AGI 20.11.10
LAICITA’: BONINO, TORNARE IN PIAZZA PER LIBERTA' DI SCELTA
(AGI) ‑ Roma, 20 nov. - “La laicità è uno straordinario metodo di governo dei temi eticamente sensibili, i diritti civili, che sono in realtà giganteschi problemi sociali, e vanno sempre protetti, senza soste o tentennamenti. E oggi non mi sembra affatto anacronistico un invito a tornare in piazza per la libertà di scelta, l’autodeterminazione, la difesa della libertà e della identità degli individui. La migliore difesa, ho sempre pensato, è l’attacco”. Con questo appello a una grande mobilitazione di massa, in nome della laicità, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ha concluso questa mattina al Teatro Eliseo la manifestazione “Per un’Italia più laica”, promossa dal Pd di Roma, da Iniziativariformista e dal settimanale Left. Il punto di partenza del dibattito, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giovanna Melandri, Massimo Teodori e Massimo Fagioli, il disegno di legge Tarzia, presentato ai consiglio regionale del Lazio, che intende affidare la gestione dei consultori ad associazioni di famiglie, sottraendoli di fatto al servizio pubblico, in nome della tutela della vita fino dal concepimento. “La laicità e la libertà sono e devono ricominciare ad essere il nostro strumento di attivazione di massa; sono temi che coinvolgono milioni di persone”, ha affermato la Bonino, rivolta al pubblico, a prevalenza femminile, che qremiva il teatro. In tempi “di vizi privati e pubblici divieti”, ha aggiunto, la sinistra dovrebbe mostrare maggiore coerenza o adottare “comportamenti politici netti, chiari, comprensibili, che vadano oltre i bofonchiamenti e le cose dette a metà, mezze sì e mezze no”.
“Servono idee più chiare alla sinistra”, ha detto subito dopo lo psichiatra Massimo Fagioli, “oltre a una maggiore nettezza di comportamento. A sinistra non vogliono accettare che la vita umana inizia alla nascita con il pensiero, così come la fine della vita non è quando il cuore cessa di battere. Il diritto all’eutanasia? Sono d’accordo, se fatto con l’assistenza del medico e dello psichiatra, se necessario, per stabilire che non si tratti di una depressione”.
“La Legge 40, quella sul testamento biologico, la proposta Tarzia sui consultori, sono anticostituzionali e hanno tutte un fondo persecutorio”, ha detto Giovanna Melandri: "si sta smantellando lo stato sociale e la legge di sistema porterà un segno pesante, in questa direzione. Berlusconi è l'espressione di una cultura che pensa che tutto si può comprare, anche le donne che vanno al consultorio. Invece no, la libertà e l'autodeterminazione sono diritti intangibili, non sono in vendita. L’Italia - ha concluso la parlamentare del Pd ‑ è sotto sopra, bisogna ripartire con battaglie di libertà e autodeterminazione, facendo fronte comune contro questo familismo moralistico e clericale". Massimo Teodorì ("sono un laico archeologico”, si è autodefinito), storico esponente radicale, ha tracciato la storia degli ultimi 45 anni di battaglie in favore dei diritti civili, a partire da quella sul divorzio, iniziata nel 1965, sostenendo “che la questione laica è provocata dall’incalzante offensiva neoclericale e neotradizionalista”. Maurizio Turco, radicale eletto nel Pd alla Camera, ha ricordato che gli attacchi alle libertà civili, in nome della difesa della famiglia, giungano senza tenere conto della realtà, per cui “a Roma, ad esempio, secondo le più recenti statistiche, il 40% delle famiglie è monoparentale, fatto cioè di persone singole”. “Mai come in questo momento ‑ ha concluso Ilaria Bonaccorsi, direttore editoriale di Left ‑ la laicità è sinonimo di libertà. Una laicità netta, rigorosa, rispettosa. Bisogna creare un anello di congiunzione tra intellettuali e ricerca e ricerca scientifica, tra scienza e sviluppo sociale, prassi politica Questo è quanto Left sta tentando di fare”.
L’Unità 20.11.10
«La piazza del Pd argine contro la deriva del berlusconismo»
Il leader democratico scrive a l’Unità in occasione della mobilitazione di oggi «Basta lezioni e scetticismi siamo l’unico partito presente in tutto il territorio che sceglie i dirigenti con le primarie e che fa della democrazia la sua bandiera»
di Pierluigi Bersani
Oggi, in tutta Italia, i militanti e i simpatizzanti del PD sono in piazza per parlare con i propri concittadini. Migliaia di democratici sono impegnati a spiegare le proposte programmatiche che il PD sta mettendo a punto per dare un futuro all’Italia, a ricordare i fallimenti e le bugie del governo, a invitare tutti alla manifestazione nazionale che il PD terrà l’11 dicembre a Roma, in piazza San Giovanni.
Questa mobilitazione, che abbiamo chiamato porta a porta perché è destinata a portare la politica tra le persone, non è solo uno sforzo organizzativo. Al contrario, è un’iniziativa che ha un obiettivo politico fondamentale ai fini della democrazia, oltre a testimoniare la rivendicazione del ruolo che il PD ha avuto nella spinta per voltare pagina.
Non dobbiamo dimenticare che il PD ha capito per primo che cosa stava accadendo nel paese, ha visto per primo la possibilità di lavorare per far maturare una crisi del centrodestra, ha indicato da molto tempo una strategia capace di provocare il cambiamento ed è riuscito a imporre i temi da mettere al centro dell’agenda politica per il bene dell’Italia. Senza tacere le difficoltà e, se si vuole, anche le debolezze che pure ci sono state, il PD può rivendicare che ciò che sta accadendo è per non poca parte frutto della propria iniziativa.
Molti di coloro che oggi danno lezioni e consigli come fossero il CT di una nazionale di calcio che ha vinto ogni torneo, criticarono, come fosse un’idea fuori dal mondo, la linea indicata dal PD di fare argine a una deriva populista invitando ad un comune senso di responsabilità, se necessario, tutte le forze che tengono alla Costituzione. Il PD incontrò uno scetticismo forte quando disse che la crisi economica sarebbe stata lunga e profonda e quando indicò nella riforma della legge elettorale il passaggio necessario per garantire la democrazia. Lo stesso accadde quando il PD previde la rottura della maggioranza; una previsione che non si basava sulle case di Montecarlo o sui divertimenti diurni e notturni del premier, ma sul fatto che questo centrodestra non era e non è in grado di incrociare i problemi reali del paese, a cominciare da quello del lavoro. E’ per questa consapevolezza che da tempo diciamo che è utile un governo di transizione per affrontare subito alcuni temi urgenti: una nuova legge elettorale che ridia il potere di scelta in mano ai cittadini, una riforma del fisco e alcune misure urgenti per l’occupazione.
Il fatto che la maggioranza di centrodestra sia entrata effettivamente in crisi e che, tranne la Lega e il Pdl, tutti affermino oggi che la legge elettorale attuale costituisce un problema per la democrazia, non significa tuttavia che la partita sia finita. L’astro di Berlusconi è in declino, ma il presidente del Consiglio ha ancora potere. Lo userà per i propri interessi: i problemi marciscono, ma a lui importa solo di restare a galla. E in caso di sconfitta il suo motto sarà: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Berlusconi, nato come fenomeno politico dal discredito della politica, oggi rischia di concludere il suo ciclo portando al discredito la politica.
Alcuni sondaggi danno oggi il centrosinistra sopra al centrodestra, con in mezzo le forze di centro. Ma sbaglia chi presta ogni giorno attenzione al punto in più o in meno nei sondaggi. Il dato importante è un altro: il 40 per cento degli elettori non vuole più andare a votare. C’è tensione e paura per il futuro, perché la crisi morde. Ma non ci si fida più della politica.
Ecco dunque il senso della mobilitazione di questi giorni e della manifestazione nazionale dell’11 dicembre: rompere il muro del silenzio che si è creato tra la politica e la società, andare fra i cittadini, spiegare che è possibile cambiare, far capire che c’è una politica positiva la quale, pur con i suoi limiti, si sforza di dare risposte per il bene di tutti. E solo il PD può svolgere questa missione.
Il PD è l’unica forza politica presente in tutto il paese. E’ l’unico partito i cui militanti sono capaci di organizzare oltre duemila feste politiche. E’ l’unico partito che, pur con tutti i limiti, elegge i propri dirigenti, a cominciare dal segretario nazionale, con il metodo delle primarie. E’ il PD la testimonianza che la democrazia è difficile, perché presuppone la libertà di parola, di critica, di organizzazione, perfino di contesa nei gruppi dirigenti, ma è anche la strada più efficiente e più giusta per affrontare i problemi che abbiamo di fronte, con l’occhio al bene della collettività.
Noi soli possiamo farlo. Con la nostra passione, siamo l’unico partito che fa della democrazia la sua bandiera anche interna. Noi il presidio nelle piazze d’Italia della democrazia.
L’orgoglio, la responsabilità, la pazienza, la tenacia in questa battaglia lunga non fanno difetto ai militanti del PD. Mettiamole in campo e chiediamo a tutti di venire con noi a Roma l’11 dicembre per voltare pagina, per dare all’Italia un futuro migliore.
L’Unità 22.11.10
MANIFESTAZIONE NAZIONALE CGIL
SABATO 27 NOVEMBRE IN PIAZZA S. GIOVANNI
A Roma per il futuro
Si stanno preparando a partire per Roma e sono tanti: migliaia di lavoratrici e lavoratori, di cassintegrati e disoccupati, di giovani e di studenti, di immigrati, di pensionati. Vanno nuovamente nella capitale per lottare contro il degrado del paese, per rivendicare un futuro decente per sé e per i propri cari, perché sperano che le cose possano cambiare, che la crisi economica possa essere superata senza lasciare sul campo milioni di posti di lavoro, come sta avvenendo oggi. La manifestazione nazionale di sabato prossimo 27 novembre in piazza S. Giovanni, che sarà conclusa da Susanna Camusso, da meno di venti giorni segretario generale della CGIL, ha un titolo significativo: “Il futuro è dei giovani e del lavoro”. Ed è proprio la lotta allo sfruttamento di milioni di ragazze e ragazzi, al lavoro nero, al precariato, alle flessibilità selvagge la prima ragione della manifestazione, che giunge al culmine di una lunga stagione di mobilitazioni, con iniziative nazionali e territoriali e tre scioperi generali. La CGIL, non a caso, ha lanciato la campagna “Giovani non più disposti a tutto”, che ha molto colpito per la chiarezza del linguaggio tantissimi ragazzi, che l’hanno ripresa negli striscioni e nei manifesti che aprivano le cento manifesta-
zioni per il diritto alla conoscenza, allo studio, alla cultura di mercoledì scorso 17 novembre. “Più diritti e più democrazia” è l’altro obiettivo di fondo della manifestazione, per rimettere al centro – come ha detto Camusso – il lavoro, la contrattazione, per rivendicare sviluppo, giustizia sociale, equità e riforma fiscale e per imporre scelte che facciano uscire il
paese dalla crisi. Una crisi che ha causato un grande disagio sociale, con un governo, ormai “alla frutta”, che non si è preoccupato né dell’emergenza occupazionale, né del rilancio del sistema produttivo. Tanto che le stesse associazioni delle imprese hanno detto basta. L’unica strada è stata quella dei tagli, spesso indiscriminati.
Due i cortei previsti a Roma, che parti-
ranno sabato 27 alle ore 9 da piazza della Repubblica e da piazza dei Partigiani e che insieme confluiranno a piazza S. Giovanni. Una manifestazione dopo la quale la CGIL “misurerà le risposte” per decidere, come ha indicato il Comitato direttivo, “la prosecuzione della mobilitazione e il sostegno alla piattaforma anche attraverso lo sciopero generale”.
L’Unità 22.11.10
Annunciata una massiccia presenza di insegnanti e studenti alla manifestazione del 27 novembre
Investire sulla scuola pubblica, sull’università, sulla formazione, sulla ricerca
La conoscenza in piazza
Saranno tantissimi, molte migliaia, gli studenti medi e universitari, gli insegnanti, le lavoratrici e i lavoratori della scuola, dell’università, della ricerca, dell’Afam, della formazione professionale che scenderanno in piazza sabato 27 novembre insieme al mondo del lavoro che si riconosce nella CGIL. Dopo le proteste studentesche della scorsa settimana, organizzate dalla Flc e da organizzazioni come Udu, Rdes, Link, Uds, si parte per Roma per rivendicare gli investimenti necessari a sostenere la qualità della formazione e
della conoscenza pubbliche. Il successo delle manifestazioni nelle cento piazze d’Italia e l’eco avuto dalla campagna della CGIL sui “Giovani non più disposti a tutto”, hanno galvanizzato tutto il settore. Gli studenti ricorderanno che “si muore sotto le macerie di edifici scolastici fatiscenti, si cancellano le borse di studio, ci costringono a studiare in classi da 35 alunni, vogliono privatizzare gli atenei e la formazione professionale. Vorrebbero farci insegnare cose che non hanno niente a che fare con ciò che viviamo fuori dalle mura delle nostre scuole, rendendo il nostro diritto allo
studio inaccessibile e il nostro percorso scolastico angosciante e privo di significato”. In piazza anche i lavoratori del settore per gridare che “la conoscenza è il motore dello sviluppo e della modernità”. La Flc CGIL chiede misure urgenti per “sconfiggere il precariato che uccide il lavoro nei nostri settori”, il rinnovo dei contratti e stipendi “come nel resto d’Europa”. Una battaglia, che si annuncia ancora molto dura, per il diritto allo studio, per la qualità del nostro sistema formativo, dalla scuola dell’infanzia all’università e perrilanciarelaricerca.
L’Unità 22.11.10
No alle espulsioni selvagge
Ci saranno anche molti immigrati alla manifestazione nazionale della CGIL a Roma di sabato prossimo. Lavoratori stranieri, molti dei quali lavorano da anni nel nostro paese, ma che rischiano l’espulsione in quanto clandestini, per le assurde norme che limitano la regolarizzazione, specie di chi ha perso un posto di lavoro a causa della crisi. Le proteste dei giorni scorsi in alcune città, come Brescia e Milano, indicano una situazione delicatissima, che può esplodere da un momento all’altro. Per questa ragione, la CGIL ha organizzato la scorsa settimana una giornata di mobilitazione sul tema dei migranti: presidi, sit in, volantinaggi si sono svolti in molte città con la partecipazione di numerose associazioni laiche e cristiane. “Sono purtroppo tante – ha rilevato una nota della CGIL – le storie degli immigrati legate al reato di clandestinità, alla mancata regolarizzazione, allo sfruttamento e al lavoro nero”. Contro il lavoro nero e i diritti dei migranti, la confederazione ha chiesto ai ministri Maroni e Sacconi di aprire un tavolo urgente di trattativa “che possa individuare soluzioni serie e strutturali, dando priorità a: il contrasto allo sfruttamento attraverso il recepimento della direttiva europea (numero 52); l’applicazione e l’estensione dell’articolo 18 del testo unico anche a chi denuncia di essere stato costretto all’irregolarità del lavoro; un percorso di emersione strutturale che, oltre a riconoscere il permesso di soggiorno a chi è stato truffato nel corso dell’ultima sanatoria, offra la possibilità di uscire dalla schiavitù e dallo sfruttamento a centinaia di migliaia di migranti, costretti alla clandestinità; una proroga del permesso di soggiorno per chi oggi ha perso il lavoro e fatica a reperirne uno nuovo, senza che incomba la minaccia di espulsione; un intervento sulla situazione di estrema difficoltà in cui versano gli sportelli unici per l’immigrazione che, per effetto della manovra finanziaria e dei tagli, sono costretti a licenziare 1.300 operatori, pari a oltre il 50 per cento del totale degli addetti”. Una piattaforma che è al centro della manifestazione della CGIL.
Corriere della Sera 22.11.10
La caccia ai deputati I radicali più freddi Il finiano: sfiducia mai
Polverini: con la Bonino no
di Monica Guerzoni
ROMA — «Voi votate la fiducia, entrate al governo e facciamo la riforma della giustizia come la volete... Diglielo a Pannella, mi raccomando». Giovedì nell’Aula della Camera il ministro Angelino Alfano ha puntato dritto al bersaglio grosso e, nell’orecchio di Rita Bernardini, ha consegnato la sua proposta per risolvere i problemi numerici della maggioranza. «Il Guardasigilli ha fatto una battuta — assicura la deputata radicale, tra i deputati più attivi nel combattere lo "sfascio" delle carceri —. Con il Pdl non c’è nessuna trattativa. Noi teniamo al Pd e domani Pannella incontrerà Bersani, vogliamo parlare di contenuti e non di pallottoliere». Eppure al vertice del Pdl c’è ancora ottimismo sulla possibilità di conquistare, in vista della fiducia, i voti dei sei radicali eletti con i democratici. Un pacchetto di consensi che farebbe impennare le quotazioni dei berlusconiani, ma scontenterebbe esponenti illustri come Renata Polverini. La presidente del Lazio è contraria e lo dice con chiarezza: «È una cosa senza senso contare sui voti radicali. Io ho avuto Emma Bonino come avversaria ed è stato uno scontro crudo. Sui valori fondamentali, dal quoziente familiare alle questioni etiche, non vedo possibilità di dialogo». Ma il Pdl va avanti. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha annunciato che presto andrà in missione a Bagdad con Pannella, per «parlare con le autorità irachene della sorte di Tareq Aziz». Ma nel pomeriggio il leader radicale, parlando alla Radio del partito nel consueto appuntamento domenicale con Massimo Bordin, si è mostrato piuttosto freddo: «Non so se posso andare in Iraq con Frattini, lo farò solo se potremo vedere Tareq Aziz». Al segretario del Pd, Pannella consegnerà un dossier su tutto quel che è andato storto nei rapporti tra le due forze dal 2005 a oggi. Sotto il titolo «Breve storia di pratica "democratica" anti-radicali», un dettagliato elenco di veti, esclusioni e «patti traditi». Il clima è teso, ma questo non vuol dire che i radicali stiano andando inesorabilmente verso l’abbraccio con il centrodestra. «Non esiste una trattativa sei voti sei posti — prende le distanze Maurizio Turco —. Ai radicali interessano le riforme per il Paese, non i posti al governo». Per quanto l’ex udc Saverio Romano giuri che «l’accordo con i radicali è cosa fatta», il rischio che a Berlusconi non riesca il colpaccio di agganciare Pannella è concreto. Eppure Daniela Santanchè, che per conto del premier lavora ad allargare la maggioranza, non sembra preoccupata: «Le trattative vanno avanti, resto molto ottimista sulla fiducia». Nei prossimi giorni, a sentire Souad Sbai, che ha lasciato Fini per tornare dal premier, «arriveranno rinforzi e non solo da Futuro e libertà». Si era fatto il nome del centrista Angelo Compagnon, il quale però smentisce categoricamente: «Non esiste, nessuno mi ha avvicinato. Io sostengo la linea di Casini e non ho crisi di coscienza. Berlusconi si dimetta, poi valuteremo offerte di responsabilità». Francesco Pionati aspetta ancora nell’Adc Maurizio Grassano, ma il liberal democratico è pieno di dubbi e prende tempo. Chi ha certezze è invece il finiano Gianpiero Catone. Lui resta con Fli, però non voterà la sfiducia. «Mi auguro che non ci si arrivi — spera l’ex dc —. Sfiduciamo Berlusconi e poi che facciamo? È chiaro che non presenteremo la mozione. Io la penso come Menia, Moffa, Consolo...». Giuseppe Consolo, al lavoro per scongiurare la resa dei conti, è convinto che raccoglierà presto i frutti della sua mediazione: «L’accordo tra Fini e Berlusconi è vicino».
l’Unità 22.11.10
Marco, non farlo, per favore!
di Massimiliano Coccia
Mi auguro vivamente che Marco Pannella e gli eletti radicali alla Camera e al Senato rispettino il mandato e il programma che li ha portati all'elezione nelle liste del Partito Democratico e non votino la fiducia al Governo Berlusconi. Dare fiducia a questo Governo significa tradire decenni di storia Radicale e dare ossigeno al Governo peggiore dell'Italia Repubblicana. Risolva Pannella i problemi di sopravvivenza del suo ceto politico in altro modo, non certamente sulle spalle di milioni di italiani stanchi, di giovani sfiduciati e di una nazione umiliata in ogni sede internazionale.
Repubblica 22.11.10
Ferrero: "Per battere Berlusconi sì anche a Casini, ma no a Fini"
Unità con Diliberto: niente governo tecnico
di Antonio Fraschilla
Il congresso della Federazione della sinistra: subito al voto con un´alleanza che liberi il Paese dal berlusconismo e che difenda la Costituzione
ROMA - «Diciamo sì a una grande alleanza elettorale contro Berlusconi anche con l´Udc, ma non con Fini e i suoi di Futuro e libertà». È questa la linea scelta dalla neonata Federazione della sinistra, che ieri a Roma ha riunito in una casa comune Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e Socialismo 2000 di Cesare Salvi. «Siamo contrari a un governo tecnico, e per questo chiediamo di andare al voto con un´alleanza che liberi l´Italia dal berlusconismo e difenda Costituzione», dice Ferrero.
Dopo l´estate calda del 2008 che ha visto andare in scena la diaspora della sinistra alternativa, ieri è stata la giornata di un primo passo, non ancora verso una riunificazione, ma almeno verso la costruzione di una «casa comune nella quale confrontarsi». «Con la nascita della Federazione non sciogliamo i singoli partiti, noi rimaniamo comunisti con falce e martello, ma costruiamo un tavolo di discussione autonomo dal Partito democratico per portare avanti insieme certi temi sul lavoro, contro la guerra e il nucleare - dice Ferrero - Speriamo che a questo tavolo si sieda anche Sel di Vendola. E lo spero per due motivi: insieme possiamo incidere sul programma elettorale e ottenere anche risultati interessanti alle urne, come dimostrano le primarie di Milano che hanno visto noi e Sel portare alla vittoria la candidatura di Pisapia».
La Federazione della sinistra ha già approvato una linea comune sulla delicata situazione politica attuale e manda un messaggio chiaro al Pd: «Non siamo d´accordo a qualsiasi governo tecnico di transizione - continua Ferrero - Chiediamo quindi di andare al voto: noi faremo la nostra parte sostenendo un´alleanza democratica che sia costruita sulle basi del Comitato di liberazione nazionale. Non ci deve essere quindi la destra e specie quei finiani che sono parte integrante del berlusconismo da quasi venti anni. In caso di vittoria, non chiediamo poltrone e di entrare al governo, anche perché non vogliamo ripetere gli errori del passato, ma dall´esterno sosterremo singoli provvedimenti, a partire dalla riforma della legge elettorale».
Il congresso che ha sancito la nascita della Federazione ha eletto come portavoce Oliviero Diliberto, che ha già indicato le prime tappe. Partecipazione alla manifestazione di piazza dell´11 dicembre indetta dal Pd e richiesta di uno sciopero nazionale perché «oltre a Berlusconi in Italia c´è da sconfiggere anche Marchionne».
Corriere della Sera 22.11.10
La Federazione della sinistra al Pd: impegnatevi con noi sulle questioni-chiave
di Dino Martirano
Diliberto sarà il portavoce: «Ai democratici non chiediamo un patto di governo, non ci sono le condizioni»
ROMA — Di nuovo in marcia con la Federazione della sinistra, verso il partito unico dei comunisti. Rieccoli uniti con la mano tesa al Pd, ma con l’occhio rivolto al «cugino pugliese» Nichi Vendola considerato un concorrente, per un patto programmatico-selettivo, soprattutto ora che l’Udc chiude ogni spiraglio a un governo del ribaltone. Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto sono tornati «sul luogo del delitto», stavolta però per una ricomposizione delle eterne frazioni che dominano da sempre il mondo comunista: così, nella sala dell’hotel Ergife di Roma, è nata la Federazione della Sinistra che poi è la somma di ciò che rimane di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani, di Socialismo 2000 di Cesare Salvi e dello spicchio più radicale della Cgil.
Il destino ha voluto che quella sala sotterranea sia la stessa del ’98, quando ci fu la scissione tra Rifondazione comunista e i Comunisti italiani che non volevano far cadere il governo Prodi.
Oggi quelle fratture pesano ancora nelle dinamiche interne. Cesare Salvi cede il testimone di portavoce a Diliberto che, più del «conservatore» Ferrero, vorrebbe accelerare il processo finalizzato alla nascita di un vero partito unico senza più alcun riferimento alle ragioni sociali del Prc e del Pdci: «Ai democratici non chiediamo un patto di governo perché non ci sono le condizioni e sappiamo bene che su alcuni temi è inutile aprire una riflessione. Ma su altre questioni — elevare l’obbligo scolastico a 18 anni, un fisco più equo, lotta al precariato del lavoro — chiediamo al Pd di impegnarsi, anche se, ripetiamo, non faremo parte di un eventuale esecutivo di centrosinistra. Questa è la nostra sfida».
Per Paolo Ferrero, invece, oltre a dialogare con il Pd, pur restando fuori da eventuali governi di centrosinistra, il compito della Federazione è quello di «ricostruire un movimento di lotta delle classi sociali subalterne per riconquistare i diritti, per rovesciare il capitalismo e per porre il problema della rivoluzione in Occidente». Il leader di Rifondazione sostiene che il Paese è spaccato in due: «Gli yacht e il letto di Putin che Berlusconi possiede ci fanno schifo perché noi abbiamo un’altra idea di società».
Al congresso fondativo della Fds, Cesare Salvi ha infine inviato un messaggio a Vendola e ai compagni di Sinistra ecologia e libertà — che avevano parlato di «risentimenti nella sinistra» — per difendere la Costituzione: «Io dico che è ora di passare dai sentimenti alla politica insieme».
il Fatto on line 22.11.10
Vendola: “Questione criminale nel Pdl. E Berlusconi non può emanciparsi”
Vendola: “Questione criminale nel Pdl. E Berlusconi non può emanciparsi”
“Nel Pdl c’è una questione criminale”. Il leader di Sinistra ecologia e libertà Nichi Vendola va all’attacco e commenta così le turbolenze che squotono la maggioranza. Ma il governatore della Puglia, intervistato ieri a SkyTg24 da Maria Latella, ne ha per tutti: il centrosinistra “è in affanno” e Fini “è contraddittorio e teme il voto”.
Vendola commenta le annunciate dimissioni di Mara Carfagna, ma all’indomani delle motivazioni della sentenza Dell’Utri, fotografa con parole durissime la situazione del Pdl. Con qualche riferimento al caso Cosentino: “La guerra per bande è la cifra dell’attuale situazione nel centrodestra e Berlusconi non può e non sa emanciparsi dalle relazioni con il mondo dell’ex segretario Cosentino. Relazioni che riguardano il rapporto tra politica e camorra”.
Ma se nel centrodestra “è in corso una guerra fra bande”, il centrosinistra non se la passa meglio. ”A sinistra da troppo tempo c’è una sorta di conte Ugolino che tende a divorare tutto ciò che incontra per strada”. Alla domanda di Maria Latella se nel centrosinistra ci sia una ”questione psicanalitica” per i contrasti tra i leader, Vendola risponde che ”guerra per bande e questione psicanalitica non sono sovrapponibili”. Poi la precisazione: “E’ difficile – sottolinea il leader di Sel – convivere in una casa comune plurale dove la diversità non sia considerata una minaccia, un pericolo, ma una forma di arricchimento. Invece a sinistra il dibattito sembra quello di pezzettini di ceto politico separato”.
Secondo il leader di Sinistra ecologia e libertà le primarie rappresentano lo strumento fondamentale del popolo di centrosinistra per rivitalizzare una coalizione in affanno. “Le primarie – ha spiegato ancora il governatore della Puglia – sono l’idea che la politica non si gioca dentro i talk show e dentro il Palazzo. La politica si gioca in relazione con quelle centinaia di migliaia di studenti che hanno protestato contro la Gelmini, si gioca all’aria aperta, in una relazione col popolo e in una connessione con la vita”.
Tra i due litiganti, centrodestra e centrosinistra, non può però spuntarla il “terzo”. In questo caso Gianfranco Fini: “Il presidente della Camera – sostiene Vendola – teme che il precipizio verso il voto possa non dargli un salvagente abbastanza robusto. Fini vive una discreta contraddizione tra orizzonte strategico e questioni tattiche”.
Corriere della Sera 22.11.10
L’Italia e le ex vallette alla riscossa
di Maria Laura Rodotà
«Un tempo qui era tutta Carfagna». L’ha scritto giorni fa l’autore comico Luca Bottura. Bottura è avanti. Almeno si spera che lo sia. Che tra qualche tempo la cooptazione politica causa grazie femminili, le nomine discusse, l’eventuale duro lavoro delle belle cooptate buttato via in una melmosa tempesta di maldicenze, diventino un ricordo. E una strategia donnesca da non seguire. E che la carriera fulminea poi dolentissima e funesta di Mara Carfagna, ex modella, ex valletta, poi deputata, ora quasi ex ministro, non sia un modello né uno scandalo ma un monito. Per le ragazze confuse e precarie tentate dalle scorciatoie. Per gli uomini che rispettano le donne; e che però ora, su Carfagna, fanno battute incresciose. Il massacro mediatico anti-Carf potrebbe essere l’occasione per riconsiderare e metter fine a una pratica di selezione politica (politica?) che è diventata un’anomalia italiana e una barzelletta internazionale. Per (non) farvi due risate e verificare a che punto siamo, andatevi a vedere su YouTube uno spezzone della popolarissima serie americana 30 Rock. Due personaggi arrivano a una festa in costume. Li accoglie una ragazza molto bella coperta solo da un mini-bikini. «Da cosa sei mascherata?», le chiedono. Risposta: «Sono un senatore italiano!». Eh no, così non va. Oltre a tentare di evitare un default finanziario, c’è bisogno di recuperare il default dell’immagine nazionale. E la credibilità di una classe dirigente. Minata non dalle fanciulle che hanno colto qualche opportunità e in seguito hanno cercato di far bene, ma dai leader che le hanno preferite ad altre ed altri dal curriculum più adeguato. Carfagna, nei primi tempi bollata dalla stampa estera come una «former topless model», è stata poi diligentissima e ostentatamente castigata. E combattiva su questioni di oscuri traffici e spazzatura; e perciò coperta di spazzatura lei stessa. Quasi a voler oscurare le 2.400 tonnellate di mondezza vera che giacciono nelle strade campane. Ora in molte sono sinceramente solidali con Carfagna. Ma ora, c’è da riflettere sui molti cursus honorum carfagneschi. Non per via di pregiudizi bacchettoni; per buonsenso. Perché ha senso preferire, per donne e uomini, la preparazione e la competenza pregressa. E l’onorabilità personale. Che non vuol dire castità e fedeltà a ogni costo: durante le ultime elezioni americane, alcune giovani candidate hanno rivendicato con successo il loro diritto a un passato, a qualche eccesso sessuale, a scemenze varie. Ma il caso italiano è diverso. Le ragazze italiane (e i ragazzi) hanno davanti agli occhi modelli stravaganti, più televisivi-trash che politici, ormai. Se nulla cambierà, se un calendario varrà ancora più di un master e di un intenso attivismo politico e sociale, le migliori (i migliori) rinunceranno o se ne andranno. E noi resteremo con la mondezza, e con le donne offese. Speriamo che la riscossa della ministra ex valletta serva a qualcosa, speriamolo davvero (e crediamoci; anche se a vari maschi, a destra, centro e sinistra, di sicuro dispiacerà).
Corriere della Sera 22.11.10
Il 70 per cento di chi voterebbe Fini gli chiede di rompere con il Cavaliere
di Renato Mannheimer
In queste settimane, il clima politico sembra mutare di continuo. Fino a qualche giorno fa le elezioni anticipate sembravano inevitabili, oggi lo scenario pare diverso e la prospettiva di nuove consultazioni meno probabile. I motivi di dissuasione sono principalmente il timore di azioni speculative a nostro danno sui mercati internazionali e l’incertezza sui possibili risultati elettorali.
Di qui i tentennamenti e i ripensamenti, forse anche da parte di Fini. Che deve tenere conto del dibattito all’interno del proprio partito: Fli risulta ancora fragile e diviso, sia sul piano della coesione interna, sia, inevitabilmente, su quello organizzativo. Ne è prova, oltretutto, l’oscillazione continua delle entità delle intenzioni di voto. Che sono risultate molto elevate dopo l’annuncio di Mirabello, ridimensionate nel periodo successivo, rielevatesi (raggiungendo e, secondo alcuni, superando l’8%) in seguito all’evento di Bastia Umbra e diminuite lievemente negli ultimi giorni.
Anche per questo, Fini deve considerare attentamente gli umori di chi esprime la disponibilità a votarlo e dell’elettorato in generale. A quest’ultimo è stata chiesta un’indicazione sulla linea che il leader di Fli deve tenere: più incline al compromesso o più rigido fino a costringere Berlusconi a dimettersi? La maggioranza dei cittadini opta per quest’ultima soluzione. Si tratta però di una porzione non eccessiva, pari al 52%: il resto si divide tra un atteggiamento che suggerisce la ricerca di un compromesso e una indecisione sul da farsi.
Più che il dato generale, è però interessante esaminare l’opinione degli elettori dei diversi partiti. I votanti per il Pdl sono, come era facile aspettarsi, assai più favorevoli (87%) al compromesso con Berlusconi. E lo sono anche, seppur in misura lievemente minore (77%), quelli per la Lega. Sul fronte opposto, gli elettori del Pd optano grossomodo con la stessa intensità (80%) per la linea dura. Ma, ciò che è più significativo, assume quest’ultima posizione — un atteggiamento di maggiore intransigenza — anche la maggioranza (69%) di quanti indicano l’intenzione di votare per Fli. Anche se una parte considerevole di questi ultimi, più di uno su quattro, esprime la posizione contraria.
L’Unità 22.11.10
Spettacolo. Cala il sipario
Lo spettacolo si ferma. Accade oggi, 22 novembre, a seguito dello sciopero nazionale, indetto da Slc, Fistel e Uilcom, degli addetti di cinema, teatri lirici e di prosa (250.000, fra masse artistiche e personale tecnicoamministrativo, che raddoppiano se si allunga la filiera produttiva alla distribuzione e commercializzazione dei prodotti) per la durata delle prestazioni. I sindacati, che organizzano sempre stamattina a Roma (alle 10,30 al cinema Adriano) una manifestazione unitaria, chiedono, fra l’altro, l’approvazione delle leggi quadro di sistema dello spettacolo dal vivo e del cineaudiovisivo; di riportare il Fus al livello del 2008
(450 milioni); la conferma del rifinanziamento degli incentivi fiscali già esistenti (tax shelter e tax credit) e l’attivazione di analoghi provvedimenti per lo spettacolo dal vivo; la non delocalizzazione delle produzioni e la strutturazione dell’industria cineaudiovisiva; il rinnovo dei contratti per fondazioni lirico sinfoniche, teatri di prosa e produzione cinematografica; un tavolo ministeriale per accedere agli strumenti di protezione sociale e politiche di riemersione della produzione culturale e dello spettacolo per tutelare i precari. “La situazione è molto grave e preoccupante – denuncia Silvano Conti, coordinatore nazionale Slc –: se i tagli saranno confermati, l’investimento in cultura scenderà allo 0,15% del Pil, rispetto all’attuale 0,30, mentre la media Ue è dell’1,5. La crisi non sarà più controllabile e il settore chiuderà, malgrado la creatività incida sul Pil del 2,8%. Così rischiamo che il paese butti via la parte migliore di sé, causando una pesante disoccupazione in figure artistiche e tecniche, altamente qualificate e poco riproducibili”. “Ci batteremo fino in fondo – rileva Emilio Miceli, segretario generale Slc – affinché arrivino i dovuti finanziamenti, le adeguate leggi di sistema e la definizione di una rete protettiva per i lavoratori. Oltre a garantire migliaia di posti di lavoro, produzione culturale e spettacolo sono un forte volano per l’economia e un fondamentale strumento di coesione sociale”.
L’Unità 22.11.10
Da Milano a Bari i lavoratori del settore incrociano le braccia. Bloccati i set, chiusi gli stabili
Promuovono la protesta i sindacati confederali insieme a tutte le associazioni di categoria
Niente teatri, cinema, tv, concerti Oggi lo sciopero dello spettacolo
Dopo l’occupazione del red carpet al Festival di Roma e il sit in davanti a Montecitorio l’intero mondo dello spettacolo sciopera oggi contro l’assenza di una politica culturale del governo. La protesta in tutta Italia.
di Gabriella Gallozzi
Chiusi i cinema, i set, i teatri, le sale da concerto. E niente attori neanche nei programmi tv. Oggi l’intero mondo dello spettacolo incrocia le braccia per lo sciopero generale promosso dai tre sindacati confederali (Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil) per protestare contro le mancate politiche culturali del governo. Dopo l’occupazione del red carpet al Festival di Roma, il sit in davanti a Montecitorio e il collegamento in diretta con Annozero, i lavoratori del settore, compatti, proseguono la battaglia per chiedere al governo azioni concrete e non solo «promesse».
I TEMI URGENTI
Le questioni sul tavolo sono tante ed urgentissime. Si va dalla richiesta di nuove leggi di sistema per lo spettacolo dal vivo e l’audiovisivo al reintegro degli sgravi fiscali per il cinema (tax credit e tax shelter), dal «blocco» alla delocalizzazione dei set al reintrego del Fus, il fondo unico per lo spettacolo ridotto ai minimi storici (262 milioni di euro). Tutte richieste che il ministro Bondi si è impegnato da mesi a portare avanti, ma senza alcun risultato.
Oggi, dunque, l’Italia dello spettacolo si fermerà. E anche nelle dirette tv, dal Grande fratello a Vieni via con me saranno letti messaggi di solidarietà alla manifestazione. Tante le iniziative di lotta in programma. A partire da Roma, dove in mattinata al cinema Adriano, attori, registi, tecnici e sondacalisti si ritroveranno per un’assemblea aperta. A Milano è previsto, invece, un convegno alla presenza del direttore de Il Piccolo Escobar, Lissner e Toni Servillo. A Bari i manifestanti saranno in presidio davanti al Petruzzelli. Mentre a Genova Zubin Metha dirigerà un concerto gratuito al Carlo Felice, il primo teatro ad essere stato colpito dai tagli. Una serata organizzata dal maestro proprio in solidarietà con la protesta.
DA MILANO A BARI
Si fermerà tutta la produzione culturale dello spettacolo, ribadisce per la Slc-Cgil, il segretario nazionale Silvano Conti: «La situazione è gravissima e preoccupante». Così grave e così preoccupante, fa notare il sindacalista, che per la prima volta si protesta con la solidarietà di associazioni come Agis e Anica, le associazioni delle imprese. Per questo, per dare un segno forte, si punta a fermare tutto. I sindacati si attendono un’adesione allo sciopero altissima, tra i 250-300 mila lavoratori. «Le promes-
se non ci bastano, non possiamo più stare appesi», dice Andrea Purgatori, presidente dell’Associazione 100 Autori, una delle tante sigle che aderiscono allo sciopero. «Giovedì sera ad Annozero Bondi continuava a promettere e intanto al mattino c'era stato un consiglio dei ministri dal quale lui è uscito senza una briciola». Certo resta in piedi la speranza che il rinnovo degli sgravi fiscali per il cinema possa arrivare a fine anno con il decreto Milleproroghe: «Per noi sarebbe comunque tardi ribatte Purgatori se la certezza del rifinanziamento arriva a fine dicembre, la conseguenza è che a gennaio, febbraio e marzo le produzioni stanno ferme. Per questo cominciamo a pensare che lo scontro sul cinema sia politico».
L’Unità 22.11.10
Ascanio Celestini
«La cultura? Appartiene a tutti»
Parla il regista e attore «La produzione culturale deve essere pubblica, per questo servono i finanziamenti. Solo così sarà davvero libera
di Francesca De Sanctis
La cultura chiude per sciopero. E allora tutti in piazza: registi, attori, ballerini, musicisti... «Manifestare è un atto rituale spiega Ascanio Celestini È chiaro che se il mondo dello spettacolo protesta per un giorno non è come se si fermassero gli operai: loro sì stopperebbero la macchina. Ma è importantissimo che si riapra tutta la questione legata al Fus, alla legge dello spettacolo dal vivo... Per questo bisogna esserci, farsi sentire». Ascanio, qual è il problema più urgente da affrontare?
«Soprattutto con l’ultimo governo anche se in realtà il percorso è molto più lungo la produzione culturale è considerata sempre più superflua. Ma perché fare film, perché fare teatro? È un pregiudizio che in fondo c’è da sempre per chi fa spettacolo. Eppure gli investimenti culturali, in Italia, sarebbero gli unici davvero sensati. Bisogna investire nella cultura, ecco cosa bisogna fare. Mentre una macchina o dei calzini puoi farli fabbricare in Cina o nei paesi poveri, un film o uno spettacolo teatrale non si può fare in Serbia. Da anni in Italia c’è un alto livello della produzione culturale: bisogna solo fare in modo che non crolli».
E ti pare facile visto come vanno le cose in Italia... «Eppure fare cinema converrebbe. Certo per quanto riguarda il teatro la situazione è bloccata da anni: gli Stabili fanno le stagioni solo scambiandosi gli spettacoli tra di loro. I film italiani invece crescono, girano l’Europa. E c’è negli ultimi anni anche una nuova drammaturgia. Quindi questo è il momento giusto per investire. Però non si fa».
Per questo oggi il mondo dello spettacolo è in sciopero: per far arrivare questo messaggio al governo. «Certo che se i nostri ministri continuano a pensare che la cultura senza finanziamenti pubblici è più libera...Ma libera di fare cosa? Senza soldi come si fa? C’è stato un momento, quando all’Eti è arrivato Ninni Cutaia, che davvero pensavo potesse cambiare qualcosa. E invece il governo cosa ha fatto? Ha chiuso l’Eti, così, da un giorno all’altro. In campo cinematografico c’è Filmitalia, per esempio, che fa un ottimo lavoro di promozione dei film italiani e non è neanche un ente pubblico. Allora perché non deve esserci un Ente teatrale italiano che fa un lavoro simile per il teatro e la danza?»
Esiste una via d’uscita?
«Bisogna ricominciare a far funzionare la macchina. Come? Con la promozione e con i finanziamenti. E bisogna aver chiara la differenza tra pubblico e privato. Ci siamo abituati all’idea che l’ente pubblico va avanti grazie ai finanziamenti dei privati, è un po’ tutto mescolato. Però c’è una bella differenza: il privato è lui, il pubblico è tutti noi, per questo servono i finanziamenti. Il teatro, il cinema, la danza, la musica sono di tutti noi: la produzione culturale deve essere pubblica perché così è libera e svincolata dai privati. Si parla tanto dei teatri di cintura: per il Quarticciolo, per Tor Bella Monaco, per Ostia i tre teatri sono dei punti di riferimento. Al governo bisognerebbe dire che non servono 30 teatri di cintura perché chi sta in periferia è deficiente o non può andare in centro, ma perché è importante avere uno spazio pubblico. Dunque perché non partiamo dalle scuole? Alle quattro, quando terminano le lezioni, si potrebbero aprire le porte agli artisti e la sera si va in scena. È un’idea, no?».
l’Unità 22.11.10
Per una legge quadro su diritti e prestazioni
Se l’infanzia per il governo non conta
di Anna Serafini
Le scelte del governo di centro destra indeboliscono i diritti dei bambini e adolescenti e rendono più difficili le loro condizioni di vita. Per questo abbiamo dato parere negativo, insieme ad altre forze di minoranza, come del resto ha fatto la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, al Piano d'Azione presentato dal governo. Il centro destra non ritiene l'infanzia e l'adolescenza un investimento per il presente e il futuro del Paese. L'Italia infatti spende per i servizi all’infanzia da 0-6 anni lo 0,65 rispetto al Pil, a differenza della Svezia 1,45, della Francia 1,6 e di altri paesi. È una posizione ingiusta e arretrata che non lega la crescita del Paese alla crescita sociale e culturale di ogni bambino che vive nel nostro Paese. Il governo non è stato in grado di approvare una legge sul Garante dell'Infanzia e Adolescenza ed ha varato un Piano di azione tardivo, inadeguato e privo di risorse certe. La stessa Finanziaria in esame taglia il 30% all’anno le risorse per l’infanzia e l’adolescenza e azzera quelle per i servizi alla prima infanzia, nonostante che l'Italia, con il 12,7% di copertura, secondo l’Istat, sia il fanalino di coda dell'Europa. Anche per la scuola l'Italia, con il 9%. della spesa pubblica, è sotto la media europea che è del 13%. Questi tagli e la mancata politica fiscale a favore delle famiglie con figli, hanno prodotto l'aumento del tasso di povertà minorile, la più alta in Europa, e della dispersione scolastica, dell’obesità infantile, anch’essa la più alta tra i paesi europei, della bulimia e dell’anoressia, la scarsità dei servizi alla prima infanzia e per gli adolescenti; l'aggravarsi del divario tra nord e sud; le difficoltà di integrazione per gli alunni stranieri che arrivano al 7% del totale. I bambini e gli adolescenti oggi sono al centro della cronaca nera. Spesso in modo ossessivo, quasi morboso. A questo clamore non corrisponde una reale attenzione alla loro vita. Anzi spesso c'è una spinta a renderli precocemente adulti e a non rispettare le fasi della loro crescita. Inoltre aumenta, negli adolescenti, l’inclinazione alla depressione che dipende, per gli esperti, dal fatto che gli adolescenti non ritengono il contesto in cui vivono idoneo a poter sviluppare le proprie potenzialità. È un ripiegamento precoce e questo è un male per loro e per il Paese. Abbiamo bisogno di un Paese che guardi con fiducia alle sfide presenti. Lo stesso federalismo, senza principi, valori e politiche condivise, potrebbe rendere ancora più gravi le differenze sociali tra i bambini e tra bambini del sud e del centro-nord. Il Pd ritiene urgente una legge quadro, finanziata con un Fondo che aumenti progressivamente rispetto al Pil, che contenga i livelli essenziali sulle prestazioni sociali per i diritti sociali e civili dell’infanzia e dell'adolescenza. La presenteremo presto a Palermo nella prima Conferenza nazionale del Pd sull'infanzia e adolescenza.
Repubblica 22.11.10
Le nuove sfide della democrazia nell´era della crisi economica
di Nadia Urbinati
A giudicare dal suo successo planetario, sembra di poter dire che la democrazia non abbia più nemici. Chi può dirsi oggi anti-democratico? Ma il non aver più rivali credibili esterni non significa che abbia vinto le sfide al suo interno. Una delle condizioni essenziali della cittadinanza democratica è che la società offra soddisfacenti opportunità di formazione e di riuscita e che le carriere siano aperte a tutti senza discriminazione; infine, che ci sia un´ampia classe media, un fattore quest´ultimo essenziale per la stabilità del sistema. I rischi maggiori vengono oggi dalla destabilizzazione di questo equilibrio socio-economico. Rischi classici e che si rinnovano. A scanso di equivoci, la democrazia non è governo degli economicamente eguali, ma governo nel quale le condizioni sociali ed economiche non devono valere a determinare il trattamento da parte della legge e il diritto di contribuire al processo decisionale. La democrazia consiste nell´impedire che le diseguaglianze sociali si traducano in diseguaglianze di potere politico. Il suo è un lavoro di contenimento.
A questo scopo, e proprio perché la libertà economica è fondamentale, le società democratiche moderne si sono preoccupate non solo di creare efficaci istituzioni politiche, ma anche di garantire ai loro cittadini le condizioni affinché ciascuno si formi le capacità per far sì che gli sforzi personali alla realizzazione dei propri progetti di vita non siano inutili. La democrazia non può disinteressarsi dello stato dell´eguaglianza dei suoi cittadini mentre, d´altra parte, non identifica l´eguaglianza con l´egualitarismo. Per questa ragione, le politiche sociali sono l´unico strumento che ha per difendere se stessa dal rischio permanente di erosione dell´eguaglianza.
La crisi economica sta portando alla superficie un fenomeno che è generale e riscontrabile in tutti i paesi: la crescita straordinaria del divario tra ricchi e poveri; più esplicitamente, l´assottigliamento della fascia dei veramente ricchi e quindi della classe media, con il conseguente allargamento della fascia dei meno abbienti e dei poveri. Negli Stati Uniti, per esempio, l´1% degli americani gode del 23.5% della ricchezza. In Italia, stando ai dati Istat, il 13,6% della popolazione si trova in condizioni di «povertà relativa». Queste cifre dovrebbero preoccupare chi ha a cuore lo stato di salute della democrazia.
In un recente volume dal titolo significativo Winner-Take-All-Politics, Jacob S. Hacket e Paul Pierson (un economista di Yale e uno di Princeton) sostengono che i ricchi attuano da anni una politica di conquista del potere. La dimostrazione verrebbe non principalmente dall´attuale crisi economica, ma da una strategia politica che, cominciata nella seconda metà degli anni ´70, ha favorito politiche fiscali che hanno teso a beneficiare i più abbienti. Negli Stati Uniti, a iniziare questa politica è stato il democratico Jimmy Carter, al quale si deve l´avvio della deregulation. La collusione di potere economico e potere politico che si è consolidata a partire da quegli anni, spiegano gli autori del libro, è andava verso una direzione sola, poi suggellata dalla politica fiscale del governo G. W. Bush: la deresponsabilizzazione dei più ricchi nei confronti della società, della quale usano i vantaggi ai quali contribuiscono anche i meno ricchi. La riduzione fiscale a chi guadagnava più di 200.000 dollari l´anno è stata propagandata dal governo Bush con l´argomento che ciò avrebbe incentivato la produzione e indirettamente favorito tutti. Il fatto è che coloro che hanno ottenuto le agevolazioni dallo Stato non hanno investito per creare nuovi posti di lavoro ma hanno creato un vero regime di privilegio (sul The Wall Street Journal si parla senza giri di parole di «plutocrazia»).
La storia americana è esemplare ma non unica. Come gli studiosi che si occupano del consolidamento democratico sanno, le politiche scolastiche sono tra i più importanti indicatori di successo o all´opposto di insuccesso, poiché tra le opportunità l´educazione è quella che più risente dell´influenza delle condizioni economiche e famigliari. La nostra Costituzione aveva previsto questo e si era premunita di neutralizzare questo fattore di diseguaglianza con l´Art. 33 che riconosce la libertà ai privati di istituire scuole ma «senza oneri per lo Stato», ovvero senza togliere risorse alla scuola di tutti. Eppure governi e parlamenti (di entrambe le coalizioni) negli ultimi due decenni hanno trovato il modo di aggirare questa norma e di intaccare uno dei pilastri della cittadinanza democratica.
Come si restringe paurosamente la superficie dei ghiacciai polari, così si restringe la fascia dei cittadini che godono di una sufficiente eguaglianza di opportunità. L´analogia è certamente retorica – benché sia interessante vedere come la qualità della vita ambientale e la qualità delle democrazie marcino nella stessa direzione: in discesa. Nel caso delle democrazie, un´altra analogia, questa volta non retorica, merita di essere considerata: all´aumento della diseguaglianza sociale fa seguito il declino delle opportunità politiche per la grande maggioranza dei cittadini di contare o avere voce. Un indicatore di questa trasformazione oligarchica sta nell´impiego di quantità sempre maggiori di denaro privato sia nelle campagne elettorali sia nella politica ordinaria, sia come sappiamo fin troppo bene nei sistemi di informazione: per persuadere i rappresentanti a favorire o ostacolare proposte legislative, e per controllare l´opinione pubblica in modo tale da riuscire a orientare il comportamento elettorale dei molti verso politiche che favoriscono i pochi.
Corriere della Sera 22.11.10
Quell’errore di traduzione che cambia il «prostituto» in «prostituta»
di Luigi Accattoli
Parlando dell’uso del profilattico, Ratzinger ha fatto un esempio al maschile. Il Vaticano: per evitare il luogo comune
Il Papa ha detto «prostituto» o «prostituta»? Ha detto «prostituto» al maschile, ma parlando in tedesco e il traduttore che l’ha voltato in italiano ha preso un bel granchio. E pensare che la nostra lingua, a differenza di altre che hanno costretto i traduttori a ricorrere a delle parafrasi, ha da sempre la parola «prostituto».
In Vaticano dicono che «la sostanza» non cambia: cioè il ragionamento di Benedetto XVI sui «casi giustificati» di uso del profilattico resta valido alla pari, sia che quell’uso lo realizzi in proprio un «prostituto» sia che una prostituta l’esiga dal cliente. Ma resta la questione del perché il Papa sia andato a prendere un caso più raro: e forse si deve pensare all’attitudine dell’intellettuale che non ama il luogo comune e — magari — intende segnalare la particolare esposizione all’Aids delle persone coinvolte in rapporti omosessuali.
Siamo alla fine del capitolo 10 del libro intervista «Luce del mondo», (che sarà nelle librerie martedì nelle edizioni tedesca, italiana, inglese e francese), dove Benedetto risponde a due domande dell’intervistatore Peter Seewald sull’uso del profilattico nella lotta all'Aids. Secondo la traduzione italiana anticipata sabato dall’Osservatore Romano, il Papa direbbe tra l’altro: «Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole».
Il testo tedesco ha «ein Prostituierter» e non «eine Prostituierte», come avrebbe dovuto essere se il Papa avesse inteso dire «una prostituta». In inglese hanno tradotto «male prostitute», in francese «homme prostitué». Il traduttore italiano avrebbe potuto utilizzare la parola «prostituto» che il Grande Dizionario UTET documenta alla pari con prostituta e che è usata anche da grandi autori recenti come Montale e Pasolini.
Come se ne esce? Assodato che il senso non cambia — perché, dicono in Vaticano, si tratta in ambedue i casi di un uso del profilattico finalizzato a contenere il rischio dell’infezione, in un rapporto sessuale comunque «disordinato» — non resta che correggere la traduzione in vista della prima ristampa, che dovrebbe arrivare a giorni: la tiratura iniziale è stata di 50 mila copie.
Nei blog e nei siti internet che si occupano di cose papali si sono fatte varie speculazioni sulla valenza più ampia che potrebbe avere il caso della «prostituta» rispetto a quello del «prostituto», in quanto nel secondo caso il profilattico avrebbe una pura funzione di protezione mentre nel primo vi sarebbe anche la funzione contraccettiva. Ma gli esperti del Vaticano fanno osservare che il «prostituto» potrebbe anche avere una cliente donna e in questo caso saremmo di nuovo nella doppia funzione.
Sembra più ragionevole attribuire la scelta — da parte del Papa — del caso del «prostituto» al desiderio di uscire dalla casistica abituale: una coppia sposata in cui l’uno dei due sia sieropositivo, un soggetto non capace o non disponibile a evitare rapporti promiscui, una prostituta che può fare da trasmettitrice del contagio ai clienti. Un poco lo stesso atteggiamento colto e anticonformista che aveva spinto Benedetto XVI a citare un imperatore bizantino — Manuele II Paleologo — in disputa con «un persiano», nella famosa lectio di Regensburg.
Corriere della Sera 22.11.10
I due milioni di italiani che «sentono le voci»
di Mario Pappagallo
«Io penso che si tratti di allucinazioni acustiche, io le ho avute un paio di volte dopo essermi svegliata improvvisamente per via di incubi e aver poi richiuso gli occhi per cercare di addormentarmi. Nel mio caso il cervello non era del tutto sveglio, per cui io sebbene in uno stato mentale di veglia, sentivo questi rumori ad occhi chiusi e mi spaventavo moltissimo, sapendo di essere sola. Questi rumori sparivano subito se riaprivo gli occhi, ma riapparivano immediatamente al richiuderli. Uno stato di dormi-veglia dunque. Penso che se succeda ogni tanto sia una cosa normale, se invece succede ogni giorno potrebbe esserci una disfunzione organica...». La testimonianza di una giovane donna, Giovanna, 35 anni, su un blog. Ne parla in Rete alla ricerca di altri che «sentono le voci». Per non sentirsi sola. Per non pensare di essere matta. E sola non è. Di allucinazioni uditive soffrono oltre due milioni di italiani. Voci o rumori che non provengono dall’esterno e non ne parla per non passare per pazzo. Come è sempre accaduto dalla notte dei tempi, se non si veniva considerati Cassandre o soggetti paranormali in linea diretta con le divinità. Ma artisti del calibro di Vincent Van Gogh o Ligabue tra i disturbati di mente sono finiti. «In Lombardia si stima siano circa 270 mila coloro che soffrono di allucinazioni uditive, sonore», dice Giuseppe Tissi, responsabile del Centro psico-sociale dell’ospedale Sacco. Che si appella a tutti coloro che temono di essere considerati «matti», a uscire allo scoperto: «Gli studi di Marius Romme, università di Maastricht, su 15 mila persone — spiega Tissi — hanno evidenziato che una percentuale compresa tra il 2 e il 4 per cento della popolazione è coinvolta. E in due terzi di questi non esiste alcuna patologia psichiatrica». Chi ha provato l’esperienza dell’allucinazione uditiva a volte dunque lo nasconde anche alle persone più vicine. «Ma è sbagliato — mette in guardia Tissi —. In questi casi, la paura di trasformare il proprio status in "paziente" può condurre a una vita interiormente isolata. L’obiettivo è anche far cadere un tabù: si possono "sentire le voci" e avere una vita del tutto soddisfacente. In alcuni casi cercare di eliminare le allucinazioni può addirittura risultare dannoso». Le allucinazioni infatti non sono sempre negative e tantomeno spaventose: spesso si tratta di invasioni gradevoli con cui è possibile stabilire una sorta di relazione che produce effetti positivi: «Alcune persone vivono le voci come una compagnia e si sentono sole se le perdono. È decisivo non sentirsi sovrastati dalle proprie allucinazioni. Quando si riesce a non avvertirle più come un problema si smette di venirne condizionati». Spesso — nel 70% dei casi — la causa è di origine traumatica, un evento particolarmente stressante a livello emotivo: una violenza sessuale, un’aggressione, una catastrofe naturale, un lutto. «È molto importante, e quasi mai semplice, individuare questo trauma. Rimane sepolto nella memoria della persona ed è apparentemente inaccessibile: di fronte a domande superficiali non emerge, lasciando all’esaminatore l’impressione errata che le voci non abbiano relazione con gli eventi di vita. L’impatto delle nostre esperienze sulla psiche è assolutamente soggettivo». Quando le voci sono sgradevoli, perché minacciose, o svalutanti, o danno ordini, diventano un problema. In questi casi è importante un lavoro di ricerca del trauma che le ha originate, lavoro che spesso si fa più volentieri in un gruppo di auto e mutuo aiuto, insieme allo specialista e a persone con lo stesso problema.
l’Unità 22.11.10
Nell’83 la ragazza potrebbe essere stata rapita per assecondare un capriccio di un prelato
Le pressioni I banditi avrebbero poi utlizzato l’arma del ricatto contro Marcinkus e lo Ior
La «Magliana» e un movente sessuale dietro alla scomparsa di Emanuela
di Angela Camuso
Aveva 15 anni ed era una cittadina vaticana, Emanuela Orlandi sparì a Roma nel giugno del 1983. Da cinque anni l’indagine è stata riaperta e presto si annunciano sviluppi nell’inchiesta curata dai pm romani.
Emanuela Orlandi rapita dalla banda della Magliana per assecondare un capriccio di natura sessuale di un alto prelato. Quindi conseguentemente eliminata, per farla tacere per sempre, da quei criminali, con un delitto che sarebbe diventato un’arma micidiale nelle loro mani per ricattare il Vaticano. I banditi pretendevano la restituzione dei capitali investiti nello Ior di Marcinkus, attraverso le casse del Banco Ambrosiano. E quello era il prezzo da far pagare a chi paventava un enorme scandalo. Questo l’agghiacciante retroscena ipotizzato dagli investigatori che a Roma da tempo lavorano sulla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana, figlia del postino personale di papa Woytila sparita il 22 giugno del 1983, dopo essere uscita dal conservatorio vaticano di piazza Sant’Apollinare a Roma, vicino piazza Navona.
La piazza è la stessa dell’omonima basilica che nella sua cripta ospita il corpo di Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi della Magliana assassinato nel ’90 e lì seppellito accanto a personaggi illustri con il nulla osta del cardinale Ugo Poletti, allora capo della Cei, su sollecitazione del reggente della chiesa monumentale. Anche sul mistero di quella sepoltura, che presto potrebbe essere violata con un ordine di riesumazione della salma, c’è qualche novità.
LA SEPOLTURA DI DE PEDIS
«Il vero motivo per cui De Pedis fu seppellito nella basilica è strettamente connesso al mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi», ha dichiarato il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, che coordina le indagini sull’Orlandi, durante un incontro pubblico. «E a differenza di quanto la famiglia ha fatto intendere con le sue dichiarazioni rese ad alcuni organi di stampa, non fu De Pedis a chiedere di essere seppellito lì: perché quel bandito alla morte non pensava affatto». Ai cronisti, la moglie di De Pedis aveva raccontato che il marito le aveva espresso quel desiderio il giorno del matrimonio, celebrato nella medesima chiesa dal suo reggente, don Vergari, che in precedenza aveva fatto il cappellano nelle carceri e così di De Pedis era diventato amico. In sede di interrogatorio, invece, la vedova ha riferito di essere stata lei ad aver avuto l’idea di chiedere quella benevolenza al sacerdote, per onorare l’amato defunto. Don Vergari invece, ha fornito ai pm una versione dei fatti sull’argomento identica a quella dichiarata dalla donna precedentemente ai giornali e cioè secondo i magistrati non rispondente a verità.
SESSO, SANGUE E DENARO
Il quadro ipotizzato è un insieme, tassello dopo tassello, degli elementi finora emersi nel corso della delicata indagine: intercettazioni, testimonianze, perquisizioni e soprattutto la scoperta dell’identità dei due telefonisti, cioè il famoso depistatore “Mario”, che chiamò casa Orlandi a pochi giorni dal rapimento e il giovane autore della chiamata in tv a Chi l’ha visto?, che invitò per ottenere la soluzione del mistero a vedere chi fosse seppellito nella basilica. Secondo una perizia collegiale del tribunale i due telefonisti sarebbero Giuseppe e Carlo Alberto De Tomasi, padre e figlio, il primo storico collaboratore di Renatino negli affari finanziari ed entrambi attualmente indagati per usura. I due hanno sempre negato di essere i telefonisti del caso Orlandi ma la procura sospetta che sappiano verità ancora non dette. Non sarebbero, comunque, formalmente indagati, mentre com’è noto sono stati incriminati per il rapimento e l’uccisione della ragazzina quattro persone. Due sono malavitosi romani vicini a De Pedis, Angelo Cassani detto Ciletto e Gianfranco Cerboni detto Giggetto, entrambi a piede libero. Un altro è l’uomo ritenuto l’autista di De Pedis e cioè Sergio Virtù, in carcere per altri reati e la quarta persona è la supertestimone Sabrina Minardi, l’ex amante di Renatino che nel 2005, con le sue deposizioni fece riaprire l’indagine.
Corriere della Sera 22.11.10
Il neo-colonialismo agricolo La Cina compra terre in Africa
di Federico Fubini
Anche gli Stati del Golfo fanno campagna acquisti nei Paesi poveri
Approvvigionamenti diretti senza gli sbalzi del mercato
Mo Ibrahim vive un’esistenza comoda in una villa nel sud della Francia, ma è un eroe africano del nostro tempo. Sudanese, cresciuto come esperto di telecomunicazioni, nella sua vita ha creato e poi venduto a metà dello scorso decennio (per circa tre miliardi di dollari) la più grande compagnia africana di telefoni cellulari.
A una recente conferenza a Marrakech, organizzata dall’Ifri di Parigi, Ibrahim ha riassunto la sua vita successiva in poche parole: «Ho deciso che non avevo bisogno di tutti quei soldi». Da allora la fondazione che porta il suo nome, nella quale collabora Kofi Annan, segue l’operato di tutti i governi del continente africano e li incalza sui principi e i valori che stanno all’opposto dell’esperienza coloniale: democrazia, trasparenza, responsabilità, impiego ragionevole e non banditesco delle risorse, responsabilità dei governanti nei confronti dei cittadini.
Ma quando alla conferenza di Marrakech qualcuno achiesto a Mo Ibrahim di pronunciarsi sul nuovo colonialismo della Cina in Africa, il più grande filantropo del continente ha preso in contropiede la sua platea in gran parte francese. «Sono le imprese europee che continuano a concludere accordi segreti con i capi di Stato africani — ha detto —. E perché concludere contratti con clausole segrete, se non per pagare tangenti ai vari governi?»
Il paradosso del neo-colonialismo è che la legislazione europea non obbliga le imprese a rendere note tutte le clausole dei loro accordi con i vari governi esteri, neanche in Africa. La legge negli Stati Uniti, almeno da qualche mese, invece sì. E per esempio Petrochina, la più grande impresa di Stato di Pechino e probabilmente la più ingombrante presenza neo-coloniale nel continente nero, è quotata anche a New York. Dunque deve sottostare alla legislazione statunitense. La Cina che estende la sua influenza industriale e commerciale in quasi tutta l’Africa, era il messaggio implicito di Mo Ibrahim, in fondo è una nuova potenza coloniale più accettabile di quelle vecchie.Ovvio che la questione sia più complicata di così, specie quando il neo-colonialismo si esercita su una risorsa essenziale come il cibo. A maggior ragione lo diventa ora che lo spettro di una nuova crisi alimentare come quella del 2007-2008, quando si scatenarono sommosse in decine di Paesi poveri, non è più molto lontano. All’uscita dalla grande recessione nel mondo è tornato rapidamente uno squilibrio fra domanda e offerta di zucchero, soia, grano e altri cereali. Di conseguenza anche le quotazioni della carne e dei prodotti caseari stanno salendo a ritmi considerati imprevedibili fino a pochi mesi fa. Spinti dalla siccità in Russia e Ucraina quest’estate e dal maltempo e raccolti deludenti in varie altre regioni produttrici del mondo, i prezzi degli alimenti sono già fra il 40% e il 60% più alti di un anno fa. L’embargo russo sull’esportazione di grano, deciso in agosto, ha poi creato una reazione a catena. Anche l’Ucraina ha imposto un blocco parziale e questi vincoli hanno scatenato un’ondata di accaparramento da panico da parte dell’Egitto e dei Paesi petroliferi del Golfo. È così che un piccolo squilibrio fra domanda e offerta sta creando un vasto squilibrio nei prezzi. Quest’anno per la prima volta la fattura degli acquisti di derrate nel mondo supererà probabilmente la soglia psicologica di mille miliardi di dollari. L’indice Fao dei prezzi degli alimenti va verso i massimi raggiunti nel 2008: nel 2009 era a 52 punti, nell’ottobre 2010 è a 197.
La vicenda del 2007-2008 insegna cosa accade in queste circostanze: i Paesi che dispongono di forti capacità finanziarie tendono a passare alla terza fase della globalizzazione. È quella che Jacques Diouf, direttore generale della Fao, definisce il «neo-colonialismo». La storia degli ultimi anni quanto a questo non lascia dubbi, è una rete di conquiste di terra che può arrivare a coprire circa un quinto della produzione mondiale delle principali derrate. Qualche esempio? La Cina ha comprato e affittato a lungo termine vaste porzioni di terra in Camerun, Tanzania e Mozambico (per il riso), in Uganda e Zimbabwe (cereali) e poi ancora Filippine, Laos, Kazakhstan e una decina di altri Paesi. Il Kuwait ha scommesso sul controllo di intere provincie fertili della Cambogia o sugli allevamenti estensivi di pollame nello Yemen. Ma la potenza finanziaria forte più attiva su questo fronte, quello dell’accaparramento diretto della terra all’estero anziché dei suoi prodotti, è forse l’Arabia Saudita. Gli investitori di Riad hanno concluso accordi per centinaia di milioni di dollari e più spesso per miliardi in quasi tutto il mondo in via di sviluppo: dall’Etiopia all’Indonesia, da Pakistan alle Filippine. Paesi in preda alla malnutrizione, come il Sudan e la stessa Etiopia, sono diventati grandi esportatori di derrate di cui hanno perso il controllo.
Repubblica 22.11.10
Se anche i bambini imparano la filosofia
di Michela Marzano
Corsi di filosofia per i più piccoli? La filosofia non è solo una disciplina complessa per "happy few". È soprattutto un modo di pensare la propria vita senza lasciarsi imprigionare dai luoghi comuni e dagli stereotipi. Come diceva Karl Jaspers, «la filosofia non è altro che la questione, riproposta senza fine, del senso e dell´Essere».
Perché allora non cominciare subito e non approfittare della grande curiosità infantile? Quasi tutti i bimbi sono curiosi. Già quando sono piccolissimi, a partire da tre anni, assillano i genitori con una sfilza di "perché". Dai più banali ai più complessi. Per capire perché la sera faccia buio. Perché non debbano buttare a terra un oggetto. Perché i genitori li sgridino se lanciano pietre o fanno i capricci… Fino alle domande più difficili: perché sei triste? Perché la nonna non c´è più? Perché papà urla? I bambini vogliono sapere la "verità" e continuano a chiedere il perché delle cose fino a che non ricevono una risposta soddisfacente. Anche quando le risposte tardano. E talvolta non arrivano mai. Chi non ricorda il fatidico "quando sei grande te lo spiego"? O, ancora peggio, "è così perché è così"?
Per facilità o per paura, abbiamo tutti la tendenza a eludere le domande dei più piccoli. Talvolta siamo imbarazzati. Siamo noi i primi a non saper rispondere a certe domande e a voler evitare di mostrarci dubbiosi ed esitanti. Come se il dubbio e l´incertezza non fossero anche loro profondamente educativi. Certo, che si tratti dell´amore, della sofferenza, dell´odio o della morte, le risposte non sono mai facili. Ognuno di noi si è confrontato con i propri limiti. Ecco allora che sembra molto più facile rimandare oppure rispondere magari rispolverando qualche vecchia nozione appresa a scuola, quando i nostri insegnanti, anche loro in difficoltà, si trinceravano dietro regole e formule imparate a memoria. Ma quando gli interrogativi sono bloccati sul nascere, allora i bambini rischiano di chiudersi su di sé, di non interessarsi più al modo e, progressivamente, di non essere più capaci di confrontarsi con gli altri. Come spiega la pedopsichiatra Françoise Dolto, per permettere a un bambino di apprendere l´autonomia bisogna lasciare che si "impadronisca della sua libertà". Perché capisca il significato della libertà, però, il bambino deve non solo imparare le regole del "vivere-insieme", ma deve anche poter trovare le parole per esprimere i propri dubbi e indagare la propria specificità individuale.
Confrontare le proprie opinioni e le proprie esperienze con gli altri, imparare ad accettare i punti di vista differenti e motivare le proprie scelte è forse il modo migliore, per i più piccoli, per capire cosa sia il rispetto, la tolleranza e la fiducia. La filosofia nelle scuole materne dovrebbe essere proprio questo: insegnare ai bambini ad esprimere le proprie idee rispettando quelle degli altri; aiutarli a cercare delle risposte ai propri "perché" senza essere azzittiti; far capire loro che, in certe occasioni, nessuno detiene la "verità".
Repubblica 22.11.10
La disciplina che si occupa della metafisica entra nel mondo dell´infanzia e diventa strumento pedagogico In Francia esce un film sull´esperienza emblematica di una scuola della banlieue parigina. E sui risultati ottenuti
All´asilo lezioni sulla vita e la morte così i bambini diventano grandi
Prime iniziative anche in Italia: a Modena il Comune sta addestrando gli educatori
di Anais Ginori
La domanda, di solito, arriva sempre a tradimento, quando hai alle spalle il carico di stress della giornata lavorativa, oppure mentre al mattino stai guidando verso scuola, con un pauroso ritardo. "Mamma, perché dobbiamo morire?". "Papà, dov´ero io prima di nascere?". Prove di dialogo metafisico con i propri figli. Tutti i genitori si sono cimentati con questo complicato esercizio che si presenta puntuale a partire dai tre anni dei bambini e raggiunge l´apice intorno ai sei. È l´età dei perché. Una domanda dopo l´altra, senza che alcuna risposta appaia mai soddisfacente.
Piccoli filosofi crescono. Almeno così ci dicono ora molti specialisti dell´infanzia, convinti che già nella scuola materna sia importante insegnare l´arte del ragionamento e della riflessione sul mondo che discende dall´Antica Grecia. Il caso più famoso è quello della classe di un paesino della banlieue parigina, Mée-sur-Seine, dove una maestra ha deciso di trasformare gli interrogativi dei bambini in un lavoro filosofico. Ogni quindici giorni, Pascaline Dogliani ha scritto sulla lavagna parole astratte come Giustizia, Libertà, Morte, Amore, avviando poi una discussione con i piccoli. «È il contrario di quello che facciamo di solito - racconta la maestra - più che insegnare le risposte abbiamo voluto stimolare domande». Dogliani e i suoi "piccoli Platone" sono diventati protagonisti di un documentario presentato al Festival di Roma e uscito in questi giorni nelle sale francesi. Riprendendo nel titolo il famoso slogan sessantottino, "Ce n´est qu´un début", il film racconta la rivoluzionaria esperienza di questa classe e dei risultati raggiunti dopo quasi due anni di programma. «Anche i più timidi hanno preso la parola durante le nostre discussioni - continua la maestra - con straordinari progressi nel linguaggio. L´approccio filosofico è un modo di liberare la creatività».
La filosofia è una disciplina confinata quasi ovunque negli anni del liceo. Ma già nel ´99, l´Unesco ha raccomandato l´introduzione dell´insegnamento all´asilo, basandosi tra l´altro sui lavori dell´americano Matthew Lipman. Anche in Italia, questo approccio si sta diffondendo. Il comune di Modena ha formato dei maestri delle scuole dell´infanzia e presto inizieranno le lezioni filosofiche per i più piccoli. In Francia, oltre al caso ripreso nel film appena uscito e ad altri sparsi per tutto il Paese, vengono organizzati privatamente centinaia di atelier philo nei pomeriggi del mercoledì, quando i bambini non hanno scuola. «Forse è una moda - commenta Jean-Charles Pettier, organizzatore di questi atelier - ma credo che il fenomeno rispecchi anche un diverso approccio da parte dei genitori». Madri e padri non se la sentono più di prendere sottogamba gli interrogativi dei loro bimbi sui massimi sistemi, liquidandoli, stremati, con un classico "lo capirai da grande", oppure con l´ancor più definitivo "perché sì".
Gli scaffali delle librerie francesi sono ormai pieni di manuali filosofici ad uso e consumo dei bambini dai tre anni in su. Una delle autrici più di successo è Brigitte Labbé che ha pubblicato trentacinque volumi delle sue "merende filosofiche", già tradotti in diciotto lingue. Le dispense con cd audio permettono di organizzare dibattiti a casa intorno a quesiti come "Perché non sono il capo?", "Qual è la differenza tra la vita e la morte?", "Maschio o femmina?". Jean-Paul Mongin ha cercato invece di trasformare in favole le biografie dei filosofi nella nuova collezione "Petits Platons". Prima della nanna, si può così raccontare la vita di Socrate, Descartes, Kant, Leibnitz e Sant´Agostino. «A lungo si è pensato che l´infans, colui che non parla, non potesse avvicinarsi al logos, la parola e la ragione» ricorda il filosofo Roger-Pol Droit, anche lui autore del manuale "Osez parler philo a vos enfants", nel quale invita i genitori ad esercitarsi con i propri figli. «Platone e Aristotele dicevano che si diventa filosofi quando ci si stupisce e ci s´interroga sulle cose - continua Droit - ed è esattamente ciò che i bambini fanno istintivamente tra i quattro e i sette anni». Secondo l´esperto, è fondamentale approfittare di questa fase per costruire il modo di pensare del futuro adulto. Tutti i bambini nascono filosofi, conclude, ma solo alcuni lo diventano.
Repubblica 22.11.10
Stefano Poggi, ordinario all´Università di Firenze e presidente della Società filosofica italiana
"È utile solo se i docenti sono qualificati"
di Vera Schiavazzi
«La filosofia? È una cura che ha bisogno di essere somministrata da ottimi medici…». Stefano Poggi, presidente della Società filosofica italiana, commenta così l´idea di insegnare anche ai più piccoli chi erano, e cosa pensavano, Aristotele e Kant.
È un rischio o una chance?
«Entrambe le cose. Questa materia, ad esempio, dovrebbe avere più spazio in tutti i licei, ma potrà essere affidata anche a docenti che non hanno ricevuto un´abilitazione specifica per insegnarla. Occorrono cultura ed equilibrio, perché spesso chi insegna filosofia esercita grande appeal sugli studenti».
A che età si può iniziare?
«Ormai bambini e ragazzini sono curiosi di tutto, non vedo controindicazioni a introdurre elementi di filosofia anche per i più piccolI. Non è certo un male insegnare ai bambini a usare il cervello in modo critico. A condizione che chi lo fa conosca anche la storia di quelle idee, e che la filosofia non venga messa in contrapposizione alla scienza, come invece purtroppo spesso accade in Italia».
Che cosa consiglia a un filosofo che vuol parlare ai bimbi?
«Di non essere maestro solo di dubbi, incertezze e sospetti. E di far capire come questa materia sia strettamente intrecciata alla storia delle idee umane, allo sviluppo della critica e del ragionamento, e dunque anche delle grandi scoperte scientifiche. Solo così potrà essere veramente d´aiuto a far crescere anche il senso critico dei suoi piccoli allievi».
Repubblica 22.11.10
Dalla biologia alla filosofia, le nuove regole della vita
di Maurizio Ferraris
La tecnologia, le scoperte della medicina ma anche le norme internazionali hanno cambiato il rapporto con le leggi che governano l´esistenza: adesso un trattato le riformula
Le protesi hanno modificato tante cose Non solo quelle carnali, però. Bisogna tener conto di quelle documentali
L´opera diretta da Rodotà si preoccupa della tutela dei più deboli. Ci sarà un volume dedicato anche agli animali
Il monumentale Trattato di biodiritto che Stefano Rodotà e Paolo Zatti hanno diretto per l´editore Giuffrè avrebbe fatto sognare Foucault e contemporaneamente ne avrebbe temperato gli eccessi biopolitici. Perché il biodiritto non è la constatazione del fatto che la politica entra nella vita, ma piuttosto l´esigenza di difendere la vita dalle prepotenze della politica. La sua motivazione originaria, il suo luogo genetico, è la tutela della "vita offesa", che non è (come nel sottotitolo dei Minima moralia di Adorno) la condizione dell´intellettuale costretto all´emigrazione, ma quella ben più tragica consumatasi nei campi di sterminio, la condizione di esseri umani la cui vita era stata ridotta a nuda vita, gettati in un mondo in cui, come nei versi di Primo Levi, si "muore per un sì o per un no".
Si trattava di fornire nuove tutele per la vita, dopo che quelle tradizionali (le consuetudini, i riti e le religioni, e lo stesso diritto) si erano rivelate insufficienti o esaurite, bisognava rendere la nuda vita quanto più vestita possibile, ossia protetta da documenti, leggi e istituzioni, come testimoniano la Costituzione italiana (1948) e la Legge Fondamentale tedesca (1947), entrambe precedute dal Codice di Norimberga, del 1946, elaborato a stretto contatto con la scoperta delle sperimentazioni mediche su esseri umani.
Poiché nel biodiritto la giurisprudenza si confronta con discipline che vanno dalla biologia all´antropologia, dalla filosofia alla medicina, il Trattato si articola in sei volumi di ampi saggi (molti con la dignità di veri e propri libri) cui hanno contribuito grandi esperti internazionali: Ambito e Fonti del Biodiritto, Il Governo del Corpo, in due tomi, I Diritti in Medicina, Le Responsabilità in Medicina, Salute e Sanità, per concludersi con un´opera su La Questione animale (che uscirà l´anno prossimo), una questione immensa e a lungo aggirata nella nostra cultura, perché ci mette in contatto con la vita più nuda e offesa che conosciamo e che accettiamo.
La tesi della correlazione tra la vita offesa e la necessità di una tutela è articolata da Rodotà proprio al centro del primo volume del Trattato (curato con Mariachiara Tallacchini, dedicato alle questioni fondamentali, e dunque dotato di un interesse che va molto al di là dello specifico giuridico), nel lungo capitolo "Il nuovo habeas corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione". È eloquente il richiamo all´habeas corpus, cioè al principio con cui, nella Magna Charta del 1215 il re d´Inghilterra promette, per ogni "uomo libero": «non metteremo né faremo mettere mano su di lui, se non in virtù del giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese».
Ma la novità che sta alla base del biodiritto consiste nel fatto che qui l´autolimitazione non ha luogo di fronte a ciò che è più forte (gli "uomini liberi" erano i baroni, cui Giovanni Senzaterra si piegava), bensì di fronte a ciò che è più debole. All´evento originario della nuda vita nei campi di sterminio vengono infatti ad affiancarsi tre altre esperienze: la necessità - conseguente dalla crisi del Welfare State - di riconoscere non soggetti astratti ma persone situate nelle difficoltà dell´esistenza; lo sviluppo delle scienze e le tecnologie che rimettono alla decisione del soggetto, con sempre maggiore evidenza, le questioni del nascere e del morire; e il femminismo, come rifiuto del soggetto giuridico astratto, che cancella la differenza di genere e dunque il volto vero della vita.
Ne risulta una profonda trasformazione, per cui il biodiritto, molto più che un diritto applicato alla vita, appare come un diritto modificato dalla vita. Il soggetto giuridico classico era tendenzialmente senza corpo, la differenza tra "persona fisica" e "persona giuridica" era tenue, e il corpo, si direbbe, entrava in gioco solo in forma negativa, per esempio nelle sanzioni corporali. Il biodiritto si modella viceversa sul passaggio dal soggetto di diritto al soggetto "di carne". Si avrebbe torto, tuttavia, a vedere in questo appello alla concretezza carnale un qualche fantasma vitalistico.
Nel vitalismo la vita è una forza che si afferma contro le regole, mentre nel biodiritto la vita è bisognosa delle difese che vengono dalle regole, e il soggetto di carne è anche e al tempo stesso un soggetto di carta, o deve diventarlo: il compito del biodiritto, che in questo appare come la netta antitesi del biologismo, consiste proprio nel trasformare la carne in carta, in esistenza tutelata. Si tratta cioè di muovere dalla consapevolezza che la vita e i modi in cui si gestisce e si organizza socialmente non sono nozioni stabilite una volta per tutte (come spesso si sostiene nelle cosiddette prospettive "pro life"), e che le trasformazioni della scienza, della tecnica e della società non sono estranee alla vita, ma la modificano e la articolano. Tra il crudo e il cotto, tra la natura e la cultura, dunque, viene a stabilirsi una interazione molto più forte di quanto non avvenisse nel diritto tradizionale.
Questa compenetrazione tra carne e carta esiste da sempre, ma è tanto maggiore ora, con l´iperbole dei sistemi di iscrizione e registrazione che caratterizza il mondo contemporaneo. Perché tra le protesi, che da sempre complicano, nel male ma soprattutto nel bene, la vita, non c´è solo la fibra di carbonio delle gambe di Pistorius, c´è anche il silicio di tutti i nostri computer, che ha integrato il nostro corpo carnale (e gli archivi che lo riguardano) con un nuovo corpo documentale. O meglio, ha reso ipertrofico quello che si chiama tradizionalmente e non per caso "corpus", per indicare l´insieme delle opere di un autore, e che oggi potrebbe designare l´insieme delle iscrizioni che ci riguardano, sotto forma di documenti, "dati sensibili" o archivi magari conservati "cloud", in un remoto poco controllabile. Anche per queste estensioni della nostra vita e del nostro corpo sarebbe necessario pensare un nuovo "habeas corpus", o, nelle parole di Rodotà, un "habeas data".
Repubblica 22.11.10
La vera cultura è di massa
"Da ‘avatar´ ai videogiochi è il regno della creatività"
di Fabio Gambaro
Il suo "Mainstream" ha fatto discutere la Francia. Ora il libro di Frédéric Martel esce in Italia
"Siamo ancora vittime della condanna fatta dalla Scuola di Francoforte. Ma oggi servirGambaroebbe un nuovo Benjamin per studiarla"
"Divertimento e arte si contaminano: le frontiere sono venute meno"
"Ci sono nuove capitali della produzione: solo l´Europa è rimasta indietro"
PARIGI. C’è un´inchiesta che in Francia ha fatto molto discutere. Quella proposta da Frédéric Martel nelle pagine di Mainstream (Feltrinelli, pagg. 464, euro 20), un libro appassionante ricco di dati, storie e riflessioni che prova a spiegare «come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media». Grazie alle testimonianze dei protagonisti delle «industrie creative» raccolte ai quattro angoli del pianeta, lo studioso francese descrive lo scontro culturale in atto che vede alcuni paesi emergenti rimettere in discussione l´egemonia culturale degli Stati Uniti. Uno scontro che avviene innanzitutto sul piano della cultura «mainstream».
Vale a dire, la cultura «che piace a tutti», la cultura di massa legata al mondo dell´immagine e della musica - e solo in misura minore al mondo della cultura scritta - nei confronti della quale l´autore di Mainstream tenta innanzitutto di smontare luoghi comuni e pregiudizi: «Nei confronti della cultura di massa c´è ancora molta diffidenza», spiega Martel, che ha creato Inaglobal, un sito internet dedicato a queste problematiche. «Le opere mainstream vengono spesso considerate con disprezzo e percepite come un divertimento superficiale estraneo all´arte. E´ un pregiudizio diffuso tra gli intellettuali europei, purtroppo ancora prigionieri della condanna senza appello emessa dalla scuola di Francoforte nei confronti della cultura di massa. Invece, il mainstream va studiato seriamente, perché ha molto da insegnarci sull´evoluzione della cultura contemporanea. Oggi, avremmo bisogno di un nuovo Walter Benjamin che ci aiutasse a riflettere sull´opera d´arte all´epoca della riproducibilità digitale, per parafrasare il titolo del suo celebre saggio».
La tradizionale opposizione tra arte e entertainment va superata?
«Certamente. Si tratta di un´opposizione figlia di una concezione aristocratica della cultura, per la quale il mercato corrompe inevitabilmente la purezza dell´arte. Il mercato però a priori non è buono né cattivo. Può distruggere la cultura, ma anche favorirla. Il mainstream può produrre banale divertimento ma anche opere di qualità. Inoltre, tra l´arte più elitaria e le opere più standardizzate esistono innumerevoli forme intermedie, dove arte e divertimento coesistono in dosi più o meno accentuate, contaminandosi e alimentandosi a vicenda. Insomma, il mainstream rimette in discussione le tradizionali frontiere tra cultura alta e cultura bassa».
La cultura mainstream è quindi più complessa di quanto s´immagini?
«Per parlare a tutti non è necessario essere superficiali e scontati. Toy Stories, Ratatouille o Avatar hanno conquistato il pubblico mondiale perché, dietro l´apparente semplicità, agivano opere sofisticate, creative e tecnologicamente complesse. Naturalmente il mainstream può anche produrre opere piatte e consolatorie, ma non sempre è così, dato che non nasce mai dalla semplice ripetizione. Al contrario, è sempre alla ricerca di formule originali per rinnovarsi. Solo così conquista il pubblico».
Secondo alcuni critici, il pubblico sarebbe succube dell´industria culturale...
«Il pubblico non subisce mai passivamente le strategie dell´industria culturale. Lo dimostrano i molti flop della storia della cultura mainstream. Il pubblico ha una propria gerarchia di valori ed è capace di distinguere un prodotto originale da uno inutilmente ripetitivo. Sa riconoscere la creatività. I prodotti culturali non sono come la Coca Cola, che replica invariabilmente la stessa formula. Devono rinnovarsi di continuo e produrre risultati originali».
In che modo?
«La cultura mainstream si nutre di creatività, ricerca e libertà. Sfrutta la diversità culturale, l´innovazione tecnologica e la sperimentazione artistica. In Europa, pensiamo che la ricerca e la cultura di massa siano mondi differenti e separati, ma negli Stati Uniti vivono di scambi continui. Il problema dei cinesi nasce proprio da qui. Vorrebbero produrre una cultura mainstream, per essere presenti nel grande mercato mondiale della cultura, ma contemporaneamente uccidono la diversità, la controcultura, la libertà d´espressione. Senza tutto ciò non si fa mainstream».
Il mainstream finirà per invadere ogni spazio della cultura?
«Non mi sembra un rischio reale, dato che, nonostante il successo mondiale di una cultura mainstream sempre più globalizzata, le culture nazionali godono dappertutto di buona salute. In Francia, ad esempio, il 50% del box office è prodotto dai film francesi. Tuttavia, accanto alle culture nazionali, ovunque s´impone la cultura mainstream prodotta negli USA. Batman, Lady Gaga e il Codice da Vinci hanno successo dappertutto».
Negli ultimi anni però i prodotti mainstream non sono più solamente americani...
«E´ vero, basti pensare al successo internazionale dei film indiani di Bollywood, delle telenovelas brasiliane, dei manga e dei videogiochi giapponesi, dei programmi informativi di Al Jazeera. Insomma, anche se non credo alla teoria del declino degli Stati Uniti, che restano il primo esportatore mondiale di prodotti culturali, è indiscutibile che il mercato mondiale della cultura sia in piena trasformazione. Emergono infatti nuovi paesi che riescono ad imporre i loro media, le loro culture e i loro valori anche al di fuori dei rispettivi mercati nazionali, creando nuovi flussi di scambi culturali. Accanto a Los Angeles e Miami, le nuove capitali della cultura mainstream sono oggi a Hong Kong, Il Cairo, Bombay o Tokyo».
Quanto contano le nuove tecnologie in questi successi?
«La rivoluzione digitale ha offerto un´enorme opportunità ai paesi emergenti, che considerano le nuove tecnologie uno strumento indispensabile per costruire la cultura di domani. Oltretutto, i nuovi protagonisti della cultura di massa non hanno avuto bisogno di gestire la transizione tra i prodotti culturali della tradizione e i nuovi format della cultura mainstream. Si sono lanciati immediatamente, e con successo, sul nuovo. Di conseguenza, oggi il mondo della cultura non ha più un solo centro. E ciò naturalmente è un bene per tutti».
In questo scenario l´Europa perde peso?
«In effetti, anche se è pur sempre il secondo produttore mondiale di cultura. Il declino è dovuto anche alla mancanza di una vera cultura europea comune. Accanto alle rispettive tradizioni nazionali, le popolazioni europee hanno in comune solo la cultura mainstream americana. E la frammentazione culturale non aiuta certo a produrre opere per il mercato mondiale. Tuttavia possiamo ancora invertire la tendenza, ma non è alzando le barricate che si produce cultura mainstream in grado di conquistare il mercato mondiale».