martedì 23 novembre 2010

Corriere della Sera 23.11.10
E la Bonino «ritira» i radicali «Non ci sono trattative»
di M. Gu

La finiana Polidori: centristi nel governo

ROMA — «La trattativa tra radicali e Pdl è inesistente». Emma Bonino gela le speranze del centrodestra di incassare, il 14 dicembre, la fiducia dei sei deputati radicali eletti con il Pd. I loro voti «non sono all’asta» ribadisce la vicepresidente del Senato e condanna la «banalizzazione» dell’apertura al dialogo con il Pdl da parte di Marco Pannella.
Il «colpaccio» che avrebbe risolto gli affanni parlamentari del premier è sfumato e ai cacciatori di teste tocca rimettersi all’opera, in vista del voto di fiducia del 14 dicembre. Bersagli privilegiati, l’Mpa e i finiani dialoganti. Catia Polidori, per dire dell’onorevole del Fli più corteggiata dal Pdl, spera che alla sfiducia non si arrivi mai: «Il centrodestra può diventare veramente invincibile se include Casini e i moderati e rilancia l’azione di governo con un Berlusconi bis». La responsabile del settore Attività produttive di Fli si augura che «tutti rinuncino a un pezzetto di gloria personale per il bene dell’Italia». Cautamente aperturista la posizione dell’Mpa. Un nuovo governo guidato dal premier è la soluzione migliore, ritiene Aurelio Misiti, convinto che un esecutivo con l’Udc e con un programma che accolga le istanze del Sud durerebbe tutta la legislatura. «Visti i drammatici conti dell’Italia è meglio andare avanti con questo governo» ragiona Misiti, «più volte avvicinato» da emissari del centrodestra. Ma a Berlusconi una maggioranza di misura non può bastare. E la caccia ai peones inquieti, dietro le quinte, continua. Maurizio Grassano è conteso. Francesco Pionati dell’Adc dice che l’onorevole «ha già firmato», mentre Italo Tanoni — avvistato mentre conversava fitto con Casini — non dispera di convincere il collega a restare con i liberal democratici. L’impressione, al centro, è che nessuno voglia andare a votare. Come dice Saverio Romano, leader degli ex udc che hanno fondato il Pid, «Casini sta provando a tenere buoni i suoi, perché rischia di perdere pezzi».

AGI 20.11.10
LAICITA’: BONINO, TORNARE IN PIAZZA PER LIBERTA' DI SCELTA


(AGI) ‑ Roma, 20 nov. - “La laicità è uno straordinario metodo di governo dei temi eticamente sensibili, i diritti civili, che sono in realtà giganteschi problemi sociali, e vanno sempre protetti, senza soste o tentennamenti. E oggi non mi sembra affatto anacronistico un invito a tornare in piazza per la libertà di scelta, l’autodeterminazione, la difesa della libertà e della identità degli individui. La migliore difesa, ho sempre pensato, è l’attacco”. Con questo appello a una grande mobilitazione di massa, in nome della laicità, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ha concluso questa mattina al Teatro Eliseo la manifestazione “Per un’Italia più laica”, promossa dal Pd di Roma, da Iniziativariformista e dal settimanale Left. Il punto di partenza del dibattito, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giovanna Melandri, Massimo Teodori e Massimo Fagioli, il disegno di legge Tarzia, presentato ai consiglio regionale del Lazio, che intende affidare la gestione dei consultori ad associazioni di famiglie, sottraendoli di fatto al servizio pubblico, in nome della tutela della vita fino dal concepimento. “La laicità e la libertà sono e devono ricominciare ad essere il nostro strumento di attivazione di massa; sono temi che coinvolgono milioni di persone”, ha affermato la Bonino, rivolta al pubblico, a prevalenza femminile, che qremiva il teatro. In tempi “di vizi privati e pubblici divieti”, ha aggiunto, la sinistra dovrebbe mostrare maggiore coerenza o adottare “comportamenti politici netti, chiari, comprensibili, che vadano oltre i bofonchiamenti e le cose dette a metà, mezze sì e mezze no”.
“Servono idee più chiare alla sinistra”, ha detto subito dopo lo psichiatra Massimo Fagioli, “oltre a una maggiore nettezza di comportamento. A sinistra non vogliono accettare che la vita umana inizia alla nascita con il pensiero, così come la fine della vita non è quando il cuore cessa di battere. Il diritto all’eutanasia? Sono d’accordo, se fatto con l’assistenza del medico e dello psichiatra, se necessario, per stabilire che non si tratti di una depressione”.
“La Legge 40, quella sul testamento biologico, la proposta Tarzia sui consultori, sono anticostituzionali e hanno tutte un fondo persecutorio”, ha detto Giovanna Melandri: "si sta smantellando lo stato sociale e la legge di sistema porterà un segno pesante, in questa direzione. Berlusconi è l'espressione di una cultura che pensa che tutto si può comprare, anche le donne che vanno al consultorio. Invece no, la libertà e l'autodeterminazione sono diritti intangibili, non sono in vendita. L’Italia - ha concluso la parlamentare del Pd ‑ è sotto sopra, bisogna ripartire con battaglie di libertà e autodeterminazione, facendo fronte comune contro questo familismo moralistico e clericale". Massimo Teodorì ("sono un laico archeologico”, si è autodefinito), storico esponente radicale, ha tracciato la storia degli ultimi 45 anni di battaglie in favore dei diritti civili, a partire da quella sul divorzio, iniziata nel 1965, sostenendo “che la questione laica è provocata dall’incalzante offensiva neoclericale e neotradizionalista”. Maurizio Turco, radicale eletto nel Pd alla Camera, ha ricordato che gli attacchi alle libertà civili, in nome della difesa della famiglia, giungano senza tenere conto della realtà, per cui “a Roma, ad esempio, secondo le più recenti statistiche, il 40% delle famiglie è monoparentale, fatto cioè di persone singole”. “Mai come in questo momento ‑ ha concluso Ilaria Bonaccorsi, direttore editoriale di Left ‑ la laicità è sinonimo di libertà. Una laicità netta, rigorosa, rispettosa. Bisogna creare un anello di congiunzione tra intellettuali e ricerca e ricerca scientifica, tra scienza e sviluppo sociale, prassi politica Questo è quanto Left sta tentando di fare”.

l’Unità 23.11.10
Due cortei sabato a Roma. «L’esecutivo cambi agenda. Altrimenti è meglio andare al voto»
Lavoro, diritti e pensioni al centro della giornata. 2100 i pullman organizzati, 13 i treni
Cgil, la prima della Camusso
Con i giovani, contro il governo
Un enorme debito, economico e sociale pesa sulle spalle dei giovani: precari, disoccupati, senza troppe prospettive. Sabato a Roma si parlerà di loro nella manifestazione nazionale promossa dalla Cgil.
di Felicia Masocco


Oggi sono precari, in seguito avranno pensioni da fame, o gli si dà un futuro oppure dovremo assistere a un gigantesco programma di assistenza sociale. Perché nessun Paese si può permettere una o due generazioni sotto il livello di sussistenza. Debito economico, debito sociale: così Susanna Camusso definisce il peso caricato sulle spalle dei giovani italiani, disoccupati o senza un lavoro stabile, condannati a vivere peggio dei genitori per la prima volta dal dopoguerra. Sabato mattina i riflettori si accenderanno su di loro, a Roma, con i due cortei promossi dalla Cgil, una manifestazione che si annuncia «imponente», dice il segretario organizzativo Enrico Panini.
O SI CAMBIA O AL VOTO
È una manifestazione nata prima della crisi di governo aggiunge la segretaria generale e ora va fatta a maggior ragione». La maggioranza è in crisi anche per non aver voluto affrontare i problemi della recessione. «È ora di cambiare l’agenda politica. In alternativa è meglio andare al voto, chiedere ai cittadini che cosa pensano». Nell’agenda, per la Cgil, devono esserci il lavoro, i diritti, i giovani e le giovani: alle donne la mobilitazione di sabato dedica un’attenzione speciale visto che pagano due volte. «La loro condizione è la misura della democrazia di un Paese», dice Camusso. Vale per l’Italia e per il resto del mondo: dal palco di piazza San Giovanni, insieme a lavoratrici e precarie, parlerà una donna afghana.
La manifestazione nazionale è l’ottava dal 2008, tre da allora sono stati gli scioperi generali: Camusso non dice se -come chiede la Fiom -la Cgil è pronta a proclamarne un altro. «Se non avremo le risposte che chiediamo la mobilitazione continuerà», si limita a rispondere.
Sabato sarà il giorno in cui la sindacalista esordirà in piazza da segretario generale. Ed è anche il giorno in cui Corso d’Italia si misurerà con quello che, secondo alcuni, è il suo punto debole, una contraddizione: la partecipazione dei giovani alla Cgil, inferiore a quella dei pensionati. Anche ieri, in conferenza stampa, a Camusso e a Panini è stato chiesto di rendere conto. «Se si vuole capire la composizione degli iscritti alla Cgil basta guardare il Paese ha risposto Camusso -. L’Italia invecchia rapidamente», non c’è da stupirsi se al sindacato sono iscritti moltissimi pensionati. Peraltro non sono un peso per la Cgil, «siamo convinti che dobbiamo difendere chi ha lavorato per una vita e che ora è pensionato» e che, di fronte al precariato galoppante, spesso rappresenta l’ammortizzatore più efficiente.
PADRI E FIGLI
No dunque, alla frattura tar generazioni, a chi vuole mettere contro padri e figli. Da dieci anni gli iscritti attivi in Cgil crescono più dei pensionati, viene spiegato. Quanto ai più giovani «gli ultimi dati giunti all’organizzazione relativi a 47 camere del lavoro (complessivamente 1 milione 200 mila iscritti su quasi 6 milioni) dicono che gli under 35 sono il 22% degli iscritti», precisa Panini. Ed è cominciata in corso d’Italia l’operazione quote: l’ultimo congresso ha stabilito che un quinto degli organismi dirigenti debba essere composto under 33.
Sono oltre 2100 i pullman già organizzati, trasporteranno 120 110-120 mila persone; 13 i treni speciali. Sono gli unici numeri che vengono dati, «sono in crescita afferma Panini la risposta sarà consistente anche dalla città di Roma, la manifestazione imponente». Se il sindacato di Corso d’Italia manterrà la parola, da piazza San Giovanni sabato verrà un esempio che si spera sarà seguito: non saranno diffuse cifre sulla partecipazione. «Non ci lanceremo in questo gioco un po’ fastidioso che sminuisce il valore delle cose e del lavoro che c’è dietro, vogliamo sottrarci a questo circo Barnum -annuncia Camusso-. Abbiamo la certezza che sarà una grande manifestazione e credo che tutti avranno modo di vederlo sui volti delle donne e degli uomini».
Molte le adesioni già arrivate da associazioni, partiti, dal mondo della cultura e dello spettacolo. Quali forze politiche saranno presenti? «Noi non abbiamo chiesto ad alcun partito di intervenire risponde Camusso -. Partecipa chi vuole. Non è il luogo delle passerelle di nessuno».

l’Unità 23.11.10
Gli immigrati sulla gru volevano trasparenza Saranno espulsi


Espulsione immediata senza passare dal Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione). Potrebbe essere questa, riassunta in una frase, la sorte di due delle sei persone immigrate che per 17 giorni hanno protestato a 35 metri di altezza, sul braccio di una gru in un cantiere di Brescia. Una protesta per chiedere, ricordiamolo, che il meccanismo del permesso di soggiorno sia reso più semplice e chiaro. Una iniziativa che rimanda in ultima istanza all’importanza rivestita dalla regolarità della posizione giuridica per tutte le vicende relative alla vita concreta dell’immigrato in Italia. E, infatti, lo straniero viene riconosciuto socialmente solo se è un lavoratore con documenti legali in mano. L’assenza di questa condizione determina in genere l’oscuramento della persona in quanto tale.
E non solo. La riduce a soggetto indesiderato costretto nella marginalità, nella clandestinità o nel Cie. Nel 2009 sono transitate in queste ultime strutture 10913 persone: 4152 delle quali sono state rimpatriate e 3945 sono state rilasciate, al termine del periodo di trattenimento previsto dalla legge, con foglio di via. Gli «ospiti» vivono in un’angosciante attesa perché, fino all’ultimo istante, non sanno a quale dei due gruppi sono destinati: se a quello dei rimpatriati o a quello dei rilasciati con foglio di via. Alcuni protestano e fanno sentire la loro voce. Altri scelgono di ammutolirsi, cucendosi le labbra con ago e filo. Nel caso più recente, avvenuto nel Cie di Torino, si tratta di sei persone originarie del Maghreb, ma in queste strutture episodi di autolesionismo si registrano di frequente. E quei corpi, mortificati e feriti, certificano quale è lo stato di malessere all’interno dei Cie.

l’Unità 23.11.10
Se paura e sicurezza diventano argomenti di campagna elettorale
Calano i reati ma l’insicurezza percepita resta invariata In una ricerca commissionata dal Partito Democratico svelato il bluff di chi vuole governare grazie al terrore
di Felice Diotallevi


Solo un italiano su dieci ha subito un reato, ma più del 40% dei cittadini vive “contaminato” dall’insicurezza. Al punto che mentre negli ultimi 10 anni il numero dei reati è in costante diminuzione, la percezione d’insicurezza dei cittadini è rimasta sostanzialmente invariata. A rivelarlo è la ricerca demoscopica commissionata dai forum Sicurezza e Giustizia del Pd dal titolo “Vivere tra luci e ombre. Gli italiani e le percezione della sicurezza e della legalità”. Secondo i risultati della ricerca, quasi il 30% dei cittadini trova molto pericoloso uscire da solo quando è buio, oltre il 20% la sera a casa presta attenzione a ogni minimo rumore, oltre il 20% quando rientra a casa controlla che non ci siano intrusi. «È evidente che c’è un divaricamento molto netto tra i dati percepiti e i dati reali sulla sicurezza ha spiegato Marco Minniti, del Partito Democratico Così corriamo un rischio molto serio: avere un sentimento di insicurezza che prescinde dalle condizioni reali». Per l’ex viceministro dell’Interno, «questo dovrebbe chiamare a maggiore responsabilità di governa, perché si può vincere una campagna elettorale sull’insicurezza ma è difficile governare un Paese sulla paura». Minniti ha invitato ad «affrontare il tema costituente delle questioni sicurezza e giustizia per un nuovo modello di sicurezza. Quello attuale, vecchio di 60 anni, va ripensato». Allo stesso modo, ha insistito Minniti, ci vuole «un linguaggio di maggior chiarezza sugli immigrati: c’è un rapporto tra clandestinità e criminalità. Bisogna passare dal “porte aperte e pochissimi diritti” al “porte controllate e più diritti”». Per Andrea Orlando non ci sono dubbi: «La protagonista della ricerca è la paura, determinata dallo spaesamento. I dati rivelano che la paura riguarda di più le donne, le periferie, i grandi centri urbani e che la paura è già un limite alle libertà individuali». Il responsabile Giustizia del Pd ha suggerito alla politica un “mea culpa”: «La sinistra non ha riconosciuto questo fenomeno, la destra lo ha agitato. Partiamo dal denunciare la nostra impotenza e proviamo a individuare un cammino comune».
Alla presentazione dei dati del rapporto ha partecipato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini secondo il quale l’insicurezza percepita è un sentimento «diffuso nella pubblica opinione, un sentimento di cui bisogna tenere contro senza gli spot propagandistici della politica». «La legalità è un habitus mentale», ha proseguito il leader di Fli, «si è liberi davvero solo se si rispettano i valori che sono nella nostra Costituzione». Importanti le parole del presidente della Camera in tema di immigrazione. SEondo Fini, infatti, «l’equazione fasulla secondo cui immigrazione è uguale a criminalità è un luogo comune duro a morire». Tuttavia, ha notato Fini commentando i dati contenuti nel rapporto, «solo una minima parte degli interpellati individua come soluzione al problema della criminalità quella di cacciare gli immigrati». Secondo la terza carica dello Stato, insomma, «pur permanendo, come frutto di ignoranza, una diffidenza nei confronti degli stranieri, tuttavia si conferma che l'Italia non è un Paese xenofobo».

il Fatto 23.11.10
Sinistra, se ci sei batti un colpo
di Giuseppe Tamburrano


   Fini e Bersani hanno spiegato in tv a otto milioni di italiani che cosa è la destra e che cosa è la sinistra. Fini ha illustrato i valori della destra e Bersani quelli della sinistra: precisazione necessaria perché i discorsi sono interscambiabili e Fini può indossare la giacca di Bersani e viceversa poiché la taglia è la stessa: senso dello Stato, etica pubblica, cultura dei doveri, amare l'Italia, avere fiducia negli italiani, non essere egoisti, ma solidali. Chi dei due non accetterebbe questi valori. E Fini rifiuterebbe i valori di Bersani: pace, lavoro, giustizia sociale, energia pulita, Costituzione, immigrati, operai? Fazio voleva mostrare le differenze tra destra e sinistra e ha esposto il “Pensiero unico” nel quale non c'è più la sinistra, omologata al pensiero dominante.
EPPURE fino a qualche decennio fa la destra e la sinistra erano inconfondibili. La destra voleva conservare lo stato delle cose, con la repressione della protesta – destra reazionaria – e poi col tempo, riconoscendo diritti democratici, nell'ambito del sistema capitalistico.
La sinistra rifiutava il sistema. Cominciarono gli anarchici che volevano spazzare via tutto: papa, re, Parlamento, padroni, generali con un colpo solo, il “grand soir”, ma non sapevano che cosa mettere al loro posto. Erano quattro gatti con qualche fucile, e qualche pistola e pugnale per ammazzare i re.
Poi i lavoratori si organizzarono in partito e altri organismi di classe. Il partito doveva educare le masse, partecipare alla vita democratica per crescere di numero, per denunciare i misfatti del capitalismo dalla tribuna parlamentare e armarsi. I socialisti rivoluzionari diventarono comunisti e accettarono la guida del “primo Stato proletario” (l'URSS).
INSIEME con l'Urss è crollata la Sinistra rivoluzionaria. Quella democratica si è illanguidita e spenta nella gestione del potere, mentre il capitalismo trionfava col mercato libero, senza antagonisti. Il sole dell'avvenire è tramontato: l'avvenire non c'è più o il suo sole tornerà a splendere? Sulla crisi del 2008 è opinione prevalente che il mercato libero “non si autocorregge, ma si autodistrugge” (Samuelson) e che è necessario l'intervento dello Stato: cosa che ha fatto il presidente del paese liberista per eccellenza, gli Stati Uniti. Gli autori sono tanti. Ne cito solo tre: il premio Nobel Joseph Stiglitz (Bancarotta), il grande giurista Richard A. Posner (La crisi della democrazia capitalista, con una lucida prefazione di Guido Rossi) il nostro Edmondo Berselli (L'economia giusta). Nessuna della sinistra ufficiale. Anzi, il liberismo trova sostenitori solo lì. Una crisi così grave del capitalismo avrebbe, in altri tempi, dato slancio e vigore alla sinistra: la rivincita culturale e politica.
Non si è accorta, la “sinistra”, che viene a cadere la pregiudiziale che ha diviso destra e sinistra; che destra e sinistra si ritrovano sullo stesso terreno di confronto circa il ricorso alla strumentazione pubblica nell'economia, riconosciuta necessaria da entrambe, ovviamente per fini e programmi diversi: la destra per conservare e accrescere il dominio del capitalismo, la sinistra per trasformare gradualmente e democraticamente la società.
IL TERRENO comune è la democrazia, il potere dei cittadini di scegliere i progetti e i programmi in concorrenza: il potere pubblico li attua usando soprattutto il mercato che è lo strumento più efficiente delle scelte e delle iniziative economiche e finanziarie. Non più Stato o mercato, ma Stato e mercato. Ma questo è il moderno socialismo riformista che persegue il fine storico di un mondo migliore. Sinistra, se ci sei, batti un colpo!

Corriere della Sera 23.11.10
«Sei un Savonarola». «Tu fai politica vecchia» Vendola-Grillo, scambio di accuse tra ex «amici»
di Fabrizio Roncone


All’origine della lite il diverso giudizio su Saviano
Il governatore: deriva integralista. Il comico: sotto processo metà della sua giunta

ROMA — Allora, l’antefatto è questo.
L’altra sera, nel corso del suo quarto e ultimo show al Gran Teatro di Roma, Beppe Grillo ad un certo punto se ne esce così. «Roberto Saviano, per carità, è bravissimo. Ma "Vieni via con me" è un programma Endemol. E di chi è la Endemol? Di Silvio Berlusconi. Dunque quando Saviano fa audience, a guadagnare è il Cavaliere. Se poi ci aggiungiamo che Saviano lancia accuse a destra e a manca, senza però fare mai mezzo nome, è facile capire perché Silvio goda come un riccio» (in sala, 3.500 persone — tutto esaurito — che restano sorprese, mute, non un accenno di applauso per il comico genovese).
Passano poche ore e arriva la replica. Nichi Vendola — il leader di Sinistra ecologia e libertà, l’ex comunista che per hobby scrive filastrocche e che fu tra i primi a dichiararsi omosessuale, «non gay, sia chiaro», l’uomo colto e sensibile che ha letto Neruda, Pirandello e Pasolini e che secondo alcuni starebbe rosicchiando consensi e voti al Pd — è ospite di Maria Latella su Sky Tg24. E va giù duro.
«Quella di Grillo è una deriva di integralismo. E si tratta, a mio parere, di un fenomeno piuttosto preoccupante: perché se ciascuno sente di possedere il metro per giudicare, si finisce in una sorta di giudizio universale permanente. Insomma — conclude Vendola — io penso che la politica sia il campo della verità con la "v" minuscola, ma se qualcuno pensa di avere sempre la verità con "v" maiuscola, è chiaro che finisce poi per sentirsi Savonarola».
Grillo, adesso, sospira; poi, con la voce che conoscete: «No, dico: lei ha idea di che fine fecero fare a Savonarola?».
Wikipedia: «Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola (Ferrara, 21 settembre 1452 - Firenze, 23 maggio 1498) è stato un religioso e politico italiano. Appartenente all’ordine dei frati domenicani, nel 1947 fu scomunicato da papa Alessandro VI, l’anno dopo fu impiccato e bruciato sul rogo come "eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove"».
Ancora Grillo: «Ora, a parte che se fosse vissuto in quest’epoca, a Savonarola avrebbero organizzato subito una puntata di "Porta a Porta" e così forse sarebbe persino riuscito ad evitare il rogo... il punto è che io, in comune con Savonarola, ho solo una cosa: la parola. Con la differenza che io la uso in Rete, la faccio viaggiare con Internet. Dove non ci sono padroni. E dove il consenso è incontrollabile. Se dici cose giuste, oneste, ti dicono che hai ragione e che sei perbene. Se fai il furbo, ti scoprono dopo mezzo secondo. Un modo di procedere, mi rendo conto, che Vendola, purtroppo, non può capire».
Non sia severo, Grillo. «Senta: sa quanti anni sono che Vendola fa politica? Trenta. Vendola è nato facendo politica». E allora? Se anche fosse? Non è mica reato fare politica per mestiere. «Vede, il fatto è che Vendola fa politica vecchia. Sta lì che promette e fonda partiti, ma non è più tempo di partiti, non c’è più storia del Pci che tenga, o tradizione, o destra e sinistra. Questo è il tempo dei giovani e della loro forza in Rete». Anche Vendola, nella campagna elettorale delle ultime elezioni regionali, ha usato molto Internet. «Vede? Anche lei che mi sta intervistando è vecchio. Lei ha la testa di un vecchio...». Grillo, la prego... «Cosa vuol fare, eh? Vuol dimostrare che io ce l’ho con Vendola? Ma guardi che io sono oltre, capitooo?». Non sarà, mi scusi, che lei invece si rivolge ad un elettorato molto vicino a quello, magari più politicizzato, di Vendola? «Ah ah ah! Ma che dice? Ma di quale elettorato parla? Noi siamo un popolo che sta lì, in Rete. Tutti insieme senza leader. È Vendola che aspira ad essere un leader, non io, non uno solo di noi aspira a questo ruolo». Grillo, è un po’ complicato crederle. «E invece deve! E se non è servo di qualcuno scriva che per candidarsi alle prossime Comunali con il nostro simbolo a cinque stelle basta inviarmi una email e dimostrare di non essere iscritto ad alcun partito e di avere la fedina penale pulita... Lo spieghi anche a Vendola cosa significa avere la fedina penale pulita, lui che in Puglia s’è ritrovato con mezza giunta sotto processo...».
Vendola, amareggiato: «Mi spiace che Grillo usi un linguaggio così violento. Mi addolora la deriva distruttiva del suo impegno. No, non riesco a capire la politica quando diventa, come in questo caso, livore e contumelia».
Per paradosso, alle nove della sera, sul sito personale di Vendola ( www.nichivendola.it) c’è ancora una pagina che comincia così (ma che è ormai superata dagli eventi): «Pubblichiamo un post di Beppe Grillo che esplicita il sostegno a Nichi per la battaglia intrapresa dal presidente della Regione Puglia in difesa dell’acqua come bene comune e contro il nucleare...».

l’Unità 23.11.10
Africani in fuga dal Sinai Israele allarmato costruisce un altro Muro
Un Muro per fermare la «marea africana». È la barriera che Israele intende realizzare ai confini con l’Egitto. La lunghezza complessiva del progetto sarà di 240 chilometri. Ieri l’inizio dei lavori. Tra polemiche infuocate.
di U.D.G.


Più che un Paese in trincea, appare sempre più un Paese «murato». Quel Paese è Israele. La crescente infiltrazione in Israele di africani provenienti dal Sinai in cerca di lavoro rappresenta ormai «un pericolo demografico esistenziale» per lo Stato ebraico: ad affermarlo è il ministro degli Interni Ely Yishai (Shas) in un infuocato dibattito alla Knesset nel giorno in cui le ruspe hanno avviato i lavori di costruzione lungo il confine con l’Egitto di una imponente barriera. La ricerca dei fondi necessari (almeno 1,35 miliardi di shekel, circa 270 milioni di euro) ha richiesto tempo prezioso e dunque la costruzione della barriera, annunciata all’inizio del 2010, prende le mosse solo adesso.
LA LUNGA BARRIERA
La lunghezza complessiva del progetto sarà di 240 chilometri e nel settore nord si congiungerà con la barriera anti-contrabbando costruita dall’Egitto nei 20 chilometri di confine fra il Sinai e la Striscia di Gaza. La prima fase del progetto israeliano prevede la costruzione di 140 km di reticolati, torrette di avvistamento e piste per le pattuglie, che richiederà almeno un anno e mezzo. Negli altri 100 km saranno disposti ostacoli di carattere diverso, a seconda del carattere topografico della zona. Nel frattempo il flusso degli infiltrati africani cresce in maniera che i dirigenti israeliani giudicano «allarmante». Se nel 2009 il numero complessivo degli africani giunti dal Sinai in Israele è stato di 4.341, nel 2010 fino all’inizio di novembre ne sono stati contati 10.858. Entro la fine dell’anno gli ingressi si saranno dunque triplicati e il flusso riferisce la polizia è in continua crescita. In tutto si stima che 30 mila africani vivano ormai in pianta stabile in Israele da dove inviano ai loro congiunti i tremila dollari a testa necessari per pagare i contrabbandieri beduini che garantiscono il loro passaggio dal Sinai in Israele. Un traffico lucroso, dunque, di milioni di dollari. Secondo il ministro della giustizia Yaakov Neeman in Egitto 2,5 milioni di africani sono in procinto di partire verso Israele e dunque occorre decidere fin d’ora severe misure di dissuasione. Fra di essi la percentuale di profughi è stimata del 3-5 per cento: tutti gli altri dice il governo vanno assolutamente respinti. Al dibattito parlamentare ha preso parte il sindaco di Eilat la città turistica affacciata sul mar Rosso, vanto d’Israele dove la presenza degli africani è più sentita. «Quando fa buio racconta il sindaco Meir Yitzhak ha-Levy da noi la gente non esce più di casa, la paura serpeggia». Lo stesso, secondo Yishai, avviene anche in quartieri sottoproletari di Tel Aviv.
Proprio Yishai ha peraltro approvato la settimana scorsa l’immigrazione in Israele di ottomila Falashmura, cittadini etiopi di lontana origine ebraica. Per fermare la «marea africana», è stato detto al Parlamento, oltre alla barriera si renderanno necessari anche mezzi coercitivi: un grande campo di detenzione a Ketziot (Neghev) capace di ospitare 10 mila persone; multe pesanti a chi sia scoperto a dare lavoro agli infiltrati e un meccanismo che consenta di rimpatriare quanti oggi si trovano illegalmente in Israele.

l’Unità 23.11.10
Una mostra curata da Scientology. Insorgono gli psichiatri


Il presidente della provincia di Verona ha rilasciato una dichiarazione pubblicata domenica sul Corriere di Verona in cui dice di essere stato «ingannato», ma intanto il pastrocchio è stato fatto. La provincia infatti ha dato il patrocino alla mostra Psichiatria un viaggio senza ritorno ospitata per la quarta volta a Verona, fornendo agli organizzatori anche uno spazio prestigioso come il Palazzo della Gran Guardia. La mostra si occupa di «orrori ed errori psichiatrici», attraverso filmati e immagini particolarmente forti che presentano la psichiatria come un’associazione a delinquere, una pratica che si basa su tortura, reclusione, psicofarmaci letali e che produce suicidio. Insorgono gli psichiatri: «Le persone più fragili e sensibili – spiega Michele Tansella psichiatra e preside della facoltà di medicina dell’università di Verona – sono quelle più facili da convincere e sono anche quelle che fanno più fatica a farsi curare». Il rischio è che immagini di questo genere facciano aumentare la diffidenza nei confronti dei servizi di salute mentale e allontanino le persone che hanno bisogno d’aiuto.
Ma chi è il curatore della mostra? Il Comitato dei cittadini per i diritti umani, che sarebbe un «ente internazionale a tutela dei diritti umani nel campo della salute mentale» secondo quanto si legge sui manifesti. Ma ancora ne sappiamo troppo poco. Qualcosa in più lo troviamo su internet. Scopriamo così che il comitato è strettamente legato a Scientology, il culto (che molti considerano una vera e proprio setta) da anni al centro di polemiche e coinvolto in vicende giudiziarie che riguardano reati come la circonvenzione d’incapace e l’abuso della professione medica. Tuttavia, il nome Scientology non appare in nessun luogo: né sui manifesti, né sulle installazioni.
Il presidente della provincia di Verona non sapeva nulla, ma è in buona compagnia: la mostra è già passata per Trento, Milano, Firenze, Jesolo, Trieste, Padova, Torino, Cagliari. E quasi ovunque ha ottenuto il patrocinio della provincia o della regione o del comune. Consigliamo ai nostri amministratori di scegliere un po’ meglio le iniziative da sostenere. CRISTIANA PULCINELLI

l’Unità 23.11.10
Piano Solo
L’idea fu di Segni
Lo storico Franzinelli ricostruisce il tentativo di colpo di Stato del ’64: fu il Presidente che ordinò a De Lorenzo di attivare i carabinieri
di Nicola Tranfaglia


Ma    chi ha attentato, nei primi anni sessanta, alla democrazia repubblicana, mettendo con le spalle al muro il governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro e facendo parlare Pietro Nenni, vice-presidente del Consiglio, di un “tintinnio di sciabole” nell’estate 1964? E che cosa era, in realtà, il “Piano Solo”, elaborato dal generale Giovanni De Lorenzo, d’intesa o su ordine, del Capo dello Stato Antonio Segni per far intervenire “solo” i carabinieri contro il paventato assalto dell’opposizione socialista e comunista al governo della Repubblica? Sugli avvenimenti legati a quel tentativo per cinquant’anni si è discusso, quasi senza interruzione, per mezzo secolo da parte dei giornalisti ma anche degli storici per comprendere non soltanto la dinamica dei fatti ma i ruoli ricoperti dai politici al centro della vicenda (il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, alcuni ministri), dai militari (a cominciare da De Lorenzo) e dai servizi segreti più volte chiamati in causa. Ed aveva prevalso in alcune opere pure attendibili come la Storia d’Italia degli Einaudi degli anni Settanta e l’ampia sintesi di Simona Colarizi Storia del Novecento pubblicata nel 2007 da Rizzoli, l’idea che fossero stati i vertici dei carabinieri e, in particolare, lo stesso De Lorenzo che fu poi senatore del Movimento Sociale Italiano ad avere la responsabilità principale del tentativo di colpo di stato, subito abortito per il cedimento del governo di centro-sinistra e dei socialisti sostenitori delle riforme più ardite costrette a rientrare di fronte alla forte intimidazione dei militari.
Mimmo Franzinelli, storico del fascismo e dell’Italia repubblicana che conosciamo già per molti libri importanti come Tentacoli della Piovra (Bollati Boringhieri, 1999) e il Delitto Rosselli (Mondadori, 2007), ha ora scritto un libro per molti aspetti definitivo (Il piano Solo, Mondadori, pagine 380, venti euro) che ricostruisce in duecentocinquanta pagine seguite da centocinquanta pagine di note e apparati archivistici e bibliografici, l’intera vicenda spiegando con grande chiarezza l’intrico complesso che conduce il primo governo organico di centro-sinistra a cedere il passo a una minaccia che parte anzitutto dal presidente della Repubblica Antonio Segni e quindi dai servizi segreti e dai carabinieri di cui de Lorenzo era stato nominato da poco comandante generale. Ma da dove partiva il progetto di Segni eseguito da De Lorenzo per formare un governo di emergenza guidato dal presidente dimissionario del Senato Cesare Merzagora e sostenuto dalla Confindustria e dalla Banca d’Italia, oltre che da alcuni ministri come il doroteo Emilio Colombo? E quale ruolo ebbero nella crisi una istituzione importante della società italiana come il Vaticano e l’alleato più importante dell’Italia, gli Stati Uniti di America, in un periodo ancora centrale della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e l’alleanza occidentale?
Grazie agli epistolari e ai diari di personalità importanti come Andreotti, Carli, Fanfani, La Malfa, Nenni, Segni e Taviani oltre che al memoriale di Aldo Moro trovato nel covo di via Montenevoso a Milano (e le carte ancora in parte coperte dal segreto di Stato ma in parte disponibili presso l’Archivio Centrale dello Stato), lo storico bresciano è in grado di indicare i punti essenziali del tentativo messo in atto da Segni: fu lui che ordinò a De Lorenzo di intervenire con la divisione corazzata dei carabinieri. Una versione dei fatti dunque diversa da quella che la Dc aveva voluto far credere ai tempi delle inchieste militari e parlamentari che, sia pure con grande difficoltà, vennero condotte quando l’acceso contrasto politico e verbale tra il Capo dello Stato e il ministro degli Esteri Saragat, condusse, durante un colloquio fatale, il presidente all’ictus e poi alla lunga, irreversibile malattia che ne avrebbe decretato l’uscita di scena e la morte. Dalla ricostruzione di Franzinelli emerge con chiarezza il contrasto politico e programmatico tra i dorotei di Segni e Colombo come il governatore della Banca d’Italia Carli e il capo del governo Moro, come il vicepresidente Nenni, sull’indirizzo politico del governo e l’esito dello scontro che si concluse, ai primi di agosto, con un voto di fiducia del governo alla Camera e il ricompattarsi della maggioranza parlamentare. «Sul piano politico commenta alla fine l’autore hanno ottenuto un buon risultato il governatore Carli, il commissario Cee Marjolin, il ministro Colombo e il segretario democristiano Rumor, le cui istanze sono state sostanzialmente recepite. La tattica del logoramento e del condizionamento ha prevalso su quella dello sfondamento. Il piano Solo si è rivelato lo strumento vincente nello scontro con i socialisti».

Corriere della Sera 23.11.10
«Ricostruirò la mia Bagdad» La promessa dell’esule Zaha
di Lorenzo Cremonesi


Sfide
La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte
Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese

Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.
Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.
Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane del 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».
La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un volume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».

Corriere della Sera 23.11.10
Diari del Duce, la saga infinita
Scoop e falsi, il duello Mondadori-Rizzoli, il fascino del male
di Enrico Mannucci


La caccia ai diari del Duce è una saga nazionale che nasce praticamente il 25 luglio 1943, con la seduta del Gran Consiglio che decreta la fine del regime fascista. E che continua fino a oggi, quotidianamente e sotterraneamente perenne, pubblica e clamorosa nelle ricorrenti puntate capaci sempre di conquistare l’attenzione del pubblico. Il caso scoppia nel 1957, riesplode dieci anni dopo nel 1967, si intravede come incombente nel 1983 (salvo restare in sordina per la malaugurante concomitanza dei diari attribuiti a Hitler e rovinosamente sbugiardati), torna alla grande nel 1994 dopo sette anni di laboriosa gestazione, arriva all’apoteosi con l’intervento di un personaggio controverso come Dell’Utri nel 2007, e da lì occupa la scena fino a questi giorni, con la decisione della Bompiani di pubblicare la serie di agende ritrovate, «vere o presunte» che siano. Ovvero, se non azzeriamo la memoria nel vortice quotidiano dell’informazione, questa vicenda accompagna le cronache italiane per tutta la prima e anche la seconda Repubblica.
Quando poi è davvero apparsa qualche pagina dei presunti diari — nelle molte versioni, talora sovrapposte — si sono scatenate le letture e le interpretazioni. Su un binario doppio e costante: edulcorazione della figura del Duce, oppure assoluta banalità di quel che vi è scritto; inattendibilità per giudizi troppo distaccati dalla realtà del regime, oppure approfondimento di aspetti finora solo intuiti.Anche questo riguarda l’eventuale dibattito conseguente alla «messa in piazza» di un primo testo. E non abbiamo le competenze per entrarci (anche se non possiamo non notare l’intrinseca contraddittorietà di alcuni giudizi: insignificante e scontato, o sconcertante e giustificativo?). Ci basta ricostruire un’appassionante opera collettiva che in Italia si va scrivendo da sessant’anni.
Fra le infinite — e contraddittorie — pagine sugli eventuali lasciti documentari di Mussolini (diari, memoriali, carteggi, preferibilmente con Winston Churchill) c’è un aspetto generalmente trascurato: a innescare la caccia concorse assai una competizione editoriale dai marcati accenti personalistici, quella fra Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Entrambi in gara per accaparrarsi l’ultima «verità» su un tema che appassionava instancabilmente i lettori e anche, magari, per assicurarsi prove inconfutabili sugli intrecci col regime durante il Ventennio del concorrente rivale.
Nati a distanza di due giorni l’uno dall’altro (e moriranno entrambi nel giro di nove mesi), Angelo Rizzoli, il «cumenda», e Arnoldo Mondadori ebbero due vite di parallelo successo e di precoci e reciproche antipatie. Il secondo si rifiutava persino di fare il nome del primo. Lo chiamava «R», fingeva di non tenerne conto ma, in fondo, lo temeva, perché l’altro era più strafottente e più ricco. Partiti dalla miseria entrambi, socialisti da giovani, una volta diventati «padroni» importanti, potenti e milionari, nel Ventennio avevano intimamente intrecciato la loro storia col regime, ascoltando i suggerimenti del Duce, manovrando nell’editoria d’intesa con lui e con i gerarchi, addirittura associandosi, anche se per soli sei mesi, in un’impresa che a Mussolini stette per qualche tempo a cuore: «Omnibus», lo splendido settimanale — il primo rotocalco italiano — inventato da Leo Longanesi. Alla stampa popolare Rizzoli era arrivato per primo, ma Mondadori lo seguì a ruota. E quando, nel dopoguerra, il regime caduto diventò un motore di grandi tirature — spiato dall’interno, meglio ancora se raccontato con diari sensazionali e memorie confidenziali — i due si fecero una concorrenza spietata per conquistare gli scoop migliori. Anche perché ognuno cercava le prove della compromissione col regime dell’altro.
Nota Renzo De Felice in Rosso e nero: «La Rizzoli, ma soprattutto la Mondadori, nel dopoguerra sono state il grande nodo ferroviario dei traffici editoriali e politici che si sono svolti intorno alle carte di Mussolini. Arnoldo è stato un grandissimo capostazione. Fu la Mondadori che, prima di pubblicarli, studiò e smascherò i falsi delle Panvini, le famose Rosetta Panvini Rosati e sua figlia Amalia detta Mimì». E Pasquale Chessa ha precisato, in un articolo sull’«Unità» del 2007: «C’è stata una vulgata "anti-antifascista", speculare alla cosiddetta "egemonia della sinistra" nella storiografia, che ha dominato la narrazione nazionalpopolare del fascismo e del suo tempo. Una specie di patto di Yalta della memoria collettiva. Per dire: da una parte Einaudi e gli Editori Riuniti e dall’altra "Oggi" e poi "Gente". Attraverso questa divulgazione di massa, il Paese ha saputo ritrovare un ambito — una valvola di sfogo — nel quale anche la memoria dei vinti potesse trovare ascolto».
Nella fortuna di quello che può, a ragione, essere definito un «genere» concorrono, del resto, anche altre ragioni. Una si potrebbe definire «sistema Corona», facendo riferimento all’uso dell’immagine emerso con le inchieste recenti che hanno coinvolto diverse agenzie fotografiche. Una caccia a documenti scottanti utile alla pubblicazione, ma anche — in prima battuta — a guadagnarsi obblighi, riconoscenza, contropartite più o meno confessabili se il materiale viene imboscato avanti di arrivare sulle pagine. Solo che, invece delle foto, all’epoca il traffico riguardava documenti. La classe dirigente del dopoguerra non aveva esitato a cooptare, in tutti gli schieramenti, personaggi che avevano avuto a che fare col regime nelle più diverse maniere: certificare compromissioni e legami diventati «sconvenienti» poteva rappresentare un utilissimo strumento di pressione.
C’è poi, potente, la fascinazione del male. Robert Harris con I diari di Hitler (Mondadori) ha costruito un libro notevole riguardo alla «presa sull’immaginario collettivo in tutto il mondo» che la figura del Führer continua ad avere. Ora spiega: «I diari hanno sempre un grande potere d’attrazione perché offrono l’opportunità di vedere da vicino, dal loro lato più personale, le celebrità. Nel caso dei dittatori, poi, si tratta di un osservatorio privilegiato sul male, sul demonio. I falsi diari di Hitler dettero la misura di quanto fosse forte questo appetito pubblico». Il ragionamento vale anche nel caso del Duce e del fascismo.

Repubblica 23.11.10
Il ritrovamento di un epistolario dal suo rifugio in Egitto riapre i dubbi sulla sorte del "medico" di Mauthausen e giovedì, a pochi mesi dal processo, è morto Samuel Kuntz, accusato degli stermini nel lager di Belzec
 Mistero sulle lettere il Dottor Morte Heim potrebbe essere vivo
di Andrea Tarquini


Sarebbe stato dato per morto nel 1992 Ma il Centro Wiesenthal lo cerca ancora

Lo chiamavano "il Dottor Morte", pronunciavano il suo nome con terrore. Il dottor Aribert Heim compì spietati esperimenti criminali sui deportati nel lager di Mauthausen, poi riuscì a sopravvivere al nazismo che aveva servito fedele e ai processi degli alleati. Anche se 95enne, potrebbe essere ancora vivo. Le sue lettere segrete dal nascondiglio in Egitto alla famiglia rimasta in Europa, a un medico ebreo, Robert Braun, e a politici tedeschi, pubblicate da El Paìs, riaprono il dubbio sulla sua sorte. E con il mistero sul destino di Aribert Heim riemerge uno dei capitoli più atroci del Terzo Reich.
«Heim fu in Egitto almeno fino all´inizio degli anni Novanta, io non posso dichiararlo morto finché non ne ho la certezza scientifica, quindi per me il caso non è chiuso», dice al telefono da Gerusalemme il dottor Efraim Zuroff, l´erede di Simon Wiesenthal, direttore appunto del Centro Wiesenthal per la caccia ai criminali nazisti ancora a piede libero. La caccia ai nazisti di Zuroff è sempre più una corsa contro il tempo: ieri un altro dei suoi ricercati, Samuel Kunz, ex guardia del lager di Belzec, è morto in libertà in Germania qualche mese prima del processo contro di lui per crimini contro l´umanità. Ancora a piede libero sono altri super-ricercati, dall´ungherese collaborazionista Sandor Kepiro al croato, ex guardiano di lager, Milivoj Asner. Ma Aribert Heim, nella lista del centro Wiesenthal, è una delle figure più mostruose.
«Caro dottor Braun», scrisse negli anni ´80 il "Dottor Morte" al medico ebreo, «lei capisce che le accuse contro di me sono assurde, opera delle fantasie di fanatici. Io non avrei mai potuto compiere crimini così mostruosi contro pazienti o prigionieri, il giuramento d´Ippocrate me lo avrebbe impedito. Fui volontario nelle SS, ma non sono un criminale né un mostro». Dall´Egitto Heim inviò lettere anche a Lothar Spaeth, cavallo di razza della Cdu, per rivendicare la sua innocenza, dipingendosi come «vittima di fanatici sionisti».
Le testimonianze dei sopravvissuti all´inferno di Mauthausen narrano altro: ad alcuni prigionieri, Heim aprì il ventre senza anestesia strappando loro il fegato, ad altri estrasse a vivo il cuore o altri organi. Altri ancora furono narcotizzati in parte da lui, poi aperti sul tavolo operatorio, per ricevere un´iniezione letale di benzene nei muscoli cardiaci. Lui studiava tempi e decorso della loro morte, conservò come fermacarte i crani di alcuni giovani prigionieri ebrei finiti nella sua famigerata "sala operatoria". Almeno trecento deportati morirono sotto i suoi ferri.
Dopo la disfatta nazista, Heim trascorse due anni prigioniero degli americani. Ma, come fecero anche Mengele, il principale responsabile dell´uso dei deportati come cavie, e l´ingegnere dell´Olocausto Adolf Eichmann, anche lui riuscì a spacciarsi per un militare come tanti altri e fu rilasciato. Solo nel 1962 alcuni testimoni lo identificarono, e lui finì nel mirino della giustizia. Fuggì in America Latina, poi in Egitto. Le sue lettere segrete sono un eccezionale documento del suo continuo tentativo di trovare, dal rifugio al Cairo, presunte prove a sua discolpa. «Cara Gerda», scriveva alla sorella Hertak, chiamandola in codice come faceva con tutti i destinatari, «mettiti in contatto con la famiglia Thyssen perché ti confermino che nell´estate del ‘42 vissi da loro, alcune settimane o due o tre mesi, non ricordo». Dall´Egitto, si mostrava anche spavaldo, lui che aveva stroncato tante vite: «La lotta per la vita va presa come uno sport, succeda quel che succeda, si vive una volta sola, mai dimenticare l´umorismo».

Repubblica 23.11.10
Pompei, L´accusa dell´Unesco "colpa delle autorità italiane"
Il direttore Irina Bukova: ora andranno i nostri ispettori e Roma deve prendere dei provvedimenti


ROMA «Quello che è successo a Pompei rappresenta per tutti una tragedia». Il direttore generale dell´Unesco, Irina Bokova, arriva nella capitale per una serie di incontri istituzionali ma la prima cosa che deve affrontare è il crollo della Casa dei Gladiatori. L´Unesco, annuncia, interverrà per garantire la tutela del sito archeologico, classificato dal 1997 come Patrimonio mondiale dell´Umanità. «La responsabilità ricade in primo luogo sulle autorità italiane», ammette senza mezze misure l´ex ambasciatrice bulgara, 58 anni, eletta un anno fa, dopo un´aspra battaglia diplomatica, alla guida dell´organizzazione delle Nazioni Unite per l´Educazione, la Scienza e la Cultura. «Ma noi non vogliamo chiamarci fuori. Abbiamo proposto al governo massima collaborazione: spenderemo su Pompei le nostre energie migliori».
Dopo le polemiche, è tempo di agire. Già nei prossimi giorni, gli esperti dell´Unesco saranno in Campania. Non soltanto per constatare i danni alla Casa dei Gladiatori ma per verificare eventuali rischi per altri reperti. Gli ispettori hanno infatti il compito di stilare un raffronto con le condizioni documentate tredici anni fa, segnalando quindi casi di degrado nella zona archeologica. «È una ricognizione al quale seguirà un rapporto», precisa Giovanni Puglisi, presidente della Commissione italiana dell´Unesco. Sulla base di questa nuova indagine, il Comitato dell´organismo potrà valutare se inserire o meno Pompei nella famigerata lista rossa dei siti patrimonio dell´umanità in pericolo, cosa finora mai avvenuta in Italia.
Il nostro paese detiene il più alto numero di siti riconosciuti dall´organizzazione. «Capisco la difficoltà della tutela per un patrimonio ricco come il vostro - commenta Bokova - e penso anche che lo Stato dovrebbe appoggiarsi di più al settore privato per quanto concerne la gestione e la promozione dei siti». Un eventuale pronunciamento del Comitato dell´Unesco, che denunci l´incuria nel sito archeologico, non è comunque atteso a breve. La priorità, infatti, è collaborare con le autorità italiane per evitare nuovi danni. L´organismo Onu ha proposto di fornire i suoi mezzi e la sua esperienza per scongiurare il peggio. «Pompei forse non rischia ancora di finire in questa lista di siti in pericolo - cerca di tranquillizzare Bokova - ma è chiaro che l´Italia deve dimostrare di voler prendere provvedimenti immediati». Il direttore generale dell´Unesco, che ieri ha incontrato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha lanciato un allarme sui tagli alla cultura in Europa e che toccano fortemente anche l´Italia. «Purtroppo la crisi economica sta penalizzando i fondi pubblici per questo settore», ha commentato Bokova. «Bisogna cambiare prospettiva. Non parlare più di spesa, ma di investimenti in un´industria che può essere produttiva tanto quanto le altre. Promuovere la cultura è un modo di garantire lo sviluppo e la modernizzazione del vostro paese».

Repubblica 23.11.10
Per secoli la Royal Society ha escluso le studiose Adesso un libro racconta le invenzioni al femminile
Dall’astronomia alla matematica Londra riscopre le donne scienziate
In età vittoriana i colleghi uomini facevano di tutto per sminuirne il valore
di Enrico Franceschini


Fondata nel 1660 per discutere le idee del filosofo Francis Bacon, la Royal Society non è solo l´accademia delle scienze inglese e una delle confraternite di scienziati più antiche e prestigiose del mondo: è anche, e soprattutto, il simbolo della scienza intesa come progresso umano, come costante avanzamento della società in cui viviamo. Ma c´è un campo in cui l´illustre istituto londinese è avanzato poco, tardi e male per gran parte della sua storia: quello della parità dei sessi. La lista dei suoi cervelloni, da Isaac Newton in poi, è un elenco maschile, come se fossero stati soltanto gli uomini a scrivere la storia delle scoperte e della sperimentazione. Solo nel 1945, in effetti, la Royal Society ha emendato le proprie norme ammettendo le donne fra i soci (prima fece un´eccezione per la regina Vittoria, nominata membro onorario). E perfino oggi, nelle celebrazioni per il 350esimo anniversario della sua fondazione, fra i tanti seminari, mostre e pubblicazioni che hanno festeggiato l´evento, risaltava una vistosa assenza: quella delle scienziate, sebbene ora nelle sue file ce ne siano sessanta su 1200 membri, tra cui l´italiana Rita Levi Montalcini.
Non si tratta di semplice dimenticanza o indifferenza. Uno storico inglese, Richard Holmes, il primo a ottenere libero accesso agli archivi della Royal Society, ha portato alla luce una politica di deliberata discriminazione nei confronti delle donne e di occultamento del loro ruolo. C´erano anche delle scienziate, studiose di matematica, astronomia, botanica e altre discipline, nell´era del grande progresso scientifico: ma i loro colleghi uomini, a dispetto dell´ambiente illuminato dell´accademia delle scienze, facevano di tutto per sminuirne il valore e tenerle nascoste. Giunge dunque come atto riparatore il libro di Holmes, The lost women of Victorian science (Le donne dimenticate della scienza vittoriana), pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna.
Nell´Inghilterra vittoriana, il concetto di donne impegnate nella ricerca scientifica veniva regolarmente ridicolizzato, scrive l´autore. Un famoso studioso del tempo, il naturalista Thomas Henry Huxley, soprannominato "il bulldog di Darwin", così scriveva nel 1860 a un collega geologo: «I cinque sesti delle donne si fermano allo stato evolutivo delle bambole, degradando qualsiasi cosa in cui si intrufolano». Gli unici settori in cui veniva tollerata la loro presenza erano la geologia e la botanica, sebbene quest´ultima fosse giudicata dai puritani moralmente pericolosa, a causa dell´esame degli apparati sessuali delle piante. Molti scienziati, ha appurato Holmes frugando negli archivi, condividevano il luogo comune secondo cui il cervello femminile sarebbe "fisiologicamente inadatto" al lavoro scientifico, alle procedure di laboratorio, alla matematica.
In realtà era adatto, eccome. Da Caroline Herschel, l´astronoma scopritrice di comete, ad Ada Lovelace, la matematica autrice dell´algoritmo poi considerato il primo "programma per computer", da Anna Barbauld, la chimica che notando le reazioni ai test di laboratorio scrisse il primo trattato sui diritti degli animali, a Jane Marcet, autrice dei primi manuali scolastici per popolarizzare la chimica e la botanica, da Mary Sommerville, che coniò il temine "scienziato", a Margaret Cavendish, autrice del primo racconto di fantascienza, le donne diedero un contributo fondamentale allo sviluppo della scienza, afferma il libro-denuncia dello storico. Un contributo riassumibile nelle parole dell´astronoma Maria Mitchell: «Anche la scienza ha bisogno di immaginazione. In essa non c´è solo matematica e logica, ma pure bellezza e poesia». Un uomo, da solo, non ci sarebbe mai arrivato.

Repubblica 23.11.10
Se l´Italia diventa un Paese di figli unici
Crescere senza fratelli. Il sorpasso del figlio unico
In Italia è il trionfo della famiglia cortissima. Lo ha sancito l´Istat. Ecco come è nata l´ultima rivoluzione demografica nel nostro Paese
di Maria Novella De Luca


Mamma, papà e il loro bambino I nuclei con figli unici ormai sono il 46,5% e superano quelli con una prole numerosa. Un fenomeno che in Italia è più marcato rispetto agli altri Paesi europei. È il trionfo della famiglia cortissima Ecco il mondo del mono-bimbo Una rivoluzione demografica annunciata Anna Oliverio Ferraris: le coppie si fermano a uno perché vogliono dargli il massimo.

Un bambino per due genitori e quattro nonni. Cioè uno per sei. Più un paio di zii. Aggiungiamo se va bene due o tre cugini. Fine. Ecco l´Italia del figlio unico, delle "famiglie verticali", quelle del formato a tre, mamma, papà e un bambino solo, la maggioranza ormai, lo conferma l´Istat, il sorpasso c´è stato, le coppie con un figlio e basta sono il 46,5% contro il 43,0% delle famiglie con due figli, e il 10,5% di quelle (rare) dove i fratelli sono tre o anche di più. È questa l´ultima rivoluzione demografica italiana, annunciata da tempo ma oggi diventata realtà, la famiglia cortissima con il bambino singolo, prima generazione di ragazzini senza fratelli. Una metamorfosi di massa, dove il ritratto classico del figlio unico si polverizza e moltiplica per migliaia di figli unici, che in qualche modo poi diventano, anche, fratelli. Studi recentissimi dimostrano che nel mondo ammalato di sovrapopolazione non è poi così male essere figli unici, anzi. I numeri però sembrano invece quelli di una sconfitta, perché chi decide di fare famiglia nell´80% dei casi afferma di volere "due o più figli" e invece poi ci si ferma ad uno soltanto, e l´avanzata del modello "monobambino" sembra inarrestabile.
Un bambino per due genitori più quattro nonni. Cioè uno per sei. Solo in una folla di adulti. Aggiungiamo se va bene un paio di zii e due o tre cugini. Fine. Ecco l´Italia del figlio unico, delle "famiglie verticali", quelle del formato a tre, mamma, papà e un bambino solo, la maggioranza ormai, lo conferma l´Istat, il sorpasso c´è stato, le coppie con un figlio e basta sono il 46,5% contro il 43,0% delle famiglie con due figli, e il 10,5% di quelle (rare) dove i fratelli sono tre o anche di più. È questa l´ultima rivoluzione demografica italiana, annunciata e temuta da tempo ma oggi diventata realtà, la famiglia cortissima con il bambino singolo, prima generazione di ragazzini senza fratelli, costretta a inventarsi reti sociali e parentele del tutto nuove. Una metamorfosi di massa, dove il ritratto classico del figlio unico si polverizza e moltiplica per migliaia di figli unici, che in qualche modo poi diventano, anche, fratelli.
Studi recentissimi dimostrano che nel mondo ammalato di sovrappopolazione non è poi così male essere "unici", anzi. I numeri però sembrano invece i numeri di una sconfitta, perché chi decide di fare famiglia nell´80% dei casi afferma di volere "due o più figli" e invece poi ci si ferma a uno soltanto, e l´avanzata del modello "mono-bambino" sembra inarrestabile. In un intreccio dove, dicono demografi e sociologi, la mancanza di welfare e di servizi «si uniscono a una cultura dove al figlio si deve dare il più possibile, anche in termini materiali, e dunque farne due può diventare impossibile». Ma dietro l´esercito dei figli unici, fenomeno crescente anche in altre zone della Ue, dalla Spagna alla Grecia, dalla Germania all´Austria, per Letizia Mencarini, professore associato di Demografia all´università di Torino, « c´è anche il tempo troppo lungo che passa dalla nascita del primo figlio alla decisione di metterne al mondo un altro, che poi magari non arriva più...».
«È la vera peculiarità delle coppie italiane: aspettare anni per replicare una maternità, iniziata magari già oltre i 30 o i 35. Ma dietro ci sono ragioni forti e sostanziali - chiarisce Mencarini - perché in Italia la legge sulla maternità è seria e protettiva, ma poi la conciliazione non esiste, i numeri delle donne che non riescono più a rientrare nel mondo del lavoro dopo la nascita del primo figlio sono ancora altissimi, e quindi prima di fare il secondo ci si pensa bene». Non solo però. «Nel nostro paese - continua Mencarini - se da una parte cresce la domanda di asili nido, di scuole materne, è ancora forte la cultura per cui è meglio che almeno fino a tre anni i bimbi restino a casa con la mamma e con la nonna... Basta girare sui blog delle neo-mamme per rendersene conto. Senza pensare all´investimento economico su questi bambini, che devono avere le stanze più accessoriate e i corredi più belli. Vincoli vecchi e nuovi che rendono già enormemente impegnativo mettere al mondo un figlio, figuriamoci due». «E forse - conclude Letizia Mencarini - se i padri collaborassero un po´ di più in casa magari sarebbe più facile avere qualche figlio in più».
Le statistiche però dicono che più cresce il numero dei figli, più si è a rischio povertà. Tanto che nel milione e mezzo di italiani che vivono secondo l´Istat in condizioni di "grave indigenza", senza nemmeno il denaro per mangiare a sufficienza, circa il 30% è costituito dalle famiglie numerose, oltre i tre figli, considerati la massima soglia sopportabile per una famiglia media. Adele è una mamma-blogger che nel suo sito ha descritto giorno dopo giorno l´attesa, poi la nascita, e poi l´entrata nel mondo del suo primogenito Andrea, tre anni il mese scorso, felicemente inserito al primo anno di scuola di materna. «Sono tornata a lavorare quando Andrea aveva dodici mesi, sono impiegata in una piccola azienda privata, mio marito insegna alle scuole medie... Lavoriamo a Milano, ma viviamo fuori, a 50 chilometri. Possiamo contare, ma non a tempo pieno, su due nonne, più una baby sitter due giorni a settimana. Già così, tra il mutuo della casa, la benzina, i costi generali, arriviamo alla fine del mese con le risorse al limite. Vorrei fortemente un secondo bambino, ma ho già 38 anni, se mi allontano dall´azienda rischio di perdere il posto, e continuiamo a rimandare. Andrea resterà figlio unico? Forse. Però mi sembra sereno e io faccio i salti mortali per fargli incontrare altri bambini. Sento che per adesso è tutto quello che posso dare».
Il problema però è la distanza tra i figli reali e i figli desiderati. «È per questo - aggiunge Ivo Colozzi, ordinario di Sociologia all´università di Bologna - che la famiglia italiana non è libera. Non è libera cioè di fare i bambini che vorrebbe. E non è soltanto una questione di servizi, che pure aiutano ma non bastano. Bisogna agire sul fisco, renderlo più lieve, altrimenti sarà ben difficile invertire la tendenza. I genitori si pongono il problema di quanto potranno sostenere i figli nel futuro, sanno magari di avere sufficienti risorse per uno soltanto, per farlo studiare, mandarlo all´università, avviarlo nel difficilissimo mondo del lavoro. E per questo si fermano». Certo dietro il "sorpasso" del figlio unico, c´è anche la maternità che viene rimandata, «ma soprattutto - osserva Colozzi - la mancanza storica di politiche per la famiglia. Basta guardare la Francia, oggi in testa ai Paesi europei come tasso di natalità: lì erano arrivati ai minimi storici di fecondità, come nel nostro Paese, ma con delle politiche giuste hanno ribaltato la situazione. Mi sembra però difficile oggi, con le risorse a zero, invertire in Italia l´inevitabile avanzata dei figli unici».
Ma come si cresce senza fratelli? E che adulti saranno questi bimbi che non dividono la loro stanzetta con nessuno, cuore, centro e anima di genitori, nonni e zii tutti protesi unicamente verso di loro? Viziati, capricciosi, o invece diversi, nuovi, capaci di creare reti di amicizie autonome? Anna Oliverio Ferraris, ordinario di Psicologia dello sviluppo all´università La Sapienza di Roma, non nasconde la sua nostalgia per un´infanzia divisa tra fratelli e sorelle, prima palestra di vita per un bambino, costretto sì a conquistarsi spazi e giochi, ma poi di certo più forte. «Il rischio dei bambini unici è la solitudine da una parte, e l´essere al centro del mondo dall´altra. Su di loro si riversano montagne di attenzioni, di affetto, ma anche di aspettative, di troppi adulti. E nel futuro per questi figli unici non sarà facile diventare autonomi, svincolarsi dalla famiglia, senza contare che saranno loro, da soli, a dover sostenere il peso dei genitori che invecchiano». Il dato nuovo però è che oggi i figli unici sono sempre di più. «E quindi troveranno il modo di ricreare attraverso gli amici quello che un tempo si faceva con i fratelli. Qui però conta molto il ruolo delle mamme e dei papà - afferma Oliverio Ferraris - quanto si sforzano di farli socializzare, tra la scuola, lo sport, le attività, una casa aperta ai coetanei. Perché una cosa è certa: i bambini vogliono dei compagni di giochi. Non è un caso che spesso a 3 o 4 anni comincino a chiedere ai genitori "quando mi dai un fratellino o una sorellina?"». Con la consapevolezza però che nel mondo mono-bambino non avere fratelli è ormai una realtà comune, a differenza di 15 o 20 anni fa, quando essere "uno" non era, ancora, la norma. «Una cosa che spesso ho consigliato ai genitori di figli unici è stata quella di comportarsi come se di figli ne avessero due o tre: ossia con naturalezza, anche con severità, cercando di non viziare e soffocare questi bambini. Ma nello stesso tempo penso che nonostante tutti i problemi oggettivi si potrebbe rischiare un po´ di più nel fare i figli. I bambini - dice con un po´ di ironia Anna Oliverio Ferraris - non hanno bisogno di così tanti oggetti, spesso le coppie si fermano a uno soltanto perché vogliono dargli il massimo. E se invece il dono più grande fosse un fratello, rinunciando magari a qualcosa?».

Repubblica 23.11.10
Spesso non hanno amici, aiutiamoli a socializzare
di Chiara Saraceno


Non vi è perfetta coincidenza tra numero di famiglie in cui è presente un solo figlio e numero di coppie che hanno avuto solo un figlio. La rarefazione delle nascite, unitamente all´allungamento dell´intervallo tra l´una e l´altra, fa sì che, così come aumenta il numero delle coppie che per lunghe fasi della vita non hanno ancora, o non più, un figlio che vive con loro, aumenti anche il numero di quelle che per un periodo più o meno lungo ha presso di sé un solo figlio, anche se ne ha avuti, o ne avrà, più di uno. Se è vero che aumentano i figli unici, infatti, ancora oggi buona parte dei figli ha almeno un fratello/sorella. Tuttavia, soprattutto al Nord, l´esperienza del figlio unico è ormai diffusa da tempo. Inoltre, l´allungamento dell´intervallo tra le nascite fa sì che questa esperienza sia sperimentata per un numero di anni significativo anche da una parte di primi figli, prima che arrivi loro un fratello o una sorella.
In aumento anche la rarefazione delle nascite, con primogeniti per molto tempo soli
Quella del figlio unico è una condizione che incide profondamente sul modo in cui si vive come figli e in cui si diventa grandi. Come tutti i primi figli, i figli unici sono oggetto delle ansie e dell´inesperienza dei neo-genitori. Ma, in quanto unici, sono anche oggetto di aspettative e investimenti emotivi che non possono condividere con altri. Certo, spesso, proprio per questo, c´è il rischio che diventino piccoli tiranni viziati. Ma anche quello che, man mano che crescono, si sentano schiacciati dal peso di questa concentrazione di aspettative e attenzione, che talvolta non riguarda solo i genitori, ma anche nonni e zii. Soprattutto, a differenza di chi ha fratelli o sorelle, non sperimentano nella routine della vita familiare la diversificazione delle posizioni, capacità, ruoli, legati all´età e non solo alla generazione. Non ci sono fratelli/sorelle - e talvolta neppure cugini - più piccoli o più grandi con cui confrontarsi e con i quali imparare a diventare grandi, oltre a condividere con loro attenzione e affetto di genitori e nonni, facendo i conti con, ed elaborando, gelosia e invidia. La crescita per i figli unici è un percorso solitario, protetto dalla competizione sulla attenzione e gli investimenti dei genitori da parte di fratelli/sorelle, ma anche potenzialmente privo di confronti e mediazioni. I bambini sono diventati rari non solo per gli adulti, ma anche per loro stessi. È una mancanza che sentono istintivamente anche i bambini, quando esprimono il desiderio di avere un fratellino/sorellina: un compagno, diverso, ma anche simile nella comune posizione di figlio/a.
Non voglio con questo sostenere che la condizione di figlio unico sia da compiangere o da considerare a rischio. Piuttosto segnalare che la sua diffusione non riguarda solo la demografia, ma un profondo mutamento nelle configurazioni relazionali ed emotive famigliari e soprattutto nell´esperienza di essere figli lungo tutto il corso della vita, rispetto al quale occorre che la società, e non solo gli individui e le famiglie, si attrezzino culturalmente e organizzativamente.
Due esempi per tutti, uno riferito all´età infantile e l´altro all´età matura. Proprio la rarefazione dei bambini entro la rete famigliare rende indispensabili luoghi di socialità in cui i bambini possano confrontarsi tra loro, imparare gli uni dagli altri e allentare il peso della propria unicità. Ciò vale non solo per organismi come gli scout o simili, ma anche per nidi, scuole dell´infanzia, scuole elementari e medie, che vanno pensati non solo come luoghi di cura per i piccoli e di istruzione verticale per i più grandicelli, ma, appunto, come luoghi di socialità tra pari. Per quanto riguarda l´età matura, già ora, a causa della riduzione delle nascite, un numero ridotto di figli si trova a fronteggiare le domande di cura di un numero crescente di anziani fragili. Quando il figlio è unico, la situazione può diventare insostenibile e con conseguenze negative sia per la figlia/o che per i genitori. Il semplice affidamento alla famiglia della responsabilità in questo campo, come avviene in Italia, appare del tutto cieco rispetto a questi dati demografici, rischiando di provocare sia sovraccarichi iniqui che deficit di cura.

Adnkronos 20.11.10
Indagine ministero, in Italia sempre meno consultori

Roma, 20 nov. (Adnkronos Salute) - Pochi, sempre meno, e con un organico ridotto: è la fotografia scattata dal ministero della Salute sulla situazione dei consultori familiari in Italia, strutture finalizzate ad assicurare informazione e assistenza psicologica, sanitaria e sociale per la maternità, la paternità e la procreazione responsabile. A 35 anni dalla loro istituzione, ne risultano attivi solo 1.911 (dato 2009). Pochi, considerando che secondo la legge ce ne dovrebbero essere più di tremila. E invece di aumentare, la loro presenza sul territorio sembra ridursi. Nel 2007 se ne contavano 2.097, quindi in due anni ne sono stati chiusi o accorpati ben 186. Analizzando l'indagine pubblicata sul sito web del ministero della Salute, si scopre poi che solo in 6 Regioni (Piemonte, Provincia autonoma di Bolzano, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Sicilia) è presente in tutte le Asl un budget vincolato per l'attività dei consultori. Ma non è solo un problema di strutture. A scarseggiare è anche il personale che lavora all'interno dei consultori familiari. Secondo l'analisi, solo il 21% delle strutture dispone di 6-7 figure professionali, così come previsto dal Pomi (Progetto obiettivo materno infantile). Nel 45% dei casi il consultorio dispone di un'equipe di 4-5 figure, con le quali è possibile svolgere un lavoro "sufficiente anche se incompleto". Nel 23% delle strutture l'equipe è invece composta da 1-3 professionisti fondamentali, "il che - secondo il ministero - lascia intendere che in questi consultori non si riesce a lavorare in maniera multidisciplinare". Le figure più presenti sembrano essere: l'ostetrica, lo psicologo, l'assistente sociale e il ginecologo. A scarseggiare sono: i pediatri, le infermiere pediatriche e le assistenti sanitarie. Analizzando i dati Regione per Regione, emerge che realtà consultoriale in Italia è estremamente disomogenea. Rapportando infatti la popolazione residente con il numero dei consultori rilevati nel 2007, emerge che la metà circa delle Regioni si trova molto distante da quella popolazione di riferimento di 20 mila abitanti in area urbana e 10 mila in area rurale, che è indicata dalla legge 34 del 1996. Se, infatti, nel 2007 esisteva in media un consultorio ogni 28.431 abitanti nel 2009 tale rapporto è ulteriormente sceso a 1 ogni 31.197 nel 2009. E comunque, il dato significativo che emerge dall'indagine del ministero è che, ad esclusione di Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Sardegna che fanno registrare un incremento del numero dei consultori nel 2009, nella stragrande maggioranza delle Regioni i consultori sono diminuiti o comunque risultano riaccorpati funzionalmente. Il monitoraggio ha preso in esame anche il numero dei locali all'interno dei consultori pubblici. Secondo la legge, queste strutture dovrebbero disporre di: locale per l'accoglienza degli utenti; segreteria e informazioni; locale per la consulenza psicologica diagnostica e terapeutica; locale per le visite ostetrico-ginecologiche e pediatriche; locale per le riunioni; lo spazio archivio. Ebbene, solo la Valle d'Aosta, la Provincia autonoma di Bolzano, quella di Trento, il Friuli Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Sicilia hanno una media superiore all 50% di consultori con 5 o più locali. Il 18% delle Regioni non ha inviato risposta riguardo a questo quesito. Secondo l'indagine, La qualità dei consultori è giudicata dagli operatori buona per il 55%, mediocre per il 29% e solo il 3% delle sedi consultoriali viene definito fatiscente. "Questo - spiega il ministero nelle sue conclusioni del Rapporto - è un dato molto importante in quanto ci dice che con risorse contenute si potrebbe migliorare la qualità strutturale delle sedi". La maggior parte dei consultori è provvisto di personal computer, anche se è basso il numero di quelli che dispongono di posta elettronica o di rete intranet predisposta a scambiare dati, condividere informazioni e facilitare la comunicazione all’interno della struttura e tra strutture. Sulla disponibilità nell'offerta dei giorni e degli orari di apertura tra le varie Regioni, si è infine riscontrato una omogeneità nell'apertura mattutina dai 3 ai 5 giorni alla settimana, mentre vi è una flessione nell'apertura pomeridiana che si riduce ad 1-2 pomeriggi alla settimana in quasi tutte le Regioni. Rara l'apertura nel giorno di sabato.

Repubblica Salute 23.11.10
"Sento delle voci" parlarne fa bene
Amichevoli o minacciose, temporanee o totalizzanti: non sempre significano malattia mentale. Alcune strategie per affrontarle in un percorso terapeutico E il ruolo dei gruppi di auto-aiuto in un convegno della Rete a Milano
di Francesco Cro*


Sentire "le voci" è un´esperienza più comune di quanto si possa pensare, e non è necessariamente un sintomo di malattia mentale. Il problema è il rapporto tra la persona e le sue "voci": queste possono essere amichevoli o minacciose, e possono assorbire completamente l´attenzione dell´individuo. Con adeguate strategie, però, l´uditore di voci può recuperare la padronanza di sé e trasformarle in interlocutori con cui è anche possibile dialogare. Se ne è parlato recentemente nell´inconto della Rete italiana degli uditori di voci, a Milano.
Non è necessaria la scomparsa completa del sintomo per riconquistare un soddisfacente livello di benessere: si può anche arrivare a sentire solo le voci positive, o a sentirle tutte ma con un senso di maggior controllo della situazione. Per conseguire questi obiettivi possono essere impiegate strategie semplici, come ascoltare la musica con la cuffia per mettere a tacere le voci spiacevoli, o più complesse, come cercare di individuare e gestire gli stati emotivi associati alle diverse voci. Un supporto fondamentale può essere fornito dai gruppi di auto-mutuo aiuto: parlare delle proprie voci con chi non ha avuto esperienze simili, anche se si tratta di una persona cara, può essere, infatti, molto difficile. Confidarsi con lo psichiatra può essere problematico: molti professionisti della salute mentale tendono, infatti, a considerare automaticamente le voci il sintomo di una grave malattia mentale, e sembrano interessati solo a stabilire se siano presenti o meno, per poi intervenire con i farmaci adatti. È invece di fondamentale importanza scoprire, insieme con l´uditore di voci, quali e quante sono le voci che sente quotidianamente; in quali momenti della giornata o in quali condizioni psicofisiche si manifestano; con quale tono gli si rivolgono e di cosa gli parlano; se provengono dall´esterno o dall´interno del suo corpo; che emozioni gli provocano e cosa lo spingono a fare; quale spiegazione egli si dà di questa insolita esperienza, che mette in crisi tutte le certezze possedute prima, e che lo spinge a dubitare dei propri sensi o, in alternativa, a sviluppare teorie esplicative lontane dalla realtà, come la convinzione di essere collegato ad apparecchi ricetrasmittenti o in comunicazione con entità aliene o superiori. Per Rufus May, psicologo del Centre for Citizenship and Community Mental Health di Bradford (Regno Unito), ex uditore di voci con diagnosi di schizofrenia, «dare voce alle voci», affrontarle e dialogare con esse, interrogandosi sul loro significato simbolico e sul messaggio che possono dare al paziente e a chi condivide con lui il percorso terapeutico, può essere di vitale importanza per ridare un senso alla propria esperienza, ritrovare la sicurezza in se stessi e rientrare in contatto con gli altri.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo