straniero. Non c´è dubbio che sia portatore di un dono. E questo dono è il conferimento della nostra stessa identità. È bene non dimenticarlo: possiamo definire la nostra identità solo in rapporto con l´altro da sé, e ciò che è veramente altro è lo straniero. Però lo straniero è accompagnato in maniera indissolubile da un´inquietante carica di minaccia».
Ed è questo aspetto che crea e alimenta la paura…
«L´atteggiamento nei confronti della paura è uno degli aspetti più rivelativi della miseria culturale del nostro dibattito. Perché sulla paura sono state costruite le fortune di alcune forze politiche italiane. Attraverso la paura è più facile esercitare il controllo sociale e acquisire comodi successi politici. Tutte le così dette politiche del rifiuto si fondano su questo aspetto».
Sullo straniero si è creato un mercato della paura: come venirne fuori?
«Rovesciando il processo. Oggi si discute, si deliberano con grande sicurezza provvedimenti e iniziative di carattere legislativo senza essere sfiorati dal dubbio, senza il minimo di problematicità. Nessuno s´è preso la briga di approfondire e capire la figura dello straniero. Al contrario bisognerebbe aprire una riflessione rigorosa e approfondita per cogliere la sua polivalenza. Tenendo ben distinte l´ospitalità, nozione filosofica, dall´accoglienza, che è invece uno dei possibili atteggiamenti politici con i quali affrontare la questione».
Repubblica 30.11.10
Alle cavie da laboratorio è stato manipolato l’enzima della telomerasi La ricerca americana pubblicata su Nature genera speranze e qualche dubbio
Il gene che fa ringiovanire l’elisir dai topi senza età
di Angelo Aquaro
Non è facile riconoscere il ritratto di Dorian Gray nel faccino di un topo da laboratorio. Ma l´esperimento riuscito nella prestigiosissima Medical School di Harvard sembra davvero la realizzazione del sogno inseguito dai tempi di Narciso. Fermare l´orologio dell´età. Anzi: farlo addirittura tornare indietro nel tempo.
Il mito dell´eterna giovinezza si nasconde in un enzima chiamato telomerasi. E gli esperimenti che hanno mandato in subbuglio la comunità scientifica sono placidamente riassunti dal professor Ronald DePinho così: «I topolini avevano un´età che può essere comparata agli 80 anni di un uomo: erano sul punto di morire. Dopo l´esperimento, avevano invece l´aspetto fisiologico di un giovane adulto».
L´annuncio che arriva da Boston fa già discutere. Correggendo un gene gli scienziati sono riusciti a fermare una malattia del cervello, a ridare ai topi l´olfatto perduto e perfino la capacità di procreare. E il professor DePinho ora giura alla Cnn che questo «è solo l´inizio di un cammino che potrebbe nei prossimi anni riguardare anche l´uomo». Certo, i fattori che determinano l´invecchiamento sono tanti: ma l´esperimento genetico ci dimostra che «esiste un punto in cui si può tornare indietro».
Le conclusioni della ricerca apparsa su Nature e rilanciata dal Wall Street Journal fanno venire i brividi. E anche se la sensazionale scoperta è stata fatta utilizzando dei topolini che, poveretti, erano stati preventivamente invecchiati sempre geneticamente, gli scienziati sono fìduciosi di poter presto ripetere il test con cavie invecchiate naturalmente.
L´enzima dei miracoli è quella telomerasi che forma piccole unità di Dna che fungono da "tappo" ai cromosomi. Queste particelle di Dna si chiamano telomeri e potrebbero essere rappresentati come i tappetti di plastica che chiudono le estremità dei lacci da scarpe: i lacci, in questo caso, sarebbero i cromosomi e i telomeri eviterebbero così la frammentazione e il disfacimento del Dna. Una scoperta, quella di telomeri e telomerasi, recente: appena un anno fa tre americani hanno vinto il Nobel della medicina.
Con l´invecchiamento, i telomeri si accorciano sempre più, impedendo quella divisione cellulare che è alla base della continua formazione dei tessuti: gli organi si atrofizzano, le cellule del cervello muoiono. Da qui l´ipotesi del team di Boston: riattivando i telomeri si può far ripartire l´orologio del tempo?
Gli scienziati hanno usato un farmaco a base di estrogeni per riaccendere il Tert che condiziona la telomerasi. Dopo un mese, la sorpresa: i topini che erano stati così trattati hanno riacquistato le funzioni vitali. DePinho e il suo team sono insomma conviti di aver «invertito i segni e sintomi dell´invecchiamento: rimuovendone le cause». Ma c´è un altro step da superare. La tecnica è sicura?
Il nemico più temuto si chiama tumore. Il 90 per cento dei tumori che si sviluppano nell´uomo richiedono proprio una certa quantità di telomerasi per propagarsi. E molti ricercatori stanno cercando di "disattivare" la telomerasi proprio per combattere la formazione del cancro. E se la "riattivazione" dell´enzima per fermare l´età, ci si chiede, favorisse, al contrario, proprio la propagazione del tumore?
Sono domande a cui l´équipe di Boston sta cercando adesso di rispondere. Ma una buona notizia c´è già: i topolini invecchiati e poi ringiovaniti hanno proseguito il normale corso del tempo e ci hanno lasciati, se non proprio serenamente, quantomeno senza malattia. Perché, sia chiaro, potremo anche riportarlo indietro: ma fermare per sempre l´orologio della vita - lo insegna proprio Dorian Gray - ancora non si può.