Repubblica 4.12.10
L´appello: "Intervenga l’Europa”. In sei sono già stati uccisi
L´odissea dei migranti eritrei ostaggi dei predoni nel Sinai
di Giampaolo Cadalanu
Catene ai polsi, senza cibo e costretti a bere acqua salata: si è fermata nel Sinai l´odissea dei migranti sequestrati dai predoni del deserto egiziano. Ma potrebbe finire anche peggio: i rapitori hanno già giustiziato sei ostaggi che cercavano di fuggire, e hanno chiesto a ciascun prigioniero di procurarsi ottomila dollari, attraverso i familiari. Per chi non ne ha la capacità, resta un´alternativa secca: l´espianto coatto di un rene, da vendere sul mercato nero, oppure la morte.
La storia di orrore è legata a filo doppio con la collaborazione italo-libica per quello che il linguaggio sterilizzato chiama «controllo dell´immigrazione clandestina»: per scappare alla polizia di Tripoli, un gruppo di duecento migranti ha pagato duemila dollari a testa in cambio della promessa di raggiungere Israele. Fra loro ci sono anche 74 eritrei, che cercano di raggiungere l´Europa per chiedere asilo politico. Ma i trafficanti hanno alzato il prezzo: ora pretendono ottomila dollari a persona. Uno dei prigionieri è riuscito a telefonare a radio Vaticana attraverso l´agenzia Habeshia di Asmara, raccontando la disperazione del gruppo e diffondendo l´ultimatum dei sequestratori: pagamento entro poche ore, o la morte.
Ieri un appello alla mobilitazione, con la richiesta di un intervento italiano o della Ue, è stato lanciato anche dalla comunità di Sant´Egidio e dal Gruppo Everyone: «Abbiamo individuato e comunicato all´Onu dove sono i prigionieri, bisogna intervenire», dicono all´associazione per i diritti umani. Il luogo, scrive l´Ansa, sarebbe un campo nei pressi di Wadi el Amr: da qui chi riesce a pagare il riscatto viene portato al confine, per finire spesso in mano alla polizia egiziana. Nel solo 2010 sono almeno una decina gli immigrati africani uccisi mentre tentavano di sfuggire agli agenti in questa zona.
l’Unità 4.12.10
Senza legge né desiderio L’Italia sfiduciata del 2010
Il 44esimo rapporto Censis più che un’analisi socio-economica è una seduta di psicoterapia collettiva. De Rita: «Chi governa dia agli italiani il senso della responsabilità». Il 70% non vuole più poteri al premier.
di Federica Fantozzi
Il tramonto del «soggettivismo» e carisma del leader: Berlusconi «icona» di un ciclo finito
Il rapporto Censis mostra un Paese «appiattito», senza regole, preda di «facili impulsi sessuali»
E finì che ad essere sfiduciata fu l’Italia. Parafrasando Almodovar: un Paese senza più legge né desiderio. È il quadro fosco, e a tratti grottesco, che emerge dal rapporto Censis 2010.
L’Italia che per resistere alla crisi si è ripiegata: «appiattita» e priva di pulsioni vitali, preda di comportamenti sregolati come bullismo e «facili godimenti sessuali», dove il «desiderio è esangue» perché schiacciato dalla preponderanza dell’offerta (inutile), dal sesto telefonino al millesimo corso universitario.
Più che un’analisi socio-economica, un’inquietante seduta di psicoterapia collettiva. Che mostra un Paese confuso e per niente felice. Ma certifica anche, attraverso la disillusione verso concetti chiave come «leaderismo» e «carisma», la fine di un ciclo politico iniziato 50 anni fa. Il 71% degli italiani non crede che attribuire più poteri al premier risolverebbe i problemi. Si sono sgonfiati a confronto con la realtà gli annunci mediatici del governo: la social card, il piano casa taumaturgico per il rilancio dell’edilizia, la lotta alla povertà, l’ormai mitica autostrada Salerno-Reggio Calabria. Prima di Berlusconi in Parlamento, insomma, pare che sia finito il berlusconismo nelle teste delle persone.
Spiega il presidente del Censis Giuseppe De Rita che la gente non si lascia più sedurre dal «soggettivismo» incarnato prima da Craxi, il decisionista che non voleva mediare con la Dc, e perfezionato da Berlusconi «che aveva anche l’ultimo step: i soldi».
Un’epopea cominciata in realtà prima, «con la rivendicazione di Don Milani della libertà di essere se stessi, che Berlusconi non ha creato ma cavalcato», e con le lotte femministe degli anni ‘70, le nuove leggi sull’aborto e sul divorzio: «Verticalizzazione e mediatizzazione del potere hanno esaurito la forza vitale». Il Cavaliere «icona del soggettivismo» a fortiori.Non è soltanto il fallimento del “ghe pensi mi”: è la tragedia dell’Uomo del Fare che nulla ha fatto agli occhi degli elettori.
Cosa resta? Una classe politica «litigiosa e poco focalizzata sui problemi strutturali». Una Pubblica Amministrazione che, con buona pace di Brunetta, non funziona e non convince.
Un’opinione pubblica «delusa e poco coinvolta». Una società cristallizzata nello stagno della triade minimalista: mattone, polizze assicurative, risparmi. Un’economia che, in controtendenza mondiale, anziché fare perno sull’autoimprenditorialità, la flessibilità di orari, il modello aziendale con partecipazione dei lavoratori agli utili, si confina da sé nel recinto sicuro del lavoro dipendente. Un’evasione fiscale che non si può più ignorare perché sono i «virtuosi» a pagarne il pegno.
Ancora: una fetta impressionante di giovani, 2 milioni e 242mila tra i 15 e i 34 anni, che non studia né lavora né cerca impiego. Secondo la metà degli italiani (tra cui il ministro Sacconi che però lo imputa ai residui del ‘68) lo fa perché rifiuta occupazioni faticose o poco prestigiose. Una scuola mortificata dove il 53% degli istituti si arrabatta ricorrendo al contributo volontario delle famiglie per sopravvivere. Dulcis in fundo: carceri invivibili con sovraffollamento al 150%, immigrati che cominciano a essere disoccupati, il pericolo che in tempi di ristrettezze la criminalità organizzata infetti ulteriormente il già non solidissimo tessuto sociale. Siamo «fragili» come persone
e come massa, «spaesati, indifferenti, cinici, egoisti e narcisisti, prigionieri dei media». Come uscirne? La ricetta di De Rita è secca: «Bisogna ritrovare energie e impulsi vitali. Chi si pone come leader non dovrebbe presentarsi con un’offerta proliferante su tutto ma dovrebbe avere la forza e il coraggio di ridare agli italiani il senso della loro responsabilità e della loro voglia».
Dalla Grande Illusione, insomma, alla Grande Passione. «Stiamo diventando una società con poco vigore perché abbiamo poco spessore». Servono leggi, regole, istituzioni rispettate e non picconate. Ritrovare il senso delle collettività partendo però dai singoli. Perché il 44% individua negli evasori fiscali il male principale del nostro sistema. Ma il 34% ammette di rinunciare volentieri a scontrino o fattura in cambio di uno sconto.
l’Unità 4.12.10
Oltre la socialdemocrazia D’Alema: «Coalizioni più ampie»
D’Alema guarda le sfide future, e cerca risposte adeguate. La progettazione di una «coalizione progressista e democratica», nell'ambito della quale «la socialdemocrazia europea» può offrire il suo contributo.
di Pino Stoppon
A Varsavia l’esponente Pd ragiona sulla fine dell’internazionale socialista e sui limiti dei vecchi schemi
Il presidente della Fondazione di studi progressisti europei: «Insieme progressisti e democratici»
La progettazione di una «coalizione progressista e democratica», nell’ambito della quale «la socialdemocrazia europea» può offrire il suo contributo. Perché «i partiti socialdemocratici» non possono «emergere da soli come una alternativa concreta» ai governi delle destre. È questa la proposta di Massimo D’Alema, presidente della Fondazione di studi progressisti europei (Feps), avanzata nel suo intervento al Consiglio del Pse, in corso a Varsavia.
La socialdemocrazia ha esaurito la possibilità di incarnare da sola il comando. La Terza via è scomparsa dopo poche curve di vita. Bisogna pensare in modo nuovo.
«Democrazia, uguaglianza e innovazione devono essere le fondamenta sulle quali costruire una nuova stagione progressista ha detto D’Alema Questo è il momento di essere coraggiosi». «La socialdemocrazia tradizionale, che ha rappresentato una delle correnti politiche più importanti e ricche del Ventesimo secolo in Europa ha sottolineato da sola non è più sufficiente. La sfida, per noi, è intraprendere una trasformazione radicale, metterci in gioco, coinvolgere le forze progressiste e democratiche al di là dei nostri confini, al di là della nostra famiglia politica». «Si può pensare che la costruzione di una moderna forza progressista e democratica, che miri al suo rinnovamento culturale, sia un problema solo italiano. Non è così», ha aggiunto il presidente del Copasir.
«Penso che oggi la vecchia frattura tra datori di lavoro e lavoratori non esista più. Viceversa, si verifica un crescente interesse comune tra lavoratori e imprenditori: il vero conflitto sociale, oggi, è tra il mondo della produzione e quello del profitto finanziario e della speculazione. Ritengo che sia essenziale rimettere radici tra le forze produttive se non vogliamo rinunciare ai nostri valori e ideali di una società giusta».
LA COALIZIONE
«I partiti socialisti e socialdemocratici non sono stati in grado di proteggere proprio quei settori sociali che costituivano la loro base elettorale», ha sottolineato D’Alema, aggiungendo: «Sono convinto che il
problema della redistribuzione della ricchezza debba diventare ancora una volta una delle nostre priorità. In caso contrario, correremmo il rischio di rappresentare solo una minoranza della popolazione, le classi medie, gli strati più istruiti e informati della società, lasciando alla destra consensi e voti del mondo produttivo, di operai e imprenditori».
Più in generale, secondo il presidente della Feps, per ridurre le «ineguaglianze intollerabili e insostenibili» prodotte dallo «sviluppo globale non regolamentato», servono «in parte politiche nazionali». Ma «una riduzione delle diseguaglianze può essere ottenuta solo a livello internazionale. Per questa ragione, la Financial Transaction Tax rappresenta non solo uno strumento contro la speculazione, ma un importantissimo fattore di equità e giustizia sociale».
l’Unità 4.12.10
«Ciudad Juarez, dove le donne sfidano la morte»
La fondatrice dell’Associazione contro il femminicidio in Messico: «Purtroppo i delitti stanno aumentando, chiediamo aiuto anche all’Italia»
di Cristiana Cella
Com’è, adesso, la situazione a Ciudad Juarez, è cambiato qualcosa? «Purtroppo, nonostante la nostra lotta, la situazione si è aggravata. Il femminicidio continua. Solo due cambiamenti, tragici. Il numero dei delitti è aumentato moltissimo negli ultimi tre anni. Dall’inizio del 2008 ad adesso le ragazze sparite e uccise sono già 500. Una spaventosa accelerazione. E sono cambiate le caratteristiche delle vittime: se prima si trattava di ragazzine povere, lavoratrici delle maquilladoras, adesso spariscono sempre più frequentemente anche studentesse universitarie e giovani professioniste. Identiche sono rimaste l’impunità degli assassini e l’assenza del governomessicano».
Come si spiega l’ aumento delle vittime? «Il livello di violenza, che è cresciuto a dismisura negli ultimi anni, come l’impunità generalizzata, hanno fatto precipitare le cose. La nostra città è diventata un campo di battaglia. All’inizio del 2008, i due grandi cartelli della droga, Juarez e Sinaloa, che si contendono il controllo della frontiera, hanno scatenato una guerra aperta tra loro che si combatte ovunque. Ogni giorno vediamo per la strada cadaveri abbandonati. In mezzo a loro c’è anche gente comune che passa di lì. Per questo, tutta la zona di Ciudad Juarez è stata militarizzata in modo massiccio. Ci sono attualmente in città 10.000 soldati dell’esercito federale e 10.000 poliziotti, così fanno vedere che combattono il narcotraffico».
E non lo fanno?
«No. Non hanno fatto niente contro questi criminali. In compenso i cittadini sono continuamente fermati, spogliati e derubati. Chi prova a denunciare gli abusi dei militari è minacciato di morte o ucciso». Quindi il sistema criminale ha contagiato anche i militari e la polizia? «Certo. Il sistema di corruzione e connivenza è molto potente. Sono gli stessi capi che esigono denaro, a fine turno, da ogni singolo agente. Per questo rubano ai cittadini. Adesso siamo arrivati a pensare che polizia e esercito siano coinvolti anche nelle sparizioni delle nostre ragazze». Chi sono, secondo te, gli assassini? «Questi delitti sono sempre stati legati al narcotraffico, non tutti magari, ma la maggior parte sì. Adesso questa connessione appare ancora più chiara. I cadaveri ritrovati delle ragazze presentano le stesse caratteristiche delle esecuzioni mafiose: mani, occhi e bocca, legati con lo scotch, come un marchio. Ma anche la serialità degli omicidi e le torture rituali, inflitte prima di uccidere, sono caratteristiche dei narcotrafficanti».
Cosa significa questa bestiale“ritualità”? «Noi lo chiamiamo “narcosatanismo”. Quando vogliono celebrare un buon affare, rapiscono
le ragazze per le loro feste, le abusano sessualmente, operano perversioni di ogni genere, poi le uccidono. Alcune finiscono nella tratta. Oppure sono parte del rito di iniziazione che accoglie un nuovo elemento nel gruppo, per valutarne il livello di violenza. Per molti anni, il governo ha continuato a sostenere che la colpa era delle vittime stesse, perché frequentavano ambienti e uomini pericolosi, o semplicemente andavano in giro con un vestito troppo corto. Adesso si sono convinti finalmente della responsabilità dei narcotrafficanti. Ma non hanno trovato nemmeno un colpevole per 1500 donne e bambine sparite. Un fenomeno che per lo Stato non esiste. Rubano anche la dignità della loro morte».
Significa che ci sono delle connivenze tra il Governo e gli assassini?
«Certo, la rete di complicità è immensa e purtroppo arriva fino ai più alti livelli. Nemmeno la fortissima solidarietà che siamo riuscite a organizzare in tutto il mondo, ha potuto rompere questa omertà. Chi ne fa parte, per quanto onesto, viene travolto. Nessuno resiste».
Come si sta muovendo in questo momento la tua Associazione? «Sosteniamo le madri, i figli, le famiglie delle ragazze uccise. Con consulenze psicologiche, con aiuto economico e giuridico. Ci vuole molto tempo per elaborare un lutto come questo ma molte persone riescono a trasformare il dolore in forza e si uniscono a noi».
Avete qualche denuncia in corso?
«Sì, una. Siamo riusciti a portarla davanti alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Un fatto storico, il primo caso di femminicidio che ci arriva. Ha un grande valore simbolico, è la possibilità di avere giustizia. Sono conosciuti come i casi del Campo Algodonero, un luogo dove, nel 2002 sono stati trovati 8 corpi di ragazzine uccise. Soltanto tre madri hanno acconsentito alla denuncia. La Corte ha condannato lo Stato del Messico. Con una scadenza, il 10 dicembre prossimo, entro la quale il nostro Governo dovrà mostrare alla Corte le indagini fatte per arrestare i colpevoli, almeno per questi tre casi. Ma, per ora, stanno ancora discutendo se l’autorità competente sia lo Stato Messicano o la Regione di Chihuahua. Non è incoraggiante».
Come si può vivere ogni giorno con questa paura? «Si impara a conviverci. Dobbiamo per forza uscire per strada per andare a lavorare. Dobbiamo continuare a vivere e cercare di farlo con dignità. Il rischio più grande per la nostra società sono i bambini. Quando vanno a scuola, vedono continuamente corpi uccisi o mutilati sui marciapiedi, si trovano nel mezzo di scontri a fuoco, perfino le scuole sono vittime di estorsioni, un “pizzo” per ogni bambino iscritto. E ogni giorno perdono sensibilità, crescono pensando che tutto questo sia normale. Questo non possiamo accettarlo. Lavoriamo con bambini e adolescenti, per insegnargli a vivere con dignità nella città più pericolosa del mondo.
Che sostegno chiedete all’Italia?
«È molto importante parlare di quello che sta succedendo a Ciudad Juarez, non dimenticare. E chiedere alle vostre autorità politiche di fare pressione sul governo messicano perché si rispettino i diritti umani e finisca l’impunità degli assassini».
Hai speranza, oggi, di ottenere giustizia? «Certo, per questo sono qui.
Repubblica 4.12.10
Bersani e Franceschini scrivono ai deputati: mobilitiamoci per l´11 dicembre
Il Pd: bufala raccontata al Cavaliere. Voti radicali, Pannella non s’impegna
di Goffredo De Marchis
ROMA Dario Franceschini li conta dentro la maggioranza pronta a sfiduciare Berlusconi. «Con i 6 radicali e il deputato della Val d´Aosta il governo è sotto. La bufala perciò è quella che raccontano i collaboratori al premier», attacca il capogruppo del Pd alla Camera. Ma i voti della pattuglia radicale non sono affatto certi. Primo: non hanno firmato la mozione di sfiducia del Pd pur facendo parte del loro gruppo parlamentare. Secondo: Marco Pannella ha cominciato a giocare al gatto col topo. La sua risposta a una domanda semplicissima resta fumosa: come voteranno i radicali il 14? «Questo voto rientra nel sistema della partitocrazia. In questo sistema noi non ci siamo mai stati e mai ci saremo. Dunque siamo imprevedibili».
Pannella ha visto nei giorni scorsi Ignazio La Russa e gli ha dato appuntamento al 16 dicembre. I suoi deputati hanno parlato con i colleghi democratici alla Camera e non hanno sciolto il mistero. Confusione. C´è il "giallo" radicali. «Potremmo anche presentare una nostra mozione di sfiducia», dice ancora Pannella al Tg3. Pende verso il no a Berlusconi, allora? Risposta difficile. Per depositare un testo autonomo i radicali avrebbero bisogno del sostegno di altri 57 deputati. Rita Bernardini, già segretaria dei Radicali italiani e onorevole della pattuglia dei 6, spiega: «Eventualmente le nostre ragioni per sfiduciare il governo saranno diverse da quelle di tutti gli altri partiti. Sottolineo eventualmente». Si ballerà ancora per dieci giorni intorno alla scelta di Pannella.
Franceschini e Bersani hanno scritto una lettera aperta ai parlamentari del Pd per denunciare la chiusura della Camera imposta dalla maggioranza fino al voto di fiducia. «Una decisione molto grave. Chiediamo a tutti voi una mobilitazione per spiegare le nostre ragioni in vista della manifestazione di Piazza San Giovanni dell´11». Sandro Gozi, responsabile delle politiche Ue, aveva chiesto un gesto più forte: l´occupazione dell´aula, «un controAventino per tutelare la dignità delle istituzioni». A Varsavia invece Massimo D´Alema ha parlato al consiglio del Pse lasciando ben poche speranze alla socialdemocrazia. «Quella trazione, pure ricca e importante, non è più sufficiente». Semmai la storia socialista può dare un contributo a «una coalizione ampia dei progressisti e dei democratici che si fondi su democrazia, uguaglianza, conoscenza e cultura», dice D´Alema che è anche presidente della Fondazione che raggruppa i centri studi della sinistra europea. «Guardiamo fuori dal Vecchio continente: dove governiamo nessun partito si richiama al socialismo».
l’Unità 3.12.10
Conversando con Paolo Conte
«Vieni via con me? No, dobbiamo restare qui a difendere l’Italia...»
di Silvia Boschero
Un nuovo disco, il terzo in pochi anni, Nelson, e poi una serie di concerti tutti esauriti, prima Milano e ancora in questi giorni Roma, mentre il suo Via con me diventava tormentone delal trasmissione tv più coraggiosa e osteggiata degli ultimi tristi e goffi anni Rai. Paolo Conte, il Maestro, ci incontra nel backstage dell’Auditorium della Conciliazione mentre è già apparecchiata una tavola tradizionale con ottimo vino piemontese e cinque calici. Di lì a poco, un colto e affezionatissimo pubblico lo avrebbe abbracciato trionfalmente, come da anni succede qui e in tutta Europa. «Trovo che il mio pubblico si somigli un po’ ovunque, che vada al di là delle barriere linguistiche. Qualche brano effettivamente va più forte in certi Paesi. Ad esempio in Olanda fu un gran successo prima L’Impermeabile e poi Max, tanto che seppi che diverse madri avevano chiamato così il loro figlio e poi venivano a chiedermi cosa significasse la canzone. Bé, insomma, la storia del capo indiano poco aveva a che fare con i loro sogni, ma va bene così».
Deve essersi sentito responsabile per tutti questi Max neonati in giro per l’Olanda... «In realtà io lascio grande libertà di interpretazione sulle mie canzoni, non voglio imporre niente. Mi basta raccontare qualche favola e va benissimo se gli stessi colori che vedo io in una pagina magari possono essere visti da altri con un daltonismo tutto particolare».
A proposito di colori, le sue canzoni assomigliano ai quadri o viceversa? «Ho cominciato a dipingere ancor prima di far musica. Non so se esistano delle somiglianze,
anche perché se in musica sono rimasto abbastanza fedele allo stesso modo di comporre, in pittura ho avuto i miei periodi, le mie fasi (ride di gusto, ndr). Quello dei trattori, delle macchine agricole, delle donne nude, dei cavalli, e ora da molto tempo faccio pittura informale, astratta insomma...».
La pittura è più immediata della musica?
«È tutto casuale in entrambe le situazioni, perché si comincia dal niente e poi piano piano se si vede che la mano è felice e continua a seguirti allora be-
ne, altrimenti strappi il foglio, ricominci da capo o riprendi un altro giorno. Così anche con la musica: nasce sempre da una spolverata delle dita sul pianoforte». Un disco, quest’ultimo, che lei stesso ha definito fuori dalle mode. Scontato per uno come lei che da sempre suona meravigliosamente anacronistico...
«Le mode di oggi non mi interessano, però ho le mie mode antiche che mi perseguitano da sempre: gli anni 20 e 30 soprattutto, sia nella musica che altrove, perché quelli furono gli anni più belli e ricchi del 900. Noi siamo abituati a pensarli come dei cliché, ad esmpio quello del charleston, ma invece erano gli anni dell’arte più rivoluzionaria... basta pensare al fatto che il cinema è nato in quel periodo, che le avanguardie pittoriche più importanti sono di quegli anni. Insomma, c’è un profumo che non saprei descrivere e che tutt’oggi continua a affascinarmi». Prima parlava delle ingue che lei utilizza sempre in abbondanza. Inglese, francese, spagnolo e anche napoletano...
«Il mio vizio napoletanistico è antico. Mi è sempre piaciuto lo spirito dei napoletani, il loro saper far teatro e poesia insieme, la capacità unica di far frizionare assieme cose astratte e cose molto concrete».
C’è un lato ludico molto spiccato nella sua musica. In «Nelson» c’è un brano dedicato alla luna in cui lei si mette addirittura a ululare... « (Ride di nuovo, ndr) Sì, quello sono proprio io che tento di modulare addirittura l’ululato di tre cani diversi. Effettivamente in quel pezzo mi sono dato molte libertà...».
C’è poi un brano cantato insieme a una voce femminile che ricorda certe produzioni di Serge Gainsbourg degli anni 80. È intenzionale? «No. Però Gainsbourg lo ricordo molto bene.
Lo incontrai una sola volta e anche se non ci presentammo ho la sua immagine molto chiara: eravamo in un piccolo albergo in Francia di mattina molto presto seduti uno di fronte all’altro e lui aveva la faccia veramente distrutta dala nottata... non che io stessi meglio. Mi piaceva, era un bellissimo dilettante». Come ha vissuto la sua partecipazione, come leit motiv, alla trasmissione di Fazio e Saviano? «Mi ha fatto molto piacere da autore della canzone, visto che tra l’altro il pezzo è stato proposto in tante straordinarie versioni, non solo quella di Benigni ma anche quella inusuale di Zingaretti, per non parlare del fatto che il mio batterista ha realizzato tutti gli stacchi musicali del programma. Devo ammettere che la trasmissione non l’ho ancorta vista, me la sono fatta registrare e la voglio vedere con calma». Però almeno ci dica un buon motivo per restare o uno per andarsene dal nostro Paese... «Da tutti i viaggi che ho fatto tornavo con la consapevolezza che il nostro era il paese più bello e simpatico possibile. Ma a parte questo motivo affettivo credo asolutamente che non si debba andare via perchè è necessario difenderla, questa Italia».
Il fatto che lei non ama parlare del “reale” sia nelle canzoni che nelle interviste perché troppo brutto e degradante non lo trova un atteggiamento un po’ aristrocratico?
«Certo, ma l’arte è aristocratica. O perlomeno, l’affetto che io provo per l’arte è aristocratico».